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martedì 28 settembre 2021

Siria - Continue e gravi violazioni dei diritti umani: esecuzioni, scomparse, torture, violenze di genere nei centri di detenzione.

AnsaMed
L'Italia rimane profondamente preoccupata per il gran numero di esecuzioni extragiudiziali e di persone scomparse o detenute illegalmente, nonché per le torture e la violenza di genere perpetrata nei centri di detenzione. 


Lo ha affermato la Vice Rappresentante Permanente d'Italia presso le Nazioni Unite, Marie Sol Fulci, intervenuta in occasione del dialogo interattivo con la Commissione d'Inchiesta sulla Siria, presieduta da Paulo Sergio Pinheiro, durante la 48ma Sessione del Consiglio dei Diritti Umani.

Fulci ha ricordato come il popolo siriano continui a subire gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani e ha condannato gli attacchi ai civili e alle infrastrutture civili, condotti in aperta violazione del diritto internazionale umanitario. 

La Vice Rappresentante Permanente ha poi esortato tutti gli attori sul terreno a rivelare la sorte di coloro che sono scomparsi o che sono ancora dispersi, invitandoli ad impegnarsi in modo significativo con i meccanismi internazionali competenti in materia. 

Fulci - riferisce una nota della Rappresentanza - ha inoltre condannato la violenza e le atrocità commesse da tutte le parti in conflitto, sottolineando l'importanza di acclarare le responsabilità di chi ha commesso gravi violazioni dei diritti umani. Infine, ella ha espresso il pieno supporto dell'Italia al lavoro della Commissione d'Inchiesta e il Meccanismo Internazionale, Imparziale e Indipendente sulla Siria e ha ribadito come il contrasto all'impunità sia un prerequisito per una soluzione pacifica del conflitto nel Paese.

lunedì 27 settembre 2021

Yemen - Gli Houthi eseguono la pena di morte di 9 uomini coinvolti nella morte del leader Samad

Blog Diritti Umani - Human Rights
Il movimento yemenita Houthi, appoggiato dall'Iran, ha dichiarato sabato che le autorità hanno messo a morte nove uomini condannati per il coinvolgimento nell'uccisione del 2018 di Salehal-Samad, allora principale leader civile del gruppo armato.

Foto: AFP

Samad, che ricopriva la carica di presidente nell'amministrazione controllata dagli Houthi che governa la maggior parte dello Yemen settentrionale, è stato ucciso nell'aprile 2018 da un attacco aereo della coalizione a guida saudita nella città portuale di Hodeidah, sulla costa occidentale dello Yemen.

È stato il funzionario più anziano ad essere ucciso dalla coalizione nella guerra lunga anni in cui gli Houthi stanno combattendo le forze fedeli al governo riconosciuto a livello internazionale con sede nella città portuale meridionale di Aden.


ES

Fonter: Reuters

giovedì 23 settembre 2021

India - A 3 mesi dalla scomparsa, ricordo di padre Stan Swamy, difensore dei diritti degli indigeni, morto in carcere a 84 anni.

Osservatorio Diritti
Padre Stan Swamy è morto in India a 84 anni dopo nove mesi di carcere. Aveva dedicato la sua vita a popoli indigeni ed emarginati. Incastrato sulla base di accuse mai provate, era accusato di essere un fiancheggiatore dei terroristi. Lo ricordiamo a 2 mesi dalla morte


Padre Stan Swamy si è spento lo scorso 5 luglio, in un ospedale di Mumbai, in India, dove era stato trasferito dal carcere in seguito all’aggravarsi delle sue condizioni di salute.

Il prete gesuita, che ha combattuto tutta la vita per i diritti degli Adivasi (i popoli indgeniautoctoni del Subcontinente) nelle foreste più remote del Paese, era in cella da 9 mesi, nella prigione di Taloja a Mumbai, nonostante avesse 84 anni e fosse gravemente malato di Parkinson. Ma, soprattutto, come altri attivisti e voci critiche, era in carcere sulla base di accuse mai provate.

La sua morte è arriva dopo accese proteste e accorati appelli internazionali per la scarcerazione dei prigionieri politici in India, soprattutto in tempo di Covid-19.

