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giovedì 31 luglio 2014

Azerbaijan. Arrestata a Baku militante per i diritti umani

ASCA
Roma – Una nota militante azera per i diritti umani, Leyla Yunus, e’ stata arrestata a Baku ed e’ stata portata al Dipartimento per le inchieste sui crimini gravi, passo che sembra preludere ad un’incriminazione.
“Leyla aveva appena lasciato casa sua per andare a una conferenza, quando tre uomini in tenuta civile hanno bloccato la sua automobile e sono saliti con la forza”, ha raccontato all’agenzia Afp un portavoce dei coniugi Yunus, Yusif Agayev.

Da stamattina ne’ la donna ne’ l’autista rispondono al telefono. La casa dell’attivista e’ circondata da agenti di polizia, ha da parte sua riferito il marito, che intende “consegnarsi” in modo da finire a sua volta davanti agli inquirenti, ma accompagnato dai suoi legali.

Leyla Yunus, direttrice dell’Istituto per la pace e la democrazia, un gruppo che milita per la difesa dei diritti fondamentali, e’ molto attiva nell’ambito della promozione del dialogo con l’Armenia, con iniziative che le sono valse tra l’altro la Legione d’onore francese. Era stata arrestata assieme al marito lo scorso aprile, poi rilasciata alla vigilia della visita del presidente francese Hollande.

mercoledì 30 luglio 2014

Gaza - Nuova scuola ONU (UNRWA) rifugio di sfollati bombardata. Orrore di bambini e mamme uccise nel sonno.

MISNA
“Ieri notte i bambini stavano dormendo sul pavimento, vicino ai loro genitori, in una delle nostre scuole a Gaza designate per dare rifugio agli sfollati. Questi bambini sono stati uccisi durante il sonno: un affronto per tutti noi, una vergogna di proporzioni universali. Oggi il mondo si trova davanti a una tragedia”.

Non lasciano spazio all’interpretazione le parole di Pierre Krähenbühl, commissario generale dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (Unrwa), affidate a un comunicato ufficiale diffuso poco fa.

“Siamo stati sul luogo di questa disgrazia – ha dichiarato Krähenbühl – e abbiamo raccolto le prove. Abbiamo analizzato i frammenti, esaminato i crateri e gli altri danni. La prima ricognizione prova che sia stata l’artiglieria israeliana a colpire la nostra scuola, dove 3.300 persone avevano trovato rifugio. Crediamo che l’area sia stata colpita almeno tre volte. È ancora troppo presto per confermare il numero ufficiale delle vittime, ma sappiamo che sono diversi i morti e i feriti, tra loro donne e bambini e una delle guardie dell’Unrwa a protezione della scuola. Tutte queste persone avevano seguito l’avviso delle Forze armate israeliane di lasciare le proprie case”.

Le coordinate precise della Scuola elementare per bambine di Jabalia, insieme al fatto che stesse ospitando migliaia di sfollati, sottolinea ancora il commissario generale dell’Unrwa, “erano stati comunicati alle Forze armate israeliane in 17 diverse occasioni, proprio per assicurarne la protezione. L’ultima comunicazione è stata fornita alle 20:50 la scorsa notte, poche ore prima del bombardamento fatale. Condanno nella maniera più risoluta questa grave violazione delle leggi internazionali da parte dell’esercito israeliano”.

Krähenbühl ricorda che “è la sesta volta che una delle nostre scuola viene colpita. Il nostro staff, le persone che guidano la risposta umanitaria, viene ucciso. I nostri rifugi che ospitano gli sfollati sono al massimo della capacità. Decine di migliaia di persone presto non avranno altra alternativa se non riversarsi nelle strade di Gaza, senza cibo né acqua e nessun rifugio, se l’offensiva continuerà”.

Per Krähenbühl, “siamo oramai oltre il regno del puro intervento umanitario, siamo entrati nel regno delle responsabilità. Mi appello alla comunità internazionale – conclude – per intraprendere un’azione politica per fermare immediatamente questa carneficina”.

martedì 29 luglio 2014

Israele: Udi, 19 anni, disertore "vado in carcere per non bombardare Gaza"

Il Fatto Quotidiano
Udi sconterà sei mesi nella prigione militare "Prison Six" per aver rifiutato di arruolarsi nell'esercito. In Israele decine di soldati si rifiutano di andare in guerra nella Striscia, mentre nel mondo si moltiplicano le manifestazioni organizzate da esponenti delle comunità ebraiche contro l'operazione "Protective Edge".
Udi Segal, 19 anni, israeliano, sta aspettando di essere preso e incarcerato nella prigione militare Prison Six dalle autorità del suo paese. L'accusa è aver rifiutato di arruolarsi nell'esercito: "Israele può continuare questa occupazione, "but not in my name", non nel mio nome", racconta aIlFattoQuotidiano.it. Un sondaggio del Jerusalem Post rivela che l'86% dei cittadini israeliani si dichiara favorevole all'operazione Protective Edge. Dall'altra parte, però, almeno 50 soldati dell'Israel Defense Force hanno annunciato il loro rifiuto di partecipare all'operazione e migliaia di rappresentanti delle comunità ebraiche di tutto il mondo, guidate dal movimento di ebrei ortodossi antisionisti Neturei Karta, stanno manifestando nelle piazze contro l'attacco israeliano a Gaza.

Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, ieri in tremila sono scesi in piazza Rabin, a Tel Aviv, per manifestare contro i raid d'Israele sulla Striscia. "L'appoggio del paese alla politica del primo ministro, Benjamin Netanyahu, è ancora forte - spiega Segal - ci sono molte persone, però, che sono stanche di questa guerra. Solo tra i miei coetanei, conosco almeno 120 o 130 ragazzi che hanno preso la mia stessa decisione". A New York, Parigi,Londra, migliaia di ebrei hanno manifestato in strada al grido di "Palestina libera" e "no allo stato d'Israele" per protestare contro la politica militare del premier israeliano. A capo della maggior parte di queste manifestazioni c'erano gli ebrei ortodossi di Neturei Karta, un movimento antisionista nato a Gerusalemme nel 1938.

Il principio che muove il gruppo e i rappresentanti dell'ortodossia ebraica che non appoggiano le idee sioniste, però, non è di matrice politica, ma religiosa. Sostengono, infatti, che la costituzione di uno stato d'Israele violi le leggi della tradizione religiosa. Secondo i testi sacri, la diaspora ebraica è il frutto dei numerosi peccati commessi dal popolo d'Israele e solo l'avvento del Messia potrà restituirgli una patria. L'accusa mossa da Neturei Karta nei confronti dei sostenitori dello stato ebraico è quella di violare le leggi della tradizione religiosa, strumentalizzandola per meri fini politici. I membri del movimento sostengono che l'Onu, riconoscendo lo stato d'Israele, abbia commesso un'ingiustizia anche nei confronti del popolo ebraico.

"Quando mi sono avvicinato all'età della leva obbligatoria - racconta Segal - ho iniziato a leggere, studiare e documentarmi sul conflitto tra Israele e Palestina. È più di un anno che mi informo sui giornali e studio la storia e ho deciso che non posso prendere parte a questa occupazione". In Terra Santa molte altre persone hanno deciso di fare obiezione di coscienza per protestare contro l'occupazione israeliana nella Striscia di Gaza e nella West Bank, rischiando il carcere come Udi Segal. "Non so ancora di preciso quanto rimarrò in carcere - continua Segal, anche se la pena prevista in questi casi è di circa 6 mesi. Non basterà questo a farmi cambiare idea in futuro". Anche 50 soldati israeliani hanno deciso di rifiutare qualsiasi incarico nei territori occupati. Lo hanno comunicato con una lettera al Washington Post in cui spiegano i motivi che hanno portato alla loro decisione: "Ci opponiamo - scrivono - all'esercito israeliano e alla legge sulla leva obbligatoria perché ripudiamo questa operazione militare".

Quello di Udi Segal, però, non è un caso isolato. Il primo risale 1954, quando Amnon Zichroni, militare, chiese di essere sollevato dal servizio militare perché pacifista. Da quel momento in poi sono molti i movimenti che raggruppano, per motivi diversi, obiettori di coscienza o militari che si rifiutano di servire l'esercito. Nel 1982, durante la guerra tra Israele e Libano, è nato il movimento Yesh Gvul formato da veterani dell'esercito che si rifiutarono di combattere per Israele al confine con il Libano. Questo "rifiuto selettivo" si estese, successivamente, anche ai territori occupati. Il più famoso e nutrito gruppo di militari che hanno deciso di non combattere nei territori occupati è l'Ometz Le Sarev o "Coraggio di rifiutare". I 623 componenti del movimento, formatosi nel 2002, si sono rifiutati di combattere nella Striscia di Gaza e in West Bank, ma hanno giurato di servire fedelmente il loro paese in qualsiasi altra operazione militare. Per questo, nel 2004, il gruppo è stato candidato al premio Nobel per la pace.

