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mercoledì 28 febbraio 2018

La crisi dimenticata del Sudan. Da 15 anni non c'è pace e rispetto dei diritti umani in Darfur

Corriere della Sera
Il conflitto iniziò il 26 febbraio del 2003. Con un assalto al quartier generale dell'esercito del Sudan a Golo, nel distretto del Jebel Marra, il Fronte di Liberazione del Darfur sferrava il primo attacco pianificato contro una postazione militare strategica del Governo del presidente Omar Hassan Al Bashir.

"A 15 anni dal primo atto significativo del conflitto nella regione sud-orientale del Sudan, uno dei Paesi più estesi del continente africano, il Darfur non sembra destinato a conoscere la parola pace. Quest'area, grande quattro volte l'Italia, è stata ed è tutt'ora teatro di una delle "partite" politiche più importanti del globo, un'area in cui si incontrano, ma soprattutto scontrano, gli interessi delle cosiddette potenze mondiali" scrive Antonella Napoli nel rapporto Sudan 2017-2018 presentato lunedì 26 febbraio nella sede della Fnsi a Roma.

Stati Uniti e Cina si contendono l'accesso ad una regione con grandi risorse di acqua e potenzialmente ricca di giacimenti petroliferi. La situazione umanitaria non accenna a migliorare. 

Nel 2017, secondo Ocha (l'ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari), 4,8 milioni di persone hanno richiesto assistenza umanitaria, tra cui 3,1 milioni nel Darfur. Oltre 3 milioni e mezzo di persone sono state aiutate sotto il profilo alimentare e hanno ricevuto sostegno per il sostentamento minimo quotidiano, mentre 2,2 milioni di bambini sotto i cinque anni sono a tutt'oggi malnutriti. In tanti, nelle aree inaccessibili ai cooperanti non ricevono alcun aiuto. Altri rifugiati arrivano dai Paesi limitrofi: 500mila solo dal Sud Sudan tra il dicembre 2013 e l'inizio del 2017. E c'è anche un flusso continuo di sfollati, richiedenti asilo e migranti provenienti dalla Repubblica Centrafricana, dal Ciad, dall'Eritrea, dall'Etiopia, dalla Siria e persino dallo Yemen.

La repressione della libertà di stampa - Il 2017 e i primi mesi del 2018 in Sudan sono stati caratterizzati da un'intensificazione della repressione della libertà di stampa con continui arresti di giornalisti e sequestro di copie dei giornali "responsabili" di aver pubblicato notizie avverse al Governo. Gli ultimi fermi gli scorsi 16 e 17 gennaio, quando i Servizi Segreti e di Sicurezza Nazionale (NISS) hanno prelevato separatamente sette giornalisti mentre erano in piazza per raccontare le proteste contro l'inflazione, che ha portato a un aumento esponenziale di viveri di prima necessità, nella capitale Khartoum.

La persecuzione dei cristiani - Nel 2017 e nei primi mesi del 2018 è sensibilmente aumentata la persecuzione nei confronti dei cristiani. Il Governo ha promulgato leggi di pianificazione edilizia finalizzate alla distruzione delle chiese e degli edifici di proprietà delle comunità cristiane. Oltre 20 chiese sono state chiuse nell'ultimo anno. Nello stesso periodo, secondo l'organizzazione internazionale Open Doors che opera nella difesa dei cristiani perseguitati in 60 Paesi nel Mondo, almeno tre cristiani sono stati uccisi sebbene i numeri esatti siano difficili da ottenere. Centinaia gli arresti, decine sono ancora in carcere.

La libertà negata alle donne e le violazioni dei diritti umani - Per tutto il 2017 sono stati registrati in Sudan innumerevoli arresti di attivisti per i diritti umani, di oppositori e di donne. Un inasprimento verso le libertà e i diritti dei cittadini sudanesi talmente vasto che il Parlamento Europeo a fine gennaio ha espresso una dichiarazione di condanna e ha chiesto la liberazione di tutti coloro che erano detenuti per motivi politici o per aver partecipato alle proteste contro l'aumento dei prezzi nel Paese, come per il caso di Salih Mahmoud Osman, vincitore del premio Sakharov per la libertà di pensiero. Il vicepresidente del Parlamento europeo, Heidi Hautala, e il presidente della Sottocommissione per i Diritti Umani, Pier Antonio Panzeri, hanno condannato l'arresto arbitrario di Osman, vicepresidente dell'Associazione degli Avvocati del Darfur e degli altri difensori dei diritti umani in Sudan. 

Proprio dagli avvocati nella capitale del Nord Darfur, El Fasher, è arrivata nei mesi scorsi la denuncia di una campagna delle forze di polizia militare incaricate della protezione nella regione della fustigazione arbitraria di donne e ragazze accusate di indossare abiti indecenti nei mercati e nelle strade pubbliche. 

I residenti di El Fasher hanno affermato di aver visto un centinaio di donne, per lo più universitarie e impiegate che andavano al lavoro o a scuola, frustate a sangue nella pubblica piazza. La campagna, che è durata per giorni, ha rappresentato una flagrante violazione della legge e della costituzione sudanese. L'associazione degli avvocati del Darfur ha chiesto alle autorità competenti di indagare immediatamente sugli incidenti e assicurare i colpevoli alla giustizia. 

Anche nella capitale del Sudan Khartoum non sono mancati arresti e condanne nei confronti di donne colpevoli di aver indossato abiti non conformi alle disposizioni della legge islamica, la Sharia. Molte donne sono state processate ai sensi dell'articolo 152 del codice penale del Sudan che si applica a "chiunque compia in un luogo pubblico un atto indecente o un atto contrario alla morale pubblica, indossi un vestito osceno o non conforme ai dettami della sharia e causi fastidio ai sentimenti pubblici" con la conseguente pena della fustigazione, in media quaranta frustate, a volte accompagnate da una multa.

Monica Ricci Sargentini


Siria - Bombe sulla Ghuta altri morti, nessun civile evacuato o soccorso.

AnsaMed
Beirut - Nessuno dei 400mila civili intrappolati nella Ghuta, l'area assediata a est di Damasco, è stato evacuato o soccorso, nonostante la "pausa umanitaria" decisa dalla Russia ed entrata in vigore ieri per cinque ore, durante le quali i raid governativi si sono comunque ridotti rispetto agli ultimi dieci giorni di offensiva. 



Su questo il premier italiano Paolo Gentiloni ha affermato che "i giochi di guerra sulla pelle della popolazione siriana continuano, nonostante gli appelli della comunità internazionale, appelli al cessate il fuoco che anche io rinnovo". 

Intanto sul governo di Damasco piovono nuove accuse. Secondo un rapporto pubblicato dal New York Times che cita esperti Onu, la Corea del Nord ha spedito ai siriani forniture che potevano essere usate per la produzione di armi chimiche. 
Tecnici nord coreani sono anche stati avvistati mentre lavoravano in impianti di armi chimiche e missili in Siria.
La Croce Rossa Internazionale ha affermato che i "corridoi umanitari" annunciati da Mosca e dall'alleato siriano non possono essere usati dai civili senza un accordo tra le parti belligeranti e senza le necessarie garanzie di sicurezza. 

Su questo Jaysh al Islam, la fazione armata anti-regime che domina la Ghuta e che riceve sostegno dall'Arabia Saudita, ha commentato tramite il suo rappresentante Muhammad Allush la decisione russa di indire la "pausa umanitaria", affermando che questa iniziativa serve a svuotare la Ghuta, da circa dieci giorni sotto intensi raid aerei, dei suoi civili e non a portare soccorso. 

Dal canto suo il ministro degli Esteri russo, Serghiei Lavrov, ha risposto mettendo in dubbio la volontà delle forze armate anti-regime nella Ghuta di aderire alla risoluzione Onu di sabato scorso, in cui si chiedeva una tregua di 30 giorni, ma che è stata violata dopo meno di 24 ore. 

Anche ieri i bombardamenti aerei e di artiglieria governativi sono comunque proseguiti sulla Ghuta. E secondo fonti mediche locali si registrano almeno otto morti tra i civili, tra cui un bambino. Le aree più colpite sono Kfar Batna, Jisrin, Arbin, Harasta, Duma. 

