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domenica 31 dicembre 2017

Iran, la ragazza simbolo della rivolta contro l'hijab è stata arrestata. #Mystealthyfreedom

La Repubblica
Le immagini della giovane, senza velo e con i capelli sciolti, che manifesta in strada per la campagna lanciata da Masih Alinejad contro le imposizioni del regime, hanno ispirato anche una vignetta che ha invaso i social.


Teheran - Aveva sfidato il regime islamico che impone il velo alle donne, facendosi riprendere in una strada del centro di Teheran a volto scoperto e con i capelli sciolti sulle spalle, sventolando un drappo bianco simbolo di white wednesday (mercoledì bianco). Ora è stata arrestata. 

La ragazza, protagonista delle immagini che sono diventate il simbolo della protesta che aderisce all'ultima campagna lanciata da Masih Alinejad (giornalista e attivista iraniana che dal 2009 vive in esilio tra Londra e New York), è finita in manette il 28 dicembre. 

La giovane ha aderito a My Stealthy Freedom, il movimento partito grazie a Alinejad nel 2014 su Facebook e che a suon di foto e video social vuole affermare il diritto delle donne di scegliere il proprio abbigliamento contro le stringenti regole imposte dal governo.

POST OF THE YEAR - "Migranti morti di freddo sui confini chiusi dei Balcani ...".

Blog Diritti Umani - Human Rights
Augurando a tutti i lettori di questo Blog dedicato alla difesa dei Diritti Umani, un 2018 dove siano difesi i diritti di ogni donna, uomo, bambino ... segnaliamo il Post più letto del 2017. Pubblicato il 14 gennaio 2017 dal titolo: "Migranti morti di freddo sui confini chiusi dei Balcani. L'eliminazione invisibile: gelo, marce forzate nei boschi e deportazioni"  ha avuto 219.898 visite. La foto presente nel post fa vedere il confronto di due immagini lontane nel tempo ma che ripropongono con la tragica attualità di migliaia di persone che muoiono e sono sottoposti a grandi sofferenze per cercare pace e sicurezza lasciando le loro terre.
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Migranti morti di freddo sui confini chiusi dei Balcani. L'eliminazione invisibile: gelo, marce forzate nei boschi e deportazioni" - 14 gennaio 2017

Huffigton Post 
Migranti congelati o morti di gelo. Con la discesa brutale delle temperature e la chiusura della rotta balcanica la scorsa primavera, migliaia di migranti si ritrovano bloccati in Serbia, intere famiglie o minori non accompagnati, senza vestiti per il clima invernale. 7.000 profughi circa in Serbia secondo l’Unhcr, ma secondo stime delle organizzazioni locali circa 10.000, di cui 6.000 ospitati nelle strutture ufficiali e solo 3.140 adatti all’inverno; il resto dorme fuori in edifici abbandonnati di Belgrado o sui confini, alcuni persino nei boschi, a meno 20 di notte, e 30 cm di neve. I casi di ipotermia si sono drammaticamente moltiplicati, sette a Belgrado, trattati da MSF e Médecins du Monde a Belgrado, nelle sole ultime 24 ore, e quattro morti per assideramento nella sola prima settimana di gennaio sui confini bulgaro-turco e greco-macedone. 


'PACE IN TUTTE LE TERRE': 1 gennaio, marcia per un mondo che sappia accogliere e integrare

www.santegidio.org
Nel primo giorno del nuovo anno, 
manifestazioni in tutti i continenti per sostenere il messaggio di Papa Francesco

sabato 30 dicembre 2017

Thailandia, famiglia di otto rifugiati dello Zimbabwe bloccata da tre mesi in aeroporto

Il Messaggero
Una famiglia di otto persone, proveniente dallo Zimbabwe, vive da tre mesi nell'area partenze dell'aeroporto Suvarnabhumi di Bangkok per problemi con il visto.


La storia, che ricorda quella interpretata da Tom Hanks nel film «The Terminal» (ispirata a un caso vero), è emersa dopo la pubblicazione di una fotografia su Facebook da parte di un thailandese che lavora all'aeroporto. 

La famiglia - quattro adulti e quattro bambini sotto gli 11 anni - è arrivata a Bangkok lo scorso maggio con un visto turistico, rimanendo per mesi oltre la sua scadenza.

Al momento della partenza per la Spagna lo scorso settembre, l'imbarco è stato loro negato perché non possedevano un regolare visto per l'area Schengen. Il gruppo si rifiuta di tornare in Zimbabwe citando il timore di essere perseguiti dalle autorità, ed è stato rispedito a Bangkok dopo aver tentato di raggiungere l'Ucraina lo scorso ottobre. 

In Thailandia, Paese che non concede lo status legale di rifugiati e richiedenti asilo, la storia ha suscitato la curiosità di molti e molti commenti solidali con la famiglia, che secondo un colonnello dell'immigrazione citato dalla Bbc «è contenta di rimanere qui, e ha altre opzioni».

Kenya: detenute che soffrivano la sete. Arriva per Natale il dono di una cisterna.

Avvenire
Nel carcere femminile di Nakuru, in Kenya, il regalo di Natale è l'installazione di una cisterna collegata a un sistema di raccolta dell'acqua piovana. Sarà in grado di rifornire tutta la prigione e per questo l'inaugurazione è stata una vera festa insieme alla Comunità di Sant'Egidio. 


Era presente anche il vescovo Maurice Makumba, che ha benedetto la risorsa che farà sì che le detenute non soffrano più la sete. Fino ad oggi, infatti, la struttura era sprovvista di una fornitura quotidiana d'acqua, costringendo le donne a condizioni igienico-sanitarie gravi.
In diversi Paesi africani, Sant'Egidio visita ogni settimana le carceri, spesso segnate da scabbia, fame, sete e sovraffollamento. 

A Tcholliré, nel nord del Camerun, ogni settimana si distribuiscono sapone e cibo e incontrano ragazzini, a volte dodicenni, con pesanti catene di metallo ai piedi, che pagano con anni di reclusione il furto di una gallina o di un frutto. Altri sono ragazzi di strada, arrestati a scopo preventivo in un clima di repressione e paura per gli attentati terroristici di Boko Haram nel Nord del Paese. Non ci sono limiti alla custodia cautelare, si può rimanere dietro le sbarre per lunghi periodi prima del processo. 

Appena può, Sant'Egidio libera ragazzi come Ibrahim. La sua colpa? Aver tagliato un ramo di un albero per scaldarsi. «Sono di famiglie povere – spiegano dalla Comunità – pagando la spesa accumulata (dai 25 ai 100 euro), sarebbero rimasti in carcere ancora per chissà quanto tempo. Ora li aiuteremo a trovare un lavoro e a reinserirsi nella società».

Stefano Pasta

venerdì 29 dicembre 2017

Morire per la pace e la solidarietà: nel 2017 uccisi 23 missionari

Globalist
Sono 13 sacerdoti, 1 religioso, 1 religiosa e 8 laici. Gli assassinii sono solo una parte: numerose sono le violenze, le minacce.

Chi vive la pace e ne è testimone con il suo impegno è spesso scomodo. Mollti vengono uccisi: nel 2017 sono stati uccisi nel mondo 23 missionari: 13 sacerdoti, 1 religioso, 1 religiosa e 8 laici.


Secondo la ripartizione continentale, per l'ottavo anno consecutivo, il numero più elevato si registra in America, dove sono stati uccisi 11 operatori pastorali (8 sacerdoti, 1 religioso, 2 laici), cui segue l'Africa, dove sono stati uccisi 10 operatori pastorali (4 sacerdoti, 1 religiosa, 5 laici); in Asia sono stati uccisi 2 operatori pastorali (1 sacerdote, 1 laico). 

Dal 2000 al 2016, secondo i dati raccolti dall'Agenzia vaticana Fides, sono stati uccisi nel mondo 424 operatori pastorali, di cui 5 Vescovi.

Molti operatori pastorali sono stati uccisi durante tentativi di rapina o di furto, compiuti anche con ferocia, in contesti di povertà economica e culturale, di degrado morale e ambientale.
«Gli uccisi sono solo la punta dell'iceberg - sottolinea l'agenzia dei missionari -, in quanto è sicuramente lungo l'elenco degli operatori pastorali, o dei semplici cattolici, aggrediti, malmenati, derubati, minacciati, come quello delle strutture cattoliche a servizio dell'intera popolazione, assalite, vandalizzate o saccheggiate».

