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martedì 31 gennaio 2017

Corridoi umanitari: arrivati a Fiumicino altri 40 profughi dalla Siria. “A Trump vogliamo dire che non siamo terroristi”

SIR
Mentre negli Stati Uniti le frontiere si chiudono anche ai profughi di guerra, questa mattina sono sbarcati all’aeroporto di Fiumicino una quarantina di uomini, donne e bambini siriani, arrivati dal Libano in tutta sicurezza grazie al progetto ecumenico dei corridoi umanitari realizzato da Comunità di Sant’Egidio, Federazione delle Chiese evangeliche in Italia, Tavola Valdese. 


Provengono da Aleppo, Homs e Damasco e con il loro arrivo oggi sarà raggiunta la cifra di 540 persone giunte in Italia dall’inizio del progetto, avviato il 15 dicembre 2015 dopo la firma di un accordo con i ministeri degli Esteri e dell’Interno. Il piano prevede mille arrivi entro il 2017.

Ad accoglierli c’è anche Nour Essa, una ragazza siriana di Damasco di 31 anni. Arrivò in Italia da Lesbo in aereo con Papa Francesco e oggi, dopo alcuni lavori come assistenza agli anziani, è in attesa di iniziare a lavorare in qualità di biologa all’Ospedale Bambino Gesù di Roma. “Voglio inviare un messaggio a Trump”, dice attorniata dai suoi concittadini siriani: “Siamo tutti fuggiti da una guerra. Non siamo terroristi e chiudere le porte non è la soluzione per fermare il terrorismo”. Poi volgendo il pensiero a Francesco e al giorno in cui ha preso con lui l’aereo per Roma, aggiunge: “E’ stato fantastico, un’esperienza meravigliosa. In un giorno la mia vita e quella della mia famiglia è cambiata completamente. Il Papa è un uomo semplice e gentile. E’ un esempio per tutti i leader religiosi, perché usa la religione per servire il mondo e salvare le persone”.

Fatima viene invece da Homs. Scappata dalla Siria, si è ritrovata in Libano in un campo profughi senza documenti. Ad Homs ha lasciato la madre e il fratello con cui da tre mesi ha perso contatto. Le si avvicina una giornalista americana per esprimere la sua solidarietà e a lei Fatima dice: “Le barriere non vanno bene, non servono. Tutti, musulmani e cristiani, tutti possiamo vivere insieme e insieme aspirare a un mondo di pace”. 

Il gruppo è arrivato questa mattina molto presto a Roma con un volo dal Libano e tutti, prima di sbarcare in Italia, hanno espletato all’areoporto di Fiumicino i controlli e gli exit-permit secondo il protocollo di intesa con il ministero dell’Interno. Sono esausti ma felici. Ora ad attenderli ci sono volontari della Sant’Egidio che li porteranno nelle diverse destinazioni in varie Regioni di Italia. 

Kinana è arrivata a Roma con quattro figli. Esprime la sua gratitudine per il progetto che l’ha portata qui. “Sono contenta soprattutto per i miei figli, che finalmente possono vivere il loro futuro e il sogno di tornare a scuola e studiare”.

Filippine: 44 morti al giorno in guerra a crimine di Duterte uccisi da polizia e civili

AskaNews
Manila  - Una media di 44 persone muoiono ogni giorno da due mesi - 2.927 in totale - nella guerra all'ultimo sangue contro la criminalità dichiarata dal nuovo presidente filippino Rodrigo Duterte: queste le cifre ufficiali rese pubbliche oggi


Avvocato 71enne, Duterte è stato eletto a maggio al termine di una campagna populista incentrata su un programma di ultrasicurezza in cui ha promesso di estirpare il narcotraffico nel giro di sei mesi.

Secondo questi dati, la polizia, che sostiene di agire per legittima difesa, ha ucciso 1.033 persone in operazioni anti-droga dall'arrivo di Duterte al potere il 30 giugno mentre 1.894 persone sono state assassinate in circostanze inspiegabili nello stesso periodo.

Sulla violenza di questa campagna di lotta alla droga questione sono intervenute le organizzazioni per la difesa dei diritti umani denunciando esecuzioni extragiudiziarie da parte di civili incoraggiati dalla retorica presidenziale a farsi giustizia da soli

lunedì 30 gennaio 2017

Crescono da più fronti le proteste contro Trump. Onu denuncia: "Divieto illegale e meschino".