L'agenzia governativa siriana Sana ha invece accusato i "terroristi" della Ghuta di lanciare colpi di mortaio sul posto di blocco attraverso cui dovrebbero passare, secondo Mosca e Damasco, i civili in fuga dall'area assediata. La Russia ha inoltre affermato che "durante la pausa umanitaria miliziani armati hanno continuato ad attaccare le posizioni delle forze governative vicino alle città di Hazram e Nashabiya, e dopo l'una del pomeriggio sono anche passati all'offensiva in altre aree".

Secondo l'Organizzazione mondiale della Sanità, più di mille civili hanno urgentissimo bisogno di aiuto medico perché feriti o gravemente malati. Ma la Croce Rossa Internazionale ha ribadito che la "pausa umanitaria" decisa dalla Russia "offre poco tempo per portare aiuto e non dà garanzie di sicurezza". L'ultimo convoglio umanitario ha portato aiuti nella Ghuta lo scorso novembre, ha ricordato Ingi Sedky, portavoce della Croce Rossa a Damasco.

Lorenzo Trombetta

Israele: deportazioni forzate di rifugiati africani, schiavitù degli immigranti dall’Est Europa

L'Indro
Gli africani deportati in Rwanda e Uganda vengono derubati e successivamente espulsi; i migranti ucraini e georgiani sfruttati dalle ditte israeliane.


Nonostante l’opposizione interna e internazionale, le autorità israeliane hanno messo in pratica le politiche razziali e le deportazioni forzate contro i rifugiati eritrei e sudanesi, addirittura prima del ultimatum fissato per il 1° aprile 2018. 


L’associazione in difesa dei rifugiati Hotline for Refugees and Migrants denuncia l’arresto di 16 rifugiati eritrei che hanno rifiutato di essere deportati in Ruanda e Uganda. I rifugiati sono stati prelevati dal centro detenzione di Holot per essere trasferiti in prigione. I rifugiati del centro Holot hanno iniziato uno sciopero della fame per protestare contro queste politiche razziali.

Secondo l’associazione Hotline, altri 600 rifugiati africani hanno ricevuto la notifica di immediata deportazione in Ruanda e Uganda. 

Dovranno lasciare Israele ricevendo 3.500 dollari come assistenza al loro reinserimento nei Paesi africani. Ai governi di Kigali e Kampala verranno versati 5.000 dollari per ogni rifugiato accolto. Se il piano di deportazioneisraeliano verrà completato, i due governi africani si spartiranno un considerevole bottino: 200 milioni di dollari.

L’Alto Commissariato ONU per i Rifugiati, UNHCR, ha recentemente accusato il Governo ruandese di non offrire alcuna assistenza ai rifugiati etiopi e sudanesi deportati da Israele e di non facilitare il loro inserimento nel tessuto socio economico autoctono. 

L’accusa si basa su indagini UNHCR sulle precedenti deportazioni da Israele segretamente avvenute tra il 2014 e il 2016.

La politica israeliana di controllo dei flussi migratori verso l’Africa “ha raggiunto dei livelli di xenofobia e razzismo che tristemente ricordano gli inizi delle persecuzioni della comunità ebraica negli anni Trenta in Germania”, sostiene una nostra fonte ugandese. 

Un parallelo di certo non amato dal Governo israeliano, ma sempre più condiviso da varie associazioni ebraiche comprese quelle legate alla Memoria del Olocausto. 

Parallelamente ai tentativi di deportazione forzata e agli arresti di rifugiati eritrei e sudanesi, il Governo di Tel Aviv lo scorso gennaio ha approvato un decreto che offre asilo politico ai soldati e ufficiali eritrei che disertano. 

Una decisione apparentemente contraddittoria, ma, secondo alcune fonti, legata al tentativo di carpire segreti militari e di arruolare mercenari per la repressione contro i palestinesi o nella guerra segreta condotta in Siria.

La politica migratoria israeliana sta anche creando un vero e proprio mercato di sfruttamento dei richiedenti asilo e un florido traffico di esseri umani, come riportò l’Associazione Hotline for Refugees and Migrants in un dettagliato rapporto del settembre 2017. 

Vittime di questi traffici sono migranti ucraini e georgiani. Le indagini di Hotline fecero emergere una fitta rete di imprese e agenzie di collocamento al lavoro israeliane che speculano sugli immigratiprovenienti dalla Ucraina e dalla Georgia tramite una calcolata propaganda e disinformazione sulla possibilità di ottenere un lavoro legale in Israele, condotta nei due rispettivi Paesi della ex Unione Sovietica. 

Sfruttando le complicazioni create dal dipartimento speciale, PIARSDU (Population and Immigration Authority’s Refugee Statud Determination Unit), le ditte coinvolte nel traffico e sfruttamento di esseri umani promettono un lavoro legale facilitando le pratiche per ottenere permessi di lavoro o statuto di rifugiato. Queste ditte esercitano il traffico di esseri umani alla luce del sole senza che il Governo intervenga. Pubblicano sui media israeliani, ucraini e georgiani annunci offrendo servizi per ottenere permessi di residenza, promettendo regolari contratti di lavoro.

Le ditte si avvalgono di intermediari (complici) ucraini e georgiani che fungono da ufficiali di collegamento tra l’aspirante immigrato e le agenzie di collocamento israeliane. Questi complici chiedono alla vittima di media dai 400 ai 550 dollari americani per il servizio reso. Altri 1.200 dollari vengono pagati all’agenzia israeliana per le pratiche burocratiche per ottenere il visto e il lavoro in Israele. Alcune ditte israeliane addirittura incoraggiano l’immigrazione clandestina dando precise informazioni su come eludere i controlli alle frontiere. Si sospetta la complicità delle autorità di Immigrazione comprese quelle dell’Aeroporto internazionale di Ben-Gurion.

Ruanda: proteste rifugiati congolesi contro taglio razioni alimentari, sale a 11 bilancio delle vittime

Agenzia Nova
Kigali - È salito ad 11 il bilancio dei rifugiati congolesi uccisi nelle proteste esplose la scorsa settimana nella città di Karongi, nell’ovest del Ruanda, dove circa 3 mila rifugiati ospitati nel vicino campo profughi di Kiziba stanno protestando contro il taglio delle razioni alimentari. 

Lo ha reso noto oggi l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unchr), secondo cui otto rifugiati sono morti a Karongi e altri tre nel campo di Kiziba. 

I disordini, come riferito la scorsa settimana dal portavoce della polizia ruandese Theos Badege, sono scoppiati quando la polizia ha cercato di disperdere i dimostranti con i gas lacrimogeni dopo il lancio di sassi e lamiere da parte dei manifestanti. 

Negli scontri sono stati arrestati 15 rifugiati. In precedenza i rifugiati avevano accusato i militari dell’esercito di aver aperto il fuoco contro di loro, ferendo almeno due persone. 

Il mese scorso l’Unhcr ha fatto sapere di aver tagliato le razioni a causa della carenza di finanziamenti. Il Ruanda ospita attualmente circa 174 mila rifugiati, di cui 57 mila provenienti dal vicino Burundi, in fuga dalle violenze scoppiate nel 2015.

lunedì 26 febbraio 2018

Bahrein, Nabil Rajab condannato a 5 anni per dei tweet. Amnesty: vergognoso attacco alla libertà d’espressione

Amnesty International
La vergognosa condanna a cinque anni di carcere del noto difensore dei diritti umani Nabil Rajab per aver espresso opinioni pacifiche online mostra, secondo Amnesty International, il profondo disprezzo delle autorità del Bahrein per la libertà d’espressione.
Nabil Rajab
Rajab è stato giudicato colpevole di aver pubblicato, nel 2015, tweet e retweet riguardanti la tortura nelle prigioni del Bahrain e l’uccisione di civili nel conflitto dello Yemen ad opera della coalizione guidata dall’Arabia Saudita.

“Questa condanna è uno schiaffo in faccia alla giustizia e illustra bene la spietata determinazione delle autorità del Bahrein di schiacciare ogni forma di dissenso e fino a che punto sono disposte ad andare per ridurre al silenzio chi le critica in modo pacifico“, ha dichiarato Heba Morayef, direttrice di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Africa del Nord.

“Il vergognoso verdetto va annullato, le autorità devono prosciogliere Rajab da ogni altra accusa pendente a suo carico e rilasciarlo immediatamente. L’idea che debba passare altri cinque anni in carcere solo per aver osato esprimere le sue idee online è semplicemente inaccettabile“, ha aggiunto Morayef.