Myanmar. I reporter Wa Lone e Kyaw Soe Oo ancora in in carcere. Stavano documentando le accuse di "pulizia etnica" verso i Rohingya

Dire
Prorogata in Myanmar almeno fino al 10 gennaio la detenzione per due reporter dell'agenzia di stampa Reuters arrestati due settimane fa: lo ha annunciato oggi il giudice Ohn Myint, del tribunale di Yangon, secondo il quale "gli interrogatori proseguono".

Wa Lone e Kyaw Soe Oo, di 31 e 27 anni, sono stati arrestati dalla polizia il 12 dicembre con l'accusa di detenzione di documenti riservati. I due stavano indagando sulle accuse di "pulizia etnica" nei confronti delle comunità Rohingya da parte dell'esercito birmano. 

Secondo l'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, non sarebbe esclusa "la possibilità di un genocidio" a danno delle comunità, di religione musulmana.

Accuse respinte dall'esercito e dal governo birmano. "Dite a tutti i giornalisti di essere molto cauti" ha detto Kyaw Soe Oo in tribunale. "Tutto ciò è molto inquietante, non abbiamo fatto nulla di male". I due cronisti sono apparsi oggi per la prima volta dal giorno del loro arresto. 

Nei giorni scorsi nemmeno familiari e avvocati avrebbero potuto incontrarli. I fatti per i quali i reporter sono accusati sono punibili con 14 anni di carcere.

Unicef: nel 2017 bimbi scudi umani, schiavi, mutilati, usati nelle guerre

OnuItalia
New York - Iraq, Siria, Yemen, Nigeria, Sud Sudan e Myanmar non sono paesi per giovani: l’ultimo rapporto dell’Unicef sulla condizione globale dell’infanzia nel mondo decreta che nel 2017 i bambini che vivono in zone di conflitto hanno subito un numero impressionante di attacchi e che le parti in conflitto hanno palesemente ignorato le leggi internazionali per la protezione dei più vulnerabili.


In questi paesi, ma anche in altri meno sospettabili, i bambini continuano ad essere mutilati, stuprati, reclutati, sfruttati nel lavoro e sessualmente, usati come scudi umani, costretti ai matrimoni forzati, ridotti in schiavitù.
E’ scioccante il rapporto del fondo dell’Onu per l’Infanzia, ma anche sferzante verso quei paesi che non rispettano alcun diritto dell’infanzia e verso coloro che sempre più spesso fanno finta di non vedere.

Per Unicef in particolare quest’anno in Afghanistan sono stati uccisi circa 700 bambini nei primi 9 mesi dell’anno, mentre nel nord est della Nigeria e in Camerun, Boko Haram ha costretto almeno 135 minori ad agire in attacchi bomba suicidi, un numero 5 volte più elevato rispetto al 2016.

Nel resto dell’Africa, scrive l’Unicef, la situazione non è certo migliore: in Repubblica Centroafricana i bambini sono stati sistematicamente violentati, uccisi, reclutati con la forza come soldati. 

Nella Repubblica democratica del Congo, oltre 850.000 piccoli hanno dovuto lasciare le proprie case e 400 scuole sono state obbiettivo di attacchi deliberati. 
Secondo quanto si legge in un recente comunicato rilasciato dal Programma alimentare mondiale (Pam) le violenze nella regione del Kasai hanno costretto circa 1,4 milioni di persone ad abbandonare le loro abitazioni e aumentato vertiginosamente il tasso di malnutrizione 

In Somalia, circa 1800 minori sono stati costretti a combattere nei primi dieci mesi del 2017, in Sud Sudan è capitato dal 2013 a più di 19.000 bambini

E ancora in Iraq e in Siria, i bimbi sono stati usati come scudi umani, sono stati intrappolati sotto assedio, sono diventati obiettivi di cecchini e hanno vissuto intensi bombardamenti e violenze.

In Myanmar, prosegue il rapporto dell’Unicef, i bambini rohingya hanno sofferto e assistito a terribili e diffuse violenze, sotto attacco sono stati costretti a lasciare le loro case nello Stato di Rakhine, mentre i minori nelle aree di confine negli stati di Kachin, Shan e Kayin continuano a patire le conseguenze delle tensioni in corso tra le forze armate del Myanmar e i gruppi armati delle diverse etnie.
In Yemen, secondo dati verificati, dopo circa 1000 giorni di combattimenti, almeno 5000 bambini sono morti o sono stati feriti, ma il numero reale potrebbe essere molto più alto.
Oltre 11 milioni di bimbi hanno bisogno di assistenza umanitaria. 
Degli 1,8 milioni di minori che soffrono di malnutrizione, 385.000 sono malnutriti gravemente e rischiano di morire se non riceveranno urgentemente cure.
”I bambini sono stati obiettivi e sono stati esposti ad attacchi e violenze brutali nelle loro case, scuole e parchi giochi – ha detto Manuel Fontaine, Direttore dei Programmi di Emergenza dell’Unicef – Questi attacchi continuano anno dopo anno, ma non possiamo diventare insensibili. Violenze di questo tipo non possono rappresentare una nuova normalità”.
L’Unicef chiede a tutte le parti in conflitto di rispettare gli obblighi del diritto internazionale per porre immediatamente fine alle violazioni contro i bimbi e all’utilizzo delle infrastrutture civili – come scuole e ospedali – come obiettivi.

(@novellatop, 28 dicembre 2017)

giovedì 28 dicembre 2017

Ad Augusta arrivati 373 migranti soccorsi in mare a Natale tra loro donne e bambini.

Askanews
E’ arrivata ad Augusta (Siracusa) la nave Aquarius della ong SOS Mediterranee con a bordo 373 migranti, tra cui donne e bambini, soccorsi in mare due giorni fa. L’imbarcazione era diretta a Pozzallo, ma ha dovuto cambiare porto di sbarco a causa del maltempo.

I profughi sono stati soccorsi il 26 dicembre in due differenti operazioni e poi trasferiti a bordo dell’Aquarius: 234 persone da una nave militare spagnola del dispositivo Eunavformed (tra i naufraghi di 12 differenti nazionalità, 98 eritrei e 24 somali); 139 invece soccorse da un’altra ong, la Proactiva Open Arms, (tra loro anche famiglie e 7 bambini di meno di 13 anni; 17 nazionalità su un solo gommone, tra cui 41 pakistani, 43 sudanesi, 2 nepalesi).

Onu, dopo il voto contro di 128 Paesi su Gerusalemme scatta la rappresaglia di Trump, meno $ 285 milioni, ridotti fondi accoglienza rifugiati

La Stampa
Mantenuta la promessa di Nikki Haley: 285 milioni di dollari in meno. La mossa del presidente compatta i repubblicani verso il voto di Midterm

L’amministrazione Trump ha tenuto fede alla minaccia di tagliare i finanziamenti all’Onu, dopo la risoluzione approvata dall’Assemblea Generale che bocciava il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele. Lunedì l’ambasciatrice Haley ha annunciato che gli Usa ridurranno di 285 milioni di dollari il loro contributo al bilancio regolare del Palazzo di Vetro. Così però Washington punirà l’organizzazione, invece dei 128 Paesi che le hanno votato contro, esercitando lo stesso diritto alla difesa della loro sovranità nazionale, che Trump ha invocato per la sua decisione di trasferire l’ambasciata da Tel Aviv. 

Per il biennio 2018-2019, l’Onu ha approvato un bilancio da 5,4 miliardi di dollari. Secondo la regola che distribuisce i contributi in base al pil dei Paesi, gli Usa dovrebbero pagare il 22% di questa cifra, che nello scorso biennio era ammontato a 1,2 miliardi. Da qui verranno tolti 285 milioni, incidendo in particolare su viaggi, consulenze, e altre spese operative. Il taglio è stato negoziato domenica, e la Haley lo ha annunciato così: «Non consentiremo più che la generosità del popolo americano venga abusata o rimanga senza controllo. In futuro, potete essere certi che continueremo a cercare maniere per migliorare l’efficienza dell’Onu, proteggendo i nostri interessi». 