Una ragazza di Gaza ritrova i suoi libri tra le macerie della sua casa


lunedì 28 luglio 2014

Marocco: re Mohammed VI grazia 227 detenuti per la fine del Ramadan

Nova

Il re del Marocco, Mohammed VI, ha graziato 227 detenuti marocchini in occasione della festa della fine del Ramadan, che a Rabat si festeggia domani. 

A godere di questa grazia sono soprattutto detenuti la cui pena volgeva verso la conclusione, i quali saranno immediatamente scarcerati.

Australia - Minori rifugiati in detenzione. Condizioni disumane. Le madri tentano il suicidio per garantire asilo ai figli.

MISNA
Sarebbero sempre più dure le condizioni di detenzione a Christmas Island per i boat-people fermati in mare e qui raccolti in attesa di accertarne la condizione di rifugiato oppure procedere al loro invio in uno dei centri offshore.
Lembo di terra australiana più prossimo alla costa asiatica, l’isola è stata per diversi anni insieme centro di ospitalità e di smistamento. Anche di detenzioni per molti. Con la politica avviata da settembre 2013 dal governo conservatore guidato da Tony Abbott, l’isola non dovrebbe avere alcun ruolo futuro. Infatti, il blocco e respingimento verso i paesi di provenienza per gli occupanti di imbarcazioni fermate al di fuori delle acque territoriali australiane, la riconsegna dei clandestini a paesi di partenza in base a accordi bilaterali e, per tutti gli gli altri, la deportazione nei centri extra-territoriali di Manus Island (Papua-Nuova Guinea) o Nauru sono i capisaldi della politica di blocco all’immigrazione irregolare.

A segnalare condizioni “deteriorate in modo significativo” a Christmas Island è lo stesso Commissario australiano per i diritti umani Gillian Triggs, che ha appena terminato una sua visita al centro come parte di un’inchiesta nazionale sulla detenzione obbligatoria per i minori che cercano asilo in Australia. La Triggs ha indicato che i bambini ospiti della struttura sono in diversi casi affetti da disturbo da stress post-traumatico. In parte conseguenza dei tentativi di suicidi di diverse madri (una dozzina nel solo luglio) convinte di potere così garantire ai figli la possibilità di asilo, in parte per le condizioni di vita nel centro dove si trovano ora 74 minori su 1102 ospiti. Tredici, secondo la Triggs, le madri a alto rischio di suicidio, di cui 10 guardate e a vista 24 ore al giorno. Una volontà di autodistruzione che si estende anche ai minorenni: 128 casi di autolesionismo riportati dal gennaio 2013 al marzo scorso.

Un ruolo hanno le condizioni della struttura, pessime sul piano dell’ospitalità, ma anche la disperazione per il futuro incerto in un ambiente sovraffollato e in condizioni di sostanziale prigionia. La legge prevede che coloro che sono stati fermati in Australia dal 19 luglio dello scorso anno, infatti, siano comunque avviati a Manus Island o Nauru, da cui potranno eventualmente emigrare in paesi terzi dopo un lungo processo di verifica e selezione.

[CO]

USA: senatore repubblicano McCain "ultima esecuzione in Arizona è stata tortura"

La Presse
L'esecuzione di Rudolph Wood in Arizona è stata una tortura. Così il senatore repubblicano John McCain ha commentato l'uccisione del detenuto, che mercoledì nella prigione di Tucson è durata due ore. Il senatore, che sostiene la pena di morte per alcuni reati, ha definito con termini coloriti le complicazioni avvenute durante l'esecuzione.
"L'iniezione letale deve essere davvero letale", ha dichiarato il senatore, e non dovrebbero accadere situazioni in cui si perde il controllo. "Ecco la tortura", ha aggiunto. Woods ha ricevuto l'iniezione letale con una combinazione di due farmaci, ma ha impiegato quasi due ore prima di morire. Ha trascorso più di 90 minuti senza riuscire a respirare, poi si è spento.

Lo Stato dell'Arizona ha sospeso tutte le esecuzioni, mentre è stata aperta un'inchiesta sul caso. Secondo McCain i responsabili dell'esecuzione dovrebbero rispondere della sofferenza di Wood.

domenica 27 luglio 2014

USA - Florida: cappellano “death row”, condizioni “medievali”

ONUItalia.com
New York - Chiusi in “gabbie” due metri per tre, senza aria condizionata quando d’estate la colonnina di mercurio sale “a livelli astronomici”: sono le condizioni “quasi medievali” dei 412 prigionieri nel braccio della morte della Florida.”La nostra prima preoccupazione e’ il calore. Sentiamo di detenuti che non ce la fanno, che chiedono ‘basta con i ricorsi, ammazzatemi’”, ha detto alla rivista dei gesuiti Usa America Dale S. Recinella, avvocato e cappellano laico cattolico nella seconda “death row” per numero di occupanti degli Stati Uniti.
“85 per cento delle esecuzioni degli ultmi 37 anni, da quando la Corte Suprema ha ripristinato la pena capitale, sono state in Stati del Sud, gli stati della Confederazione e dello schiavismo”, ha aggiunto Recinella. Una considerazione dalle profonde implicazioni culturali da cui il cappellano, nell’intervista, non trae esplicitamente le logiche conclusioni, che la pena di morte discrimina sproporzionatamente sulla base del colore della pelle.
A poche settimane dal via all’Onu del dibattito sulla moratoria delle esecuzioni, una priorita’ della politica estera dell’Italia, negli Stati Uniti e’ in atto una riflessione sulla pena di morte soprattutto dopo una serie di esecuzioni “mal riuscite” dall’inizio dell’anno, l’ultima qualche giorno fa in Arizona. “Il fatto e’ che questi sono esseri umani che noi chiudiamo in gabbia fino al momento di ucciderli”, ha detto Recinella: “Abbiamo gente di tutte le eta’, alcuni piu’ giovani dei miei figli, altri dell’eta’ di mio padre, messi sotto il controllo dello stato e che non possono piu’ nuocere a nessuno. 

E tuttavia, un giorno o l’altro, li uccideremo. Questa realta’ pesa su ogni singola visita in cella ed e’ snervante per tutti: i prigionieri, i loro consiglieri spiirituali, la gente che lavora nel carcere. Dio non ci fa sentire buoni perche’ siamo parte della macchina della morte”.

Recinella e la moglie Susan, una psicologa, passano lunghe settimane con i condannati in attesa di esecuzione: “Quando il mandato e’ firmato, il prigioniero e’ spostato dal normale braccio della morte all’ala del carcere piu’ vicina al lettino dell’iniezione letale. 

Questo succede cinque o sei settimane prima della data della morte, ed e’ quando la famiglia comincia ad arrivare per dare gli ultimi saluti. Il condannato puo’ anche scegliere a quel punto il consigliere spirituale che lo assisterà’ negli ultimi giorni e che sara’ con lui dall’altra parte della finestra quando muore. Preparare qualcuno a morire: e’ diverso dell’aiuto che si da’ ai malati terminali, perche’ una malattia letale e’ un processo naturale. Qui si tratta di aiutare un individuo sano a prepararsi ad essere ucciso da un altro essere umano, ed e’ un processo molto, molto dark”.
Alessandra Baldini

Ucraina - ONU: 230 mila hanno lasciato le loro case- 130mila sfollati interni e 100mila rifugiati oltre confine

La Repubblica
Mosca - Sono 230.000 le persone che in Ucraina hanno lasciato le loro case, in seguito al conflitto in corso nel sud-est del Paese. Lo ha reso noto Dan McNorton, portavoce dell'Alto Commissariato dell'Onu per i rifugiati (Unhcr), secondo il quale 100.000 sono gli sfollati interni, mentre 130.000 i profughi che hanno passato il confine, per riparare in Russia. .

Caritas: aiuti a migliaia di musulmani rifugiati in scuole e chiese di Gaza

Radio Vaticana
Ci sono quasi 1300 palestinesi, in stragrande maggioranza musulmani, rifugiati nella chiesa greco-ortodossa di San Porfirio a Gaza per sottrarsi ai bombardamenti dell'esercito israeliano. Altri 700 hanno trovato rifugio presso la chiesa cattolica della Sacra Famiglia. 

In questi giorni la loro sopravvivenza dipende in buona parte dalle iniziative di soccorso e assistenza messe in campo da Caritas Jerusalem per dare il proprio contributo all'affronto dell'emergenza rappresentata da più di 130mila sfollati (di cui 70mila ammassati nelle scuole dell'Onu) che hanno dovuto lasciare le loro case dall'inizio dell'operazione militare israeliana “Bordo Protettivo”. Finora i morti tra i palestinesi sono oltre 700, e i presidi sanitari della Striscia non riescono a far fronte all'impressionante quantità dei feriti (più di 4mila).

