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lunedì 31 dicembre 2018

Egitto, nuova condanna a 2 anni di carcere per lʼattivista Amal Fathy dopo la farsa della liberazione.

TGCom24
Scarcerata solo qualche giorno fa dopo 7 mesi di detenzione, l'attivista egiziana Amal Fathy, moglie di un consulente della famiglia Regeni, è stata condannata a due anni di carcere in appello. 

La donna era accusata di insulti e pubblicazione di false notizie per aver pubblicato un video in cui denunciava una molestia sessuale subita in una banca.

Sant'Egidio. Festa di Natale con 5.000 detenuti in 50 carceri italiane. Un segno per dire che il mondo del carcere merita attenzione e solidarietà.

Ristretti Orizzonti
I pranzi di Natale della Comunità di Sant'Egidio che dal 1982, il 25 dicembre, accolgono i poveri attorno alla tavola della festa nella Basilica di Santa Maria in Trastevere, si realizzano anche in tante città in Italia, in Europa e in differenti paesi del mondo dove è presente Sant'Egidio.


Ormai da più di 10 anni anche all'interno delle carceri il pranzo di Natale e tante feste con musiche e regali varcano le mura dei luoghi di pena per chi non può stare con le proprie famiglie in questi giorni speciali. 


I detenuti possono vivere così, questi giorni di festa, con gli amici volontari che incontrano durante l'anno e con tanti altri che per questa occasione varcano le soglie del carcere per incontrarli in amicizia. 

Quest'anno in Italia si è fatto festa in 50 Istituti penitenziari. Da Poggioreale a Marassi, da Regina Coeli a Novara, da Secondigliano a Chiavari, da Rebibbia a Gela, si è imbandita la tavola di Natale. Più di 4.000 detenuti, sono stati coinvolti ed altri 1.000 parteciperanno alle feste nei primi giorni di Gennaio. Nel Lazio e in Abruzzo sono quasi 3.000 i detenuti raggiunti. 

È un segno importante che dice ai chi è recluso e alla società civile che il mondo del carcere merita attenzione e solidarietà.

Amnesty International - Diritti Umani - Le migliori buone notizie del 2018

Amnesty Italia
25 gennaio - Una corte d'appello dell'Iran annulla la condanna a morte di Saman Naseem, giudicato colpevole di un omicidio commesso a 17 anni. Nel febbraio 2015 gli appelli (quasi 300.000 complessivamente da Amnesty International) avevano consentito la sospensione all'ultimo minuto dell'impiccagione. La condanna a morte è stata sostituita da una pena detentiva di cinque anni.
22 febbraio - Yusuf Ruzimuradov - il giornalista dell'Uzbekistan da più anni in prigione al mondo dopo che l'anno prima era stato rilasciato un altro giornalista uzbeco, Muhammad Bekzhanov - viene rilasciato dopo 19 anni di carcere. Nel 1999 era stato giudicato colpevole di "sedizione", al termine di un processo politico, per gli articoli pubblicati sul quotidiano "Erk" (Libertà), poi messo al bando.

13 marzo - Maira Verónica Figueroa, torna in libertà a seguito della decisione di un tribunale di El Salvador di dimezzare la sua condanna. Nel 2003 era stata condannata a 30 anni di carcere per il reato di omicidio aggravato dopo aver dato alla luce un bambino nato morto.

5 aprile - Tadjadine Mahamat Babouri, un blogger del Ciad conosciuto da tutti come Mahadine, è rilasciato su decisione dell'Alta corte in quanto la sua detenzione preventiva aveva ecceduto i limiti previsti dalla legge. Era in carcere dal 30 settembre 2016 con le accuse di aver minacciato l'ordine costituzionale, l'integrità territoriale e la sicurezza nazionale nonché di aver collaborato con un movimento insurrezionalista, per le quali rischiava l'ergastolo.

15 maggio - In Malaysia viene rilasciato Anwar Ibrahim, il più noto oppositore politico del paese. Per 20 anni le autorità del paese, attraverso accuse e condanne pretestuose per sodomia e corruzione, avevano cercato di tappargli la voce. Sin dal 1998 Amnesty International lo aveva adottato come prigioniero di coscienza.

26 giugno - Noura Hussein, donna condannata a morte in Sudan per aver ucciso in un atto di autodifesa il marito stupratore che era stata costretta a sposare da minorenne, ha ottenuto la commutazione della pena in cinque anni di reclusione e un risarcimento di circa 7200 euro alla famiglia della vittima.

4 luglio - Otto ex militari vengono condannati a 18 anni di carcere da un tribunale del Cile per il sequestro e l'omicidio del cantautore, direttore teatrale e docente universitario Víctor Jara.

20 agosto - Dopo oltre 700 giorni di carcere un provvedimento di grazia del re della Cambogia libera Tep Vanny, la leader del movimento per il diritto alla casa condannata a due anni e mezzo di carcere nel febbraio 2017 per il pretestuoso reato di "violenza intenzionale aggravata".

27 settembre - Dodici stati dell'America Latina e dei Caraibi firmano l'Accordo di Escazú, il primo trattato vincolante in materia di protezione del diritto a ricevere informazioni, partecipazione delle comunità e accesso alla giustizia su questioni ambientali e che contiene precise disposizioni a tutela dei difensori del diritto all'ambiente.

30 ottobre - Haytham Mohamdeen, difensore dei diritti umani e avvocato del lavoro in Egitto, è rilasciato dopo oltre cinque mesi di carcere. Era stato arrestato il 18 maggio per "protesta non autorizzata" e "appartenenza a gruppo terroristico" nel contesto di una serie di manifestazioni pacifiche contro le misure di austerità adottate dal governo, nonostante non vi avesse preso parte.

13 novembre - Il parlamento del Libano approva la Legge sulle sparizioni forzate. Si tratta del primo riconoscimento ufficiale della sofferenza dei parenti delle oltre 17.000 persone scomparse durante il conflitto armato durato 15 anni, dal 1975 al 1990.

17 dicembre - La Corte suprema della Tailandia dichiara innocente e assolve Denis Cavatassi, il cittadino italiano arrestato nel 2011 e condannato alla pena di morte nel 2016 con l'accusa di essere il mandante dell'omicidio del suo socio d'affari. 

Due barconi alla deriva con 114 migranti soccorsi da Malta e dalla Turchia. Sea Watch e della Sea Eye ancora senza approdo. Italia ormai maglia nera dell'accoglienza.

La Repubblica
Salvate in tutto 114 persone. Ma è ancora senza risposta l'appello della Sea Watch e della Sea Eye con 49 profughi a bordo che hanno urgente bisogno di un approdo.



Un pattugliatore di Malta ha soccorso 69 migranti che si trovavano su un barcone di legno alla deriva a 117 miglia dalle coste dell'arcipelago, e li ha portati a La Valletta. Lo ha reso noto la Marina militare maltese.

L'annuncio arriva mentre rimane senza risposta l'appello delle navi delle Ong Sea Watch, che ha chiesto l'autorizzazione di far sbarcare a Malta i 32 migranti salvati prima di Natale al largo delle coste libiche, e della Sea Eye con altri 17 a bordo.
Altro soccorso in mare questa volta della Guardia costiera tunisina che ha tratto in salvo 45 migranti a bordo alba di ieri un barcone partito dalla Libia al largo delle isole Kerkennah.

I migranti soccorsi, tutti originari di paesi africani, sono stati presi in carico dal personale della Mezzaluna rossa tunisina e dell'Alto Commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr), che ha fornito loro cibo e vestiti.

domenica 30 dicembre 2018

Lodi, caso discriminazione razziale verso i bambini nelle mense. Dopo la condanna della società civile e del Tribunale di Milano si dimette l'assessore alle politiche sociali Sueellen Belloni

Blog Diritti Umani - Human Rights
Il Blog Diritti Umani ha seguito fin dalle sue prime battute la vicenda scandalosa della discriminazione a cui erano sottoposti i bambini stranieri a causa di un nuovo regolamento dell'Assessorato a Servizi Sociali che li isolava dagli altri bambini.


Prima un immediata solidarietà ha raccolto in poche ore i fondi per finanziare la loro partecipazione alla mensa e al servizio bus:
15 ottobre - Lodi bambini stranieri esclusi da mensa e bus. Boom di donazioni. Raccolti 60.000 mila euro in poche ore.
E successivamente la condanna del Tribunale di Milano verso il Comune di Lodi per discriminazione.
13 dicembre - Scuola, bambini stranieri esclusi da mensa: condannato il comune di Lodi per discriminazione dal Tribunale di Milano

E il 28 dicembre dalla stampa si apprende che si è dimessa 
Sueellen Belloni, assessore alle Politiche sociali del Comune di Lodi responsabile della modifica discriminatoria.