La Repubblica 
La Mogherini replica al presidente Usa: "Costruendo muri finisci in carcere, la Ue continuerà a prendersi cura dei rifugiati". Il dissenso nei confronti dell'operato del tycoon, a poco più di una settimana dall'insediamento, tocca il 51%, arrivano le prime reazioni: il Parlamento iracheno si dice favorevole al principio della reciprocità, vietando l'ingresso ai cittadini americani per 90 giorni


Roma - Non si placano le proteste e le polemiche dopo la decisione del nuovo presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, di 'congelare' per quattro mesi l'immigrazione e vietare l'ingresso negli Usa dei cittadini di sette Paesi islamici. Intanto si è fatto sentire l'Onu con l'alto commissario del Consiglio per i diritti umani dell'Onu, Zeid al-Hussein, che ha definito il divieto di ingresso nei confronti dei cittadini di sette paesi islamici "illegale e meschino".E non si fanno attendere i primi effetti: il Parlamento iracheno, infatti, ha approvato una richiesta al governo di adottare il principio della reciprocità rispetto al bando imposto dal capo della Casa Bianca ai cittadini iracheni diretti negli Usa, vietando l'ingresso ai cittadini americani per 90 giorni.

Intanto Trump difende la sua posizione e accusa i manifestanti di creare problemi: "I problemi agli aeroporti sono stati causati dal blocco dei computer Delta, dai manifestanti e dalle lacrime del senatore Schumer. Il segretario Kelly dice che tutto sta andando bene con pochissimi problemi. Rendiamo l'America sicura di nuovo", ha scritto su Twitter, sottolineando che "solo 109 persone su 325.000 sono state fermate".

La replica della Ue. Mentre migliaia di cittadini americani scendono in strada per dire 'no' al bando all'immigrazione, fermato parzialmente ieri da un giudice federale, la Ue risponde alle accuse del tycoon, per bocca di Federica Mogherini, alta rappresentante per la Politica estera dell'Unione europea. "In Europa - ha detto la Mogherini - abbiamo una storia che ci ha insegnato che potresti finire in carcere, se costruisci tutti quei muri attorno a te". "L'Ue - dice - continuerà a lavorare con tutti i Paesi della regione, a prescindere dalla loro religione, e a prendersi cura e ospitare i rifugiati siriani e altri che fuggono dalle guerre".

Musulmani d'America fanno causa. Le associazioni musulmane in America hanno annunciato una causa federale contro il bando sui musulmani firmato da Donald Trump. Ad annunciarlo in conferenza stampa Nihad Awad, leader del Council on American-Islamic Relations.

Mosul. Georgette, la cristiana nascosta al Daesh per due anni dagli amici musulmani

Avvenire
La donna, lievemente inferma, nel 2014 non riuscì a fuggire con i parenti da Telkeif, in mano al Califfato. Una famiglia islamica per due anni l'ha tenuta nascosta a rischio della vita
La cristiana Georgette Hanna ha 60 anni: per due anni è sopravvissuta in clandestinità a Mosul
Nascosta per due anni e mezzo a Telkeif, a 15 chilometri da Mosul caduta in mano agli uomini con le bandiere nere del Daesh. Georgette Hanna, 60 anni, è una sorta di Anna Frank cristiana, però sopravvissuta alla barbarie del Califfato islamico grazie a una famiglia di amici musulmani che l’ha ospitata in casa a rischio della vita. Georgette in buona salute, rivela il sito di «Mondo e missione», è stata ritrovata solo pochi giorni fa dalle forze di sicurezza irachene.
Nell’agosto del 2014 anche a Telkeif, come ben presto nel resto della Piana di Ninive, giunsero i guerriglieri di Abu Bakr al-Baghdadi che due mesi prima avevano preso il controllo di Mosul. Subito l’ordine gridato strada per strada o scritto su volantini a tutti i cristiani: andatevene subito se non volevano essere uccisi. Una fuga obbligata, una deportazione forzata anche di tutti i parenti di Georgette. Ma la donna, lievemente inferma, non era certo in grado di camminare per una trentina di chilometri nel deserto fino a Erbil. Così la famiglia di amici musulmani le ha aperto la porta di casa e le ha dato rifugio. Un gesto che altri musulmani, a Mosul e dintorni, hanno pagato con la vita ij questi ultimi due anni.

Il terrore era tale - si legge su “Al-Jaraby al-Jadeed” che per primo ha lanciato la notizia - che Hanna ha preferito tenere sempre il velo in testa anche quando sono arrivate le forze di Baghdad. Temeva che anche quelli, in realtà, fossero uomini del Califfato. Solo quando ha capito che l’incubo era finito ha rivelato la sua identità: cristiana vissuta come murata viva e salvata dai suoi amici. Ora Hanna, ritornata dai suoi parenti, può raccontare di aver conosciuto dei «giusti dell’islam».