Rajab, presidente del Centro per i diritti umani del Bahrein, è regolarmente perseguitato per il suo impegno pacifico in favore dei diritti umani: dal 2012 è entrato e uscito dal carcere più volte a causa del suo attivismo pacifico. Dal novembre 2014 gli è vietato lasciare il paese.

Siria: ong, sospetto attacco chimico in raid su Ghuta. 10 morti nei nuovi bombardamenti.

AnsaMed
L'Osservatorio nazionale siriano avanza il sospetto che i governativi siriani abbiano lanciato un attacco chimico con cloro su Al-Shifuniyah, nella Ghuta orientale. 



"Diversi civili hanno avuto sintomi di soffocamento, un bimbo è morto", afferma l'Ong, precisando di non avere ancora informazioni dettagliate sull'episodio e sulla natura delle armi usate nel raid. 

Intanto, è di almeno 10 morti il bilancio di nuovi bombardamenti e raid aerei sulle città della Ghuta nonostante la risoluzione dell'Onu per la tregua votata sabato scorso. 

L'Osservatorio per i diritti umani e i volontari degli White Helmets, hanno affermato che 9 persone sono morte in un raid poco dopo la mezzanotte a Duma e un'altra persona ad Harasta.
Ieri i morti sono stati 14.

Liliana Segre: “Genocidi e pogrom nascono dalle parole” "La caccia all'uomo di Macerata ci mostra il baratro"

Askanews
“La caccia all’uomo nero avvenuta a Macerata ci ha mostrato il baratro che abbiamo di fronte, la possibilità di evitare il precipitare degli eventi è ancora nelle nostre mani”.
Lo ha detto la senatrice a vita Liliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz allo sterminio nazista, in un messaggio video trasmesso dal palco della manifestazione Mai più fascismi in piazza del Popolo a Roma.


“Si è valicato un limite, passata una linea – ha affermato dopo aver precisato di non aver mai fatto politica – e se non si reagisce sarà un passaggio senza ritorno. Dopo i fatti di Macerata mi sono sentita sgomenta, è mai possibile che torni un tempo in cui qualcuno nella nostra Italia, esponendo simboli nazisti, decida di far strage di esseri umani non per qualcosa che hanno fatto ma per ciò che sono, per il colore della pelle”.

Ricordando il pretesto richiamato per motivare la sua azione dall’attentatore di Macerata, Segre ha dedicato un “pensiero commosso a Pamela Mastropietro”, per il cui omicidio sono indagati due stranieri. Ma, ha sottolineato, “le persone pronte a covare odio non mancano mai, sono menti deboli, suggestionabili, personalità fanatiche. Ma questi elementi ineliminabili non bastano per produrre il razzismo. Occorre convincere il fanatico che l’ingiustizia ha dei colpevoli, bersagli facili, persone che possiamo smettere di considerare nostri simili. 
Tutte le persecuzioni, i genocidi, i pogrom nascono dalle parole, che quasi sempre occultano le cause reali delle ingiustizie e i veri rimedi, dirottando la rabbia degli offesi verso comodi capri espiatori”.
Liliana Segre ha quindi lanciato “un appello a tutti i responsabili politici di tutte le tendenze, a coloro che operano nella comunicazione e contribuiscono a formare gli umori del popolo. So bene che essi mai accetterebbero un appello che provenisse dai loro avversari politici o da intellettuali di parte. Ma voglio illudermi che possano accettare le esortazioni di una vecchia nonna: non usate con leggerezza le parole, non fomentate odio e pregiudizi, non dividete gli esseri umani in categorie”.

domenica 25 febbraio 2018

Sant'Egidio - Corridoi Umanitari dall'Etiopia: altri 114 profughi attesi a Roma per martedì

Affari Italiani
La Comunità rinnova l'accordo sui corridoi umanitari e apre le porte ai migranti.
Oltre 100 profughi africani in arrivo nella Capitale, la Comunità di Sant'Egidio offre accoglienza, servizi e cure mediche dopo le prime 25 persone arrivate a Roma lo scorso 30 novembre.



Attesi per martedì 27 febbraio 114 profughi provienienti dall'Etipia, ma originari di diversi Paesi del Corno d'Africa, in arrivo all'aeroporto di Fiumicino. La Comunità di Sant'Egidio, attraverso una nota, rinnova così gli accordi stretti nell'ambito dei corridoi umanitari: "Dopo le prime 25 persone, giunte lo scorso 30 novembre, martedì 27 febbraio è previsto dall’Etiopia l’arrivo di 114 profughi originari di diversi Paesi del Corno d’Africa, nell’ambito del Protocollo di intesa con lo Stato italiano, siglato dalla Comunità di Sant’Egidio e dalla Cei, che agisce attraverso Caritas Italiana e Fondazione Migrantes. Il Protocollo, finanziato con fondi Cei 8xmille, prevede il trasferimento dall’Etiopia di 500 profughi in due anni. 


L’accoglienza - continua la nota - prevede l’intervento di parrocchie, famiglie e istituti religiosi e l’utilizzo di appartamenti privati, con il supporto di famiglie tutor italiane che si occuperanno di accompagnare il percorso di integrazione sociale e lavorativa di ognuno sul territorio garantendo servizi, corsi di lingua italiana, cure mediche adeguate. 

A Fiumicino, è prevista l’accoglienza ai profughi in arrivo e una conferenza stampa con la partecipazione di: S.E. Mons. Nunzio Galantino, Segretario Generale della CEI, Marco Impagliazzo, Presidente della Comunità di Sant’Egidio e Mario Giro, viceministro degli Esteri e Rappresentanti del Ministero dell’Interno. I profughi, il cui arrivo all’aeroporto di Fiumicino è previsto per le ore 4.30 del mattino, saranno accolti da Oliviero Forti, responsabile dell’Ufficio Immigrazione di Caritas Italiana e Daniela Pompei, responsabile della Comunità di Sant’Egidio per i servizi agli immigrati, rifugiati e Rom".

La crisi dimenticata del Venezuela e il dramma dell’esodo di rifugiati

Formiche
Entro giugno del 2018 si prevede la fuga di circa 3 milioni di venezuelani a causa della crisi economica e umanitaria 


Il flusso di cittadini attraverso le frontiere della Colombia e del Brasile, così come verso altri Paesi del mondo (Italia inclusa) colloca il Venezuela allo stesso livello della Siria quando si parla del fenomeno migrazione.

Un reportage del quotidiano americano The Wall Street Journal sostiene che un decimo della popolazione è fuggito dal Venezuela a causa della crisi sociale, umanitaria ed economica del regime di Nicolás Maduro. Le cifre registrate dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati indicano che le richieste d’asilo politico dei venezuelani all’estero sono più di 100mila. L’Istituto di Migrazione della Colombia calcola che soltanto nell’anno 2017 sono arrivati in territorio colombiano (per restare) 500mila venezuelani.

Le previsioni per il 2018
L’Assemblea Nazionale del Venezuela pronostica che per giugno del 2018 circa 3 milioni di venezuelani saranno fuori dal Paese. Più del 40% della popolazione ha manifestato l’intenzione di trasferirsi dal Venezuela. Il flusso di migranti nella frontiera colombo-venezuelana è aumentato del 600% l’anno scorso.

Come in Siria e Birmania
Il Wall Street Journal sostiene che queste statistiche si possono comparare con i 600mila siriani che hanno chiesto asilo politico in Germania o la migrazione di 700mila membri della minoranza etnica rohingya in Birmania che sono scappati verso il Bangladesh.

Il Washington Post ha dedicato un editoriale alla “peggior crisi dei rifugiati in America latina”. Per il quotidiano americano, il catastrofico collasso economico del Venezuela sta attraversando i propri confini. Il governo colombiano di Juan Manuel Santos ha ammesso che l’arrivo di circa 600mila venezuelani sta diventando un problema, mentre nella frontiera con il Brasile il flusso è di circa 140mila persone. Negli Stati Uniti le richieste di asilo sono 60mila e per le Nazioni Unite negli ultimi anni sono andati via dal Paese 1,1 milioni di cittadini.