È proprio nella cella in cui era rinchiuso da mesi, in condizioni deplorevoli, che l’anziano gesuita-attivista aveva contratto il coronavirus durante la violenza della seconda ondata pandemica, che ha messo in ginocchio il Paese.

Nei giorni precedenti la sua morte, l’Alta Corte di Mumbai stava valutando una petizione avanzata dallo stesso Swamy per il suo rilascio su cauzione per motivi medici. Come in altri casi, la giustizia non ha fatto in tempo a mostrare un volto umano: padre Stan è morto da arrestato, in un caso costruito ad arte per incastrare attivisti e pensatori liberi che il governo guidato dai nazionalisti hindu del Bharatiya Janata Party bolla come elementi “anti-nazionali”.

Il gesuita-attivista vicino agli indigeni dell’India
Father Stan, come il gesuita era chiamato da quanti erano vicini a lui e alle sue battaglie, aveva combattuto contro le brutali uccisioni, gli stupri, le torture, le morti in custodia e i casi di false accuse mosse dalla National Investigation Agency (Nia) – l’agenzia federale che si occupa di terrorismo – contro migliaia di Adivasi innocenti.

Maria Tavernini

martedì 21 settembre 2021

ONU - Migliaia di persone accusate ogni anno di stregoneria. Sono sopratutto donne ma anche bambini, individui disabili o albini.

Il Post
In diversi posti del mondo è un problema che interessa donne, bambini, individui disabili o albini, spiega una recente risoluzione dell'ONU


A metà luglio l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani ha approvato una risoluzione che chiede la fine delle violenze commesse ogni anno contro migliaia di persone accusate di stregoneria: espulsioni dalle comunità, torture, mutilazioni o uccisioni che ancora oggi si verificano in varie parti del mondo.

Definire che cosa sia la “stregoneria” non è semplice, dato che ci sono declinazioni, credenze e pratiche che cambiano da paese a paese e anche all’interno di uno stesso contesto. Le Nazioni Unite hanno però individuato alcuni elementi comuni: la stregoneria è intesa come un sistema di credenze che funziona come spiegazione di una serie di eventi negativi. Tale sistema è basato sulla convinzione che alcune persone abbiano dei poteri soprannaturali che rivolgono contro altre. Ma si dice anche che la stregoneria appartiene a un fenomeno più ampio, che ha a che fare con l’oppressione e il controllo sociale che si vuole esercitare nei confronti di alcune specifiche categorie.

La reale portata delle violenze legate alla stregoneria e il numero delle vittime di tali abusi non è chiaro, perché molto spesso questi crimini non vengono denunciati per timore di ritorsioni e ulteriori stigmatizzazioni, o perché avvengono in contesti remoti, o di omertà e accettazione. 

Il comitato che ha lavorato alla preparazione della risoluzione delle Nazioni Unite ha comunque documentato 22 mila persone che negli ultimi dieci anni, nel mondo, sono state accusate di stregoneria: si stima però che i numeri reali siano molti più alti.

Nella sola Tanzania, ad esempio, si dice che più di mille persone vengano uccise ogni anno per questo motivo. In India, tra il 2000 e il 2016, la polizia ha registrato più di 2.500 morti dovute a credenze sulla stregoneria. Le Nazioni Unite parlano anche di altri paesi, come la Repubblica Democratica del Congo, l’Angola, la Nigeria, il Ghana, il Kenya, il Nepal o la Papua Nuova Guinea dove negli ultimi vent’anni è stata registrata una media annuale di 72 casi di violenza. 

Sono almeno 50 i paesi in cui si sono verificate violenze di questo tipo, e ce ne sono alcuni dove sono regolamentate. In Arabia Saudita, ad esempio, la stregoneria è perseguita e punita con la pena di morte.

Secondo gli storici, tra il 1400 e il 1750 furono processate per stregoneria tra le 80 mila e le 100 mila persone: di queste, circa l’80 per cento erano donne, e donne spesso sapienti, che sapevano distinguere e usare le piante, che conoscevano metodi per distillare rimedi curativi, produrre veleni o che praticavano aborti. Erano donne, infine, che trasgredivano la norma sociale.