Il Giorno
Sueellen Belloni
Lodi, 28 dicembre 2018 - Si è dimessa Sueellen Belloni, assessore alle Politiche sociali del Comune di Lodi, che per il suo ruolo in giunta ha seguito la vicenda del regolamento per l'accesso ai servizi agevolati, come le mense, in cui il tribunale civile di Milano ha ravvisato una «condotta discriminatoria» nei confronti delle famiglie straniere.
[...]

Giappone: uccisi due condannati a morte per un reato compiuto nel 1988. 15 esecuzioni quest'anno, 100 detenuti nel braccio della morte.

Blog Diritti Umani - Human Rights
Due condannati a morte sono stati impiccati Giovedì 27 dicembre in Giappone, portando a 15 il numero di esecuzioni di quest'anno, dopo quelli nel mese di luglio di 13 ex membri della setta Aum responsabili dell'attacco gas sarin mortale nel 1995 nella metropolitana di Tokyo .
La camera della morte in Giappone dove vengono seguite le impiccagioni 
Sono stati portati al patibolo Keizo Kawamura, 60, e Hiroya Suemori, 67, che nel 1988 compirono un omicidio.
La loro condanna è stata confermata nel 2004.

Il ministro della Giustizia Takashi Yamashita ha dichiarato: "Penso che la pena di morte è inevitabile in questo tipo di crimine e penso che non sia opportuno abolirla",  ribadendo le osservazioni già fatte da molti dei suoi predecessori.

Dopo il ritorno al potere di Shinzo Abe nel dicembre 2012, 36 prigionieri sono stati impiccati.

Il Giappone è, con gli Stati Uniti, l'unico paese ricco a praticare la pena capitale.

Più di 100 detenuti sono presenti nel braccio della morte sono in attesa di esecuzione nelle carceri giapponesi, circa la metà dei quali per più di dieci anni, anche se la legge prevede che i condannati alla pena capitale si debba eseguire sei mesi dopo la conferma della loro pena. In realtà, trascorrono anni nell'anticamera della morte.

"Le esecuzioni in Giappone sono segrete e i prigionieri sono messi a conoscenza della loro esecuzione poche ore prima, ma non sempre. Le loro famiglie, i loro avvocati e il pubblico sono informati successivanebte", ha spiegato un recente rapporto di Amnesty International, che denuncia: "Anche diversi detenuti con disabilità mentali e intellettuali sono stati messi a morte o rimangono nel braccio della morte"

ES

Incredibile il disinteresse verso i 50 migranti della Sea Watch e Sea Eye da 9 giorni alla ricerca di un approdo. Condizioni critiche a bordo: "Abbiamo bisogno di un porto subito"

La Repubblica
Nessun paese concede l'approdo. Da nove giorni, in condizioni ormai proibitive, a bordo della Sea Watch 32 persone tra cui 3 bambini piccoli. In 17 sono sulla Sea Eye.


Oggi è il nono giorno in mezzo al mare e non si intravede nessun approdo per i 32 migranti a bordo della Sea Watch, la nave della Ong tedesca che il 22 dicembre ha soccorso un'imbarcazione in difficoltà partita dalle coste libiche.


Nessuno vuole queste persone e soprattutto nessuno sembra occuparsi della loro sorte. Italia, Malta, Spagna, Grecia, Tunisia a cui, nelle ore immediatamente successive al soccorso, era stato chiesto un porto sicuro, hanno detto no e, a differenza di altre volte, l'Europa non sembra muoversi per trovare una soluzione collettiva.

A bordo ci sono anche tre bambini piccoli, la temperatura è molto rigida, sottocoperta non c'è posto per tutti e le scorte di acqua e cibo cominciano ad essere razionate. Ieri un'altra nave umanitaria tedesca, la Sea eye, ha soccorso 17 persone e così questa mattina dalle due organizzazioni è partito un nuovo appello alla Germania.

"E' ora che il governo tedesco si faccia avanti e dia prova di responsabilità: due navi hanno bisogno di un porto sicuro. Adesso".

In attesa di ricevere dalle autorità marittime indicazioni su dove dirigersi, giovedì i volontari della Sea watch con a bordo il loro carico umano si erano fatti carico di una segnalazione di un gommone in difficoltà diramata dalla sala operativa della guardia costiera di Roma e avevano fatto ritorno verso la zona Sar di ricerca e soccorso ma dopo tre giorni di perlustrazione non hanno trovato traccia dell'imbarcazione. Che potrebbe essre stata soccorso da motovedette libiche ( che però non ne hanno dato notizia) o essere naufragata.

Un appello all'immediata soluzione della Sea Watch è stato lanciato anche da Save the children: "Siamo molto preoccupati per le condizioni dei 32 migranti tra cui diversi minori, da 9 giorni a bordo della Sea Watch nel Mediterraneo in attesa di un porto sicuro. L’Italia e l’Europa diano la priorità alla protezione dei più vulnerabili".

Appello rilanciato anche da Giuseppe Civati di Possibile: "A bordo della Sea Watch ci sono trentadue persone tra cui tre bambini: bisogna garantire un porto all'imbarcazione. Pur di proseguire con la propaganda Salvini mette a repentaglio la vita di bambini. Ed è un gioco disumano inaccettabile".

Varsavia 6 clochard muoiono nell'incendio della loro baracca. Appello di Sant'Egidio per mobilitare le istituzioni nella difesa dei più poveri

santegidio.org
Nella notte del 25 dicembre alla periferia di Varsavia sono morti 6 senza dimora a causa dell'incendio della loro baracca di legno. In luoghi simili, in tutta la Polonia, questo inverno sono già morte per assideramento più di 30 persone. 

“Siamo profondamente addolorati per questa tragedia e esprimiamo la nostra vicinanza alle famiglie delle vittime. Queste morti sono inaccettabili, anche perché avvenute nel giorno in cui ci siamo seduti alla tavola del pranzo di Natale con 450 poveri e senzatetto, nostri amici tutto l’anno, in un’atmosfera di calore e amicizia familiare”, hanno dichiarato i membri della Comunità di Sant’Egidio di Varsavia. 

“Per questo chiediamo a tutti gli abitanti della città, che si sono impegnati nella preparazione del pranzo di Natale, una maggiore solidarietà verso i senzatetto, soprattutto quelli che vivono in luoghi isolati e sono più esposti alla rigidità dell’inverno. Rivolgiamo anche un appello alle istituzioni, perché vengano ampliati i posti nei centri per i senza dimora e venga consentito l’accesso ai rifugi anche a chi non ha la residenza nella città di Varsavia”. Secondo dati ufficiali, nella capitale della Polonia vivono 2700 senza dimora, a fronte di soli 1400 posti nei rifugi.

“Siamo convinti che per evitare ulteriori morti a causa del gelo o degli incendi è necessaria la solidarietà di tutti: le autorità della città, le associazioni di volontariato e i cittadini”, scrivono i membri di Sant'Egidio, che hanno pubblicato, proprio in questi giorni, la terza edizione della guida “Dove mangiare, dormire, lavarsi”, disponibile da oggi anche online.

sabato 29 dicembre 2018

Stati Uniti. La carovana con 2.600 migranti resta ferma in Messico, sperando nella bocciatura dei giudici alla stretta di Trump

Avvenire
No dei giudici al piano di Trump che impediva le richieste di asilo agli illegali. Ma gli Usa restano "chiusi". Bloccati a Tijuana in 2.600, altri puntano su Juárez. "Vuol dire che ci faranno entrare?" La voce di Harlin si entusiasma per un momento quando gli viene annunciata l'ultima decisione della Corte Suprema.



Cinque giudici su quattro, venerdì 21 dicembre, hanno bocciato la stretta voluta dal presidente Donald Trump il 19 novembre, con cui si impediva a chiunque entrasse illegalmente negli Usa via terra di presentare richiesta d'asilo.
Nemmeno lo stop dei magistrati - un "regalo di Natale", sottolineavano i media -, però, è in grado di consegnare al popolo della Carovana le chiavi della "gabbia dorata" statunitense. Dei diecimila, partiti dall'honduregna San Pedro Sula il 13 ottobre e arrivati a metà novembre a Tijuana, al confine con gli Usa, sono rimasti in 2.600.

Gli irriducibili, li hanno soprannominati. Attendono ostinati nel rifugio El Barretal, dove li hanno alloggiati le autorità dopo l'allagamento della precedente sistemazione. "Arriverà, alla fine, il nostro turno di chiedere asilo, no? In Honduras, ho denunciato la gang che taglieggiava il mio quartiere. Non posso tornare: mi ucciderebbero", racconta Harlin, 24 anni, fuggito da San Pedro Sula con la prima - e più numerosa - delle diverse Carovana in marcia verso Nord.

I requisiti, però, contano poco. Giovedì, un accordo tra i governi di Washington e Città del Messico ha rivoluzionato le "regole del gioco". I richiedenti asilo negli Usa non aspetteranno più la risposta nel Paese. Prima, dato l'ingolfamento dei tribunali, gli immigrati venivano lasciati in libertà in attesa dell'udienza che, in genere, arrivava dopo anni.