“I nostri 18 operatori stanno lavorando senza sosta in quella situazione terribile, coi nostri Centri medici mobili che operano nelle scuole e distribuendo kit di sopravvivenza alle famiglie ammassate nelle scuole, in collaborazione con l'Onu” riferisce all'agenzia Fides padre Raed Abusahliah, direttore di Caritas Jerusalem.

Da ieri - aggiunge il sacerdote palestinese residente a Ramallah -abbiamo preso per una settimana la responsabilità dei rifugiati presenti nella chiesa ortodossa e nella scuola cattolica. Distribuiamo cibo e pasti caldi, latte e beni di prima necessità per i bambini, carburante per i generatori elettrici. Intanto, con Caritas Internationalis, abbiamo lanciato un appello per progetti e iniziative a lungo termine da avviare immediatamente dopo il cessate il fuoco. Serviranno fondi per un milione 130mila euro. Ma già vedo arrivare adesioni da tutto il mondo, e anche in Terra Santa soprattutto i giovani danno offerte alla Caritas per i fratelli di Gaza. E’ un flusso ininterrotto”.

Sabato e domenica prossima in tutte le parrocchie di Giordania, Palestina e Israele si pregherà per il ritorno della pace e ci saranno raccolte fondi a favore della gente di Gaza. (R.P.)

sabato 26 luglio 2014

USA - Pena di morte: Arizona, dopo la scandalosa esecuzione con 2 ore di agonia, moratoria temporanea

ONU Italia
Florence (Arizona) – Dopo il flop record di una iniezione letale in Arizona, scatta nello stato americano una moratoria temporanea della pena di morte. La governatore Jan Brewer ha ordinato al dipartimento delle prigioni di riesaminare l’esecuzione di Joseph R. Wood, il condannato che ha impiegato quasi due ore a morire, mentre l’Attorney General Tom Horne ha annunciato che non firmerà più’ mandati di morte fintanto che il riesame non sara’ ultimato: “Motivi precauzionali”.
Joseph R. Wood, condannato per due omicidi, e’ morto sul lettino dell’iniezione killer 152 minuti dopo l’inizio dell’esecuzione e dopo aver boccheggiato e rantolato per oltre 600 volte “cercando l’aria come un pesce fuor d’acqua”, secondo il racconto di un testimone. La direzione del carcere-fortezza di Florence Charles Ryan ha detto che le procedure seguite dal boia sono state “da manuale”, con “i cateteri infilati perfettamente nelle vene” e “senza che ci fosse alcuna fuoriuscita di liquido”, come era invece avvenuto con Clayton Lockett, il detenuto protagonista in aprile di un’altra esecuzione flop in Oklahoma.

A poche settimane dalla ripresa all’Onu del dibattito sulla moratoria della pena di morte (una priorita’ per l’Italia), il fiasco dell’Arizona ha riaperto la polemica sulla pena di morte e sull’uso negli Stati Uniti di farmaci non testati dal momento che quelli usati nel cocktail tradizionale di tre veleni sono diventati indisponibili. “Un problema e’ che non conosciamo la catena di custodia di questi farmaci e dove fossero conservati”, ha detto al New York Times Mark Heath, anestesista della Columbia University. L’esecuzione di Wood e’ stata la quarta dall’inizio dell’anno a presentare problemi: la stessa combinazione di idromorfone, un’antidolorifico derivato dall’oppio, e del sedativo midazolam, era stata impiegata in Ohio, un’altra iniezione letale durata ben oltre la media, in gennaio.

Difficile dire cosa sia successo stavolta: secondo Heath, una possibilita’ e’ che “i farmaci non funzionano come ci immaginiamo se somministrati in alte dosi”. E dal momento che queste dosi sono usate solo con le iniezioni letali “siamo in un terreno dove tutti lavorano al buio”.

Nelle iniezioni letali, d’altra parte, i dosaggi sono finora variati da stato a stato: la Florida usa 500 milligrammi di midazolam mentre l’Ohio inizialmente aveva detto che ne avrebbe usati dieci, per salire a 50 dopo l’esecuzione fallita di Dennis McGuire (26 minuti di agonia) in gennaio. L’Oklahoma usa 100 milligrammi, l’Arizona 50. Segreta in ogni caso e’ la provenienza dei farmaci, un problema nuovamente sollevato nei giorni scorsi dall’organizzazione abolizionista italiana Nessuno Tocchi Caino: “Le societa’ farmaceutiche multinazionali, dopo una nostra campagna, hanno bloccato le forniture delle sostanze usate per compiere le esecuzioni capitali e ora sono laboratori farmaceutici locali a fornire i farmaci, ma non se ne conosce la natura e non si conoscono le reazioni degli stessi farmaci”, aveva dichiarato Sergio D’Elia in occasione della presentazione annuale del rapporto sulla pena di morte messo a punto dall’associazione.

Blog Link: 24/07/14 USA - Pena di morte, in Arizona un detenuto muore dopo 2 ore di sofferenze L'agonia più lunga in una esecuzione in USA

Tunisia - Il Presidente Markouki concede l'amnistia per 1630 detenuti per la Festa della Repubblica

Ansa
In occasione della Festa della Repubblica il Presidente Moncef Marzouki ha concesso una grazia speciale in favore di 1.630 detenuti. Questa decisione è stata presa in concertazione con la Commissione speciale incaricata per l'amnistia presieduta dal Ministro della Giustizia, dei diritti dell'uomo e della giustizia transizionale, Hafedh Ben Salah, che ha analizzato i dossier relativi a 3.545 possibili candidati.

Il Presidente Moncef Marzouki
Il comunicato della Presidenza precisa che l'amnistia riguarda 1.201 reclusi per reati relativi al consumo di droga e che non sono implicati in altri reati, inoltre vi è un caso di commutazione di pena all'ergastolo per un condannato a morte.

L'amnistia non riguarda coloro i responsabili di crimini gravi come terrorismo, traffico d'armi, spaccio di stupefacenti e omicidio volontario La situazione delle carceri tunisine è drammatica: sovraffollamento, condizioni igieniche precarie, mancanza di cure per i detenuti malati, e spesso è stata oggetto di critiche e rilievi da parte di associazioni umanitarie internazionali.

La maggior parte dei detenuti è composta da semplici consumatori di droga, l'uso di stupefacenti in Tunisia è infatti punito con la reclusione. L'art. 4 punisce il consumatore e il detentore anche di modiche quantità, in Italia assimilate all'uso personale, con la reclusione da uno a cinque anni e con pena pecuniaria accessoria da 500 a 1.500 euro circa. Da tempo è in atto nel paese un dibattito sulla riforma del testo sulla legge degli stupefacenti, la n. 52 del 1992.

#JewsAndArabsRefuseToBeEnemies






Iraq - L'ISIL distrugge la Storia. Sparisce la moschea di Nabi Yunis

Baghdadhope

Non bastava avere occupato e distrutto chiese e moschee sciite, non bastava aver costretto migliaia di persone alla fuga, non bastava averne ucciso altre perchè appartenenti alle minoranza etniche o religiose o anche perchè si opponevano al califfato islamico.


Oggi l'ISIL si è macchiata di un altro delitto radendo al suolo uno dei simboli di Mosul, la moschea di Nabi Yunis.
Dopo aver costretto chi era in moschea a lasciarla l'edificio è stato fatto saltare in aria ed il minareto che dominava la città in un attimo è scomparso in una nuvola di fumo.
La grandiosa moschea, in origine un'edificio di culto cristiano, era posta sulla sommità della collina di Al Tauba (Pentimento) nella parte orientale di Mosul, ed era dedicata al profeta Giona (Yunis) che si diceva vi fosse sepolto tanto da essere luogo di pellegrinaggio sia per i musulmani che per i cristiani, ma per i membri dell'ISIL "era diventato luogo di apostasia e non di preghiera".
Non bastasse ciò durante la notte ha anche cominciato a circolare la notizia sui social network che ai cittadini di Mosul che vivono nei pressi della moschea di Nabi Jirjis, risalente al XII secolo e dedicata a San Giorgio, sia stato ordine di evacuare la zona per "non subire danni".

venerdì 25 luglio 2014

Cina - Esecuzione di un cittadino giapponese

MISNA
Eseguita questa mattina la sentenza capitale comminata dal Tribunale intermedio di Dalian, città costiera della Cina settentrionale per un cittadino giapponese. Un’esecuzione collegata alla droga, probabilmente a contrabbando di anfetamine, ma senza che le autorità cinesi né quelle giapponesi abbiano diffuso dettagli.
L’applicazione della pena definitiva a Dalian, che ha riguardato un cinquantenne, è la quinta esecuzione di giapponesi dopo quelle motivate da traffico di stupefacenti nel 2010, a loro volta le prime verso cittadini giapponesi dalla normalizzazione dei rapporti tra i due paesi nel 1972.