Ancora oggi il fenomeno delle violenze legate alla stregoneria si presenta con una marcata componente di genere. Gli altri gruppi considerati più vulnerabili sono quelli dei bambini, spesso accusati di essere posseduti dal diavolo o da altri spiriti maligni, le persone con disturbi mentali o altre disabilità, e le persone affette da albinismo, una malattia che provoca la parziale o mancata pigmentazione di melanina nella pelle, nei capelli e negli occhi.

Per secoli gli albini sono stati identificati come persone “maledette” e oggetto dunque di emarginazione, esclusione sociale o violenza. Le donne che partoriscono bambini con albinismo sono spesso ripudiate dai mariti e dalla loro famiglia e quei bambini o abbandonati o uccisi, nella convinzione che possano essere una fonte di sventura. Altri pensano invece che le ossa delle persone albine contengano oro o abbiano poteri magici, motivo per cui vengono uccise o mutilate e per il quale sulle parti del corpo degli albini esiste una forma di commercio: l’arto di una persona albina può essere venduto a circa 600 dollari, mentre un corpo intero arriva anche a 75mila dollari.

Le condizioni di vita degli albini in certi contesti, dove corrono il rischio di essere uccisi o mutilati per rivendere parti del loro corpo e subiscono discriminazioni, sono state raccontate nel documentario In the Shadow of the Sun uscito nel 2012 e diretto da Harry Freeland. Un altro lavoro è stato pubblicato nell’ottobre del 2015: è un reportage di Carlo Allegri, fotografo dell’agenzia Reuters, che mostra alcuni ragazzini albini della Tanzania ricoverati in un centro specializzato a New York dopo avere subìto violenze nel loro paese.

Nonostante la gravità delle violazioni dei diritti umani legate all’accusa di stregoneria, spesso non c’è una risposta coordinata da parte dei paesi coinvolti, né l’intenzione di prevenire, indagare o perseguire casi di questo tipo, dice la risoluzione. 

Ikponwosa Ero, esperta indipendente dell’ONU per i diritti delle persone affette da albinismo, ha spiegato che la risoluzione non fermerà le violenze, ma rappresenta uno storico passo avanti per far emergere un problema spesso trascurato.

lunedì 20 settembre 2021

Migliaia di etiopi in trappola nello Yemen - Vivono in condizioni disastrose e decine sono morti in mare nel tentativo di tornare in Etiopia

Africa Rivista
Quasi 5.000 migranti etiopi sono bloccati in Yemen e stanno cercando di tornare a casa in sicurezza. L’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim) ha annunciato in un comunicato che 300 di essi dovrebbero partire da Aden per Addis Abeba questa settimana. 

L’Oim spera di continuare a questo ritmo, operando due voli a settimana fino alla fine dell’anno e prevede di espandere questo tipo di voli in altri luoghi come Ma’rib, dove il conflitto persiste.

“Dall’inizio della pandemia, il problema dei migranti in Yemen è stato trascurato”, ha affermato John McCue, vice capo missione dell’Oim Yemen. Finora, 597 migranti sono tornati volontariamente su cinque voli da Aden e altri 79 su un volo da Sana’a. 

Per sostenere questo programma, l’Oim ha urgente bisogno di tre milioni di dollari dalla comunità internazionale, oltre al continuo sostegno delle autorità yemenite ed etiopi per facilitare i movimenti. “Chiediamo ai donatori di dare un contributo più significativo a questa cruciale ancora di salvezza che fornisce a migliaia di migranti bloccati la loro unica possibilità di sfuggire a una situazione pericolosa e tornare a casa”, ha detto McCue.

La maggior parte dei migranti vive in condizioni disastrose nel Paese, principalmente negli hub di transito urbano, a causa delle restrizioni alla mobilità covid-19 che hanno ostacolato i loro viaggi verso l’Arabia Saudita. 