Il taglio è una rappresaglia politica, peraltro minacciata apertamente durante il dibattito su Gerusalemme, che ha poco a che vedere con le questioni economiche. L’amministrazione Trump, come quella di Bush figlio, ha un’avversione ideologica nei confronti dell’Onu per almeno tre ragioni: primo, la sua dottrina sovranista non accetta l’idea di organizzazioni multilaterali che possano imporre la loro volontà sul governo americano, anche se questo nel caso del Palazzo di Vetro è impossibile, perché avendo il potere di veto gli Usa possono bloccare qualunque risoluzione legalmente vincolante del Consiglio di Sicurezza che non condividono; secondo, le Nazioni Unite sono percepite come nemiche di Israele; terzo, l’organizzazione è fondamentalmente progressista e liberal, promuove principi come la salute riproduttiva o la lotta ai cambiamenti climatici, e quindi ha un’agenda generalmente avversa, se non opposta, a quella del governo Usa in carica. Quindi ogni occasione per attaccare l’Onu è apprezzata dalla base di Trump e può quindi giovare al partito repubblicano in vista delle elezioni del novembre 2018 per il rinnovo parziale del Congresso di Washington. 

I difetti di questa visione sono principalmente due. Il primo sta nella natura dell’organizzazione. Il Palazzo di Vetro è solo una struttura dove i 193 paesi del mondo si incontrano e discutono. Anche se venisse abbattuto, le posizioni globali resterebbero quelle. Su Gerusalemme, ad esempio, 128 paesi sarebbero contrari al riconoscimento. Senza l’Onu non avrebbero una piattaforma per farlo sapere, ma sul piano politico concreto il problema resterebbe invariato. Il secondo difetto sta nel fatto che le Nazioni Unite le avevano volute proprio gli Usa, per difendere i loro interessi. È vero, ad esempio, che Washington paga il 22% del bilancio, ma ciò significa che il resto del mondo paga il 78% rimanente. Con questi soldi, ad esempio, si finanzia l’assistenza ai rifugiati che scappano dalla Siria in Giordania, stretto alleato degli Usa nella lotta al terrorismo, che senza gli aiuti Onu sarebbe già esploso.  

Paolo Mastrolilli
Inviato a New York

Natale di morte in Yemen: oltre 130 vittime in 48 ore. Bombardati edifici per cercare di colpire un leader Houthi

Il Manifesto
Almeno 70 i civili uccisi, colpiti mercati e abitazioni. E per uccidere un leader Houthi l'Arabia saudita bombarda due edifici a Sana'a. L'inviato Onu vola ad Aden per rilanciare il dialogo, ma manca il partner: da Riyadh zero concessioni.


Non è previsto Natale nel paese più povero del Golfo, attraversato da una delle escalation militari peggiori degli oltre mille giorni di conflitto già trascorsi. Le agenzie, tra lunedì e ieri, battevano a ritmo continuo per tenere il conto dei bombardamenti aerei sauditi e del numero delle vittime in 48 ore di ordinario massacro in Yemen.

Un conto chiuso ieri - temporaneamente - dalla notizia dell'uccisione di sei contadini a Hodeida, costa occidentale, tra i più sanguinosi teatri della guerra in corso per la sua importanza strategica e commerciale. È qui che ha sede il principale porto del paese, insieme a quello di Aden, a sud, via di transito del greggio diretto in Europa.

Ed è qui che ieri all'alba un raid della petro-monarchia saudita ha centrato una fattoria a Khokhah, lasciandosi dietro sei vittime. Nelle stesse ore iniziava il tour regionale dell'inviato speciale delle Nazioni Unite per lo Yemen, Ismail Ould Cheikh Ahmed: a capo di un team di esperti, doveva atterrare ad Aden, capitale ufficiosa del governo yemenita in esilio (non è ancora chiaro quanto forzato) in Arabia saudita. Raggiungerà nei prossimi giorni (o settimane) Sana'a, capitale ufficiale, dal settembre 2014 controllata dal movimento Ansar Allah.

L'idea, dicono fonti interne, è (ri)lanciare un piano di pace, proporre alle parti un nuovo tavolo negoziale se "mostreranno una volontà sincera di raggiungere una soluzione politica pacifica". E la voragine si apre: se l'Onu si attende dagli Houthi un rallentamento delle rappresaglie contro le forze fedeli al defunto ex dittatore Saleh prima di mandare a Sana'a il proprio inviato, è a Riyadh che si deve guardare. È lì, nella capitale saudita, che la volontà sincera anelata dalle Nazioni Unite pare mancare del tutto.

Lo dimostra il bagno di sangue dei giorni di Natale e Santo Stefano: sarebbero oltre 70 le vittime civili e una sessantina i combattenti Houthi uccisi in raid della coalizione sunnita a guida Saud, piovuti su tutto il paese, su zone residenziali, campi militari e mercati cittadini. Una famiglia di nove persone, di cui cinque bambini, è stata sterminata a Sana'a da cinque missili caduti sulla loro casa.

Sempre nella capitale, due edifici nel quartiere di Hay Asr sono stati rasi al suolo uccidendo undici persone, di cui tre bambini e due donne; il target era l'abitazione di un leader di Ansar Allah, Mohammed al-Raimi. Ad Hodeida sono morti otto civili, di cui due donne; a Dhamar quattro persone. Bombe anche sui manifestanti scesi in piazza ad Arhab contro la decisione del presidente statunitense Trump di riconoscere Gerusalemme capitale di Israele. E ancora 18 morti a Hais, a sud di Hodeida; 35 a Tahita; 50 vittime (secondo la tv al-Masirah, vicina agli Houthi) e 50 feriti nella città di Al-Ta'iziyeh, provincia di Taiz (altro epicentro del conflitto), nel bombardamento di un mercato.

La popolazione yemenita paga il prezzo più alto delle diverse guerre che si combattono in Yemen. Quella degli Houthi che cercano di ottenere la partecipazione politica ed economica che i regimi precedenti gli hanno negato e che Riyadh non intende riconoscergli. Quella per procura tra Arabia saudita e Iran, con Teheran che osserva ufficiosamente in disparte l'incancrenirsi del conflitto voluto dai sauditi per ridefinire le influenze regionali. Quella dei secessionisti meridionali, pronti a vestire la casacca più opportuna pur di limitare l'avanzata Houthi e lavorare a una nuova separazione tra nord e sud. E quella di al Qaeda nella Penisola Arabica che sguazza nel vuoto di potere e mangia territori, un passo avanti e uno indietro, ma ormai capace di radicarsi facendo leva sui clan locali e le necessità belliche della coalizione saudita. Impossibile, in tale scenario, dare torto a Tim Lenderking, responsabile del Golfo per il Dipartimento di Stato Usa, che pochi giorni fa ha dato voce alla presunta visione trumpiana della crisi yemenita: "Non c'è soluzione militare - ha detto. C'è spazio per una partecipazione politica degli Houthi". Giusto. Peccato che abbia dimenticato di menzionare l'attivo ruolo militare statunitense nel paese, il sostegno indefesso al processo di armamento continuo dei Saud e l'accusa agli Houthi di essere meri proxy iraniani.

Chiara Cruciati

mercoledì 27 dicembre 2017

Panchine anti-clochard a Roma. Si afferma l'architettura ostile che elimina anche le briciole di accoglienza che la città offre.

Fanpage
Panchine antibivacco in via Giovanni Da Procida a Roma per tenere lontani i senza tetto. Ad installare i ‘dissuasori’ un comitato di cittadini che ha avuto in gestione l’area da parte del II Municipio.

È nota come ‘architettura ostile', defensive architecture, ed è quel fenomeno che vede l'installazione di strutture di arredo urbano volte a dissuadere alcuni comportamenti, e in particolare a tenere lontani cittadini considerati indesiderati, primi tra tutti i senza tetto. Spuntoni sui gradini e su ogni superficie dove ci si potrebbe sedere, sbarre per rendere impossibile sdraiarsi sulle panchine.

Anche in Italia sono ormai centinaia i comuni grandi e piccoli dove si trovano esempi di defensive architecture L'ultimo di questi è spuntato a Roma e vale la pena parlarne perché vede una sinergia di azione tra un soggetto di privati i cittadini (un comitato di cittadini contro il degrado) e l'amministrazione pubblica, in particolare il II Municipio. Siamo in via Giovanni da Procida, a due passi da piazza Bologna, un tranquillo quartiere borghese della capitale. Qui su alcune panchine sono stati installati dei braccioli di ferro ‘anti barbone'. Le sbarre (come si può vedere nella foto), creano tre sedute sulla panchina, rendendo impossibili sdraiarvici sopra, ma anche solo abbracciarsi.