La cancellazione della cosiddetta pratica del "catch and release" è da sempre uno dei cavalli di battaglia dell'attuale Amministrazione. Tanto da spingerla all'adozione di misure controverse, dalla separazione delle famiglie immigrate, all'ampliamento dei centri detentivi. Stavolta, Trump sembrerebbe aver trovato "la quadratura del cerchio".

Con l'aiuto, imprevisto, del vicino messicano. Quest'ultimo accoglierà i richiedenti asilo sul proprio territorio fino al verdetto Usa e darà loro un visto provvisorio. Il nuovo presidente, Andrés Manuel López Obrador, ha precisato che l'accordo è stato raggiunto per "ragioni umanitarie" e la misura è provvisoria. Per i carovanieri, però, il sogno americano, così "a portata di piede", sembra inesorabilmente allontanarsi. "La sera, si vedono le luci di San Diego e del resto della California. È così vicina... Non perdo la speranza. Soprattutto ora che è Natale", sottolinea Harlin. Già Natale. Lontani quattromila chilometri dalle famiglie, prigionieri di un labirinto burocratico, gli ospiti di El Barretal non rinunciano a celebrarlo con le tradizionali "posadas": rappresentazioni della Natività spesso attualizzate. Non sorprende, dunque, che abbiano messo particolare enfasi nella non accoglienza, da parte degli abitanti di Betlemme, della Sacra Famiglia.

"Anche qui da noi ci saranno le posadas", afferma padre Javier Calvillo, direttore della Casa del migrante di Ciudad Juárez, sempre sulla frontiera, ma oltre mille chilometri più a est. Nel rifugio sono giunte, nelle ultime settimane, alcune centinaia di immigrati della Carovana, ansiosi di lasciarsi alle spalle "l'imbuto Tijuana".

A Juárez, la fila per presentare istanza di fronte alle autorità Usa è stata più fluida, almeno fino all'entrata in vigore delle nuove regole. Anche per loro, però, ora, il futuro è incerto. "Per sollevare il morale, abbiamo invitato la comunità locale a condividere le prossime serate con i nostri ospiti - dice padre Javier -. Tanti hanno chiesto di poter portare regali per i bambini. Altri delle specialità. Anche gli immigrati cucineranno i loro piatti tipici".

"Pure noi abbiamo coinvolte le famiglie, le parrocchie e il seminario: tutti ci danno una mano per non far sentire la solitudine ai nuovi arrivati", aggiunge Linda Flor, prima laica a guidare la Pastorale migranti di Chihuahua, dove sono approdati diversi transfughi della Carovana. Non tutti, però, sono riusciti a trovare posto nei rifugi.

Axel e la famiglia hanno lasciato il gruppo a Città del Messico e hanno puntato su Matamoros, dove dormono in un garage di conoscenti. "Ci avevano detto che era più facile "passare"", afferma il 14enne che ha fatto la marcia in stampelle. Il 27 luglio, un proiettile della polizia nicaraguense gli ha tolto l'uso delle gambe. "Ma se verrò operato negli Usa, so che potrò guarire. Non mi importa quanto dovrò aspettare al freddo, per quanto tempo dovrò mendicare un po' di cibo. Dio mi darà la forza di resistere, senza perdere la speranza".

Lucia Capuzzi e Nicola Nicoletti

Bolivia: da Morales amnistia e indulto per 2500 detenuti. Un atto di giustizia per le lentezza dei giudizi e della mancanza del diritto alla difesa dei poveri

genteditalia.org
Atto di clemenza del presidente: esclusi i traditori della patria e i trafficanti d'armi. Il presidente Evo Morales ha emesso un decreto di amnistia e indulto in favore di più di 2500 persone. 
Evo Morales 
"Abbiamo l'intenzione di porre fine ai ritardi della giustizia", le parole del presidente sudamericano riportate dal quotidiano El Deber. "La mia richiesta agli avvocati è stata come aiutare i fratelli detenuti, a volte per una semplice denuncia e per ragioni economiche per cui non possono assumere un avvocato difensore. Per questo abbiamo disposto questo decreto".
Poco più di mille persone potranno beneficiare dell'amnistia, mentre circa 1.500 dell'indulto.

I detenuti che potranno invocare la concessione del beneficio entro il prossimo anno non devono essere coinvolti in crimini di tradimento della patria e traffico di armi. 

Amnistia destinata alle donne incinte o con un bambino in allattamento, oppure disabili gravi con figli sotto i sei anni di età. 

Indulto invece riservato a coloro che hanno scontato due terzi della loro pena, a eccezione di colpevoli di femminicidio, infanticidio, tratta di esseri umani, rapina o contrabbando.

In Mauritania che conta centinaia di migliaia di schiavi, la polizia disperde con violenza un sit-in contro la schiavitù.

Nova
La polizia mauritana ha disperso ieri un sit-in organizzato dagli attivisti dell'Iniziativa per la rinascita del Movimento abolizionista, gruppo contro la schiavitù, che chiedevano la liberazione del loro capo Biram Dah Abeid detenuto da alcuni mesi. 

Secondo "Sahara Media", la polizia ha usato la forza per disperdere la manifestazione tenuta fuori dagli uffici del ministero della Giustizia. Secondo la stessa fonte, sei persone sono state ferite e portate in ospedale per il trattamento.

Gli attivisti dell'Ira organizzano periodicamente delle manifestazioni per richiedere il rilascio del presidente del movimento, eletto membro del parlamento nelle ultime elezioni legislative sulla lista di un partito di opposizione, Sawab. 

L'Ira (acronimo di Initiative for the Resurgence of the Abolitionist Movement) è un gruppo anti-schiavitù mauritano fondato e guidato dallo stesso Biram Dah Abeid. In Mauritania si stima che vi siano ad oggi tra i 600.000 e i 140.000 schiavi. Il gruppo conta una rete di novemila attivisti.

venerdì 28 dicembre 2018

Egitto: Amal Fathy, l’attivista sostenitrice della famiglia Regeni, scarcerata è tornata a casa

TPI
L'attivista egiziana e moglie di un consulente legale della famiglia Regeni era stata fermata con l'accusa di appartenere ad un gruppo terroristico e di aver diffuso notizie false.


Il 27 dicembre 2018, Amal Fathy, l’attivista egiziana moglie di Mohamed Lotfy, consulente legale della famiglia Regeni, è tornata a casa dopo 8 mesi di detenzione. A dare la notizia è il marito che attraverso una foto pubblicata su Facebook ha reso noto il rilascio della donna che ha potuto finalmente rivedere la famiglia.

Il 18 dicembre 2018 un tribunale del Cairo aveva disposto la scarcerazione di Amal Fathy, attivista egiziana moglie di un consulente legale della famiglia Regeni.

Amal era stata arrestata a maggio 2018 con l’accusa di appartenere ad un gruppo terroristico e di aver diffuso notizie false.

Al momento le è stata concessa la libertà vigilata con obbligo di verifica settimanale.

Da venerdì 11 maggio Amal Fathy era detenuta nel carcere di massima sicurezza Torah, in Egitto.

La donna è un’attivista impegnata per il rispetto dei diritti civili in Egitto ed è la moglie di Mohamed Lotfy, responsabile della Commissione egiziana per i diritti e le libertà (ECRF), nonché legale e sostenitore dei Regeni al Cairo.

Dopo 141 giorni di carcere era stata condannata a due anni di carcere con sospensione temporanea della pena dietro pagamento di una multa di 480 euro e una cauzione di 960. Fathy è stata condannata per aver denunciato su Facebook le molestie ricevuto da un dipendente pubblico.

L’attivista era stata arrestata nelle prime ore dell’11 maggio insieme al marito, Mohamed Lotfy, ex ricercatore di Amnesty International e attuale direttore della Commissione egiziana per i diritti e le libertà, l’organizzazione non governativa egiziana che fornisce consulenza legale alla famiglia di Giulio Regeni. Lotfy e il loro figlio di tre anni erano stati rilasciati grazie al doppio passaporto svizzero.

Contro di lei era stata aperta anche un’altra inchiesta, per la quale era stata messa in detenzione preventiva, con le accuse di “appartenenza a un gruppo terroristico”, “diffusione di idee che incitano ad atti di terrorismo” e “pubblicazione di notizie false”.

Mohamed Lotfy aveva spiegato a TPI i tragici istanti della notte dell’arresto, durante il quale tutta la sua famiglia è stata vittima di un’incursione notturna delle forze di sicurezza egiziane.

Il record infame delle prigioni. Più di un suicidio ogni settimana. 65 nel 2018, 1051 dal 2000.