Fare di più
I rifugiati venezuelani – si legge nell’editoriale del Washington Post – attirano molta meno attenzione e aiuti internazionali di chi fugge dalla Birmania o dalla Siria. Questo deve cambiare”. La motivazione, secondo la pubblicazione, è semplice: i venezuelani, una volta cittadini orgogliosi del Paese più ricco dell’America latina, ora stanno morendo di fame. “Il 90% dei venezuelani dichiara di non avere i mezzi per comprare cibo a sufficienza, e il 61% dichiara di andare a letto affamato – si legge nell’editoriale – […] Senza una soluzione in vista per la crisi in Venezuela, è arrivato il momento che gli Stati Uniti e gli altri Paesi facciano di più per mitigare l’impatto esterno di questa situazione”.

Rossana Miranda

Crimini di guerra in Sud Sudan: l'Onu identifica quaranta sospetti responsabili

Avvenire
Primo rapporto della Commissione per i diritti umani in quattro anni di guerra civile: si tratta in particolare di 33 generali, cinque colonnelli e tre governatori statali.


La commissione per i diritti umani dell'Onu afferma di aver identificato "più di quaranta alti funzionari" ritenuti responsabili di crimini di guerra e crimini contro l'umanità nel Sud Sudan. Si tratta in particolare di 33 generali, cinque colonnelli e tre governatori statali, dettaglia il comunicato dell'Onu senza rivelare i nomi. Si tratta del primo rapporto della Commissione per i diritti umani nel Sud Sudan, incaricata dal Consiglio Onu dei Diritti umani di riunire prove per la "Corte Ibrida" e altri meccanismi concordati nell'ambito dell'accordo di pace del 2015 tra opposizione e governo del Sud Sudan.

La "Corte Idrida" (o Tribunale Ibrido) per giudicare i crimini commessi in Sud Sudan è stata chiesta dall'Unione Africana (Ua) ed dal Sud Sudan e diverrebbe un meccanismo a gestione interamente africano ma composto di giudici dell'Ua e sudsudanesi

Commentando il rapporto, il vice direttore regionale di Amnesty International per la regione, Seif Magango, ha sottolineato "la brutalità scioccante" di quanto rivelato dalla commissione. Questo dovrebbe "scuotere il mondo" e spingerlo a "un'azione rapida per affrontare le orribili violazioni dei diritti che continuano senza sosta in quattro anni di conflitto nel Sud Sudan". 

Magango ha inoltre sottolineato "la necessità critica" di istituire la Corte ibrida per il Sud Sudan e di rinnovare il mandato della Commissione, che scade in marzo.

sabato 24 febbraio 2018

Guinea Equatoriale, 147 attivisti minacciati di pena di morte

Corriere della Sera
Ribellione, attacchi alle autorità e disordini pubblici.
Sono i reati dei quali sono accusati 147 attivisti dell’opposizione della Guinea Equatoriale, che secondo il ministro della Sicurezza avrebbero recentemente tentato un colpo di stato, aiutati da stranieri provenienti da Ciad, Repubblica Centrafricana e Camerun.
Data l’impossibilità, per la stampa indipendente, di operare nel paese, non è possibile capire se le cose siano andate esattamente così.

Gli attivisti hanno denunciato di aver subito pesanti torture nella stazione centrale della polizia della capitale Malabo, tristemente denominata “Guantánamo”.

Il presidente Teodoro Obiang governa il paese da quasi 40 anni, distinguendosi tra i leader africani più attivi nello stroncare ogni forma di dissenso. I rapporti delle organizzazioni per i diritti umani segnalano regolarmente uccisioni illegali da parte delle forze di sicurezza, torture sistematiche ai danni dei detenuti, arresti arbitrari e sparizioni.

Quanto alla pena di morte, nel 2017 Obiang aveva proclamato una moratoria ma secondo la Convergenza per la democrazia sociale, all’opposizione, da allora otto condannati a morte sarebbero stati fucilati in segreto.

Riccardo Noury e Monica Ricci Sargentini

Somalia. HRW: ex bambini di al-Shabaab torturati dal governo e non affidati all'UNICEF per essere riabilitati

sicurezzainternazionale.luiss.it
I bambini somali sospettati di avere legami con il gruppo terroristico al-Shabaab vengono detenuti in celle come gli adulti. È quanto ha denunciato Human Rights Watch (HRW) in un report pubblicato il 21 febbraio, in cui fa luce sulle violazioni e gli abusi subiti dai ragazzi presi in custodia dal governo di Mogadiscio, poiché ritenuti essere legati ai jihadisti somali.


Nonostante il governo abbia promesso all'Onu di liberare i minori, facendoli passare sotto la protezione dell'Unicef per essere riabilitati, finora, le autorità regionali non sono state in grado di mantenere la parola data, continuando a commettere violazioni dei diritti umani. Una ricercatrice di HRW, Laetitia Bader, ha riferito che i bambini, dopo aver sofferto molto nelle mani dei jihadisti, continuano a subire abusi anche una volta sotto la custodia del governo. Il report di HRW è basato sulle interviste a 80 minori che, dopo aver trascorso molto tempo tra le fila di al-Shabaab, sono stati trattenuti dall'intelligence somala, hanno subito processi presso corti militari e sono stati messi in prigione più volte.

Secondo le Nazioni Unite, dal 2015, le autorità della Somalia hanno trattenuto centinaia di ragazzi sospettati di essere associati al gruppo terroristico, nonostante il Paese sia obbligato a riconoscere la situazione speciale in cui versano i bambini, in linea con il diritto internazionale, i quali necessitano assistenza e di intraprendere un processo di reintegrazione. Le forze di sicurezza somale, al contrario, non hanno trattato i casi che riguardavano i minori nel modo adeguato. Una volta arrestati, i ragazzi vengono generalmente interrogati dagli ufficiali dell'intelligence, della National Intelligence and Security Agency (Nisa) a Mogadiscio, o ralla Puntland's Intelligence Agency (PIA) a Bosasso. Queste decidono poi come categorizzarli, quanto trattenerli e in che modo poi passarli sotto la protezione dell'Unicef. Tuttavia, in queste fasi, i bambini subiscono maltrattamenti e abusi, venendo spesso isolati dai genitori e minacciati, talvolta anche torturati e picchiati per ottenere confessioni. Un 16enne ha riferito a HWR di essere stato chiuso in una cella per settimane, venendo picchiato di notte, senza che nessuno gli fornisse poi assistenza medica.

Alla luce di tutto ciò, HRW chiede al governo somalo di interrompere immediatamente tali pratiche, e di permettere l'intervento dell'Unicef per assicurare la protezione dei minori. Rivolgendosi ai partner internazionali, l'organizzazione umanitaria ha chiesto di segnalare qualsiasi caso sospetto di maltrattamento per prevenire e contrastare l'abuso dei minori. Al-Shabaab, in arabo "la gioventù", è un'organizzazione jihadista fondata nel 2006 e affiliata ad al-Qaeda, che mira a rovesciare il governo di Mogadiscio, appoggiato dall'Onu, per prendere il potere e imporre la propria visione della legge islamica, la sharia.

Il Country Report on Terrorism 2016 del governo americano ha inserito la Somalia al primo posto tra i Paesi considerati "safe heavens" (rifugio sicuro) del terrorismo in Africa. Con tale termine, vengono indicati quegli Stati in cui le organizzazioni terroristiche sono in grado di operare liberamente per colpa di una governance locale inadeguata e incapace di contrastare le attività terroristiche. Secondo il rapporto, la capacità di al-Shabaab di operare indisturbatamente nel Paese è stata dovuta, in larga parte, alla fallibilità delle operazioni anti-terrorismo portate avanti dal governo. L'attacco più mortale compiuto da al-Shabaab in Somalia si è verificato il 14 ottobre 2017, a Mogadiscio, dove l'esplosione di autobombe ha ucciso più di 500 persone.

Migranti, "Portateli a casa tua!" In centinaia di italiani lo fanno ... ed è un successo!

Redattore Sociale
Sono oltre 400 le famiglie che negli ultimi anni hanno aperto le porte a rifugiati e richiedenti asilo. Un esercito invisibile di cittadini che sfida la diffidenza e crea comunità. L’analisi nell’ultimo rapporto sul diritto d’asilo di Fondazione Migrantes. “Un welfare dal basso che rimette al centro le persone”.



 “Sei favorevole all’accoglienza dei migranti in Italia? Allora portateli a casa tua”. E’ un’espressione che si sente ormai ripetere spesso, diventata negli ultimi anni quasi un modo di dire. Eppure c’è chi in questi anni le porte di casa le ha aperte davvero per ospitare per un periodo più o meno lungo un rifugiato. 