Quando alcuni cittadini hanno cominciato a chiedersi chi e perché abbia installato le sbarre di dissuasione, è emerso come l'area verde dove si trovano le panchine è stata affidata dal II Municipio al Comitato Decoro Urbano, un gruppo di cittadini della zona riunitisi in associazione, che si sono fatti carico della manutenzione della piazzetta. 

A confermarlo su Facebook alla consigliera di Sinistra Italiana Giovanna Maria Seddaiu è la stessa presidente del II Municipio del Partito democratico Francesca Del Bello che, seppur non essendo sicura che l'installazione dei ‘dissuasori antibivacco' fosse autorizzata, mette le mani avanti parlando della necessità di restituire ‘sicurezza e decoro' alle piazze, e come questo non sia in contraddizione con accogliere i più deboli e svantaggiati.

"Provo solo una profonda tristezza e spero non sia una decisione dell’amministrazione municipale, al rientro dalle vacanze chiederò spiegazioni alla Presidente Francesca Del Bello e all’assessora alle Politiche sociali Cecilia D'Elia Riviello chiedendo che vengano immediatamente rimosse", ha dichiarato Seddaiu. Aspettando la risposta del II Municipio, la sensazione è che il ritiro dell'impegno dell'amministrazione pubblica dalla manutenzione e dal governo della città, lasci spazi a forme di gestione dello spazio pubblico che assomigliano a forme proprietarie, dove comitati (spesso composti da qualche decina di cittadini), assumono prerogative che non gli sono proprie (come la scelta di allontanare cittadini indesiderati da sotto le proprie finestre).

Così invece di valorizzare l'impegno volontario dei cittadini e delle associazioni, si finisce per privatizzare la manutenzione della città, con conseguenze non sempre prevedibili, come nel caso di via Giovanni da Procida. Dietro l'impegno contro il ‘degrado' troppo spesso si nasconde la volontà di allontanare i poveri da (in questo caso letteralmente) sotto casa propria, magari relegandoli in luoghi invisibili.

martedì 26 dicembre 2017

Cina, blogger attivista Wu Gan condannato a otto anni per «sovversione»

Corriere della Sera
Il blogger, noto per la sua ironia nelle campagne per i diritti umani, è stato anche privato dei diritti politici per cinque anni.



Un famoso blogger e attivista cinese, Wu Gan, noto per usare ironia e umorismo nelle sue campagne a favore dei diritti umani, è stato condannato a otto anni di prigione per «sovversione contro il potere dello Stato». Lo ha deciso il tribunale della città di Tianjin (al nord) privandolo anche dei diritti politici per cinque anni. 


Come era già successo all’inizio del processo, il 14 agosto scorso, la polizia ha impedito ai giornalisti di entrare nel tribunale.
L’attivista ha dichiarato il suo avvocato Ge Yongxi. «Sono grato al partito per avermi concesso questo alto onore», ha ironizzato Wu in tribunale dopo la lettura della sentenza. «Rimarrò fedele alla nostra aspirazione originaria, mi rimboccherò le maniche e mi impegnerò ancor di più», ha aggiunto l’oppositore giocando con note frasi che il presidente cinese Xi Jinping usa spesso per esortare i funzionari del Partito comunista a migliorare il loro lavoro.

La sentenza è arrivata nelle stesse ore in cui un altro notissimo avvocato cinese, Xie Yang - che nei mesi scorsi aveva denunciato di essere stato torturato durante la detenzione - è stato condannato per «sovversione», il reato spesso attribuito agli attivisti a favore dei diritti umani; in questo caso però il tribunale poi ha deciso di risparmiargli la pena detentiva.

Wu, 45 anni, noto su Internet con il soprannome «macellaio volgare» era stato accusato di «diffondere informazioni false su Internet, esagerare casi controversi e attaccare il regime». Era stato arrestato nel maggio 2015 dopo aver denunciato che quattro persone, accusate di un crimine, erano state torturate per estorcergli confessioni forzate (un anno più tardi i quattro erano poi stati assolti). 


Nell’agosto 2016 era stato nuovamente arrestato e aveva sostenuto di essere stato torturato. Wu era diventato famoso nel 2009 denunciando il caso di Deng Yujiao, una giovane donna cinese che uccise un politico locale nella provincia dell’Hubei perché aveva cercato di abusare sessualmente di lei. Il caso era diventato famosissimo, aveva suscitato un’ondata di empatia con il mondo femminile nell’opinione pubblica cinese e aveva anche ispirato il film «Il tocco del peccato» del regista cinese Jia Zhangke, premiato al Festival di Cannes 2013 per la migliore sceneggiatura. Wu ha anche lavorato come consulente nello studio legale Fengrui, diventato una delle principali vittime della campagna di repressione lanciata dal regime, a partire dal 2015, contro gli avvocati che difendono casi relativi alla lesione dei diritti umani. Uno degli avvocati dello studio, Wang Yu, ha difeso Wu dopo il suo primo arresto, ma poi è stata lei stessa arrestata.

Ex militare e guardia di sicurezza, Wu ha cominciato il suo attivismo dieci anni fa, e si sospetta che suo padre, Xu Xiaoshun, sia stato condannato nel 2016 per frode come punizione per le attività di suo figlio. Il crimine di sovversione contro il potere dello Stato è spesso attribuito a dissidenti, ed è stato per esempio quello che è costato una condanna di 11 anni di carcere allo scrittore e vincitore del premio Nobel Liu Xiaobo, che è morto nel luglio di quest’anno. Anche quella sentenza, nel 2009, fu emanata il 25 dicembre, durante le festività di Natale: il che fa sospettare che il regime comunista approfitti di queste feste, in cui ci sono meno giornalisti stranieri nel Paese, per definire i processi più controversi.

Egitto, esecuzione di massa, a 15 condannati a morte per terrorismo.

RSI News
In Egitto sono state eseguite 15 condanne a morte per impiccagione, nei confronti di persone accusate di terrorismo. 

Le autorità del Cairo riferiscono che si tratta di guerriglieri attivi nella Penisola del Sinai e condannati per aver ucciso agenti delle forze di sicurezza in un attacco del 2013 che causò 9 vittime.

lunedì 25 dicembre 2017

Papa Francesco, vigilia di Natale per i migranti. "E' Gesù a darci la cittadinanza"

Quotidiano.net
L'omelia dedicata all'accoglienza: "Obbligati a lasciare la propria terra, come Giuseppe e Maria".
Il presepe di Castesano contestato da politici di destra e benedetto dall'arcivescovo di Bologna 
E' Gesù "a darci il diritto di cittadinanza". Risuonano forti le parole di Papa Francesco nella notte di Natale. Un'omelia dal sapore politico perché pronunciata nei giorni che seguono il 'naufragio' della legge sullo 'ius soli' in Parlamento. 
"Maria e Giuseppe, per i quali non c'era posto, sono i primi ad abbracciare colui che viene a dare a tutti noi il documento di cittadinanza", ha detto il Pontefice durante la Messa, riferendosi a Cristo, "colui che nella sua povertà e piccolezza denuncia e manifesta che il vero potere e l'autentica libertà sono quelli che onorano e soccorrono la fragilità del più debole".
Per Bergoglio la "fede del Natale", ci porta a "riconoscere Dio presente in tutte le situazioni in cui lo crediamo assente e ci spinge a dare spazio a una nuova immaginazione sociale, a non avere paura di sperimentare nuove forme di relazione in cui nessuno debba sentire che in questa terra non ha un posto". 

Frasi eplicite con cui il Papa rinnova il suo appello alla solidarietà sociale e in particolare all'accoglienza dello straniero. I migranti di oggi, dice Francesco, sono immagine dei migranti di ieri. Fra loro anche Giuseppe e Maria. "Nei passi di Giuseppe e Maria si nascondono tanti passi. Vediamo le orme di intere famiglie che oggi si vedono obbligate a partire. Vediamo le orme di milioni di persone che non scelgono di andarsene ma che sono obbligate a separarsi dai loro cari, sono espulsi dalla loro terra".