Libero
Quest'anno sono stati ben 65 i detenuti che si sono tolti la vita nelle carceri italiane. Sovraffollamento, igiene carente: una tortura legalizzata. Che opprime pure le guardie.


Al 24 dicembre, sono 65 i suicidi consumatisi nelle carceri della nostra penisola nel corso di questo 2018 che volge oramai al termine. Si tratta di un tragico record, che non si registrava dal 2011, quando i detenuti che si tolsero la vita furono 66. Nel 2017 i decessi volontari tra le sbarre sono stati 52, l'anno precedente 45, nel 2015 43 (fonte Centro Studi di Ristretti Orizzonti).

Dal 2000 al 2018 sono stati ben 1.051 i suicidi in gattabuia. La media attuale è di oltre 5 episodi al mese, più di uno ogni sette giorni, con un rapporto di un suicida ogni 900 detenuti presenti. Gli ultimi casi sono avvenuti uno sabato scorso nel carcere di Messina, in cui un quarantatreenne si è impiccato; l'altro nella casa circondariale di Spini di Gardolo a Trento, dove nella notte tra venerdì e sabato scorsi si è tolto la vita un trentaduenne. Ne è seguita una sommossa da parte degli altri carcerati, che si sono barricati nei corridoi appiccando il fuoco a delle suppellettili, lamentando problemi relativi ai sevizi sanitari.

Nello stesso istituto, qualche settimana prima, un altro ristretto era ricorso a questo gesto estremo. Martedì 11 dicembre era toccato, invece, a un trentenne recluso da un mese in custodia cautelare nel carcere Don Bosco di Pisa. Il giovane si è impiccato mentre il suo compagno di cella si trovava in bagno. Dietro ogni morte di questo tipo c'è il fallimento dello Stato, che ha imprigionato ed ha abbandonato la persona che aveva preso in carico con lo scopo di rieducarla prima di restituirla alla società civile, la stessa che si distingue troppo spesso per inciviltà e che, incapace di diventare cosciente delle proprie nefandezze, ipocrisie nonché dei propri crimini, considera la popolazione che vive al di là delle sbarre una massa informe di rifiuti tossici, da espellere in qualche modo, da nascondere, da ignorare. La verità è che se un detenuto si fa fuori non frega nulla a nessuno. Qualcuno addirittura commenta: "Uno in meno. Meglio così!".

Eppure in gabbia - dove risiedono anche gli incolpevoli o comunque individui in attesa di giudizio (i detenuti in attesa di primo giudizio sono 10.265, al 30 novembre di quest'anno), da considerarsi dunque innocenti per il sacrosanto principio della presunzione di innocenza - potrebbe finirci chiunque di noi.

Il carcere, che si trova a volte nel cuore delle nostre città, ci riguarda da vicino. Non è solo un tetro edificio che costeggiamo con l'automobile mentre ci rechiamo da qualche parte. Al di là di quei decrepiti muri sono racchiuse esistenze. Vite che si spezzano troppo di frequente. Al ritmo sostenuto e inaccettabile, per l'appunto, di 65 morti ogni 12 mesi.

La detenzione all'interno degli istituti di pena italiani è estremamente dura. Nelle 190 carceri che si trovano disseminate sul territorio nazionale, a fronte di una capienza regolamentare di 50.583 detenuti, al 30 novembre del 2018 ve ne sono 60.002, di cui 2.640 donne e 20.306 stranieri (fonte Dipartimento Amministrazione Penitenziaria). Il sovraffollamento, se non è la causa principale che conduce alla scelta di togliersi la vita, concorre di certo a rendere più penosa la condizione restrittiva, dunque a determinare quel senso di assoluta disperazione che alberga nell'animo di chi compie un atto estremo.

In alcuni istituti non sono neanche garantiti i tre metri quadrati a persona nelle celle. Questo accade ad esempio, stando al dati raccolti dall'associazione Antigone, nelle case circondariali di Bergamo, di Catania "Piazza Lanza", di Catanzaro "Ugo Caridi", di Milano San Vittore "Francesco Cataldo", di Monza, di Nuoro, di Pisa, di Voghera, di Campobasso, di Napoli-Poggioreale e altre. Nelle celle manca l'acqua calda, il riscaldamento spesso non funziona, come succede nelle carceri di Catania "Piazza Lanza", di Frosinone, di Napoli-Poggioreale.

Per non parlare delle docce in cella, assenti, salvo rarissime eccezioni. Mancano aree verdi e spazi per le lavorazioni. Codeste privazioni, la mancanza di educatori, l'impossibilità di eseguire sul detenuto un trattamento rieducativo individualizzato a causa del sovraffollamento, il gelo nei mesi freddi, il caldo insopportabile in quelli caldi, i topi, gli scarafaggi, le zanzare, la mancanza di privacy, il ritrovarsi ammassali in piccoli spazi, la mancanza di attività lavorative e ricreative, la mortificazione dei propri bisogni affettivi e l'annullamento del contatto con i propri familiari, assomigliano a vere e proprie torture prive di senso e di scopo.

E non sì comprende come possa un individuo essere recuperato in situazioni di disagio di questo genere, che incidono negativamente persino sul personale deputato alla sorveglianza dei reclusi, ossia sugli agenti della polizia penitenziaria, i quali ogni dì assistono ad atti di autolesionismo, suicidi, tentati suicidi, risse, rivolte, diventando bersagli dell'esasperazione o della violenza dei detenuti stessi con i quali condividono la quotidianità tra le sbarre nonché - qualche volta - persino la scelta suicidarla.

Vista come unica possibilità per evadere da un'esistenza buia e soffocante. L'ultimo episodio risale alla sera del 18 dicembre, quando un'assistente capo del corpo di Polizia penitenziaria, quarantunenne originaria della provincia di Messina, in servizio nel carcere di Monza dal 1998, mamma di un bimbo, si è sparata un colpo di pistola alla testa nei pressi di un'area industriale adiacente la struttura detentiva, appena terminato il turno di lavoro. Negli ultimi tre anni si sono ammazzati più di 55 poliziotti e dal 2000 ad oggi sono stati complessivamente più di 110 (fonte Sappe).

di Azzurra Noemi Barbuto

La guerra dimenticata e la fame in Yemen hanno ucciso 85.000 bambini. Un paese condannato a morire per il disinteresse del mondo

Globalist
Questi i numeri agghiaccianti dopo quattro anni di guerra: 20 milioni di yemeniti soffrono la fame, 65mila non sono in grado di sfamare i propri figli.


Venti milioni di yemeniti, dopo quattro anni di guerra, soffrono la fame. Non perché il cibo non ci sia, ma perché l'inflazione dovuta alla guerra ha raggiunto livelli esasperanti per due terzi della popolazione, che non può permettersi di sfamare i propri figli.
Una guerra dimenticata, quella in Yemen, eppure definita dall'Onu come la peggiore crisi umanitaria dell'era moderna: di questi 20 milioni, 65mila sono in condizioni di povertà assoluta e 85mila è il numero dei bambini sotto i cinque anni morti di fame in quattro anni. 

Una strage di innocenti in una guerra che ha il suo responsabile nel modo vergognoso in cui il principe saudita Mohammed bin Salman, indicato dalla Cia tra l'altro come mandante dell'omicidio del giornalista Jamal Khashoggi, sta conducendo la sua battaglia contro i ribelli iraniani.
La conseguenza è che i prezzi dei beni di prima necessità sono aumentati del 137% e la coalizione saudita ha imposto al governo dello Yemen, totalmente incapace di reagire alla situazione, delle restrizioni sull'importazione di beni, tra cui cibo, medicina e carburante. 

Questo per strangolare i ribelli a scapito, ovviamente, della popolazione. Senza contare che i continui raid aerei hanno distrutto fattorie, campi coltivabili e strozzato completamente l'economia.
Un paese condannato a morire, mentre il mondo resta a guardare.

giovedì 27 dicembre 2018

Un'idea statalista e pericolosa dentro l'aumento dell'Ires per il no profit. Aumenta la cultura del sospetto verso "l'Italia migliore"

Huffington Post
Mario Marazziti
Il diavolo, si sa, si nasconde nei dettagli. E si scopre dalla coda. Dei molti problemi contenuti nella Legge di Bilancio, la prima della storia repubblicana che non è mai stata letta e discussa in Parlamento nel testo definitivo e approvata con un voto di fiducia, ce n'è uno, l'ultimo in ordine di scoperta, che si chiama IRES.


Ci sarebbero, certo, altri punti critici, magari. Come il cosidetto "saldo e stralcio", che premia senza tetti e limiti anche chi non paga le tasse non perché è in difficoltà, ma perché da anni conta sul fatto che arriverà prima o poi un governo come questo e, alla fine una gran parte di quelle tasse non le pagherà: e non si tratta né di poveri né di gente o imprese in difficoltà. 