Molti migranti sono hanno effettuato il pericoloso viaggio di ritorno via mare verso Gibuti o la Somalia, utilizzando la stessa rete di contrabbandieri che usavano per dirigersi verso la penisola arabica. Decine di essi sono annegati quest’anno dopo il capovolgimento di barche sovraffollate.

domenica 19 settembre 2021

Migranti: Grecia - Msf, il nuovo centro per rifugiati a Samos situato in una località remota è "simile a una prigione"

AnsaMed
Il nuovo centro per richiedenti asilo che sarà aperto dall'Ue e dal governo greco questo fine settimana sull'isola di Samos è "simile a una prigione". E' quanto denuncia Medici Senza frontiere alla vigilia dell'apertura della nuova struttura situata nella località remota di Zervou. 


Il centro ospiterà dal 20 settembre i circa 500 abitanti del campo di Vathy. "Definito un passo in avanti dai leader europei e greci, in realtà questo nuovo centro serve solo a disumanizzare e marginalizzare ulteriormente i richiedenti asilo in Europa", osserva Msf in una nota.

"Mentre tutto il mondo assiste a ciò che accade in Afghanistan, l'Ue e la Grecia inaugurano un nuovo centro per richiedenti asilo simile a una prigione", ha dichiarato Patrick Wieland, capo progetto di Msf a Samos. 

"Siamo di fronte alla perfetta dimostrazione di quanto la politica migratoria dell'Ue, che intrappola persone fuggite da guerre e violenze, sia cinica e pericolosa". 

L'ong sottolinea che sono stati spesi milioni di euro per realizzare questa struttura, dotata di avanzati sistemi di sorveglianza, "che detiene persone il cui unico crimine è quello di cercare sicurezza e stabilità". Da mesi, i pazienti assistiti nella clinica di salute mentale di Msf a Samos si sentono abbandonati e senza speranza. 

Per chi è sopravvissuto alla tortura, un nuovo centro così altamente controllato rappresenta non soltanto la perdita di ogni libertà, ma anche la possibilità di rivivere vecchi traumi.

"L'apertura di questo nuovo campo rappresenta per queste persone un cambiamento nella loro identità, nella loro autostima e nella loro dignità. 

L'Europa li sta distruggendo", ha denunciato Eva Papaioannou, psicologa di Msf a Samos. L'organizzazione chiede all'Ue e alla Grecia di "avere come unico obiettivo quello di fornire assistenza e facilitare la ricollocazione dei richiedenti asilo appena arrivati verso strutture sicure in tutta Europa".

lunedì 13 settembre 2021

Nel 2020 tragico bilancio: 227 attivisti ambientali uccisi in tutto il mondo.

Blog Diritti Umani - Human Rights

Un numero record di attivisti impegnati per proteggere l'ambiente e i diritti alla terra è stato assassinato l'anno scorso, 227 persone sono state uccise in tutto il mondo nel 2020, il numero più alto registrato per il secondo anno consecutivo, secondo il rapporto di Global Witness.


Secondo quanto riferito, quasi un terzo degli omicidi è stato collegato allo sfruttamento delle risorse: disboscamento, estrazione mineraria, agroindustria su larga scala, dighe idroelettriche e altre infrastrutture.

Da quando è stato firmato l'Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici nel 2015, l'organizzazione rileva una 
"cifra scioccante": in media sono stati uccisi ogni settimana quattro attivisti e potrebbe essere una cifra sottostimata a causa delle restrizioni che vengono operate ai giornalisti.

Il maggior numero di omicidi con 23 casi si registrano in Brasile, Nicaragua, Perù e Filippine.

I popoli indigeni rappresentato un ulteriore terzo dei casi. La Colombia ha registrato il numero più alto di attacchi con 65 persone uccise lo scorso anno.

Global Witness ha affermato che gli attivisti ancora minacciati includono comunità a Guapinol in Honduras, dove decine di persone hanno protestato contro una concessione mineraria di ossido di ferro concessa dal governo centrale in un'area protetta. Gli attivisti ritengono che il fiume Guapinol, una fonte d'acqua vitale, sia minacciato. L'organizzazione afferma che "molti membri della comunità sono tutt'ora in carcere".