A partire dalle prime sperimentazioni del comune di Torino dieci anni fa, con il progetto “Rifugio diffuso” iniziato nel 2008, diversi progetti sono stati portati avanti soprattutto a partire dal 2015, quando iniziò quella che fu chiamata “crisi dei rifugiati nel cuore dell’Europa”. Parallelamente all’aumento del numero di richiedenti asilo sul territorio italiano sono aumentate, infatti, anche le espressioni di solidarietà e di desiderio di coinvolgimento da parte di molti cittadini. A fotografare il fenomeno è il dossier Il diritto d’asilo 2018, presentato oggi a Ferrara dalla Fondazione Migrantes.

Oltre 400 famiglie hanno aperto le porte negli ultimi tre anni. Nel dossier si sottolinea come alla fine del 2017 erano in accoglienza nel nostro Paese 183.681 richiedenti asilo e rifugiati: appena il 3 per mille dei residenti. Nello specifico, in un capitolo dedicato, Chiara Marchetti, analizza 7 esperienze di accoglienza in famiglia locali o nazionali. Negli ultimi tre anni oltre 400 nuclei familiari hanno accolto almeno 500 persone (soprattutto rifugiati ma anche richiedenti asilo); alcune sono finanziate con fondi Sprar, altre con fondi Cei dell’8 per mille, altre ancora tramite fund raising e donazioni private.

“L’Italia si trova in una fase in cui la messa a sistema dell’accoglienza istituzionale dei richiedenti protezione internazionale è venuta a corrispondere con il momento in cui il numero di domande di asilo è andato crescendo molto rapidamente, passando dalle 26.620 del 2013 alle 123.482 del 2016, con un corrispondente ampliamento del numero complessivo di migranti accolti, che nel corso del 2016 ha superato complessivamente quota 200 mila – sottolinea Marchetti -. 
[...]
Tutto ciò avviene nel contesto di un peggioramento della percezione degli italiani nei confronti degli stranieri in generale, ma più specificamente nei confronti di profughi e rifugiati che solo negli ultimi anni sono entrati nel dibattito pubblico e politico come fenomeno a sé stante”. Nonostante questo, però, c’è stato anche un incremento della sensibilità e del desiderio di attivarsi per aiutare richiedenti asilo e rifugiati, con manifestazioni di solidarietà, espressioni concrete di vicinanza ed aiuto, organizzazione dal basso di servizi e supporti materiali e sociali. “Non è un caso quindi che da diverse parti sia sorta l’idea di sperimentare dei progetti che potessero affrontare contemporaneamente molti dei problemi appena espressi, valorizzando al contempo la disponibilità spontanea di tanti cittadini residenti – spiega ancora la ricercatrice – In questo senso tutte le esperienze di accoglienza di rifugiati in famiglia mettono a tema il contatto interculturale e il supporto nell’orientamento e nella socializzazione dei rifugiati come parte di un più complesso percorso di integrazione sociale che risponde in qualche misura alle carenze dei sistemi istituzionali in favore dei titolari di protezione, ma che allo stesso tempo valorizza l’apporto positivo di quelle componenti della società italiana che mostrano solidarietà ed empatia nei confronti dei rifugiati e una più generale apertura verso la creazione di comunità interculturali”.

L’accoglienza in famiglia che crea comunità. Anche se l’obiettivo è comune, i progetti che prevedono l’accoglienza in famiglia seguono modalità diverse. Nel dossier vengono analizzati innanzitutto a seconda della fonte di finanziamento (pubblica o privata), della fase in cui viene prevista l’accoglienza in famiglia (dopo il riconoscimento della protezione, durante la procedura di asilo o indifferentemente), la propensione a favorire il coinvolgimento di famiglie italiane o di connazionali degli ospitati (accoglienze etero o omoculturali), la partecipazione più o meno attiva e integrata degli enti locali, la matrice religiosa o laica dei progetti. 

Alcune esperienze, infatti, nascono nell’ambito delle accoglienze istituzionali (soprattutto all’interno del sistema Sprar, ma talvolta anche Cas), altre invece sono iniziative esplicitamente extraistituzionali e autogestite, come nel caso di Refugees Welcome. 

Tra le esperienze pioneristiche vengono quelle portate avanti dalla rete di coordinamento Non solo asilo Piemonte, Europa Asilo, CocoPa, Ciac onlus e Recosol. Progetti che hanno dal basso sollecitato le istituzioni ad aprirsi a forme di accoglienza innovativa. Diverso, invece, il caso di Refugees Welcome iniziativa che ha portato in Italia un’idea nata in Germania e di cui nel report vengono messe in luce alcune criticità, che si basano proprio sul fatto di essere extra istituzionale. “Quando famiglie e rifugiati si incontrano, quando vivono insieme una quotidianità, cambia lo sguardo di quel singolo rifugiato non solo sulla famiglia in cui vive ma su porzioni più ampie della società. E viceversa – aggiunge Marchetti -. Lo sguardo della famiglie parte dai migranti conosciuti in carne ed ossa e si posa in modo differente sugli altri stranieri che vivono nelle nostre città. Quando tutti i soggetti entrano in relazione in modo virtuoso – conclude la ricercatrice – l’accoglienza in famiglia si integra nelle politiche pubbliche di cittadinanza e partecipazione, restituendo centralità ai soggetti marginalizzati, visti solo come beneficiari di un welfare in decadenza”. (ec)

venerdì 23 febbraio 2018

Rapporto Amnesty 2017-18 - Diritti umani minacciati dalla cultura dell'odio

Amnesty International
“Siamo entrati nel 70° anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani, eppure è fuori di dubbio che i diritti umani non possano essere dati per scontati da nessuno di noi“. 

Salil Shetty, Segretario generale di Amnesty International

Durante tutto il 2017, milioni di persone nel mondo hanno sperimentato i frutti amari delle sempre più diffuse politiche di demonizzazione.




L’ESODO DEI ROHINGYA PERSEGUITATI IN MYANMAR
Le estreme conseguenze di queste politiche sono state messe a nudo dall’orribile campagna militare di pulizia etnica contro la popolazione rohingya in Myanmar, che in poche settimane ha causato un esodo di circa 655.000 persone verso il vicino Bangladesh, la crisi dei rifugiati esplosa più velocemente del 2017. A fine anno, le prospettive per il futuro rimanevano decisamente oscure e la persistente incapacità dei leader mondiali di fornire una soluzione concreta per i rifugiati ha lasciato poche ragioni per essere ottimisti. Questo evento rimarrà nella storia come un’ulteriore prova del fallimento catastrofico del mondo nell’affrontare situazioni che possono offrire terreno fertile per atrocità di massa.

I segnali d’allarme erano evidenti da tempo in Myanmar: discriminazione e segregazione su larga scala erano diventate la normalità, in un regime equiparabile all’apartheid, e per molti anni la popolazione rohingya è stata demonizzata e privata delle condizioni basilari per vivere in dignità. La trasformazione della discriminazione e della demonizzazione in violenze di massa è qualcosa di tragicamente familiare e le sue conseguenze disastrose non possono essere facilmente cancellate.


I DIRITTI UMANI NON POSSONO ESSERE DATI PER SCONTATI DA NESSUNO DI NOI
Se le terribili ingiustizie inflitte ai rohingya sono state particolarmente in evidenza nel 2017, la tendenza di leader e politici a demonizzare interi gruppi sulla base della loro identità ha attraversato tutto il pianeta. Il 2017 ci ha mostrato ancora una volta cosa accade quando le politiche di demonizzazione diventano la tendenza dominante, con pessime conseguenze per i diritti umani.

Siamo entrati nel 2018, 70° anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani, eppure è fuori di dubbio che i diritti umani non possono essere dati per scontati da nessuno di noi. Di certo non possiamo dare per scontato il fatto di poterci riunire per protestare o per criticare i nostri governi. Né possiamo dare per scontato che avremmo a disposizione un sistema previdenziale quando saremo vecchi o invalidi; che i nostri bambini potranno crescere in città con un’aria pulita e respirabile; o che, in quanto giovani, lasceremo la scuola per trovare lavori che ci permetteranno di comprare una casa.