Ma di furbi che fanno sempre pagare agli altri i conti. Ci sono, certo, anche misure confuse e contraddittorie di sviluppo e aggravio insieme, "do e tolgo" alle imprese, ci sono generosità vecchio stile ingiustificate per alcuni privilegiati. Ci sono gli sbilanci di cassa spostati in avanti e sulle generazioni future.

C'è, certo – per citare un altro punto - il problema che, per tenere un punto di propaganda elettorale chiamato "quota 100", alcuni italiani, 315 mila, prenderanno 5 anni di pensione in più rispetto agli altri, quindi avendo dato 5 anni in meno di contributi (che si scaricheranno su tutti noi e generazioni a venire).

Ma l'aumento della tassazione IRES per il non profit contiene un fatto nuovo.

Colpire gli enti assistenziali, ospedalieri e di mutuo soccorso per raggranellare poco piu' di 118 milioni di euro nel 2019 e 158 nel 2020 mette in difficoltà di sicuro "la meglio gioventù", l'Italia migliore, quella che almeno ci salva il Natale e aiuta anche i poveri assoluti, che non rientreranno in nessun reddito di cittadinanza: in gioco non c'e' solamente il bilancio di 153mila enti non commerciali e i servizi alla collettivita' che questi offrono proprio con i margini che derivano dal pagamento dell'IRES al 12 per cento e non al 24 per cento.

E' un attacco diretto agli enti intermedi, contiene l'idea che è meglio che non ci sia niente in mezzo tra capi e "popolo", nella "nuova" politica fatta di tweet e di governi senza filtri. Non c'entra nulla con il principio, assodato, che se un ente ecclesiastico o non profit fa un'attività profit, ci paga le tasse sopra. E' una disciplina già in vigore, dal Governo Monti, che ha imposto il pagamento dell'IMU a tutti gli enti che svolgono attività commerciali.

Qui, oggi, c'è un fatto inedito:"Il nostro Paese sta vivendo un momento difficile, ma non mi sarei aspettato di vedere colpito il volontariato e tutto ciò che rappresenta – ha detto oggi il card. Bassetti-. Si tratta di migliaia di istituzioni senza fini di lucro, che coprono uno spettro enorme di bisogni ed esigenze, da quelle ambientali a quelle sanitarie, da quelle di supporto alla coesione sociale e di contrasto alla povertà a quelle ricreative, culturali ed educative".

E il fatto nuovo, il diavolo che si nasconde nei dettagli, è un'idea più forte dei 276 milioni in due anni tolti a chi già aiuta le persone in difficoltà in Italia. 

Si diffonde cosi' un altro pezzetto di "cultura del sospetto", come se quell'Italia migliore fosse sporca come l'Italia furbetta e, alla fine in ogni aiuto a chi è povero si nasconda un interesse diverso dalla solidarietà e dalla gratuità. E, alla fine, si spinge verso un monopolio di stato proprio delle attività che umanizzano la vita, anche quella pià dura, in maniera non burocratica, ma personale, e che rendono meno frammentata la nostra società. E' un'idea ignorante e pericolosa. Si sarebbe detto una volta che dietro all'aumento dell'IRES c'è una idea "stalinista". E in Italia non era mai successo. Siamo ancora in tempo per fermarlo, in un Parlamento non notarile.

Migranti - In 5 anni 6.600 morti nel deserto in Africa per raggiungere la Libia. 1.386 morti nel 2018

AnsaMed
La stima dei migranti morti negli ultimi cinque anni in Africa sulle strade per raggiungere la Libia, attraverso il deserto del Sahara, il Niger e il Sudan è di 6.600 persone. 


Lo rileva l'Oim che riferisce come questi dati siano frutto di ricerche, deposizioni e testimonianze oculari riferite da chi questi drammi li ha vissuti.

1.386 morti quest’anno nel continente

Solo quest'anno le morti registrate nel continente africano dall'Oim sono state 1.386. Ma l'Organizzazione internazionale per le migrazioni sostiene che questi dati sono solo la punta dell'iceberg e il numero dei morti è pesantemente sottostimato.

Non avendo accesso a vie legali per migrare chi si mette in cammino lasciando il suo paese è esposto a rischi indicibili, ai trafficanti di esseri umani, alle violenze.

Fame, disidratazione, violenze
Le principali cause di morte tra i migranti in Africa, secondo quanto riportato dai migranti che hanno attraversato il continente, risultano essere la fame, la disidratazione, le violenze fisiche, le malattie la mancanza di accesso alle medicine. 
Tenendo conto che nel 2018 sono stati in totale 3.400 i migranti e i rifugiati che hanno perso la vita, la maggior parte dei quali cercando di raggiungere l'Europa attraversando il mare, Antonio Vitorino, direttore generale dell'Oim ha dichiarato: "queste cifre ci fanno vergognare".

Migranti: Sea Watch, 4 giorni navigazione alla ricerca di un porto sicuro con 32 persone salvate in mare di cui 4 donne, tre adolescenti e tre bambini

Ansa
Capo missione,"aiutiamo queste persone, unica cosa umana da fare".


Quarto giorno di navigazione per la SeaWatch senza un porto sicuro assegnato. L'imbarcazione della Ong si trova tra Lampedusa e Malta con a bordo 32 persone, salvate in mare sabato scorso, di cui 4 donne, tre adolescenti e tre bimbi.
 

Nei giorni scorsi l'organizzazione aveva chiesto, senza successo, il permesso a Malta e Italia a sbarcare. E precedentemente aveva sollecitato l'intervento delle autorità tedesche. Il capo missione Philip Hahn ha lanciato in un audio un appello: "cerchiamo un porto sicuro, sappiamo che l'Italia ha già fatto molti sforzi per i migranti ma questa gente ha bisogno di aiuto perchè aiutarli è l'unica cosa umana da fare".

L'Italia "ha aperto il cuore e anche il portafoglio abbastanza. Contiamo sui tedeschi, sugli spagnoli, sugli olandesi, sui francesi. L'Italia negli anni passati ha fatto sbarcare più di 700mila persone. Direi che il cuore e il portafoglio li abbiamo aperti abbondantemente: adesso tocca agli altri", ha detto il ministro dell'Interno, Matteo Salvini.

USA, bambino migrante muore sotto custodia nel New Mexico: è il secondo bambino in un mese

La Repubblica
Il piccolo, 8 anni, di origine guatemalteca, è deceduto in un ospedale del New Mexico, dopo avere attraversato illegalmente il confine con il Messico. Era stato dimesso lunedì una prima volta dalla stessa struttura. Pochi giorni fa aveva perso la vita una bimba di 7 anni.

Un bambino migrante originario del Guatemala è morto mentre era sotto la custodia delle autorità Usa. Il piccolo, 8 anni, è deceduto oggi in un ospedale nello stato del New Mexico, dopo aver attraversato illegalmente il confine con il Messico, ha riferito l'Ufficio della Dogana e Polizia di frontiera.

In un comunicato l'ufficio ha spiegato che il bambino è morto poco dopo la mezzanotte di Natale, per cause ancora ignote. Era stato trasportato all'ospedale di Alamogordo insieme al padre, poi dimesso, perché mostrava "segni di potenziale malattia". Lì, ha aggiunto l'agenzia, è stato diagnosticato che il bambino aveva il raffreddore e aveva la febbre. È stato curato con dei medicinali e dimesso lunedì. Ma più tardi è stato nuovamente ricoverato perché soffriva di nausea e vomito ed è morto alcune ore dopo. La polizia di frontiera non ha ancora detto quando il bimbo e il padre fossero entrati negli Stati Uniti né da quanto fossero sotto custodia. Alamogordo si trova a circa 145 chilometri dal confine di El Paso, in Texas.

Il governo del Guatemala ha chiesto una indagine "chiara" sulla morte del bambino. Alcuni giorni fa, sempre a dicembre, sotto la custodia delle autorità Usa è morta anche una bambina di 7 anni, anche lei guatemalteca, Jakelin Caal, per "disidratazione". Il corpo della piccola è stato restituito ai suoi familiari nel villaggio d'origine lunedì scorso, per permettere lo svolgimento dei funerali.

La rivolta del volontariato contro il governo Lega-M5S per la tassa sulla solidarietà. Sant'Egidio: un tradimento!

La Repubblica
Cresce la protesta sul raddoppio dell’aliquota Ires per le organizzazioni non profit. La Comunità di Sant’Egidio, che a Natale ha offerto 60mila pasti ai poveri: un tradimento.

"Quella tassa è una vergogna, una patrimoniale sulla solidarietà. Il conto lo pagheranno i più poveri" Sono queste le parole che rimbalzano nel mondo del volontariato. Ogni giorno che passa si allarga la protesta contro la norma nel maxiemendamento che cancella l'Ires agevolata (portandola dall'attuale 12% al 24%) per istituti di assistenza sociale, fondazioni, enti ospedalieri, istituti di istruzione senza scopo di lucro. E che prevede un esborso di circa 120 milioni per il terzo settore.