Il ministero degli Esteri giapponese ha commentato confermando la politica di non ingerenza in questioni legali interne alla Repubblica popolare cinese, se adeguatamente motivate, ma ha segnalato come Tokyo segua con “un alto livello di interesse” l’esecuzione di propri cittadini nel paese con cui sono in corso contenziosi territoriali e che negli ultimi anni ha visto salire la tensione, alimentata insieme da eredità storiche e un crescente livello di nazionalismo.

Iran - Pena di morte: 10 prigionieri incluse 4 donne sono stati impiccati nell'Iran orientale

NCRI
Il regime iraniano ha impiccato almeno 10 prigionieri, tra cui quattro donne domenica scorsa e lunedì. 

Rapporti provenienti dall'Iran riferiscono che Domenica un gruppo di quattro uomini e quattro donne sono stati impiccati nel carcere principale della città di Birjand (Iran orientale).

Altri due prigionieri sono stati impiccati il Lunedi nella stessa prigione. Tutti i prigionieri erano stati arrestati con l'accusa di droga.

Durante gli ultimi 12 mesi di presidenza 'moderata' di Hassan Rouhani, circa 800 prigionieri sono stati eseguiti, molti impiccati in pubblico.


[Traduzione redazione Blog Diritti Umani - Human Rights]

giovedì 24 luglio 2014

Gaza - Israele bombarda un’altra scuola, UNRWA: Prime vittime ONU

MISNA
È un bilancio ancora provvisorio ma si contano almeno una decina di nuove vittime e un alto numero di feriti a causa di un bombardamento israeliano su una scuola gestita dall’Urnwa, l’agenzia dell’Onu per i palestinesi, una delle 83 in cui oltre 140.000 civili di Gaza hanno cercato disperatamente riparo.


Una scuola UNRWA a Gaza
Nel 17° giorno dell’offensiva contro la Striscia, secondo fonti umanitarie sul terreno e un reporter dell’agenzia Maan il raid è avvenuto poco fa a Beit Hanun. Via Twitter, il portavoce dell’Urnwa Chris Gunness ha confermato “molti morti e feriti”, precisando che “precise coordinate del rifugio…erano state fornite ufficialmente all’esercito israeliano”.

È almeno la quarta volta in quattro giorni che – ignorando gli appelli a fermare la strage di civili – le scuole-rifugio dell’Urnwa vengono prese a bersaglio, secondo Gunness. Il portavoce dell’Urnwa ha comunicato anche l’uccisione di tre docenti in forze all’agenzia, le prime vittime dell’Onu. Si tratta di due donne, colpite dai raid nelle loro abitazioni, e un uomo ucciso mentre rientrava a casa “dopo aver lavorato senza sosta in un rifugio”.

“Perdere un collega è dura da sopportare. Perderlo in queste circostanze è insopportabile” ha scritto Gunness.

Da ieri notte e prima degli ultimi aggiornamenti, nella Stricia erano stati uccisi altri 51 palestinesi portando il bilancio complessivo a 738 vittime, in larga maggioranza civili, secondo fonti palestinesi; i feriti, stando alle stesse fonti sono saliti a 4620. Il bilancio delle vittime dal lato israeliano è di 35 morti, di cui 32 soldati.

[...]

Cina: blogger condannato a sei anni di prigione per "diffusioni di notizie false"

Ansa
Un blogger cinese è stato condannato a sei anni e mezzo di prigione per "diffusioni di notizie false". Dong Rubin, uomo d'affari il cui blog ha 50.000 follower, da anni conduce una battaglia con le autorità della provincia in cui abita (Yunnan, nel sud est) su temi come l'inquinamento o le violenze perpetrate dalla polizia. Oggi un tribunale lo ha giudicato colpevole di "attività illegali" e di "aver inventato e diffuso su internet notizie false a scopo di lucro", secondo quanto riportato dall'agenzia ufficiale Nuova Cina.

Nel 2009 Dong Rubin aveva denunciato la morte di Li Qiaoming, un uomo di 24 anni deceduto per le ferite cerebrali riportate in carcere. La polizia aveva spiegato la morte dell'uomo come una conseguenza di una lite tra detenuti ma, pressate dall'opinione pubblica, le autorità avevano aperto un'inchiesta. L'anno scorso, invece, il blogger aveva protestato contro l'apertura di un'industria petrolchimica a Kunming, capitale dello Yunnan, trascinando in piazza quasi 1.000 persone per protestare contro il progetto.

100 days #BringBackOurGirls vigils held around the world

www.aworldatschool.org
Today is the 100th day since the Nigerian schoolgirls from Chibok were kidnapped by Boko Haram. Vigils are taking place around the world today and tomorrow - and we will be covering the events as they happen in words, pictures and social media, updating this blog regularly.
Supporters will light candles and stand in solidarity in Africa, Asia, Europe and the United States. The Bring Back Our Girls group will play a leading role, with events organised in the Nigerian capital Abuja. Marches will be held across the country and prayers will be said in churches and mosques.

As well as Nigeria, events are being held on July 23 and 24 in other countries including Pakistan, India, Bangladesh, Togo, the United Kingdom, the United States, Canada and Portugal.

You can also:
Sign a new online petition by A World at School - using the form on this page - which will call for the safe return of the girls and which will be presented to Nigerian President Goodluck Jonathan. You can also leave a message of support along with the petition and these will be passed to Chibok community leaders and families of the girls.

Read some of the messages of support we have received already. Be inspired by some moving and poignant vigils from the past. Get more updates on A World at School's Facebook and Twitter pages.

La giovane cristiana Meriam del Sudan liberata dalla pena di morte per apostasia oggi a Roma

ANSA
Finisce l'incubo per Meriam: la giovane cristiana sudanese di 26 anni condannata a morte, all'ottavo mese di gravidanza, per apostasia, è libera ed è arrivata stamattina a Roma. 

La donna, con il marito e i due figli - tra cui Maya nata due mesi fa in cella - è giunta a Ciampino con un volo di stato italiano, dove l'ha attesa Matteo Renzi con la moglie Agnese ed il ministro degli Esteri Federica Mogherini: oggi "è un giorno di festa", ha detto il premier sottolineando il lavoro "straordinario" del viceministro degli Esteri Lapo Pistelli nella vicenda. E proprio Pistelli ha lasciato intendere anche la possibilità che Meriam incontri il papa.

Dopo la condanna a morte e a 100 frustate per adulterio (per aver sposato un cristiano) inflitta a maggio scorso, la giovane era stata arrestata e messa in cella insieme al piccolo figlio di 20 mesi con una sentenza shock che aveva suscitato l'orrore e la mobilitazione del mondo intero facendo scattare molte iniziative internazionale per la sua liberazione. 

Un dossier, quello di Meriam, su cui dal primo momento si è mobilitato anche il governo italiano con il premier che ha citato il caso della ragazza sudanese anche nel suo discorso di apertura del semestre Ue. Nella prima udienza, quella in cui gli era stata inflitta la condanna a morte, il giudice si era rivolto all'imputata chiamandola con il nome arabo, Adraf Al-Hadi Mohammed Abdullah, chiedendogli di convertirsi nuovamente all'Islam. "Io sono cristiana e non ho commesso apostasia", fu la replica della donna che gli costò la condanna a morte e la carcerazione.

Solo poche settimane dopo Meriam, in cella, ha dato alla luce una bimba in condizioni durissime: "Ha partorito in catene", aveva spiegato il marito, che è anche cittadino americano, avanzando preoccupazioni di possibili conseguenze per la salute della bimba. Il 23 giugno il tribunale sudanese ha poi deciso la liberazione della donna. Che però è stata fermata nuovamente il giorno dopo insieme al marito e al loro legale mentre si trovava all'aeroporto - mentre con i bambini tentava di lasciare il paese con destinazione Stati Uniti - per un "controllo dei documenti". Rilasciata per la seconda volta, con la sua famiglia, si è poi rifugiata all'ambasciata americana a Khartoum, dove ha ricevuto il passaporto che le ha permesso oggi di lasciare il Paese diretta come prima tappa in Italia, dove resterà un paio di giorni prima di raggiungere New York.