ES

Fonte: BBC

domenica 12 settembre 2021

Emergenza migranti. La "fortezza Europa" non risponde con l'accoglienza ma con nuovi muri in Lituania, Grecia, Polonia che si aggiungono ai muri già costruiti in Bulgaria, Turchia, Croazia e Slovenia e altri.

Wired
La Lituania costruirà una barriera lunga 508 chilometri, la Grecia ne ha già completati 40 e la Polonia ne innalzerà altri 130. Oltre mille chilometri di recinzioni percorrono i confini europei.


Si stagliano invalicabili per oltre mille chilometri i muri anti-migranti eretti dai paesi europei negli ultimi anni. I confini orientali dell’Unione sono ormai delineati da schermi di ferro, filo spinato e muri che fanno sfigurare quello messicano voluto dall’ex presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. 

Da quando la crisi migratoria del 2015 ha messo in mostra le carenze strutturali dell’Unione in tema di accoglienza, gli stati membri hanno eretto sempre più ostacoli, per impedire l’arrivo dei migranti dall’Africa, dal Medio Oriente o da altri paesi limitrofi, creando quella che viene chiamata la “fortezza” europea.

Ora, anche a causa della nuova crisi in Afghanistan, si stanno innalzando sempre più velocemente nuovi muri, equipaggiati con le ultime tecnologie di sorveglianza. Negli ultimi giorni la Grecia ha completato 40 chilometri di muro al confine con la Turchia, mentre i governi di Polonia e Lituania hanno approvato la costruzione di nuove barriere lungo tutto il confine con la Bielorussia.

Il muro greco
La presa di Kabul da parte dei talebani ha scatenato in tutta Europa il timore di dover affrontare una nuova ondata migratoria come nel 2015, quando più di un milione di persone ha tentato di attraversare le frontiere passando per la penisola ellenica. 

In Grecia si trovano già più di 400 agenti di Frontex(l’Agenzia europea di guardia costiera e di frontiera), diverse decine di veicoli, equipaggiati con videocamere termiche e cannoni sonori, otto motovedette e due palloni aerostatici dotati di telecamere di sorveglianza ibride con sistemi di identificazione automatica. 

Un apparato high tech di sorveglianza al quale vanno aggiunti 40 chilometri di muro, anch’esso provvisto di sistemi di riconoscimento e radar per individuare i migranti, terminato da pochi giorni lungo il confine con la Turchia e progettato da tempo.

Il blocco lituano
A inizio agosto, il parlamento di Vilnius ha autorizzato la costruzione di 508 chilometri di barriera che separeranno definitivamente il paese dalla sua ex compagna sovietica: la Bielorussia. 

Il muro dovrebbe essere completato entro la fine del 2022, nonostante le proteste delle organizzazioni umanitarie che, non a torto, ricordano come lo stato del presidente Alexander Lukashenko sia già soggetto a sanzioni europee per le repressioni a danno dei dissidenti politici. 

Il progetto lituano potrebbe anche ricevere finanziamenti europei, dopo che i vari ministri degli Esteri del blocco hanno espresso solidarietà e approvazione verso la costruzione della nuova barriera.

La frontiera polacca
La Polonia è l’ultimo paese europeo ad aver iniziato la costruzione di un muro anti-migranti, sempre al confine della Bielorussia. La recinzione sarà alta circa 2 metri e mezzo e lunga circa 130 chilometri. Secondo le dichiarazioni del ministro della difesa polacco, Mariusz Błaszczak verrà anche aumentata la presenza militare lungo il confine, raggiungendo le 2000 unità militari impiegate.

Le altre barriere
Tra Bulgaria e Turchia esistono già circa 200 chilometri di filo spinato, torrette presidiate da militari e videocamere a infrarossi e sensibili al calore. L’Ungheria ha già eretto più di 500 chilometri di recinzione lungo il confine con Croazia e Serbia, mentre l’Austria ne ha costruita una di 3 chilometri con la Slovenia, che ne ha eretta un’altra di 200 con la Croazia. Inoltre altre recinzioni separano le enclavi spagnole di Ceuta e Melilla, in Marocco, e il porto di Calais, in Francia.