"La Camera dovrebbe ripensarci. Tante attività così non saranno più sostenibili. Temo che si sia sottovalutato l'impatto di questa norma, una sorta di patrimoniale" dice la portavoce del Forum del Terzo Settore Claudia Fiaschi. La decisione del governo tocca 6.220 tra enti, istituti e associazioni: dalla Croce Rossa ai centri di ricerca come l'Ieo e Humanitas, dal don Gnocchi alle federazioni dei disabili, dalle Misericordie alle scuole cattoliche alle piccole onlus che rischiano di finire in ginocchio. Un pezzo importantissimo del mondo dell'impegno a favore dei più bisognosi, fatto da laici e religiosi, che ora - tutti insieme - chiedono al governo un ripensamento. Netto.

"Il paese è in crisi e così si aggrava la situazione. Che senso ha cercare le risorse per il sociale prendendole dal mondo della solidarietà che già le mette a disposizione degli ultimi?", si domanda Luciano Gualzetti della Caritas Ambrosiana che con cinquemila volontari si occupa di 50mila bisognosi. "È brutto questo clima di sospetto, questa idea che c'è chi lucra sulla solidarietà: così si finisce a punire chi se ne occupa in modo trasparente, e soprattutto i meno fortunati".

"Una norma ingiusta, rischia di far sentire traditi dalle istituzioni migliaia di volontari", dice Roberto Zuccolini portavoce della Comunità di Sant'Egidio che ha messo a tavola il giorno di natale 60mila tra bisognosi e operatori. "Davanti alla crescente povertà è giusto che lo stato intervenga ma stando accanto a chi già aiuta. Questo provvedimento invece va nella direzione opposta".

A dare un'idea di quello che rischia di accadere è Luca Degani, presidente Uneba (raccoglie 350 fondazioni per servizi ai minori, anziani e disabili). "Una realtà come la Girola che con i proventi degli immobili ogni anno garantisce 150 borse di studio per orfani, vedendosi raddoppiare la tassazione da 200mila a 400mila euro, sarà costretta a tagliare: 50 ragazzi non avranno gli studi pagati e un futuro diverso. La Restelli di Rho che gestisce assistenza domiciliare per anziani, ad esempio, avrà 60mila euro in meno da spendere, significa meno assistenza per tutti. E l'associazione Arca che tra le altre attività garantisce 3mila pasti al giorno non potrà più farlo".

E se dal mondo legato alla Chiesa il no all'emendamento è secco, ancor più dure sono state le parole di Giuseppe Guzzetti presidente dell'Acri e di fondazione Cariplo: "Così rubano il futuro ai bambini, con la tassa il settore non profit diminuisce l'attività e chi ne pagherà il conto saranno i più deboli".

martedì 25 dicembre 2018

Sant'Egidio, 60mila ai pranzi con poveri. 240mila persone coinvolte complessivamente in tutto il mondo

Ansa
Oltre 240mila persone in 77 Paesi del mondo, 60mila in Italia, hanno partecipato ai Pranzi di Natale con i poveri di Sant'Egidio. 


A partire dalla basilica di Santa Maria in Trastevere, dove questa tradizione è stata avviata nel 1982, "la Comunità - riferiscono gli organizzatori - è riuscita a far sedere tanti, diversi tra loro, alla stessa tavola: dai senza dimora ai rifugiati venuti con i corridoi umanitari in Europa, ai bambini di strada e ai minori in difficoltà delle grandi bidonvilles dell'Africa e dell'America Latina". 

Sono state coinvolte un centinaio di grandi e piccole città italiane tra cui Roma, Napoli, Genova, Messina, Milano, Bari, Firenze, Torino, Novara, Padova, Catania, Palermo, Trieste, Reggio Calabria. "E' un popolo in cui chi aiuta si confonde con chi è aiutato - ha commentato il presidente della Comunità, Marco Impagliazzo -, una grande famiglia in cui c'è posto per tutti. La larga partecipazione dimostra che è possibile rispondere alla cultura della rassegnazione e della chiusura".

lunedì 24 dicembre 2018

Auguri di Buon Natale a tutti i lettori del Blog Diritti Umani

Blog Diritti Umani - Human Rights
Con questa immagine che ci fa vedere un Presepe "vero" tra i tanti che si potrebbero raffigurare dove, in ogni angolo del mondo, bambini, donne e uomini soffrono perchè non vengono accolti.
Il Presepe non è un'identità da sbandierare per chiudere le porte, ma lo sforzo umano di riconoscere e stare ogni giorno dalla parte dei più deboli che sono un popolo di bambini, anziani, donne e uomini stranieri e italiani che se sappiamo accogliere oltre a rendere il mondo più giusto ci aiutano e diventare e restare umani.


E ... in questo senso Buon Natale!

domenica 23 dicembre 2018

Governo Lega-M5S - Per finanziare le promesse e elettorali (quota 100 e reddito di cittadinanza) raddoppio delle tasse (dal 12 a 24%) per gli enti no profit che dovranno ridurre i servizi ai più deboli.

Corriere della Sera
L’aliquota per gli enti non profit salirà dal 12 al 24 per cento. E questo andrà a scapito delle risorse utilizzate per erogare servizi di sostegno alle fasce deboli dove lo Stato non arriva.

Partiamo da un esempio: Fondazione Girola eroga circa 200 borse di studio da 5mila euro ciascuna destinate a studenti orfani di uno o entrambi i genitori, che abbiamo un buon rendimento scolastico e che siano residenti in Lombardia per un milioni di euro ogni anno. Ha un pensionato universitario gratuito per ragazze orfane meritevoli e una casa di accoglienza per anziani. «Pagheremo 200mila euro di tasse in più - dice il presidente Bassano Baroni - e questo ci obbligherà a ridurre di un terzo l’attività. Ci hanno tolta l’unica esenzione di cui fruivamo dal 1972». Lo stesso aggravio di 200mila euro peserà anche sul Pio Istituto dei Sordi, che dà borse di studio e finanzia la ricerca.

Perché questo aggravio? La risposta è contenuta nella legge di Bilancio in approvazione al Senato (la votazione con la fiducia è attesa entro la mezzanotte di oggi) e in particolare in una novità fiscale annunciata ieri dal presidente del Consiglio, Giuseppe Conte: la cancellazione della mini-Ires per «gli enti non commerciali». La misura viene giustificata con la necessità di recuperare risorse per il Reddito di cittadinanza e Quota 100 alle pensioni.

Su chi pesa questa norma fiscale? «Ricade su tutti gli enti che esercitano attività di assistenza sociale, beneficenza, sanità e istruzione e che abbiano personalità giuridica, sia per le attività di produzione di beni e servizi sociali e socio-sanitari sia per le attività diverse di messa a reddito del patrimonio, (ma sempre per attività benefiche e assistenziali», spiega l’avvocato Luca Degani, membro del Consiglio nazionale del Terzo settore.

«Penalizzare gli enti senza scopo di lucro, che hanno bilanci in pareggio e che non producono né distribuiscono utili, non va contro gli azionisti che non ci sono ma contro gli assistiti. Se la prendono con gli ultimi». Franco Massi, presidente di Uneba nazionale che rappresenta oltre 900 enti in tutta Italia attivi nel settore sociosanitario, assistenziale ed educativo, esprime la preoccupazione di tutto il settore. Gli enti e gli istituti di assistenza sociale, le società di mutuo soccorso, gli enti ospedalieri, di assistenza e beneficenza perderanno il dimezzamento dell’Ires dal 24 per cento al 12 per cento sui redditi commerciali sottoposti a tassazione anche se servono a finanziare le attività sociali.

Ma non solo. Perderanno anche l’esenzione della tassazione dei redditi dei fabbricati istituzionali, che servono a svolgere le funzioni assistenziali e che attualmente hanno l’esenzione totale. «Una fondazione ex Onlus solo sulla categoria dei redditi dei fabbricati istituzionali di un immobile di 120 posti letto avrà una maggiore Ires tra i 6mila e i 10mila euro all’anno», quantifica Massi. 

La questione degli immobili non è di poco conto, spiega Rodolfo Masto, presidente dell’Istituto dei ciechi e dell’Unione Italiana Ciechi di Milano: «Gli enti storici in generale ricevevano e ricevono tuttora lasciti, come per esempio appartamenti e case. Immobili che, attraverso i proventi della locazione, concorrono a finanziare le attività sociali degli enti. Con la tassazione avremo un aggravio fiscale. E pensare che al posto di un aggravio il settore si aspettava la detassazione delle donazioni, che in molti Paesi del mondo come gli Usa».