Luca Geronimo

La tragica contabilità dei migranti: Oim, 246 morti da inizio anno, 3.829 gli arrivi

Ansa
In Italia e Grecia, 221 decessi su rotta Mediterranea centrale
Ginevra - Sono 3.829 i migranti e rifugiati giunti in Europa via mare dall'inizio del 2017 al 25 gennaio, stando agli ultimi dati resi noti oggi a Ginevra dall'Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim), mentre 246 sono le persone morte in mare nello stesso periodo.


Circa i due terzi (2.788) sono arrivati in Italia e il resto in Grecia (1.041). Il totale di 3.829 è ben inferiore ai 48.029 arrivi registrati per i primi 25 giorni del 2016, sottolinea l'Oim.

Il Missing Migrants Project dell'Oim sottolinea inoltre che nello stesso periodo dello scorso anno erano morti 210 migranti.

Ma mentre l'anno scorso la stragrande maggioranza dei decessi erano registrati sulla rotta del Mediterraneo orientale tra Turchia e Grecia (185), quest'anno il maggior numero di decessi (221) è segnalato sulla tratta del Mediterraneo centrale tra Nord Africa e Italia.

domenica 29 gennaio 2017

Human Rights Watch: pubblicato il World Report 2017

Blog Diritti Umani - Human Rights
La ONG Human Rights Watch ha pubblicato il suo ultimo rapporto riguardante la situazione dei diritti umani a livello globale. Il World Report 2017 fa riferimento ad avvenimenti e dati statistici del 2016 relativi a più di 90 paesi e territori di tutto il mondo.

Nella sezione riguardante l’Unione Europea si trova anche un intero paragrafo dedicato all’Italia. I punti sull’Italia che vengono toccati nel report riguardano le seguenti questioni: migranti e richiedenti asilo; bambini non accompagnati che arrivano in Italia; uso della forza, sovraffollamento e mancanza di protezione per i minori non accompagnati presso i centri di accoglienza; negoziati con paesi africani per controllare l’immigrazione e agevolare le espulsioni; la legge sulla tortura, che nel periodo di stesura del report, si trovava ferma al Senato; espulsioni dei sospettati di terrorismo; medici “obiettori di coscienza” e le unioni civili, che riconoscono l’unione a coppie omosessuali ma non il diritto di adozione.

Il Report completo può essere consultato al link sottostante.


Stop ai rifugiati, caos negli aeroporti. Un Giudice di New York contro Trump: "No alle espulsioni"

Rai News 24
Reazioni al giro di vite del presidente degli Stati Uniti sugli ingressi, monta la protesta e arrivano i primi ricorsi.

Donald Trump chiude le porte dell'America e in tutto il mondo si fanno sentire le conseguenze del suo ordine esecutivo che mette al bando gli immigrati da 7 paesi musulmani. Proteste, ricorsi legali e caos negli aeroporti dopo il congelamento per tre mesi degli arrivi da sette paesi a maggioranza islamica e per quattro mesi del programma dei rifugiati. Immediata la replica dell'Onu: l'Organizzazione internazionale per le migrazioni e l'Alto commissariato Onu per i rifugiati hanno chiesto agli Usa di rispettare "la lunga tradizione di proteggere coloro chefuggono da conflitti e persecuzioni".
C'è un giudice a New York: "No a espulsioni rifugiati paesi islamici" La pioggia di ricorsi legali contro la decisione di Trump ha portato a un primo verdetto: Ann donnelly, giudice federale di New York, ha emesso un'ordinanza di emergenza che temporaneamente impedisce agli Stati Uniti di espellere i rifugiati che provengono dai sette paesi a maggioranza islamica soggetti all'ordine esecutivo emanato dal presidente. L'ordinanza di emergenza del giudice Donnelly annulla una parte dell'ordine esecutivo del presidente Donald Trump sull'immigrazione, ordinando che i rifugiati e altre persone bloccate negli aeroporti degli Stati Uniti non possono essere rimandate indietro nei loro paesi. Ma il giudice non ha stabilito che queste stesse persone debbano essere ammesse negli Stati Uniti ne' ha emesso un verdetto sulla costituzionalita' dell'ordine esecutivo del presidente.
I legali che hanno citato in giudizio il governo per bloccare l'ordine della Casa Bianca hanno detto che la decisione, arrivata dopo un'udienza di urgenza in una corte di New York, potrebbe interessare dalle 100 alle 200 persone che sono state trattenute al loro arrivo negli aeroporti statunitensi sulla base dell'ordine esecutivo che il presidente Donald Trump ha firmato venerdi' pomeriggio, una settimana dopo il suo insediamento.