USA - Pena di morte, in Arizona un detenuto muore dopo 2 ore di sofferenze

Rai News 24
Il 55enne Joseph Rudolph Wood, condannato per un duplice omicidio commesso nel 1989, è stato dichiarato morto alle 15.49 ora locale dopo un'iniezione letale effettuatagli alle 13.52. Di solito un'esecuzione dura circa 10 minuti. Scoppia la polemica per il cocktail di farmaci utilizzati e sulle inutili sofferenze
Una morte lunga, un'agonia disumana. Alla fine Joseph Rudolph Wood è morto alle 15.49 locali, nel carcere di Florence, in Arizona. L'iniezione letale gli era stata effettuata due ore prima alle 13.49 quando in genere un'esecuzione di questo tipo dura circa 10 minuti. 

L'uomo, 55 anni, era nel braccio della morte da più di 20 anni, condannato alla pena di morte per un duplice omicidio commesso nel 1989. Una storia, quella di Wood, destinata sicuramente a sollevare un vespaio di polemiche. 

Perchè proprio pochi giorni fa, il 21 luglio, i suoi avvocati avevano chiesto alla corte d’appello di San Francisco di bloccare l’esecuzione e informare il proprio cliente sul cocktail di farmaci che gli sarebbero stati somministrati. Niente da fare. 

E' stato un calvario. Un calvario senza precedenti nella storia delle esecuzioni negli Stati Uniti. I legali di Wood hanno presentato inutilmente un appello d'emergenza durante l'agonia. E' il terzo caso in pochi mesi di un'esecuzione andata male e negli Stati Uniti se ne discute da settimane. 

La governatrice dell'Arizona Jan Brewer ha ordinato un'inchiesta. Lo Stato dell’Arizona aveva reso noto soltanto che a Woods sarebbero stati somministrati nelle vene sostanze approvate dalla Food and Drug Administration, ma non ha fatto il nome del produttore, per non fare cattiva pubblicità. Ma ora saranno obbligati da un tribunale a fornire tutti i dettagli. 

Ad aprile c'era stato un precedente. Clayton Lockett, in Oklahoma, era morto dopo 43 minuti di sofferenze. A gennaio, in Ohio, Dennis McGuire aveva rantolato e ansimato per 26 minuti.  
Ultimamente negli Stati Uniti molte aziende si sono rifiutate di vendere farmaci per le esecuzioni capitali e così vengono sperimentate nuove miscele di morte con i terribili risultati che sono davanti agli occhi di tutti.

mercoledì 23 luglio 2014

Usa: immigrati, Texas schiera 1.000 soldati a confine

AGI
Houston (Texas) - Per combattere l'emergenza immigrazione negli Stati Uniti al confine con il Messico, il governatore del Texas, il repubblicano Rick Perry, mobilita la Guardia Nazionale. Perry ha ordinato di schierare 1.000 uomini lungo la Rio Grande Valley. 

Perry, papabile candidato alle presidenziali del 2016, e' tra i repubblicani che hanno definito l'emergenza alle frontiere Usa, la "Katrina di Barack Obama", riferendosi alla debacle di George W. Bush per la cattiva gestione dell'uragano che devasto' New Orleans nel 2005. 

"Se il governo federale non esercita i propri doveri costituzionali per difendere le frontiere meridionali degli Stati Uniti lo fara' il Texas", ha dichiarato Perry segnalando chiaramente che la questione dell'immigrazione sara' usata dai repubblicani come arma contro i democratici alle prossimi presidenziali.

Gaza: Onu, nessun posto sicuro per civili - Lo dichiarano Ocha e Unwra

ANSA
Agenzia per affari umanitari, "situazione devastante"

Ginevra - A Gaza "non vi è letteralmente alcun posto sicuro per i civili" ha affermato oggi a Ginevra il portavoce dell'Ufficio Onu per gli affari umanitari (Ocha), Jens Laerke evocando una situazione "devastante". 

"Più di 100mila persone risultano sfollate in 69 scuole gestite dall'Unwra" (l'ente dell'Onu per i rifugiati palestinesi).

Gambia, 20 anni di violazione dei diritti umani e leggi liberticide

Corriere della Sera - Blog
Il 22 luglio 1994 è una data che in Gambia non si scorda nessuno. Quel giorno salì al potere, con un colpo di Stato militare, Yahya Jammeh, e da allora nel Paese non sono mancate le leggi e le pratiche punitive che hanno portato a ripetute violazioni dei diritti umani.
Giornalisti, attivisti dei diritti umani, politici, omosessuali sono costantemente nel mirino. Per questo oggi, martedì 22 luglio, che viene celebrato in Gambia come Il giorno della libertà, Amnesty International invita i suoi attivisti a una grande mobilitazione. 

 Proteste e eventi pubblici saranno tenuti in tutto il mondo:
“La lista delle vittime delle violazioni dei diritti umani in Gambia si ingrossa ogni giorno – ha spiegato Stephen Cockburn, vicedirettore regionale di Amnesty International per l’Africa centrale e occidentale -. Le autorità dovrebbero assicurare i criminali alla giustizia e prendere in considerazione le denunce sin qui ricevute. Dovrebbero abolire le leggi che rendono possibile la repressione”.
Nel 2001, per esempio, fu approvata una legge che dava al presidente i poteri di impedire che le forze di sicurezza fossero indagate per azioni commesse durante una situazione di emergenza o nel tentativo di sedare una riunione non autorizzata. 

Nel 2008 annunciò un provvedimento per punire l’omosessualità con la morte: “Taglieremo la testa a quei vermi” le sue parole. E invitò tutti i gay e le lesbiche a lasciare il Paese. 

Nel 2012 ha applicato la pena di morte senza preavviso a nove reclusi che non avevano esaurito i gradi d’appello. Il dissenso è represso con vessazioni e intimidazioni, frequenti gli arresti arbitrari. 

Nel 2013 un’altra legge ha stabilito che i giornalisti, i blogger e gli utenti di internet possono essere condannati a pene fino ai 15 anni di carcere e a multe che arrivano fino a 56mila euro per aver diffuso “notizie false”.

Amnesty chiede che “le autorità rilascino tutte le persone detenute ingiustamente e tutti i prigionieri di coscienza”. Il Gambia è un piccolo Paese con nemmeno due milioni di abitanti tra i più poveri in Africa. Il prossimo ottobre le Nazioni Unite prenderanno in esame le questione dei diritti umani nel Paese.
In una testimonianza raccolta da Amnesty International un attivista per i diritti umani racconta in via anonima:
“Battersi per i diritti umani è diventata un’attività rischiosa in Gambia. I giornalisti, i membri dell’opposizione e chiunque difenda la libertà di espressione è considerato un nemico dello Stato. Siamo posti sotto costante sorveglianza. I nostri telefoni e le nostre case sono controllate. Persino la famiglia e gli amici vengono messi sotto pressione. Io stesso sono stato invitato da colleghi, amici e parenti a stare buono e pensare ai fatti miei”.

Gaza, mille musulmani rifugiati in una chiesa ortodossa: «Dio benedica i cristiani. Solo loro fanno qualcosa per noi»

Tempi.it
L’arcivescovo Alexios ha aperto la chiesa di San Porfirio a tutti: «Non importa se sono cristiani o musulmani, questo è il dovere della chiesa». Una donna ha anche partorito in chiesa: «C’è la vita oltre alla morte»

Circa mille musulmani palestinesi sono rifugiati da ieri nella chiesa ortodossa di San Porfirio nella Striscia di Gaza. La chiesa antica è stata aperta a quanti scappano dai bombardamenti nel quartiere di Shejaia. L’arcivescovo Alexios, che ha accolto tutti nell’edificio, ha dichiarato: «Vogliamo aiutare la gente. Non importa se sono cristiani o musulmani, questo è il dovere della chiesa. Ieri (lunedì, ndr) c’erano già 660 persone, tra cui due sole famiglie cristiane, oggi (martedì, ndr) sono un migliaio, per lo più donne e bambini».

«C’È ANCHE LA VITA». «Siamo scappati dalle nostre case e siamo venuti qui», afferma a Reuters Jawaher Sukkar, scappata con il suo bambino. «Ora però anche la chiesa è stata bombardata. Dove dobbiamo andare? Ditemi dove dobbiamo andare», insiste riferendosi a un razzo caduto ieri in un campo vicino a San Porfirio. I palestinesi accusano l’esercito israeliano di volerli uccidere e di averli bersagliati mentre scappavano, ma in mezzo all’orrore della guerra c’è anche spazio per lampi di luce: «Ieri una donna ha partorito qui in chiesa un bambino, una nuova vita. La gente dovrebbe essere speranzosa. C’è la morte ma c’è anche la vita qui», dichiara l’arcivescovo.