La Madonna e il falegname "dovettero lasciare la loro gente, la loro casa, la loro terra e mettersi in cammino per essere censiti. Un tragitto per niente comodo né facile per una giovane coppia che stava per avere un bambino: si trovavano costretti a lasciare la loro terra. Nel cuore erano pieni di speranza e di futuro a causa del bambino che stava per venire; i loro passi invece erano carichi delle incertezze e dei pericoli propri di chi deve lasciare la sua casa".

Nella messa della Vigilia in San Pietro - celebrata con centinaia tra cardinali, vescovi e sacerdoti - Bergoglio ha anche ricordato le parole di Wojtyla pronunciate durante l'inaugurazione del Pontificato. "Ce lo ricordava San Giovanni Paolo II: 'Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo. Natale è tempo per trasformare la forza della paura in forza della carità - ha detto Francesco - La carità che non si abitua all'ingiustizia come fosse naturale, ma ha il coraggio, in mezzo a tensioni e conflitti, di farsi 'casa del pane', terra di ospitalità".

Yazidi dimenticati nei campi profughi in Iraq. La storia di Aziz di 23 anni.

The Submarine
La testimonianza di Aziz, un ragazzo yazida di ventitré anni che vive nel campo profughi di Bersive, nel Kurdistan iracheno, insieme alla moglie e al figlio di un anno.


Aziz fa parte della minoranza religiosa yazida, perseguitata da decenni. È stato costretto ad abbandonare la sua casa sul monte Sinjar quando Daesh ha occupato la regione, il 3 agosto 2014. 

Oltre tremila yazidi, anche bambini, sono stati uccisi, mentre donne e ragazze sono state rapite e violentate. I pochi sopravvissuti hanno cercato riparo sul Monte Sinjar, senza cibo, acqua né vestiti. Aziz racconta che ha vissuto per una settimana dormendo all’aria aperta, senza mangiare né dormire. I kurdi, insieme all’aiuto degli uomini yazidi superstiti, sono riusciti ad aprire un corridoio fra il monte Sinjar e la Siria, per mettere in salvo i civili bloccati sulle pendici del monte per l’assedio di Daesh.

Una volta arrivati in Siria, gli yazidi sopravvissuti sono stati trasferiti in Kurdistan iracheno, in alcuni campi profughi. Aziz vive nel campo di Bersive da tre, vicino alla città di Zacho. L’assistenza umanitaria nel campo, però, è insufficiente e le condizioni di vita sono precarie.

Aziz ci racconta la situazione del campo, spiegando che mancano i servizi di base. Le famiglie yazide vivono in tende, sia d’estate sia in inverno, soffrendo ogni temperatura. I servizi igienici sono condivisi e non sono adeguati. Specialmente in estate i rifugiati di Bersive sono abbandonati a se stessi. D’inverno, per scaldarsi, le famiglie accendono fuochi bruciando quello che trovano e molte volte nascono incendi.
La mattina del 23 dicembre, per esempio, diverse tende sono andate a fuoco nel campo e questa volta, per fortuna, non è morto nessuno.

Le condizioni del campo erano già state denunciate da un rapporto di Amnesty International a febbraio 2015, in cui si diceva che il campo di Bersive ospitava circa 10.000 persone in tende non isolate e che, quando pioveva, l’acqua le allagava. Inoltre, Amnesty evidenziava la mancanza di acqua calda e il numero di bagni proporzionalmente non adeguato agli standard delle crisi umanitarie.

Bersive non è l’unico campo profughi in Kurdistan iracheno. Per esempio, il campo di Baharka, nella periferia di Erbil, è il più conosciuto e ospita rifugiati iracheni e palestinesi in condizioni difficili.

I campi profughi non riescono a ospitare tutti gli sfollati iracheni e i profughi provenienti dalla Siria e per questo motivo nascono molti campi informali. Chiaramente, senza avere i servizi adeguati. Molte persone vivono in edifici abbandonati, in costruzione oppure in campi non ufficiali, senza acqua né elettricità e in condizioni igienico-sanitarie davvero scarse. 

In inverno le temperature nella regione sono molto basse e non avendo coperte e vestiti a sufficienza per scaldarsi, i profughi sono costretti ad accendere fuochi con quello che trovano, non avendo neanche il carburante adatto. Bruciano carta, plastica, rischiando di ammalarsi per i fumi inalati. La maggior parte dei bambini non va a scuola. Pochi seguono le lezioni fornite dalle ONG presenti nei campi, mentre molti sono costretti a lavorare per aiutare le proprie famiglie.
Le uniche speranze vengono date dai civili che portano aiuti.

Aziz racconta che gli yazidi che vivono a Bersive hanno paura e non si sentono al sicuro, perché la loro minoranza è stata perseguitata più volte, per motivi religiosi, e questo potrebbe accadere di nuovo. Per cercare di andare avanti e sopravvivere alla condizione in cui si trova, il ragazzo lancia continui appelli sui social network per chiedere aiuto alle grandi organizzazioni e per dar voce a una minoranza troppo spesso dimenticata. Infatti, le organizzazioni che si occupano di fornire assistenza agli yazidi sono poche. 

Ricordiamo Yazda, l’organizzazione no-profit che attua opere di sensibilizzazione per dar voce al genocidio yazida e sostenere la minoranza.

domenica 24 dicembre 2017

Buon Natale!

Blog Diritti Umani - Human Rights

AUGURI DI BUON NATALE 
A TUTTI I LETTORI DEL BLOG

sabato 23 dicembre 2017

Spagna - La sanità non è un diritto per tutti. No cure agli irregolari

Ansa
La Corte costituzionale spagnola ha dichiarato incostituzionale il decreto legge del governo della comunità di Valencia che consente l'accesso universale alla sanità anche agli immigrati in situazione irregolare.


Secondo la sentenza dell'alta corte, riferiscono i media iberici, il decreto approvato nel 2015 dal governo regionale presieduto dal socialista Ximo Puig invade le competenze del governo centrale. Quest'ultimo, in particolare con il decreto legge 16/2012, in piena crisi economica e finanziaria escluse dall'assistenza sanitaria 870mila 'sin papeles'. In risposta alla normativa, Valencia e le comunità delle Baleari, di Aragona, della Cantabria e dei Paesi baschi modificarono la legislazione regionale per garantire l'assistenza sanitaria ai migranti irregolari rimasti fuori dal sistema sanitario nazionale. Per l'assistenza sanitaria ai 30mila migranti in situazione irregolare stimati nella regione, la comunità di Valencia ha stanziato 6,05 milioni di euro, pari allo 0,1% del Bilancio dell'assessorato alla sanità previsto per il 2018. La sentenza dell'alta corte mette a rischio l'assistenza a decine di migliaia di irregolari in tutte le regioni che attualmente la erogano.

Il presidente Ximo Puig,in dichiarazioni ai media, ha assicurato che il governo regionale continuerà a garantire l'universalità delle prestazioni sanitarie "attraverso i meccanismi che saranno necessari". "Qualunque persona che entrerà in un centro sanitario o in un ospedale di Valencia sarà assistita e in nessun caso gli verrà passata la fattura sanitaria", ha assicurato. "Tutti hanno diritto alla sanità, oggi e nel futuro", ha aggiunto il governatore.

La Generalitat starebbe valutando strumenti giuridici per blindare l'assistenza sanitaria universale e aggirare il veto di incostituzionalità, inclusa la possibilità di una "sovvenzione personalizzata". Puig non ha risparmiato critiche all'esecutivo centrale presieduto da Mariano Rajoy: "Il governo di Spagna sta usando la via giudiziaria per giustificare comportamenti ingiustificabili", ha osservato. "E la sentenza della Corte costituzionale non è giusta né umana", ha concluso.

Da parte sua, Amnesty International, assieme al Centro per i Diritti Economici e Sociali e a Medici del Mondo, denuncia che la sentenza della Corte costituzionale contravviene agli obblighi fondamentali di diritti umani, è "regressiva, discriminatoria e mette a rischio la vita delle persone escluse dal sistema sanitario dal decreto legislativo 12/2012".

Paola Del Vecchio

Migranti: “Oltre 400 bambini morti nel Mediterraneo centrale nel 2017” - Arrivati 15mila minori non accompagnati.