DIRITTI UMANI IN PERICOLO: LE NOSTRE SFIDE
La battaglia per i diritti umani non è mai vinta definitivamente, in nessun luogo e in nessun momento storico. I confini si spostano di continuo, per cui non c’è spazio per il compiacimento. Nella storia dei diritti umani, questo non è mai stato più chiaro di ora. Ma, dovendo far fronte a sfide senza precedenti in tutto il mondo, le persone hanno continuato a dimostrare che la loro sete di giustizia, dignità, uguaglianza non verrà spenta, trovando ancora modi nuovi e coraggiosi per esprimere questo bisogno, spesso a caro prezzo. Nel 2017, questa battaglia globale per i valori ha raggiunto un nuovo livello d’intensità.

Gli attacchi ai valori su cui si basano i diritti umani, che affermano la dignità e l’uguaglianza di tutte le persone, hanno assunto vaste proporzioni.

I conflitti
I conflitti, alimentati dal commercio internazionale di armi, continuano ad avere effetti devastanti sui civili, spesso secondo un piano prestabilito. Che sia nella catastrofe umanitaria dello Yemen, esacerbata dal blocco imposto dall’Arabia Saudita, o nelle uccisioni indiscriminate di civili compiute dalle forze governative e internazionali, nell’uso dei civili come scudi umani da parte del gruppo armato autoproclamatosi Stato islamico in Iraq e Siria o nei crimini di diritto internazionaleche portano a enormi flussi di rifugiati dal Sud Sudan, talvolta le parti coinvolte nei numerosi conflitti del mondo hanno rinunciato anche a fingere di rispettare i loro obblighi di protezione dei civili.

La crisi globale dei rifugiati
I leader dei paesi ricchi hanno continuato ad affrontare la crisi globale dei rifugiati con una miscela di elusione e totale insensibilità, riferendosi ai rifugiati non come a esseri umani ma come a problemi da evitare. Il tentativo del presidente statunitense Donald Trump di vietare l’ingresso a tutti i cittadini di diversi paesi a maggioranza musulmana, sulla base della loro nazionalità, è stato evidentemente una mossa dettata dall’odio. La maggior parte dei leader europei è stata riluttante ad affrontare la grande sfida di disciplinare la migrazione in modo sicuro e legale e ha deciso che, in pratica, niente è vietato nell’intento di tenere i rifugiati lontani dalle coste del continente. Le conseguenze inevitabili di questo approccio sono state evidenti negli scioccanti abusi subiti dai rifugiati in Libia, con la piena consapevolezza dei leader europei.

Elezioni: odio e paura cavalcati dalla politica
In zone dell’Europa e dell’Africa, lo spettro incombente dell’odio e della paura ha caratterizzato una serie d’importanti elezioni. In Austria, Germania e Paesi Bassi, alcuni candidati hanno cercato di trasformare le preoccupazioni sociali ed economiche in paura, attribuendo la colpa in particolar modo a migranti, rifugiati e minoranze religiose. In Kenya, le elezioni presidenziali di agosto e ottobre sono state guastate da intimidazione e violenza, anche basate sull’identità etnica.

IL CORAGGIO DI CHI DIFENDE I DIRITTI UMANI
Tuttavia, il 2107 ha anche dimostrato la persistente volontà delle persone di lottare per i loro diritti e per i valori che vogliono vedere affermarsi nel mondo. Nuove e gravi minacce hanno dato un’ulteriore spinta allo spirito di protesta.

In Polonia, un grave attacco all’indipendenza della magistratura ha portato in strada un gran numero di persone. In Zimbabwe, a novembre, a decine di migliaia hanno marciato con determinazione per portare a compimento la loro battaglia decennale contro le politiche autoritarie e per chiedere vere elezioni nel 2018, in cui la volontà del popolo possa essere liberamente espressa. In India, la crescente islamofobia e un’ondata di linciaggi di musulmani e dalit hanno provocato indignazione e proteste, accompagnate dallo slogan “Non nel mio nome“. Una grande marcia in occasione della Giornata internazionale delle donne, partita negli Usa ma con eventi collegati in tutto il mondo, è diventata uno dei più grandi eventi di protesta della storia. E a livello globale, il fenomeno del #MeToo ha portato un’attenzione enorme sulla spaventosa estensione degli abusi e delle molestie sessuali.

Ma il prezzo da pagare per opporsi all’ingiustizia continua a crescere. In Turchia, l’attacco spietato e arbitrario alla società civile, sull’onda del fallito colpo di stato del 2016, è continuato a ritmo serrato, colpendo il presidente e la direttrice di Amnesty International Turchia, insieme a migliaia di altri.

La Cina ha messo in atto un giro di vite senza precedenti, prendendo di mira persone e organizzazioni percepite come critiche verso il governo, in nome della “sicurezza nazionale“. A seguito delle ampie e diffuse proteste in Russia, centinaia di manifestanti pacifici, passanti e giornalisti sono stati arrestati; in molti sono andati incontro a maltrattamenti, detenzioni arbitrarie e pesanti multe, inflitte in seguito a processi iniqui. Nella maggior parte del continente africano, l’intolleranza verso le proteste pubbliche è stata palese in modo allarmante, dai divieti arbitrari in Angola e Ciad, alla pesante repressione nella Repubblica Democratica del Congo, in Sierra Leone, Togo e Uganda. In Venezuela, centinaia di persone sono state detenute arbitrariamente e molte altre hanno subìto le conseguenze dell’uso eccessivo e illegittimo della forza da parte delle forze di sicurezza, in risposta alle diffuse proteste pubbliche contro l’aumento dell’inflazione e la carenza di cibo e farmaci. In Egitto, le autorità hanno duramente limitato la libertà di criticare il governo, chiudendo o congelando i beni delle Ong, emanando leggi draconiane, che prevedevano cinque anni di carcere per la pubblicazione di un ricerca senza il permesso del governo, e condannando giornalisti e centinaia di oppositori politici a pene carcerarie. Mentre l’anno volgeva al termine, in Iran è iniziata un’ondata di manifestazioni contro l’ordine costituito, come non se ne vedevano dal 2009. Sono emerse denunce secondo cui le forze di sicurezza hanno ucciso e ferito manifestanti disarmati, facendo ricorso ad armi da fuoco e a un uso eccessivo della forza. A centinaia sono stati arrestati e detenuti in carceri note per l’uso della tortura e di altri maltrattamenti.

Nel 2018 ricorrono 20 anni da quando le Nazioni Unite hanno adottato per consenso la Dichiarazione dei difensori dei diritti umani, che fornisce loro protezione e sostegno e incoraggia chiunque a impegnarsi a favore dei diritti umani. Ancora, dopo due decenni, coloro che accettano il compito di difendere i diritti umani spesso affrontano le più gravi conseguenze. Nel 2017, la tragica morte del premio Nobel Liu Xiaobo, in Cina, è stata emblematica del disprezzo di troppi governi per i difensori dei diritti umani. È morto in custodia per un cancro al fegato, il 13 luglio, dopo che le autiorità cinesi gli avevano impedito di ottenere trattamenti medici.

TERRORISMO E ANTITERRORISMO
Nel frattempo, la retorica della sicurezza nazione e dell’antiterrorismo hanno continuato a fornire una giustificazione ai governi che cercavano di cambiare l’equilibrio tra poteri dello stato e libertà personali. I governi hanno l’evidente responsabilità di proteggere le persone dalla violenza pianificata per diffondere terrore ma, sempre più spesso, l’hanno fatto a spese dei diritti piuttosto che per tutelarli. L’Europa ha continuato a scivolare verso un stato caratterizzato da misure di sicurezza semipermanenti. La Francia, ad esempio, ha messo fine allo stato d’emergenza a novembre ma solo dopo aver adottato una nuova legge antiterrorismo, che ha introdotto nella legge ordinaria molte delle disposizioni del regime di emergenza.

Tuttavia, nonostante la gravità di questi attacchi ai diritti umani, una reale comprensione della battaglia globale per difendere i valori di dignità umana e uguaglianza esige che ci opponiamo a ogni semplicistica equazione “governi repressivi contro potere del popolo“. Oggi gli spazi pubblici sono contesi tra estremi spesso polarizzati. Mentre in Polonia e Usa ci sono stati grandi raduni per chiedere che la tutela dei diritti umani non sia minacciata, un’imponente marcia nazionalista con slogan xenofobi a Varsavia e un raduno di fautori della supremazia bianca a Charlottesville hanno reclamato politiche profondamente antitetiche ai diritti umani. In molti paesi, le politiche e le prassi illegittime che negano i diritti umani di alcuni gruppi hanno goduto del sostegno popolare.