«DIO BENEDICA I CRISTIANI». Una donna musulmana fuggita dalla sua casa ha detto appena entrata in chiesa: «Dio benedica i cristiani. Solo loro fanno qualcosa, le nazioni arabe non hanno fatto niente per noi». «Siamo tutti fratelli, siamo una famiglia», ha spiegato Alexios a un reporter del Wall Street Journal. Poi ha aggiunto: «La moschea qui di fianco ci sta aiutando ma manca tutto: materassi, coperte, cibo e benzina, visto che ci sono continui blackout. E senza l’elettricità non abbiamo accesso neanche all’acqua».

martedì 22 luglio 2014

Giordania - Per i rifugiati siriani anche il dramma dell'aumento delle spose bambine che cercano protezione

Asia News
Povertà e timore di violenze sessuali hanno fatto raddoppiare il numero delle ragazze che si sposano prima dei 18 anni. Prima dell'inizio della guerra civile i matrimoni di bambine erano il 13% di tutti i matrimoni, il numero ora è raddoppiato. Il 48% di loro vengono date a uomini che hanno almeno 10 anni più di loro. E "le ragazze sotto i 15 anni hanno cinque volte più probabilità di morire di parto rispetto alle donne cresciute". 


Amman - Povertà e timore di violenze sessuali hanno fatto raddoppiare il numero dei matrimoni di bambine tra i 600mila rifugiati siriani in Giordania. La denuncia è contenuta in un rapporto di Save the Children, secondo il quale prima dell'inizio della guerra civile i matrimoni di bambine erano il 13% di tutti i matrimoni, numero "raddoppiato dall'inizio del conflitto".

Il rapporto specifica che il 48% delle ragazze sono costrette a unirsi con uomini di almeno 10 anni più grandi di loro. E "le ragazze che si sposano prima dei 18 anni hanno più probabilità di subire violenze domestiche rispetto alle loro coetanee che si sposano più tardi" e "sono a rischio estremo se e quando rimangono incinte". Ciò perché le conseguenze di "essere coinvolte in attività sessuali mentre i loro corpi si stanno ancora sviluppando sono devastanti: le ragazze sotto i 15 anni hanno cinque volte più probabilità di morire di parto rispetto alle donne cresciute".

Anche i dati dell'agenzia dell'Onu per l'infanzia (UNICEF) mostrano che tra i rifugiati siriani in Giordania, il tasso di matrimoni di bambine è aumentato dal 18 per cento di tutti i matrimoni nel 2012, al 25 per cento nel 2013 ed è balzato al 32 per cento nel primo trimestre del 2014. L'UNICEF evidenzia anche il fatto che le spose-bambine "hanno anche più limitate opportunità economiche, in quanto perdono la scuola e possono rimanere vittime di un circolo vizioso di povertà".

"In quanto rifugiate - si legge nel rapporto di Save The Children - le famiglie vedono diminuire le loro risorse e sono prive di opportunità economiche". "Allo stesso tempo, sono ben consapevoli della necessità di proteggere le loro figlie dalla minaccia di violenza sessuale". "Sotto queste pressioni, alcune famiglie ritengono il matrimonio precoce il modo migliore per proteggere le proprie figlie e migliorare la loro situazione economica".

Iraq - Il musulmano che si è fatto uccidere per difendere i cristiani di Mosul

Varican Insider
Il sito caldeo ankawa.com racconta: un docente universitario ha parlato apertamente contro la persecuzione verso i cristiani ed è stato ucciso. Intanto lo Stato islamico ha fissato in 450 dollari al mese la tariffa della jizya
Non ha accettato di rimanere in silenzio di fronte alle violenze contro i cristiani di Mosul, costretti alla scelta tra la conversione all’islam, il pagamento della jizya (la tassa islamica per i non musulmani) o la fuga. Così il professor Mahmoud Al 'Asali, un docente di legge del dipartimento di pedagogia dell’Università di Mosul, ha avuto il coraggio di schierarsi apertamente contro questa forma brutale di costrizione, da lui giudicata contraria ai dettami dell’islam. Un gesto che - però - ha pagato con la vita: i miliziani dell’Isis lo hanno ucciso ieri a Mosul.

A riferire la notizia è il sito caldeo ankawa.com, uno dei più tempestivi nell’aggiornare sul calvario vissuto dai cristiani nel nord dell’Iraq. Tra i tanti fatti tragici di queste ore ha voluto che comunque non fosse dimenticato questo atto di grande coraggio compiuto da un musulmano. Il professor Al 'Asali sapeva infatti certamente quello che rischiava: a Mosul tutti sanno che a Raqqa, la città siriana dove lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante governa già da un anno, sono tantissimi gli attivisti per i diritti umani che hanno pagato con la morte la loro opposizione all’intolleranza dell’Isis. Eppure Al 'Asali ha ritenuto lo stesso di non poter stare in silenzio.

Come stanno facendo anche tanti altri musulmani, che da ieri a Baghdad hanno lanciato la campagna «Io sono iracheno, io sono cristiano» come risposta alle lettere N di «nazareni» tracciate sui muri delle case dei cristiani di Mosul. Alcuni di loro si sono presentati anche con un cartello con questo slogan, ieri, fuori dalla chiesa caldea di San Giorgio a Baghdad e hanno postato la foto su Facebook.

Segnali contro corrente che non fermano – però - la follia dei fondamentalisti dello Stato islamico. Così oggi sono andati avanti con il loro proposito di pulizia etnica, diffondendo le tariffe della jizya, la tassa islamica «di protezione» che dovrebbero pagare tutti i non musulmani che volessero restare o tornare a Mosul. La cifra indicata è di 450 dollari al mese, una somma iperbolica per chi vive oggi nel nord dell’Iraq. 

Sempre oggi è giunta anche la notizia di un altro luogo cristiano carico di storia nel nord dell’Iraq, caduto nelle mani dello Stato islamico: si tratta del monastero siro cattolico di Mar Benham, vicinissimo a Qaraqosh, la citta cristiana della piana di Ninive, dove è scappata la maggior parte dei cristiani. A Mar Benham la presenza monastica risale addirittura al IV secolo. «Hanno imposto ai tre monaci e ad alcune famiglie residenti nel monastero di andar via e di lasciare le chiavi», ha raccontato all’agenzia Fides il vescovo siro cattolico di Mosul, Yohanna Petros Moshe. Il monastero - riferisce il sito Bagdadhope - era stato restaurato nel 1986 diventando luogo di pellegrinaggio per i cristiani ma anche per alcuni musulmani.

GIORGIO BERNARDELLI

lunedì 21 luglio 2014

Bangladesh - Dhaka: cristiani, musulmani e indù manifestano contro attacco alla chiesa di Boldipukur

Radio Vaticana
Circa 60 persone - tra cattolici, protestanti, musulmani e indù - hanno manifestato ieri al National Press Club di Dhaka contro l'attacco al convento e alla chiesa di Boldipukur, avvenuto il 6 luglio scorso. Organizzata dalla Human Rights for Bangladesh Christians and Minorities (Hrbcm) e dalla Hotline Human Rights Trust (Hhrt), alla protesta erano presenti anche sei suore delle missionarie dell'Immacolata, congregazione femminile associata al Pontificio Istituto Missioni Estere (Pime).
La polizia - riferisce l'agenzia AsiaNews - ha arrestato 12 musulmani, ritenuti responsabili del fatto. Nel corso dell'assalto, tre religiose hanno subito un tentativo di violenza. Ora sono nella loro Casa provinciale a Dhaka, scioccate e mentalmente sofferenti. Gli autori dell'incursione hanno rubato oggetti di valore - come computer, laptop, denaro e mobili - per il valore di 1 milione di taka (circa 13mila dollari).

Dopo l'attacco subito le suore affermano di essere preoccupate. Suor Konica Costa, superiora provinciale delle Missionarie dell'Immacolata, spiega ad AsiaNews: "Noi forniamo scuole, Centri sanitari e dispensari a tutti. Il 70% dei fruitori di questi servizi sono musulmani, eppure hanno disonorato le nostre sorelle. Questo è molto triste, ma vogliamo una soluzione pacifica e giustizia. Non vogliamo che un attacco simile si ripeta".

"Le suore - ribadisce Dilip G. Bepari, presidente della Hrbcm - servono persone di ogni religione e sono impegnate per il bene della nazione e della società. Dobbiamo assicurare la loro sicurezza". In tutto il Bangladesh sono presenti 56 missionarie dell'Immacolata. (R.P.)

Uganda, Human Rights Watch: «Bambini picchiati dalla polizia» La denuncia: minacce, percosse e violenze «sistematiche». Raccolte 130 testimonianze dirette.

Lettera 43 
Pestaggi e abusi sessuali sistematici. Ai danni dei bambini di strada. È quello che succede in Uganda, secondo un rapporto di Human Rights Watch, che punta il dito contro la polizia del Paese africano, ritenuta responsabile delle violenze.
PERCOSSE E MINACCE. L'organizzazione non governativa ha scritto che poliziotti e funzionari ugandesi sono autori abituali di minacce contro i bambini di strada, sorpresi di notte a camminare da soli. I piccoli verrebbero picchiati con bastoni, fruste e cavi elettrici, al fine di estorcere loro tangenti o per punirli dei loro vagabondaggi.