La Porzione
"Le migrazioni, specialmente per i bambini - dichiara Ted Chaiban, direttore dei programmi dell’Unicef - non devono essere pericolose. Le politiche, le pratiche e i comportamenti che espongono i bambini migranti a pericoli possono e devono cambiare"
È quanto denunciato dall’Unicef, in occasione della Giornata internazionale per i diritti dei migranti.
Due minori non accompagnati giunti sulle coste dell'Europa - Nuovi angeli
«Solo quest’anno, circa 15 mila bambini non accompagnati hanno raggiunto l’Italia via mare, percorrendo la pericolosa rotta del Mediterraneo centrale, dalla Libia all’Italia. E dall’inizio dell’anno, oltre 400 bambini sono morti nel tentativo di compiere questo viaggio, mentre in migliaia sono stati vittime di abusi, sfruttamento, schiavitù e detenzione mentre transitavano attraverso la Libia».
Secondo l’organizzazione umanitaria, il 2018 potrebbe essere un anno decisivo per i bambini migranti, se i Paesi seguissero buone pratiche per assicurare la loro sicurezza e il loro benessere. Secondo le stime, circa 50 milioni di bambini nel mondo stanno compiendo un percorso migratorio: «Gran parte di questa migrazione è positiva – sottolinea l’Unicef – e i bambini e le loro famiglie si stanno spostando in maniera volontaria e sicura. Ma l’esperienza migratoria per milioni di bambini non è volontaria e sicura, ma è piena di rischi e pericoli».

Infatti, circa 28 milioni di bambini sono stati allontanati dalle loro case a causa di conflitti. In molti casi, i bambini e le famiglie senza percorsi sufficientemente sicuri e regolari per migrare sono costretti a rivolgersi ai responsabili di traffico, tratta e a intraprendere rotte informali pericolose che sottopongono la loro sicurezza a un enorme rischio: «Le migrazioni, specialmente per i bambini – dichiara Ted Chaiban, direttore dei programmi dell’Unicef – non devono essere pericolose. Le politiche, le pratiche e i comportamenti che espongono i bambini migranti a pericoli possono e devono cambiare. Il 2018 è il momento per farlo e il Global Compact per le migrazioni è un’opportunità».

Tra le richieste dell’Unicef, quelle di proteggere i bambini rifugiati e migranti, in particolar modo quelli non accompagnati, da sfruttamento e violenza, porre fine alla detenzione dei bambini richiedenti lo status di rifugiato o migranti, tenere unite le famiglie, consentire ai bambini rifugiati e migranti di studiare e dare loro accesso a servizi sanitari e di altro tipo,di qualità, promuovere misure che combattano xenofobia, discriminazioni e marginalizzazione nei Pesi di transito e di destinazione.

Davide De Amicis

Pena di morte: Alabama, fissata esecuzione per malato terminale Hrw, 'ha vene compromesse', iniezione letale violerebbe diritti

ANSA
La Corte Suprema dell'Alabama ha fissato al 22 febbraio l'esecuzione della condanna a morte inflitta ad un detenuto di 61 anni, Lee Hamm, malato terminale di tumore al sistema linfatico e alla testa.

Lo rende noto Human Rights Watch, aggiungendo che i legali di Hamm hanno presentato appello presso un tribunale federale di Birmingham, Alabama, affermando che l'esecuzione con una iniezioni e letale costituirebbe una punizione crudele e insolita, in violazione dei diritti di Hamm in base all'Ottavo emendamento riguardo alle sue condizioni di salute che hanno reso le sue vene "seriamente compromesse". 

Hamm e' stato giudicato colpevole dell'omicidio di un uomo, morto nel corso di una rapina avvenuta nel 1987. L'Alabama, scrive ancora Hrw, e' uno dei 31 stati Usa che ancora applica la pena capitale. Dall'inizio del 2017, 23 persone in otto stati Usa sono stati messi a morte, tutti con iniezione letale.

venerdì 22 dicembre 2017

Migliaia di rifugiati somali costretti a lasciare il campo di Dadaab in Kenya per tornare nei rischi della guerra in Somalia

Presenza
Migliaia di rifugiati somali costretti a lasciare il campo di Dadaab in Kenya stanno affrontando siccità, carestia e un nuovo ciclo di sfollamenti in Somalia.


I rimpatri da Dadaab hanno conosciuto un’accelerazione da quando, nel maggio 2016, le autorità keniane hanno annunciato l’intenzione di chiudere il campo. In Somalia, i ricercatori di Amnesty International hanno incontrato persone rientrate da Dadaab e attualmente residenti in città sovraffollate o in campi per sfollati.

Molti di loro hanno affermato di aver lasciato Dadaab a causa del declino dei servizi e delle forniture di cibo o delle minacce delle autorità keniane che sarebbero stati comunque costretti al rimpatrio e senza alcuna assistenza.

“Nel suo ostinato intento di rimpatriare i rifugiati, il governo del Kenya ha contribuito a buona parte dei piccoli passi avanti in termini di sicurezza in Somalia, ma la realtà è che la maggior parte del paese è ancora piagata da violenza e povertà”, ha dichiarato Charmain Mohamed, direttore del programma Diritti dei rifugiati e dei migranti di Amnesty International.

“I rifugiati un tempo fuggiti dalla siccità, dalla carestia e dalla violenza in Somalia sono obbligati a rientrare nel mezzo di una grave crisi umanitaria. Molti di loro non riescono ancora a tornare nei luoghi di origine e si trovano nella stessa disperata situazione da cui erano scappati”, ha sottolineato Mohamed.

“Fino a quando non vi sarà un significativo miglioramento della situazione umanitaria, il governo del Kenya dovrà continuare a fornire protezione ai rifugiati somali. Altrimenti rischierà di violare gli standard internazionali secondo i quali i rifugiati possono essere rimpatriati solo quando la loro sicurezza e la loro dignità saranno garantire”, ha aggiunto Mohamed.

L’ampia struttura di Dadaab, nel Kenya orientale, ospita attualmente circa 240.000 persone. Nel maggio 2016 il governo keniano ha annunciato che il campo sarebbe stato chiuso per motivi di sicurezza e per l’insufficiente sostegno da parte della comunità internazionale. Questo annuncio ha provocato una grande accelerazione nei rimpatri, fino a quando nel febbraio 2017 l’Alta corte del Kenya ha dichiarato illegale la chiusura del campo.

Nel novembre 2016 Amnesty International aveva documentato come funzionari del governo keniano stessero minacciando i rifugiati per spingerli a lasciare Dadaab. L’organizzazione per i diritti umani aveva sollevato forti dubbi sulla “volontarietà” dei rimpatri.

Il disastro dello Yemen - Le gambe di questa bambina hanno un nome: fame!

Globalist
Le parole sono parole. Le immagini, a volte, spiegano più di tante parole. E le immagini mostrano le gambe di una vecchia, che in realtà è una bambina piccola vittima della malnutrizione nello Yemen. Un'immagine scattata a Hodeida, in un centro di assistenza.
Le gambe di una bambina in Yemen colpita da malnutrizione 
A 1.000 giorni dall`inizio di una guerra brutale, lo Yemen è a un passo dalla carestia, con una popolazione che sembra condannata a morire di fame, per il blocco dei principali porti a nord, che impedisce l`ingresso di cibo, carburante e medicine. 

E` l`allarme lanciato oggi da Oxfam attraverso il report La crisi in Yemen: 1000 giorni di disastri.

Per sopravvivere ormai oltre l`80% della popolazione del paese (22,5 milioni di persone) dipende dall`importazione di derrate alimentari e, da quando la coalizione a guida saudita ha imposto il blocco, solo un terzo del cibo necessario raggiunge una popolazione ridotta allo stremo: più di 7 milioni di persone non fanno un pasto decente da mesi.
Una catastrofe umanitaria, in cui i prezzi dei beni alimentari sono aumentati del 28% da inizio novembre, impedendo definitivamente l`accesso al cibo alle fasce più povere della popolazione, già duramente colpite dal collasso economico. Il tutto mentre per la mancanza di carburante, si vanno esaurendo le scorte di acqua potabile, vitali in un paese colpito dalla più grave epidemia di colera del mondo.

"Per 1.000 giorni lo Yemen ha subito pesantissimi bombardamenti con nuove e sofisticate armi. Ma quel che impressiona oggi è lo stato di assedio medievale in cui si trova l`intero paese, usato come arma di guerra. - dichiara Paolo Pezzati, policy advisor per le emergenze umanitarie di Oxfam Italia - non c`è alcuna plausibile giustificazione per negare alla popolazione cibo, carburante e medicine. È una barbarie priva di decenza e senso di umanità".