Kevin Carboni

sabato 11 settembre 2021

Cechia - "Mea culpa" di Praga che risarcisce centinaia di donne rom sterilizzate a loro insaputa fino al 2012. La Slovacchia ancora non si pronuncia.

Europa Today
La Cechia ha ammesso le sue responsabilità per il programma di eugenetica condotto a partire dagli anni '70 e sopravvissuto anche alla fine del blocco sovietico.


Quando Elena Gorolova diede alla luce il suo secondo figlio aveva appena 21 anni. "Il dottore mi disse che avrei dovuto partorire tramite un taglio cesareo altrimenti avrei rischiato la salute mia e del bambino". Le carte che le diedero da firmare prima dell'intervento, però, contenevano un'altra realtà: la giovane donna, sconvolta dai dolori del parto, non le lesse e le siglò. Autorizzando, senza volerlo, un'operazione che la rese sterile a vita. Quella di Gorolova è solo una delle centinaia di donne, soprattutto di etnia rom, che finirono a loro insaputa nel programma di eugenetica guidato dal governo dell'allora Cecoslovacchia, agli inizi degli anni '70. 

A distanza di quasi mezzo secolo d'allora, Praga ha deciso di risarcire le vittime con un assegno pari a 300mila corone, circa 12mila euro.

Il presidente Milos Zeman ha infatti riconosciuto le responsabilità dello Stato ceco nel programma di eugenetica, condotto non solo fino al 1993, ossia quando Praga, ormai uscita dal blocco sovietico, si separò dalla Slovacchia e mise fine ufficialmente alla campagna di sterlizzazione, ma anche negli anni successivi. 

Solo nel 2012 i legislatori cechi introdussero una norma per bloccare quella che era diventata ormai una prassi consolidata. Nessuno sa quante donne siano state sottoposte a questa campagna di sterilizzazione,  scrive il Guardian. Il Centro europeo per i diritti dei rom afferma che siano centinaia, ma mancano stime affidabili. 

L'ultima denuncia risale al 2007, a conferma che la prassi di sterilizzare le donne rom era andata avanti anche dopo lo stop ufficiale al programma. Con l'obiettivo non dichiarato di fermare la proliferazione di rom nel Paese.

In Cechia vivono tra i 250mila e i 300mila rom su una popolazione di circa 10 milioni di abitanti. E da tempo Praga è sotto accusa da parte delle organizzazioni internazionali, Onu e Consiglio d'Europa compresi, per le discriminazioni nei confronti di questa minoranza da parte delle autorità pubbliche. 

Discriminazioni che iniziano già da piccoli, con i bambini esclusi dal sistema scolastico o inseriti in classi ad hoc con alunni che provengono da contesti svantaggiati o che soffrono di ritardi mentali. Nel 2017, il governo avviò un censimento dei rom accusato di essere “disumano, contrario all’etica, se non addirittura razzista”: Praga inviò alle amministrazioni locali la richiesta di indicare quanti fra gli abitanti “sono considerati rom da una parte significativa del loro ambiente, sulla base di indicatori reali o presunti di carattere antropologico, culturale e sociale”.


In questo contesto si inserisce la battaglia di Gorolova, oggi 51enne e assistente sociale, che aiutata da alcune ong per i diritti umani ha raccolto le testimonianze di chi, come lei, è stata sterilizzata senza consenso. E ha portato il caso all'Onu. 

Le autorità ceche hanno a lungo cercato di nascondere lo scandalo, ma la mobilitazione internazionale ha avuto alla fine la meglio. 

Per Barbora Cernusakova, attivista di Amnesty International, si tratta di una prima vittoria per il risarcimento di tutte le donne vittime di questo programma. 

Il riferimento è alla Slovacchia, che ha partecipato al programma almeno fino al 1993 e che non ha ancora riconosciuto le sue responsabilità. Ma Cernusakova ricorda anche la più generale discriminazione di cui soffrono i rom in Cechia, dalle scuole al mercato del lavoro. "Affrontare queste forme di violazione dei diritti umani richiedere un forte impegno da parte del governo centrale e delle autorità locali e il riconoscimento che i rom sono cittadini come gli altri, i cui diritti devono essere protetti", ha detto al Guardian.