Per il Terzo settore il prezzo complessivo da pagare – in base a una prima stima - solo per il primo anno sarà di 118 milioni di euro, ha detto la Portavoce del Forum nazionale del Terzo settore Claudia Fiaschi. A farne le spese saranno non solo gli enti, bensì anche, e in maggiore misura, gli anziani, persone con disabilità, minori in difficoltà e altre persone fragili a cui ogni giorno gli enti si dedicano.

«Fra tutte le misure che gridano vendetta nella Legge di Bilancio firmata da M5s e Lega c’è ne è una particolarmente iniqua per un settore di grande rilevanza sociale: il mondo del non profit», ha commentato la capogruppo del Partito Democratico in Commissione Agricoltura alla Camera, Maria Chiara Gadda. «Il taglio del regime Ires ad aliquota agevolata del 12% provocherà per questi soggetti giuridici un raddoppio del carico tributario nel 2019. Un bel regalo di Natale per il Terzo settore».

sabato 22 dicembre 2018

La nave di Natale - Malta accoglie il neonato salvato da Open Arms, porti chiusi per gli altri 300 migranti. Salvini: «I nostri porti sono chiusi, la pacchia è finita».

Globalist
Accolto l'appello di Open Arms per il piccolo Sam e sua madre, niente da fare per gli altri 300 salvati dal mare.

È stato prelevato con un elicottero della Guardia Costiera maltese il piccolo Sam, nato il 19 dicembre su un gommone con a bordo 307 migranti recuperati dalla Ong Proactiva Open. Nella notte Open Arms aveva lanciato un appello su twitter in cui pregava Malta di accogliere Sam e la madre. 


Ovviamente quella per Sam è stata un'eccezione: gli altri 300 migranti a bordo della nave sono rimasti fuori, e Open Arms non trova un porto sicuro in cui farli sbarcare, specie dopo che anche Matteo Salvini ha ribadito la sua politica dei porti chiusi.
Nei giorni scorsi l'ong, che ha pubblicato su Facebook l'immagine della giovane donna e del suo piccolo avvolto in una coperta e in un giubbotto, ha salvato 307 persone da tre imbarcazioni diverse alla deriva e si attende ora l'indicazione di un porto sicuro dove poter sbarcare i migranti.

"L'odissea non finisce qua - aveva scritto Oscar Camps, fondatore di Proactiva - dobbiamo salvare la vita di questo piccolo. Nel Mediterraneo non c'è Natale, come è evidente si continua a partire".

Il Messaggero

Migranti, Salvini blocca nave Open Arms: «I nostri porti sono chiusi, la pacchia è finita».

Nuovo no del vicepremier Matteo Salvini a una richiesta di sbarco. «La nave Open Arms, di Ong spagnola con bandiera spagnola, ha raccolto 200 immigrati e ha chiesto un porto italiano per farli sbarcare, dopo che Malta (dopo aver fatto giustamente sbarcare una donna e un bambino) ha detto di no - ha spiegato Salvini - La mia risposta è chiara: i porti italiani sono chiusi! Per i trafficanti di esseri umani e per chi li aiuta, la pacchia è finita».

venerdì 21 dicembre 2018

Emirati Arabi Uniti, Nasser bin Ghaith, difensore dei diritti umani, da 76 giorni rifiuta il cibo, peggiorano le condizioni salute

Corriere della Sera
Dagli Emirati Arabi Uniti giungono preoccupanti notizie sulle condizioni di salute di Nasser bin Ghaith, difensore dei diritti umani ed economista, che da 76 giorni non tocca quasi cibo.
Nasser bin Ghaith
Nasser bin Ghaith protesta per le condizioni detentive e, soprattutto, per la condanna a 10 anni di carcere che sta scontando nella prigione di massima sicurezza al-Razeen, ad Abu Dhabi: una condanna ridicola, basata su accuse pretestuose, arrivata al termine di un processo iniquo nel quale il diritto alla difesa è stato ampiamente compromesso.
Già finito in carcere da aprile a novembre del 2011 per “aver insultato pubblicamente” le autorità emiratine, bin Ghaith è stato arrestato il 18 aprile 2015, posto in isolamento, torturato e privato del sonno anche per una settimana.

Il 4 aprile 2016 è arrivata la condanna, di nuovo per “insulti” attraverso post su Twitter, e per “aver comunicato e collaborato con membri di un’organizzazione messa al bando”, ossia il movimento riformista islamico al-Islah.

La condanna è stata confermata in appello nel marzo 2017.

Già prima dell’arresto, bin Ghaith soffriva di pressione alta e cardiomegalia, l’aumento abnorme di volume del muscolo cardiaco. Ora, con lo sciopero della fame e il diniego di cure mediche adeguate, la situazione è diventata allarmante. È sopraggiunto anche un principio di steatosi epatica, ossia l’eccesso di grassi nel fegato.

Le organizzazioni per i diritti umani chiedono agli Emirati Arabi Uniti di rilasciare Nasser bin Ghaith e, intanto, di fornirgli immediatamente tutte le cure mediche necessarie.


Riccardo Noury

Se ne parla poco ma ... Onu, in Libia, 'orrori inimmaginabili' subiti da migranti. 'Stragrande maggioranza di donne e adolescenti violentate'

ANSAmed
Ginevra - Migranti e rifugiati subiscono "orrori inimmaginabili" in Libia, denuncia un rapporto delle Nazioni Unite che descrive dettagliatamente in 61 pagine l'inferno degli abusi subiti da donne, bambini e uomini dal momento in cui entrano in Libia, durante la loro permanenza nel Paese e - se vi riescono - mentre tentano di attraversare il Mediterraneo. "La stragrande maggioranza delle donne e delle adolescenti intervistate - si legge nel documento - ha riferito di essere stata violentata dai trafficanti".

La frequenza dei casi di stupro ai danni delle donne che hanno transitato in Libia è corroborata da una pletora di fonti, afferma il rapporto, precisando che "la stragrande maggioranza delle donne e adolescenti intervistate nel 2017-2018 ha riferito di essere stata violentata da trafficanti in Libia o di aver visto donne portate via e tornare sconvolte, ferite e con abiti strappati". 

Il rapporto delle Nazioni Unite, basato su informazione raccolte tra il gennaio 2017 e il 30 settembre scorso, documenta inoltre uccisioni, torture, condizioni di detenzione spesso disumane, fenomeni di schiavitù, lavoro forzato, estorsioni, sfruttamento ed altre gravi violenze inflitte da migranti e rifugiati "da attori sia statali e non statali". 
Nei centri di detenzione i bambini sono detenuti nelle medesime squallide condizioni degli adulti, prosegue il documento.

"Innumerevoli migranti e rifugiati hanno perso la vita, durante la cattività in mano a trafficanti, uccisi a colpi di arma da fuoco, torturati a morte o semplicemente lasciati morire di fame o per negate cure mediche ", afferma il rapporto. "In tutta la Libia, corpi non identificati di migranti e profughi con ferite da arma da fuoco, segni di tortura e ustioni vengono scoperti, spesso in cestini della spazzatura, letti di fiumi in secca, fattorie e nel deserto", aggiunge.

Per le Nazioni Unite "la Libia non può essere considerata un luogo sicuro", ma coloro che riescono a tentare la pericolosa traversata del Mediterraneo, "vengono sempre più spesso intercettati o soccorsi dalla Guardia costiera libica che li riconduce in Libia", dove molti ritrovano l'inferno da dove erano appena sfuggiti, che nelle sue raccomandazioni finali si rivolte anche all'Unione europea ed ai suoi Stati membri per chiedere di "riconsiderare i costi umani delle loro politiche e dei loro sforzi per arginare la migrazione verso l'Europa", nonché di garantire "che la loro cooperazione e la loro assistenza alle autorità libiche siano basate sui diritti umani".

Pakistan. Pena di morte, già 500 esecuzioni dalla fine della moratoria nel 2014

Avvenire
La reintroduzione della pratica, nel dicembre 2014 dopo l'attentato di Peshawar, ha portato sempre più detenuti davanti al boia. Sono 4.688 i condannati nel braccio della morte. Sono già 500 le esecuzioni di condannati a morte in Pakistan dal dicembre 2014, dopo che è stata eliminata la moratoria sulla pena di morte. 

Lo riferisce Justice Project Pakistan (JPP), una Ong che si occupa della difesa dei condannati alla pena capitale e secondo cui al momento ci sono 4.688 detenuti nel braccio della morte.

Il Pakistan aveva introdotto nel 2008 una moratoria alle esecuzioni, poi cancellata in seguito all'attacco terroristico in una accademia militare a Peshawar in cui morirono 140 persone. 