I bambini subiscono l`impatto peggiore del conflitto e, con il proseguire dei combattimenti, il loro futuro appare sempre più tetro. In base alle stime, 4,1 milioni di bambini non sanno se potranno proseguire gli studi con 1.600 scuole distrutte e adibite a rifugio per le famiglie sfollate o usate dalle parti in conflitto.
Anche i matrimoni precoci sono aumentati dall`inizio della guerra: tra il 2016 e il 2017 è salita dal 52% al 66% la percentuale di ragazze al di sotto dei 18 costrette a sposarsi. Per ridurre il numero di familiari a carico, o avere una fonte di reddito per nutrire il resto della famiglia e pagare i debiti, vengono date in sposa anche bambine di otto-dieci anni.

In quasi tre anni di guerra sono stati uccisi quasi 5.300 civili, 3 milioni di persone sono state costrette a fuggire dalle loro case e circa un milione di persone sono state contagiate dal colera. Un`indicibile sofferenza di cui Oxfam ritiene responsabili tutte le parti in conflitto, colpevoli di gravi violazioni del diritto internazionale umanitario.


"Finalmente anche i paesi che hanno alimentato la distruzione dello Yemen, attraverso la vendita di armi, cominciano a manifestare preoccupazione per il proseguimento del conflitto. - continua Pezzati - Ma adesso le parole devono tradursi in azioni concrete che mettano fine al blocco imposto sul paese e avviino un vero processo di pace".

Dall`inizio di novembre, non è stato consentito l`import di combustibile - essenziale per il trasporto di alimenti e altri beni vitali in tutte le aree del paese - in nessuno dei principali porti, mentre la più grande stazione di rifornimento del paese è chiusa dallo scorso marzo. In questo quadro anche i porti di Al-Hudaydah e Saleef - già gravemente danneggiamenti dai bombardamenti - sembrano essere a rischio di imminenti attacchi, in particolare in queste ore verso il porto di Al-Hudaydah. Si tratta di due punti di accesso vitali per due terzi della popolazione, da cui passano l'80% delle importazioni e dov`è transitato solo l`anno scorso l'85% del grano entrato nel paese.

giovedì 21 dicembre 2017

Iraq. Hrw: si teme sparizione forzata per oltre 350 detenuti nel Kurdistan

Nova
Oltre 350 detenuti nella zona di Kirkuk, nella regione del Kurdistan iracheno, potrebbero essere stati vittime di sparizione forzata. Lo riporta oggi l'organizzazione non governativa Human Rights Watch (Hrw). Le presunte vittime sono prevalentemente arabi sunniti sgomberate a Kirkuk o residenti nella città, detenuti dalle forze di sicurezza del governo regionale, Asayish, per sospetta di affiliazione allo Stato islamico. 
Prigionieri condotti nel carcere di Kirkuk
Quando le forze irachene centrali hanno ripreso controllo della zona di Kirkuk nello scorso ottobre, secondo dati di Hrw, i prigionieri non si trovavano più nelle strutture di detenzione locali.

Lo scorso novembre si sono quindi svolte dimostrazioni a Kirkuk, in seguito alle quali il primo ministro iracheno, Haider al Abadi, ha ordinato un'inchiesta sui detenuti, inviando una delegazione a Kirkuk. L'ex responsabile del comitato di sicurezza del Consiglio provinciale di Kirkuk, Azad Jabari, ha tuttavia negato che le Asayish siano responsabile delle sparizioni, accusandone invece le forze statunitensi precedentemente presenti nella zona; Jabari ha sottolineato che gran parte delle sparizioni sarebbe avvenuta infatti dal 2003 al 2011.

Le forze di sicurezza del governo curdo Asayish avrebbero tuttavia consegnato alle forze irachene locali, in seguito a tali dichiarazioni, 105 detenuti che da Kirkuk erano stati trasferiti a Sulaymaniyya, come comunicato a Hrw dal governatore di Kirkuk, Rakkan Said. 

26 persone intervistate da Hrw tra novembre e dicembre sarebbero inoltre testimoni di 27 arresti di arabi sunniti, avvenuti a Kirkuk ad opera di Asayish dal 2015 in avanti; gli intervistati hanno affermato di non essere più riusciti a comunicare con gli arrestati e di non aver ricevuto alcuna informazione ufficiale su di loro né da Asayish né da altre forze. 

Lo scorso 18 dicembre Hrw ha contattato Dindar Zebari, presidente dell'Alto comitato del governo regionale curdo per la Valutazione sui rapporti sulle organizzazioni internazionali, con l'intento di ottenere notizie circa i detenuti nella zona di Kirkuk. Zebari non avrebbe fornito risposte.

A piedi nudi nel ghiaccio: è sulle Alpi l’ultima rotta dei migranti dove il gelo è pericoloso quanto le onde del Mediterraneo.

Corriere della Sera
E’ sulle Alpi, al confine tra Francia e Italia, che passa la nuova rotta, dove si è registrato un incremento dei passaggi e dove il gelo è pericoloso quanto le onde del Mediterraneo.

Migranti su un sentiero della Alpi nel tentativo di attraversare il confine verso la Francia
Neri nel bianco. Le infradito affondate. Le magliette fradicie. Le mani di ghiaccio. Una settimana fa hanno trovato cinque ivoriani a meno cinque, sotto la tettoia d’una centrale elettrica, quota milleotto, ottanta centimetri di neve, abbracciati nell’illusione di non congelarsi. 

Un’altra notte, c’era una donna incinta col bambino in braccio. Ormai passano al ritmo di trenta al giorno. Basta il WhatsApp d’uno che ce l’ha fatta, e dai centri d’accoglienza italiani scappano tutti. Non si passa al Brennero? Niente Ventimiglia? 

La nuova rotta è scalare i varchi del Piemonte e scendere le vallate di là: 693 nel 2015, dieci volte di più nel 2016, erano già 3.500 quest’estate. Alpi Express. Non c’è bisogno di scafisti della neve — solo qualcuno si fa imbrogliare dai passeur, «200 euro e ti porto io» —, tutti si fidano di qualche volontario o dei valligiani di buon cuore: a Névache, il paese s’è organizzato con cibo e coperte, facendo arrabbiare il governo di Parigi («perché mettete a loro disposizione i punti di ristoro?») e ricevendo invece il sostegno di molte ong («perfino ai gatti randagi si offre una ciotola d’acqua»). 

La Lampedusa delle Cozie è la stazione di Briançon, 10 km oltralpe. Il mare per arrivarci è l’immenso bianco del Monginevro. Scavalla tutta quell’Africa che non ha mai visto un fiocco di neve: «Non pensavo facesse così freddo», ha detto uno a chi lo soccorreva. Quando quassù svernerà, spunterà qualche cadavere? «È già successo gli anni scorsi — dice Michele Belmondo, capo della Croce Rossa in val di Susa —, e i migranti erano molti meno. Mi ricordo che a uno han dovuto amputare gli arti in cancrena…».

Snow People. Dalla Costa d’Avorio ai costoni delle montagne, ci provano e ci riprovano. «Non è facile bloccarli — ammette un agente di Polizia italiano —, perché non è gente che vuole essere soccorsa, come nel Mediterraneo. Si nascondono, scappano. Senza rendersi conto di rischiare la vita»

Dalla provinciale del Melezet ai sentieri che salgono fin sulle cime, assieme a qualche cartello artigianale che indica la Francia, hanno appeso manifestini con la scritta «danger» e l’allerta in cinque lingue: «La montagna è pericolosa d’inverno, c’è rischio di morire. Per favore, non provarci».Inutile. Molti hanno già chi li aspetta in Francia. Tutti sanno d’avere 72 ore per giocarsi l’Europa: o la va, o si ritorna veloci ai centri d’accoglienza che, per la legge italiana, entro tre giorni sono tenuti a riprendersi i fuggiaschi. Nessuno rinuncia alla chance. 

La gendarmeria francese non va troppo per il sottile, come già a Ventimiglia. A Briançon, gli autisti dei pullman navetta per Salice d’Ulzio hanno denunciato d’essere stati bloccati dagli agenti e obbligati a caricare gratis i migranti acciuffati: senza identificazione, senza un documento, basta che li riportino al più presto in Italia... 