VIOLENZA ONLINE E NOTIZIE FALSE
Oggi, molti dei nostri spazi pubblici più importanti sono online, dove gli strumenti per affrontare le sfide emergenti si sono rivelati a volte del tutto inadeguati rispetto all’obiettivo. La valanga di abusi online, specialmente contro le donne, e l’incitamento all’odio verso le minoranze hanno indotto una risposta debole e inconsistenteda parte delle compagnie che gestiscono i social media e azioni insufficienti da parte dei governi.

L’impatto delle “notizie false“, come mezzo per manipolare l’opinione pubblica, è stato ampiamente discusso in tutto il 2017. Le possibilità date dalla tecnologia di confondere la realtà e la finzione potranno solo crescere nel futuro, facendo sorgere importanti domande in merito all’accesso delle persone all’informazione. Queste preoccupazioni sono aggravate dalla concentrazione estrema nelle mani di solo poche aziende del controllo sulle informazioni che le persone vedono online e da un’enorme asimmetria di potere tra i singoli individui, le compagnie e i governi, che controllano una vasta quantità di dati. Le potenzialità che ne derivano per influenzare la mentalità della gente sono immense, compreso il pericolo dell’incitamento all’odio e alla violenza, praticamente senza controllo.

Mentre ci avviciniamo al 70° anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani a dicembre 2018, la sfida che abbiamo di fronte è chiara. È il momento di reclamare l’idea fondamentale di uguaglianza e dignità di tutte le persone, di conservare quei valori e chiedere che siano alla base delle decisioni e delle prassi politiche.


I confini artificiali innalzati da una politica della demonizzazione ci portano solo a conflitti e brutalità, una visione angosciante dell’umanità governata da meri interessi personali e cieca alle difficoltà degli altri.

Troppi leader nel mondo hanno permesso ai sostenitori della denigrazione di decidere l’ordine del giorno e hanno fallito nel creare una visione alternativa.

È tempo di cambiare. Dobbiamo rifiutare una narrazione dei fatti basata sulla demonizzazione e costruire invece una cultura di solidarietà. Dobbiamo migliorare la nostra capacità di essere generosi verso gli altri. Dobbiamo riaffermare il diritto di tutte le persone a partecipare alla costruzione delle società alle quali appartengono. E dobbiamo cercare risposte costruttive, basate sui diritti umani, alle frustrazioni, alla rabbia e all’alienazione, che forniscono un contesto fertile per una narrazione dei fatti tossica e intrisa di colpa.

Se ci chiediamo in quale società vogliamo vivere, il nuovo anno ci dà l’opportunità cruciale di rinnovare l’impegno verso un cambiamento basato sui diritti umani. Non la dobbiamo sprecare.

23 febbraio - Papa Francesco oggi invita tutti a digiunare per l'Africa dilaniata da guerre e ingiustizie

Blog Diritti Umani - Human Rights
Papa Francesco ha indetto per oggi 23 febbraio una giornata di digiuno invitando tutti a ricordare e a pregare per le guerre in Africa e invocare la pace. Un gesto di vicinanza che vuole svegliare lo coscienze nei credenti e in tutti coloro che si uniscono a questo sforzo per combattere l'indifferenza.
Avvenire
Una giornata dedicata al continente straziato da guerre e ingiustizie, Repubblica Democratica del Congo e Sud Sudan in particolare. Bassetti: chi costruisce un mondo migliore è un eroe.


Non è un caso che si sia scelto un venerdì di Quaresima per digiunare e pregare per la pace, in particolare per la Repubblica Democratica del Congo e il Sud Sudan. Una giornata, quella di oggi, che papa Francesco ha voluto appunto dedicare a questi due Paesi dell’Africa fiaccati dalla fame e dagli scontri interni, troppo spesso dimenticati. Sollecitando tutti a rispondere alla domanda: «Cosa posso fare io per la pace?». E proprio partendo da questo grido, il cardinale Gualtiero Bassetti, arcivescovo di Perugia-Città della Pieve e presidente della Cei, in un editoriale sull’Osservatore Romano, scrive che «la prima risposta è ispirata dal comandamento di Dio: non uccidere». Che vuol dire non uccidere moralmente chi è diverso, politicamente l’avversario, «non uccidere con la forza delle armi in ogni controversia internazionale».

Lo spunto è un libro di don Primo Mazzolari Tu non uccidere, che porta il cardinale ad allontanare per chi parla di pace la definizione di «buonista», anzi. «Chi si sforza per costruire un mondo di pace, in cui venga riconosciuta ovunque la dignità della persona umana – continua – è invece un eroe dei nostri giorni». E sono tante le persone che hanno voluto rispondere all’appello di papa Francesco, a partire dall’associazionismo organizzando veglie di preghiera. Come quella che la Comunità di Sant’Egidio ha fissato per stasera alle 20 nella chiesa di Santa Maria in Trastevere, a cui parteciperanno la comunità dei due Stati africani presenti in Italia. «I due Paesi sono dominati da troppa violenza, povertà e divisioni etniche – ricorda l’organizzazione trasteverina – Devono tornare al centro delle preoccupazioni della comunità internazionale e di tutti coloro che credono nella necessità e urgenza di costruire la pace».

Ad aderire alla giornata anche i Francescani del Sacro Convento di San Francesco d’Assisi, la Tavola della pace, Articolo 21 e la Rete della pace, per cui «la violenza che si continua ad abbattere sulle Repubblica Democratica del Congo e sul Sud Sudan è inaccettabile e intollerabile. Fingere di non vederla, ignorarla, sottovalutarla distrugge la nostra umanità».

Il sostegno all’iniziativa arriva pure dal Rinnovamento nello Spirito Santo, con il presidente Salvatore Martinez che sottolinea come «noi non siamo esenti dalla responsabilità dinanzi a tanti crimini di odio», tuttavia attraverso la preghiera e il digiuno «si possono mobilitare le coscienze sopite». Come pure da Comunione e liberazione e da Fiac Africa (Federazione internazionale di Azione cattolica) per cui «come laici possiamo fare molto, insieme». E Medici con l’Africa (Cuamm) con il direttore don Dante Carraro che invita «ad aderire a questo gesto di rinuncia perché diventi un gesto di solidarietà».

La giornata indetta dal Papa coinvolgerà poi la cooperativa Auxilium che, «particolarmente toccata dalle intenzioni di preghiera del Santo Padre», ha previsto un momento di preghiera comune nelle loro strutture di accoglienza, e il Csi (Centro sportivo italiano) per cui digiuno e preghiera stanno quasi «ad indicare un disarmo assoluto e unilaterale che fa leva esclusivamente sul Signore».
La riflessione caratterizzerà oggi inoltre la giornata della Fism (Federazione italiana scuole materne) esorta a «operare per costruire la pace».

Usa - Texas - Pena di morte sospesa un'ora prima dell'esecuzione, commutata in ergastolo

ANSA-AP
Accolta la battaglia del padre sopravvissuto alla strage che avrebbe perso l'unico famigliare rimastogli.
Huntsville  - Il governatore del Texas Greg Abbott ha commutato in ergastolo la pena di un condannato a morte un'ora prima dell'esecuzione. Thomas "Bart" Whitaker aveva ucciso nel 2003 a Houston la madre e un fratello. 

Thomas "Bart" Whitaker
A portare avanti la battaglia per la sua salvezza, il padre scampato alla strage. In considerazione della sua preghiera di lasciare in vita l'unico familiare rimastogli, seppure responsabile delle uccisioni, Abbott ha accolto una rara raccomandazione in questo senso da parte dell'autorita' giudiziaria.

"Sono grato della decisione non per me ma per mio padre - ha detto Whitaker appreso che non sarebbe stato giustiziato - ogni punizione per me sarebbe stata giusta, ma mio padre non ha fatto 
niente di male. Il sistema oggi per lui ha funzionato. E io faro' del mio meglio per svolgervi il mio ruolo". 

"Il padre di Whitaker - ha detto il governatore Abbott, repubblicano, che avrebbe potuto anche negare la sospensione - si e' opposto con passione alla messa a morte di suo figlio, affermando che in caso contrario si sarebbe sentito vittima per la seconda volta, dopo essere scampato alla strage". 