JPP ha sottolineato che il Pakistan "ha un numero di detenuti condannati a morte fra i più alti del mondo. Ciò accade in parte perché c'è un'alta quantità di reati per cui è prevista la pena capitale, quali blasfemia, sequestro di persona e reati legati alle droghe".

mercoledì 19 dicembre 2018

Per la Cina sono campi di rieducazione, il resto del mondo li chiama gulag

Il Foglio
Financial Times e New York Times raccontano come funzionano i lavori forzati nella regione dello Xinjiang. Abel Amantay, un kazako cittadino cinese, era tornato l'anno scorso nello Xinjiang per registrare il suo permesso di lavoro all'estero. Era stato arrestato e deportato in uno di quelli che in Cina chiamano "centri di formazione professionale", costruiti dal governo della regione autonoma dello Xinjiang "per la popolazione locale legata ad attività estremiste o terroristiche".



Secondo quanto riportato da Emily Feng sul Financial Times di ieri, "dopo aver finalmente ottenuto il permesso per entrare nella struttura, il padre di Amantay ha potuto vedere suo figlio e ha saputo che è impiegato in un'industria tessile per 95 dollari al mese. Ad Amantay è permesso di fare due brevi telefonate al mese alla moglie in Kazakhstan". Lei spiega che il marito in quelle telefonate "non dice molto, solo che sta guadagnando. Ma ogni volta domanda i nomi e l'età dei suoi figli. Sembra che abbia una grave perdita di memoria".

Secondo il quotidiano londinese questa è una delle prove che i laajiao, cioè i campi di "rieducazione attraverso il lavoro" che erano stati aboliti ufficialmente dalla Corte suprema di Pechino nel 2013, siano in realtà attivi. Le deportazioni di massa, confermate dall'Onu e condannate pure dal Parlamento europeo - con una tiepida risoluzione del 3 ottobre votata pure dagli europarlamentari del M5s - riguarderebbero circa un milione tra uiguri, kazaki e altre minoranze etniche dell'area. Se ne parla da anni, ma è solo da pochi mesi che comincia a venir fuori quel che succede davvero dentro ai campi.

Se in un primo momento Pechino aveva perfino negato l'esistenza delle strutture, adesso la propaganda è cambiata: "Il Partito dice che la rete di campi nello Xinjiang fornisce una formazione professionale e inserisce i detenuti nel mondo produttivo per il loro bene", hanno scritto ieri Chris Buckley e Austin Ramzy sul New York Times. La seconda economia del mondo oggi determina l'agenda diplomatica globale, ed è naturale doversi confrontare con Pechino quando si tratta di business. L'influenza cinese non riguarda soltanto gli investimenti ma anche il soft power sulle questioni cruciali per l'idea di egemonia cinese di Xi Jinping.

Il fatto che la questione dello Xinjiang sia ignorata per lo più da chi tratta con la Cina è indicativo di quello che sta succedendo alla diplomazia occidentale e alla difesa dei valori comuni e dei diritti universali. L'equilibrio tra interessi e valori è difficile da mantenere, e il "calcolo di convenienza" - che consegna la priorità alla stabilità dei rapporti diplomatici - negli ultimi anni, sta spostando l'ago della bilancia quasi tutto a favore di Pechino.

E a volte perfino si esagera, tra i politici di casa nostra, che parlano della Cina come "modello" per la sicurezza pubblica "nei limiti imposti dalla nostra cultura e Costituzione". Il problema, semmai, è anche che le notizie su quel che accade davvero nello Xinjiang sono difficili da trovare. "La regione è strategica per il governo e per i piani futuri di Xi Jinping e la sua nuova via della Seta", scriveva già a marzo Simone Pieranni su East, notando come Big Data e intelligenza artificiale siano diventate, qui, una straordinaria arma di controllo.

Ciononostante, sono molte le testimonianze di giornalisti seguiti e controllati a vista quando cercando di indagare nella regione, e qualche giorno fa le autorità cinesi hanno confermato l'arresto di Lu Guang, acclamato fotoreporter cinese, vincitore di tre World Press Photo, di cui non si avevano notizie dal novembre scorso mentre era in viaggio nella provincia dello Xinjiang. Non è l'unico tra i nomi celebri spariti dalla circolazione e poi ritrovati nei campi.

Se parliamo di realpolitik, vale la pena osservare come si muovono i paesi musulmani dell'area asiatica: l'Indonesia, per esempio, uno dei paesi che beneficia di più degli investimenti cinesi, è molto cauto. Scriveva ieri su Twitter Aaron Connelly dell'International Institute for Strategie Studies che "la pressione politica interna sul governo indonesiano per intervenire sulle detenzioni di massa sta crescendo, dopo un lungo periodo di silenzio da parte della società civile e della stampa".

Mentre il governo di Joko Widodo è ben attento a non inimicarsi Pechino, ieri il consiglio degli ulema indonesiano ha condannato "l'oppressione contro i musulmani in Cina, una palese violazione dei diritti umani e del diritto internazionale".

Lo stesso succede in Pakistan: ieri il South China Morning Post ha raccontato la storia del trader pachistano Chaudhry Javed Atta, che non vede la moglie uigura da più di un anno, anche lei portata via dalla sua casa nello Xinjiang. L'ultima volta che l'ha visto, gli aveva detto: "Mi porteranno in un campo, e non tornerò più".
Giulia Pompili

"Prigionieri del silenzio": quasi 3.000 italiani come Cavatassi, detenuti all'estero

adnkronos.com
"Non si dovrebbe sollevare il problema quando Denis Cavatassi viene dichiarato innocente. Se ne parla in quel momento e poi mai più. Bisogna tenere alta l'attenzione sui circa 3mila casi di italiani detenuti all'estero. È un problema sociale e la politica dovrebbe occuparsene, rivedendo gli accordi con i vari Paesi e creando una figura istituzionale, che conosca le leggi del posto e si faccia carico dei loro diritti". 



Katia Anedda è la presidente della Onlus "Prigionieri del silenzio", nata 10 anni fa per dare voce alle migliaia di nostri connazionali che finiscono, anche da innocenti, nelle carceri di tutto il mondo, spesso in condizioni disumane, senza contatti con le famiglie né con gli avvocati, senza parlare la lingua del posto in cui si trovano.

In base agli ultimi dati ufficiali della Farnesina sono 2924, un numero censito a dicembre del 2017, in calo rispetto ai 3278 dell'anno precedente. Tra questi la gran parte, 2.314, sono nei Paesi dell'Unione europea, 291 nelle Americhe, 182 nei Paesi europei extra Ue, 44 nei Paesi del Mediterraneo e in Medio Oriente, 16 nell'Africa sub-sahariana, e 77 tra Asia e Oceania.

"Molti non parlano per paura o per vergogna - spiega all'Adnkronos - Quelli arrestati perché qualcosa hanno fatto, magari reati non importanti per i quali comunque rischiano l'ergastolo, vivono in situazioni atroci, per loro e per le famiglie che spesso stanno dall'altra parte del mondo: hanno il problema della lingua, non sanno chi contattare, il consolato non risponde, la Farnesina non entra nel merito, noi cerchiamo di metterli in contatto con le persone giuste, che possano aiutarli". La storia di Cavatassi, ricorda Anedda, "va avanti da 8 anni, è stato arrestato poi rilasciato, è rimasto in Tailandia forte della sua innocenza. Negli ultimi 3 anni ha vissuto le pene dell'inferno, rischiando la pena di morte. Ma molti sono i casi che non finiscono all'attenzione dei media: innocenti ce ne sono tanti, magari alcuni firmano un'ammissione di colpevolezza non conoscendo la lingua e vengono incastrati. Chi non ha possibilità economiche sconta la pena nonostante l'innocenza".

Quest'ultimo caso di cronaca dovrebbe essere l'occasione per tornare a sollevare il problema, e per sollecitare la politica a intervenire. "Rivisitare tutti gli accordi, fare in modo che ci siano condizioni di trattamento più umane, che ci si possa difendere senza dovere spendere 10 volte di più rispetto all'Italia per garantirsi un giusto processo - ammonisce la presidente di 'Prigionieri del silenzio' - In India, ad esempio, due ragazzi hanno speso più di 300mila euro. Poi c'è il problema dei consolati che sono spesso deboli, anche per mancanza di risorse, e lontanissimi dal posto in cui l'italiano è detenuto. In Europa è tutto più facile, e lì si trova il maggior numero degli italiani detenuti all'estero, i diritti sono garantiti di più e per la famiglia si tratta di affrontare solo poche ore di volo".

Ancora, "servirebbe un ente di collegamento, una figura istituzionale che conosca le leggi del posto e sia dalla parte del detenuto. Il magistrato di collegamento esiste solo in alcuni Paesi europei, bisognerebbe estenderlo. Poi anche la famiglia dovrebbe essere sostenuta e supportata psicologicamente. Non vale l'argomento che i numeri sono bassi perché intorno a ciascuno dei circa tremila detenuti ruotano almeno 10 persone, tra parenti e amici, e considerando i 5 milioni di italiani iscritti all'Aire e i 10 milioni in giro per il mondo, ci sono 15 milioni di potenziali detenuti. La politica - conclude Katia Anedda - dovrebbe occuparsene".