«Non vogliamo fare i passeur — dicono —, il nostro contratto non prevede che dobbiamo caricare queste persone. Dov’è la nostra sicurezza?». 

Le Alpi stanno diventando il secondo Mediterraneo, hanno protestato ieri trecento volontari sui sentieri della nuova rotta. A un certo punto si son dovuti levare le ciaspole, hanno chiamato i soccorsi: c’era un gabonese, semiassiderato, sotto un abete.

Palermo - Matrimoni forzati a bambine immigrate da 11 a 16 anni e scompaiono da scuola

La Sicilia
Bambine e ragazzine straniere, fra gli undici e i sedici anni, che improvvisamente spariscono dai banchi di scuola per essere costrette da genitori e famiglie a matrimoni combinati, spesso nel loro paese d’origine.



Sono i “matrimoni forzati”, un fenomeno che a Palermo riguarda soprattutto la comunità del Bangladesh e che ancora oggi rimane sommerso.

"Queste ragazzine spariscono dalla scuola e si sospetta che siano mandate nel paese d’origine della famiglia per sposare uomini più grandi – ha raccontato all’Adnkronos il procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni di Palermo Maria Vittoria Randazzo - E’ accaduto che una ragazzina si sia rivolta alla polizia presso il tribunale dei minorenni presentando una denuncia, ma si tratta di un caso". Negli ultimi sei-sette anni, spiega il procuratore, "i casi si contano sulle dita di una mano. Saranno quattro o cinque denunce, ma noi siamo certi che i casi siano veramente tanti".

Un fenomeno di cui è difficile scoprire i numeri. Le ragazzine, nella maggior parte dei casi vere e proprie bambine, si ribellano con difficoltà alle famiglie. "Ci vuole molto coraggio - sottolinea Randazzo - Significa tagliare i ponti con i genitori ma anche con tutta la comunità di cui fanno parte. La ragazzina bengalese che si è rivolta alla polizia ha avuto il coraggio di affermare il diritto alla sua libertà individuale".

Minorenni obbligate a rinunciare alla loro infanzia, che vengono portate via da scuola, che vedono violato il loro diritto allo studio, insieme ad altri diritti fondamentali. "Queste ragazzine sono minorenni, spesso hanno meno di 14 anni e vengono costrette a sposarsi - evidenzia il procuratore - Si può parlare anche di violenza sessuale dato che per la legge italiana un minore fino a 14 anni non è in grado di esprimere un consenso".

E su questa emergenza a Palermo si insedierà un tavolo che si occuperà proprio delle bambine straniere costrette a lasciare la scuola per matrimoni combinati. Si tratta dell’Osservatorio sul diritto allo studio e sul diritto all’eguaglianza ai diritti educativi costituito nell’ambito della Conferenza permanente provinciale. Un organismo voluto dalla Prefettura di Palermo e di cui fanno parte il Tribunale dei minori, l’Ufficio scolastico provinciale, l’Osservatorio sulla Dispersione scolastica Usr Sicilia, l’Asp, il Comune, l'assessorato regionale alla Famiglia, il Garante per l’infanzia e il presidente della Consulta delle Culture di Palermo.

"Sarà un tavolo coordinato dalla Prefettura – ha spiegato il prefetto di Palermo Antonella De Miro - il cui compito sarà quello di condividere i dati e le informazioni a disposizione per farne il punto di partenza per l’analisi del fenomeno e per l’individuazione di iniziative di prevenzione a tutela del minore. Ci sono bambine che spariscono improvvisamente dalle classi e i genitori raccontano che sono andate a trovare i parenti nel loro paese d’origine mentre in realtà sono state costrette a sposarsi".

"I diritti umani riguardano tutti. Partiamo oggi dai bambini perché loro saranno gli uomini di domani - ha sottolineato il prefetto De Miro - Il rispetto dei diritti umani è fondamento della società civile e anche della pace". Nella giornata dedicata ai Diritti umani dei minori, la Prefettura di Palermo ha voluto coinvolgere anche le scuole: cinque elementari e medie e i due licei Benedetto Croce e Regina Margherita, particolarmente impegnati in attività didattiche a tutela del diritto allo studio e all’uguaglianza delle opportunità educative. Gli studenti hanno presentato alcuni progetti realizzati nell’ambito delle iniziative Unicef e raccontato alcune esperienze di integrazione socio-lavorativa dei minori stranieri.

Per l’assessore regionale all’Istruzione Roberto Lagalla "la dispersione scolastica è una criticità assoluta del sistema regionale" e l’assessorato "sta pensando a mettere in campo azioni sperimentali sui quartieri considerati maggiormente a rischio. E’ giunto il momento - sottolinea - di pensare ad interventi straordinari. E’ tempo di lavorare concretamente con la scuola e con le istituzioni per sensibilizzare e fidelizzare i bambini al mondo della scuola, fornendo anche una continuità educativa nelle ore extra scolastiche perché solo attraverso questa prossimità con le famiglie e i ragazzi potremmo ottenere dei risultati di contenimento di un fenomeno così grave".

mercoledì 20 dicembre 2017

USA. Il lento declino della pena di morte. Diminuiscono condanne, esecuzioni e il consenso nella gente.

agenziaradicale.com
Il Death Penalty Information Center ha pubblicato il suo tradizionale "Rapporto di fine anno", evidenziando che sia le condanne a morte che le esecuzioni rimangono vicine ai minimi storici, mentre raggiunge il minimo storico degli ultimi 45 anni nei sondaggi il consenso che i cittadini danno alla pena di morte. 


Per il 17° anno consecutivo è diminuito il numero complessivo dei detenuti nei vari bracci della morte Usa, e ancora una volta i detenuti che hanno lasciato il braccio della morte per proscioglimenti, condanne ridotte dopo ricorsi, e morte naturale sono di più di quelli che lo hanno lasciato per morte da esecuzione.

Tutto questo conferma il declino, lento ma costante, del sistema della pena di morte negli Usa. Il direttore del DPIC, Robert Dunham, ha individuato nei cambiamenti che stanno avvenendo nella Harris County (Texas) un paradigma da evidenziare. La Contea di Harris è la contea della capitale del Texas, Houston, da sempre è considerata "La Capitale" della pena di morte. Da sola ha giustiziato 126 persone da quando la pena di morte è stata reintrodotta negli Usa nel 1976 (e le esecuzioni in Texas sono riprese nel 1982), più di qualsiasi altra contea negli Usa, e più di qualsiasi stato (escluso ovviamente il Texas).

Quest'anno nessuna esecuzione è stata effettuata su casi provenienti dalla Contea, e soprattutto nessun processo si è concluso con una condanna a morte, e per due condanne a morte che erano state annullate negli anni scorsi la pubblica accusa ha accettato altrettante condanne all'ergastolo. Secondo il sondaggio annuale della Gallup, che il DPIC considera il più attendibile, il consenso alla pena di morte misurato nell'ottobre 2017 è sceso al 55%, il più basso dal 1972. Rispetto al sondaggio dell'anno precedente la diminuzione complessiva è stata del 5%, con un picco tra gli elettori del partito Repubblicano, che hanno diminuito il loro consenso del 10%.

Nel corso del 2017 sono state messe in calendario 81 esecuzioni, 58 delle quali (71,6%) non sono state effettuate o per rinvii di corti, commutazioni, rinvii o grazie governatoriali. Il minimo storico delle condanne (30) e delle esecuzioni (20) venne raggiunto lo scorso anno, i dati di quest'anno sono la seconda migliore misura da 45 anni.

Quest'anno le 23 esecuzioni sono avvenute in 8 diversi stati: Texas (7), Arkansas (4), Alabama e Florida (3), Ohio e Virginia (2), Georgia e Missouri (1). Le condanne a morte sono state emesse in 14 stati, più una dal Sistema Federale: California (11), Arizona, Nevada e Texas (4), Florida (3), Alabama, Oklahoma, Pennsylvania (2) e Arkansas, Idaho, Mississippi, Missouri, Nebraska, Ohio, Sistema Federale (1). Secondo gli autori del Rapporto, il 90% delle 23 persone giustiziate presentavano prove significative di malattia mentale, disabilità intellettiva, danno cerebrale, grave trauma e/o innocenza. Su 4 delle persone giustiziate c'erano preoccupazioni sostanziali circa la loro non colpevolezza.