Dal 1982, quando il Texas ha reintrodotto la pena di morte, e' accaduto solo quattro volte che la commissione per la liberta' abbia raccomandato clemenza per dei condannati. Prima di questa l'ex governatore Rick Perry, anche lui repubblicano, ne aveva accolta solo una su tre. 

giovedì 22 febbraio 2018

Siria, l'inferno di Ghouta toglie le parole anche all'Onu e l'urlo del bambino è inascoltato!

Vita
Massacro di civili da parte dei bombardieri del regime per liberare la zona periferica di Damasco da una delle ultime sacche di resistenza delle forze ribelli. Condanna (inutile) delle Nazioni unite e del mondo.
Ghouta: l'urlo inascoltato del bambino!
L'urlo del bambino nella foto è rimasto inascoltato. E forse è già finito anche lui sotto le macerie (la foto riporta a un altro momento di intensi bombardamenti nell'area, del maggio del 2017), per un bombardamento nell'area del Ghouta, estrema periferia della capitale Damasco, Siria. 

Qui le forze governative comandate da Bashar al Assad stanno sganciato bombe per liberare la zona dalla resistenza ribelle ma di fatto stanno colpendo in modo indiscriminato la popolazione civile, con una violenza ancora più inaudita dei già tanti massacri di questi quasi sette anni di guerra in Siria.

"Il bilancio è davvero pesante: dai primi dati raccolti si contano 1.285 feriti e 237 morti in due giorni e mezzo, tra il 18 febbraio e la mattina del 21 febbraio". Lo riportano i cooperanti locali dell'ong Msf, Medici senza frontiere, con un appello straziante alla ricerca di medicine salvavita che mancano quasi del tutto, "anche perche sono stati bombardate 13 strutture tra ospedali e presidi sanitari cittadini in cui operiamo".

L’escalation del conflitto nell’area del Ghouta orientale in Siria ha portato a un enorme flusso di pazienti nelle strutture mediche supportate da Medici Senza Frontiere. "Chiediamo urgentemente al governo della Siria e a tutte le altre parti in conflitto, nonché a tutti i commercianti di Ghouta orientale che dispongono di scorte di medicinali, di renderle immediatamente disponibili per le strutture mediche al solo fine di salvare vite umane", è l'appello di Msf.

Mentre gli Osservatori Onu fanno sapere di "non avere più parole per denunciare quanto sta accadendo a Ghouta e in Siria", arrivano anche le informazioni dagli operatori umanitari di partner locali dell'ong Save the children. 

"Sono più di 350mila i civili intrappolati nell’enclave in mano all’opposizione e corrono gravi rischi per la loro vita. Non si intravvedono segnali che possano far pensare a una fine dei bombardamenti che hanno distrutto le abitazioni costringendo la popolazione a rifugiarsi nei sotterranei. Le strade sono completamente deserte a parte le sirene delle ambulanze che trasportano i feriti in cliniche di fortuna". In alcune parti del Ghouta orientale la distruzione ha infatti raggiunto livelli più elevati di quelli registrati durante il picco della crisi di Aleppo nel 2016.

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Daniele Biella

Ruanda: tagli razioni alimentari, polizia disperde 3 mila rifugiati congolesi nella città di Karongi

Agenzia Nova
Kigali - La polizia del Ruanda in tenuta anti-sommossa ha circondato oggi almeno 3 mila rifugiati congolesi accampati dalla scorsa notte nei pressi della sede dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) della città di Karongi, nell’ovest del paese, per protestare contro la riduzione delle razioni alimentari. 


Le tensioni, come riferiscono fonti delle Nazioni Unite citate dalla stampa locale, sono scoppiate la notte scorsa dopo che i rifugiati ospitati nel campo profughi di Kiziba hanno accusato i militari dell’esercito di aver aperto il fuoco contro di loro, ferendo almeno due persone, quando circa 2 mila persone hanno marciato fuori dal campo per protestare contro i tagli alle razioni. 

Il mese scorso l’Unhcr ha fatto sapere di aver tagliato le razioni a causa della carenza di finanziamenti. Il Ruanda ospita attualmente circa 174 mila rifugiati, di cui 57 mila provenienti dal vicino Burundi, in fuga dalle violenze scoppiate nel 2015.

Israele arresta i primi rifugiati eritrei, così inizia l'operazione deportazione in Ruanda

Il Manifesto
Israele. Dopo la scadenza dell'ultimatum-ricatto di Tel Aviv, i primi sette richiedenti asilo sono finiti in prigione. E il numero degli ordini di deportazione sale: da 200 a 600 in pochi giorni.

Domenica scorsa scadeva l’ultimatum del governo Netanyahu ai primi richiedenti asilo africani, accusati di «infiltrazione illegale in Israele»: deportazione in Ruanda o carcere a tempo indeterminato. Ieri i primi sette rifugiati eritrei, dopo il rifiuto a lasciare Israele, sono stati arrestati.

A denunciare gli arresti sono le organizzazioni israeliane Assaf e Hotline for Refugees: «Questo è il primo passo di un’operazione di deportazione senza precedenti a livello globale». Ora si teme per gli altri, il cui numero è già salito: se domenica si parlava di 200 ordini di deportazione, ieri la stampa parlava di 600.

Iraq - HRW: donne, prima schiave dall'Is, poi condannate a morte da Baghdad

Aki
Iraq: Hrw, Eccessiva Condanna a morte Donna Turca Dell'IS.
Contestati anche gli ergastoli ad altre 11 vedove di jihadisti.

E' eccessiva la condanna a morte decisa da un tribunale iracheno nei confronti di una donna turca condannata a morte per appartenenza al sedicente Stato Islamico (IS), mentre altre undici vedove di jihadisti sono state condannate all'ergastolo. 

A contestare le sentenze è Human Rights Watch (Hrw), che afferma che ''sei mesi dopo che circa 1.400 donne straniere e i loro figli si sono arrese insieme ai combattenti all'Is alle forze di sicurezza, i tribunali iracheni hanno condannato le donne all'ergastolo e anche alla pena di morte, pur non avendo commesso crimini violenti''.
Secondo l'organizzazione le sentenze ''sono solo un indicatore di come le persone colluse con l'Is subiscano processi non equi''. Le dodici donne, undici turche e un'azera di età compresa tra i 20 e i 55 anni, sono state arrestate a Mosul o Tal Afar. I loro mariti sono stati uccisi dalle forze irachene che hanno riconquistato le città dell'Iraq settentrionale dall'Is.

mercoledì 21 febbraio 2018

Per i manifesti «Prima gli italiani» Salvini usa modelli stranieri biondissimi, slovacchi e cechi

Corriere della Sera
La scoperta del sito TheVision: la Lega preferisce puntare su biondissimi slovacchi o cechi per spingere il suo slogan a favore dei connazionali.

Prima gli italiani. Anche se gli slovacchi e i cechi in foto fanno una figura migliore. Deve pensarla così il leader della Lega Matteo Salvini, o quantomeno chi si occupa della sua comunicazione. 

Lo slogan che mette gli interessi dei connazionali — e non più dei soli abitanti del Nord del Paese — in cima alla lista delle priorità ormai lo conosciamo. Quando viene messo sui manifesti per incoraggiare la partecipazione alla manifestazione di sabato, chiamata proprio Prima gli italiani, viene affiancato però a scatti di biondissimi e sorridenti stranieri.
Lo ha scoperto e dimostrato il sito TheVision: madre e figlia ritratte davanti al Duomo di Milano con sguardo acceso di speranza, sono, ad esempio, due modelle ceche dell’agenzia Citalliance. Per rendersene conto è stato sufficiente inserire i volti sul motore di ricerca stock photo everypixel.com. Tutto si può dire alle due modelle di non aver tributato a dovere il BelPaese: ci sono scatti simili a Roma, Pisa e Venezia.
Stesso discorso per padre e figlio, altrettanto protesi in direzione del domani, sempre in Piazza del Duomo. Si tratta dei protagonisti del lavoroVacanze in Italia della fotografa slovacca Soloviova Liudmyla.


Anche i due, probabilmente inconsapevoli di far parte della nostra campagna elettorale, si esibiscono dunque in diverse zone della Penisola.
Per Salvini, insomma, prima gli italiani, anche se nelle foto (di stock) è meglio puntare su biondissimi stranieri. E, anche se, per appendere i manifesti ci si affida a extracomunitari.