AGGRESSIONI SESSUALI E RASTRELLAMENTI. Molti bambini senzatetto, sia maschi sia femmine, hanno poi riferito a Human Rights Watch di essere stati violentati o aggrediti sessualmente in strada da uomini e anziani. «Le autorità ugandesi dovrebbero proteggere e aiutare i bambini senzatetto, e non picchiarli e metterli in galera assieme agli adulti», ha dichiarato Maria Burnett, ricercatore di Human Rights Watch responsabile per il continente africano.
Il governo, tuttavia, secondo la denuncia della Ong, preferisce gli arresti arbitrari. Le piccole vittime non avrebbero più la possibilità di rivolgersi alla polizia per chiedere aiuto, «perché si trovano a vivere nella paura verso chi avrebbe dovuto proteggerli».

PIÙ DEL 50% DEGLI UGANDESI HA MENO DI 15 ANNI. Il problema ha dimensioni molto vaste. Più della metà della popolazione ugandese ha infatti meno di 15 anni, e i bambini sono il gruppo demografico più numeroso a vivere in povertà.
Secondo il rapporto della Ong, il numero di piccoli che vivono per strada è in aumento, anche se la cifra totale non è nota. Molti non hanno una casa perché i loro genitori sono morti di Aids, altri invece sono sfollati a causa della guerra contro il gruppo ribelle dell'Esercito di Resistenza del Signore (Lra), combattuta nel nord del Paese.
INTERVISTATI 130 MINORI. Human Rights Watch ha intervistato 130 bambini di strada ed ex bambini di strada nella parte orientale del Paese, paticolarmente impoverita. Oltre ai bambini, sono stati contattati anche membri delle organizzazioni che forniscono loro assistenza, operatori sanitari, organizzazioni umanitarie, polizia e funzionari del governo locale.
LE TESTIMONIANZE RACCOLTE. Ecco alcune delle testimonianze raccolte da vittime di abusi: «La polizia ha una tradizione, ti picchia tre volte. La prima per farti aprire gli occhi, la seconda per mostrarti la strada di casa, la terza per mandarti a casa. Ti dicono queste cose mentre ti picchiano», ha detto un ragazzino di 15 anni, che ne ha trascorsi 10 per strada. «Ci hanno tenuti in stanze dove venivamo bastonati dalla schiena alle natiche. Il terzo giorno hanno aperto la cella e siamo stati ributtati in strada». Human Rights Watch ha chiesto ufficialmente al governo ugandese di porre fine ai rastrellamenti e agli abusi, e di indagare e perseguire i responsabili.

Migranti, si aggrava l’ultima tragedia - I cadaveri nella stiva erano 29 e non 18 - Morto anche un bambino di un anno

La Stampa
Aveva solo un anno. È arrivato oggi a Messina cadavere un bambino siriano che si trovava, insieme alla madre, sul barcone soccorso ieri da una petroliera danese tra la Libia e Malta. L’ennesima tragedia sulla rotta della speranza, in un’estate segnata dal più massiccio esodo di migranti verso l’Italia registrato negli ultimi anni. In serata, da fonti maltesi si è inoltre saputo che le vittime trovate nella stiva del barcone sono 29, non 18 come sembrava dai primi accertamenti di ieri, alle quali va aggiunta la donna morta sulla motovedetta intervenuta per i soccorsi.
La nave dei soccorritori è arrivata nel pomeriggio a Messina. Quelli che erano apparsi i tre casi più gravi erano stati fatti salire ieri su motovedette italiane dirette a Palermo: uno dei tre non ce l’ha fatta ed è morto ieri. Gli altri 566 - in maggioranza siriani - erano stati lasciati sulla petroliera fatta dirigere verso la Sicilia. All’arrivo oggi a Messina la scoperta della piccola vittima. Non si conoscono ancora le cause del decesso, ma di certo il viaggio è avvenuto in condizioni molto difficili. Tra i profughi altri 73 bimbi, quasi tutti tra i due e gli otto anni e anche un neonato, allattato da una giovane donna incinta. Stanotte dormiranno con gli adulti in una scuola media della città. E la polizia ha fermato oggi uno dei presunti scafisti del “barcone della morte”.
[...]

domenica 20 luglio 2014

Guerra in Medio Oriente - Gaza, la strage di Sajaya: oltre 60 morti, 17 bambini. Uccisi 13 soldati israeliani

La Repubblica
Continua la battaglia nella Striscia: un intero quartiere spazzato via dalle bombe, panico tra gli abitanti. Molti civili tra le vittime. Altri cinquanta militari feriti. Scontri a Gerusalemme est tra giovani arabi e polizia. Razzi su Israele. Kerry: "Hamas non vuole la tregua". L'Egitto apre il valico di Rafah. Il segretario di Stato in arrivo in Medio Oriente

Stato Islamico dell'Iraq e del Levante: lapidazione per due donne accusate di adulterio

Corriere della Sera
Una donna accusata di adulterio è stata messa a morte tramite lapidazione in pubblico nel Nord della Siria dai Jihadisti dello Stato islamico dell'Iraq e del Levante (Isis).
La violenza, denunciata dall'Osservatorio nazionale per i diritti umani, sarebbe avvenuta a Raqqa, capoluogo dell'omonima provincia, in una piazza nelle vicinanze dello stadio municipale. Si tratterebbe del secondo caso nel giro di ventiquattro ore.

Il primo era stato segnalato venerdì a Al Tabaqa, nella stessa provincia. Vittima, una donna di 26 anni lapidata nel suq della città dopo che un tribunale religioso l'aveva riconosciuta colpevole di infedeltà. 

Nei territori sotto il suo controllo, dove all'inizio di luglio ha proclamato la creazione del Califfato islamico, l'Isis ha introdotto la Sharia, la legge islamica.

Mauritania, dove le galere sono dei lager. Maltrattamenti e torture di uomini, donne e bambini

Africa ExPress
Nelle carceri della Mauritania non vengono rispettati i diritti umani. I prigionieri vengono torturati. Sono queste le accuse che Tut Mint Al-taleb Al Nafè , una parlamentare che rappresenta un partito islamico, ha rivolto al ministro della giustizia, Sidi Ould Zain, durante un question time.

Nafè ha aggiunto di essere stata informata che ultimamente sono deceduti diversi detenuti a causa di maltrattamenti subiti nei penitenziari. “Inoltre – ha aggiunto – non ricevono un’assistenza sanitaria adeguata ed è già capitato che dei prigionieri avessero incendiato le loro celle per protestare contro i maltrattamenti e scarse cure mediche”.

Era scontato che il ministro negasse. Zain ha detto che in tanti anni è stato segnalato un solo caso di torture in carcere. I criminali responsabili marciscono ancora in galera. “La situazione delle nostre prigioni è accettabile, comparata a quella dei Paesi vicini, sena specificare i Paesi in questione. E poi, tutti dobbiamo morire un giorno o l’altro. Certamente la loro morte è riconducibile a malattie contratte prima di essere stati condannati, dunque morire non significa che la situazione nei nostri penitenziari sia inaccettabile”, è stata la risposta del ministro.

In alcuni rapporti di organizzazioni che difendono i diritti umani si legge, tra le altre cose, come il governo della Mauritania ignori completamente i diritti dei detenuti e sottolinea, che spesso sono soggetti a maltrattamenti.

Nelle prigioni della Mauritania uomini, donne e bambini vengono torturati perché confessino”, questo scrive Amnesty International in una relazione dello scorso anno.

I familiari di un recluso salafita hanno recentemente sostenuto che il loro congiunto è morto in galera per via dei maltrattamenti continui.

Cornelia I. Toelgyes

sabato 19 luglio 2014

Iraq - Mosul. Bruciato episcopio, il patriarca Younan: non ci sono più cristiani in città

Radio Vaticana
Sempre più drammatica la situazione per i cristiani in Iraq. Il palazzo episcopale dei siro-cattolici di Mosul è stato bruciato dagli estremisti islamici dell’Isil. Lo denuncia il patriarca della Chiesa cattolica sira, Ignace Joseph III Younan. Ormai a Mosul – afferma ai nostri microfoni il patriarca – non ci sono più cristiani dopo le minacce degli integralisti. 


Di seguito l'intervista di Sergio Centofanti al patriarca Younan:

R. - Le ultime notizie sono disastrose. Noi con rammarico ripetiamo ciò che abbiamo sempre detto: non si deve mischiare la religione con la politica. Se ci sono inimicizie tra sciiti, sunniti e non so chi altro, questo non deve essere assolutamente una ragione per attaccare innocenti cristiani e altre minoranze a Mosul e altrove. Non è nemmeno una ragione per distruggere luoghi di culto, chiese, vescovadi, parrocchie, nel nome di una cosiddetta organizzazione terrorista che non ascolta la ragione e non bada alla coscienza. Noi con rammarico diciamo che il nostro arcivescovado a Mosul è stato bruciato totalmente: manoscritti, biblioteca… E hanno già minacciato che, se non si convertiranno all’islam, tutti i cristiani saranno ammazzati. E’ terribile! Questa è una vergogna per la comunità internazionale.

D. – Ci sono ancora cristiani a Mosul?

R. – Non ce ne sono più. C’erano una decina di famiglie che sono dovute fuggire ieri ma gli hanno rubato tutto. Li hanno lasciati alla frontiera della città, ma gli hanno rubato tutto, li hanno insultati, li hanno lasciati così, in pieno deserto. Purtroppo è così.

D. – Qual è la situazione adesso di questi sfollati cristiani?

R. – Hanno trovato rifugio in Kurdistan, dove li hanno accolti, ma il primo ministro del Kurdistan ha detto che il Kurdistan non può più ricevere rifugiati perché ci sono anche altre minoranze, gli sciiti, gli yazidi … che sono fuggite in Kurdistan. E’ una cosa terribile.

D. – Come si possono fermare questi integralisti islamici?

R. – Devono sospendere tutti gli aiuti finanziari. Da chi ricevono le armi? Da questi Paesi integralisti del Golfo, con il placet di politici occidentali, perché hanno bisogno del loro petrolio. Purtroppo è così. E’ proprio una vergogna!

D. – Quale appello lanciate?

R. – Chiediamo alla comunità internazionale di essere fedele ai principi dei diritti umani, della libertà religiosa, della libertà della coscienza. Noi siamo in Iraq, in Siria e in Libano: noi cristiani non siamo stati importati, siamo qui da millenni e, quindi, noi abbiamo il diritto di essere trattati come esseri umani e cittadini di questi Paesi. Ci perseguitano nel nome della loro religione e non fanno solamente minacce ma eseguono le loro minacce: bruciano e uccidono.

Bulgaria - Manifestazione di Amnesty a Sofia frontiera dell'Europa sui diritti violati dei migranti

ASCA
Roma – Manifestazione di Amnesty International a Sofia, capitale della Bulgaria, dove gli attivisti hanno trasformato simbolicamente la frontiera esterna dell’Unione europea in un memoriale dedicato ai migranti e ai rifugiati. 

L’iniziativa, la cui organizzazione e’ stata tenuta nascosta per settimane, ha voluto ricordare le decine di migliaia di persone che hanno perso la loro vita in mare o hanno subito violazioni dei loro diritti umani mentre cercavano salvezza e protezione in Europa.

“Gli stati membri dell’Ue stanno innalzando sempre di piu’ i loro muri a spese dei diritti e della vita di migranti e rifugiati”, ha dichiarato John Dalhuisen, direttore del Programma Europa e Asia centrale.

Agli attivisti di Amnesty International si sono uniti passanti, rifugiati e membri della societa’ civile locale. Dopo aver sfilato per Vitosha, il principale viale del centro di Sofia, i manifestanti hanno raggiunto una barriera di due metri di altezza, simbolo dei leader degli stati membri dell’Ue. Via via, hanno appeso messaggi e oggetti personali alla barriera, che si e’ trasformata in un memoriale di solidarieta’.

L’azione di oggi ha messo in luce il fallimento delle politiche bulgare e complessivamente dell’Ue in materia d’immigrazione, concentrate sempre di piu’ sulle misure di controllo delle frontiere. Ha dimostrato inoltre l’indignazione pubblica per i maltrattamenti subiti da coloro che cercano riparo alla frontiera dell’Ue”, ha commentato Dalhuisen.

Ministro Mogherini: rinnovato impegno dell'Italia nel semestre in Europa contro la pena di morte

ASCA
Roma - ''L'Italia ha avuto un ruolo molto importante sin dall'inizio del processo di istituzione della Corte nell'affermazione dei principi del diritto penale internazionale e nel rifiuto dell'impunita' per i crimini internazionali. Di recente, il Parlamento italiano ha dato attuazione allo Statuto di Roma, con modifiche del nostro ordinamento interno che consentiranno la piena collaborazione del nostro Paese con la Corte Penale Internazionale. Solo una giustizia penale internazionale che sia frutto di un processo di codificazione largamente riconosciuto e condiviso, e che sia amministrata da un organismo giudiziario indipendente e imparziale, puo' assicurare una giurisdizione in materia di crimini internazionali sempre piu' efficace''. 
Lo scrive il ministro degli Esteri, Federica Mogherini, in un messaggio in occasione della Giornata delle giustizia internazionale, con la quale si celebra ogni anno la fondazione della Corte Penale Internazionale. 

''Vogliamo che il semestre di presidenza italiana del Consiglio dell'Unione Europea sia un'occasione anche su questo terreno, per sollecitare tutti i paesi europei a un impegno rinnovato e concreto sul terreno della promozione dei diritti umani, della giustizia penale internazionale e dei principi cui essa si ispira'', aggiunge la Mogherini. 

''In questa prospettiva - dice ancora il Ministro - abbiamo costituito nei giorni scorsi una task-force al Ministero degli Esteri, con la partecipazione di importanti organizzazioni della societa' civile, per coordinare l'azione italiana per una moratoria universale della pena di morte. In occasione della prossima sessione dei lavori dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite a dicembre, l'Italia e l'Unione Europea promuoveranno l'adozione di una nuova risoluzione sulla moratoria delle esecuzioni capitali; da qui ad allora, vogliamo sensibilizzare i governi e le opinioni pubbliche dei Paesi in cui la pena di morte e' ancora in vigore, e provare ad aumentare il consenso nella comunita' internazionale attorno a questa iniziativa, rispetto alle quattro votazioni gia' svolte dal 2007 in poi su iniziativa del nostro Paese''. red-uda/

Nel carcere di Pavia suicidio di un giovane sinto di 26 anni

www.informatore.it
Questa mattina il corpo senza vita di Johnny Bianchi, 26 anni, il nomade residente a Gambolò che lo scorso 16 aprile aveva sparato a Driss Sabiri, 30 anni, marocchino, uccidendolo, è stato trovato morto nella sua cella del carcere di Pavia.
Era stato arrestato alla fine di aprile insieme al fratello con l'accusa di omicidio volontario.

I due fratelli sinti erano stati arrestati qualche ora dopo il fatto dai carabinieri del capitano Papaleo. Avevano raccontato che quello con Sabiri avrebbe dovuto essere solo un chiarimento per una questione di infedeltà.

Ma nella concitazione di quei minuti Johnny Bianchi aveva imbracciato un fucile da caccia calibro 10 e aveva fatto fuoco perché aveva sostenuto, il rivale era armato. Ma di quella presunta arma non era stata trovata traccia.

Il giovane si era subito auto-accusato dell'omicidio, scagionando in fratello Mike, 30 anni la cui fidanzata avrebbe dovuto contrarre un matrimonio fasullo con la vittima per fargli ottenere la cittadinanza italiana. Tra i due però le cose si sarebbero spinte oltre e sarebbe nata una relazione. Proprio quella su cui Mike e Johnny Bianchi avevano preteso chiarezza convocando il marocchino per un chiarimento.

venerdì 18 luglio 2014

Etiopia - Blogger e giornalisti detenuti da tre mesi, incriminati per terrorismo

MISNA
Detenuti da tre mesi, sono stati incriminati per terrorismo sette blogger e tre giornalisti, accusati di preparare attacchi in Etiopia e di collegamento col movimento fuorilegge Ginbot 7, stabilito negli Stati Uniti.
Per il giudice Tareke Alemayehu i sette collaboratori al blog Zona 9, spesso critico nei confronti del potere, e i tre giornalisti di diverse pubblicazioni, arrestati lo scorso aprile, “sono stati addestrati per fabbricare cariche esplosive e per formare altre persone”. I dieci imputati sono accusati di “tentativo di destabilizzazione del paese” e di utilizzare le attività giornalistiche come “copertura di attività clandestine”.

Il legale di otto degli imputati ha respinto i capi di accusa formalizzati mentre l’organizzazione di difesa dei diritti umani Human Rights Watch (Hrw) ha criticato le autorità di Addis Abeba per “uso abusivo della legge antiterrorismo con l’intento di soffocare la libertà di espressione e di mettere a tacere le dissidenze (…) insultando la Costituzione”.

Il processo riprenderà il prossimo 4 agosto. Uno noto blogger, Eskinder Nega, è già stato condannato a 18 anni di carcere per i suoi legami con Ginbot 7, che incita a destituire il partito al potere.