Ricorsi e proteste negli aeroporti Usa 
Vari rifugiati e migranti sono stati fermati al loro arrivo negli aeroporti degli Stati Uniti, in applicazione dell'ordine firmato dal presidente Donald Trump che impedisce l'ingresso negli Usa ai cittadini di sette Paesi a maggioranza musulmana. Lo hanno riferito i media locali. Gli avvocati di due iracheni, trattenuti nell'aeroporto di New York, hanno presentato ricorsi davanti ai giudici per ottenere la liberazione. Attualmente non è noto quanti siano i rifugiati che sono stati fermati nelle ultime ore negli Usa. È noto però che un iracheno fermato nello scalo JFK di New York lavora per il governo americano nel suo Paese da dieci anni, hanno spiegato i suoi avvocati. Un altro iracheno viaggiava per riunirsi con la moglie e il figlio, rifugiati dopo aver collaborato con l'esercito americano. Secondo le carte presentate in tribunale, i due avevano tutte le carte in regola per essere ammessi e nessun motivo che giustifichi la detenzione. Gli avvocati denunciano anche che non è stato loro consentito incontrare i loro assistiti e che quando hanno domandato agli agenti di frontiera a chi dovessero parlare per discutere il caso è stato loro risposto: "Al presidente, chiamate il signor Trump".

Ammesso un iracheno. 
Si può decidere caso per caso È stato rilasciato Hameed Khalid Darweesh, uno dei due cittadini iracheni in possesso di visto per entrare negli Stati Uniti, arrestati al loro arrivo a New York in seguito al decreto di Trump. Lo scrive la Cnn online. L'uomo, che ha lavorato come interprete per conto del governo Usa in Iraq per 10 anni, ha avviato insieme all'altro iracheno fermato un'azione legale contro il presidente americano, poiché in possesso di visti validi. "L'America è la terra della libertà", ha detto ai giornalisti Darweesh in aeroporto poco dopo la sua liberazione. "L'America è la più grande nazione". Una fonte a conoscenza del caso ha confermato che a Darweesh sarà consentito entrare negli Stati Uniti in base alle disposizioni di Trump che permettono ai dipartimenti di Stato e alla Homeland Security di ammettere gli individui negli Stati Uniti sulla base di una procedura caso per caso. 

L'ordine esecutivo di Trump Donald 
Trump ha firmato un ordine esecutivo "per tenere i terroristi dell'Islam radicale fuori dagli Usa". 
Si tratta dell'annunciato decreto sui "controlli accurati" per i rifugiati che arrivano da Paesi considerati a rischio. La firma è avvenuta al dipartimento della Difesa, dove si è svolta la cerimonia formale del giuramento del nuovo capo del Pentagono, James Mattis. "Non vogliamo terroristi nel nostro Paese - ha detto Trump - non dimenticheremo la lezione dell'11 settembre, non solo a parole ma anche con azioni". L'ordine esecutivo è stato denominato "Protezione della nazione dall'ingresso di terroristi stranieri negli Stati Uniti". 

Divieto riguarda anche persone con doppia nazionalità 
Il divieto all'ingresso negli Usa per i cittadini di sette Paesi a maggioranza musulmana riguarda anche coloro che hanno doppio passaporto. Lo ha riferito il Wall Street Journal, citando un comunicato che dovrebbe essere pubblicato dal dipartimento di Stato. La misura andrebbe oltre il divieto imposto a Iraq, Iran, Somalia, Sudan, Siria, Libia e Yemen. 
Il divieto temporaneo riguarderebbe qualsiasi cittadino originario di tali Paesi, anche se in possesso di passaporto di un'altra nazione. Per esempio, un iracheno con seconda nazionalità britannica non potrà entrare negli Usa utilizzando il passaporto del Regno Unito, che sinora permetteva di viaggiare senza visto. Invece, la misura non si applicherà ai cittadini statunitensi che abbiano anche la nazionalità di uno dei sette Paesi. 

L'Iran applica la reciprocità 
"La Repubblica islamica dell'Iran, pur nel rispetto del popolo americano e per difendere i diritti dei suoi cittadini, ha deciso di applicare il principio di reciprocità dopo la offensiva decisione degli Stati Uniti nei riguardi dei cittadini iraniani fino a quando la misura non sarà revocata". Lo ha reso noto il ministero degli Esteri in un comunicato diffuso dalla televisione di Stato. 

Trump: non è messa al bando dei musulmani 
La risposta del presidente degli Stati Uniti non si è fatta attendere. Trump ha detto: " Il mio ordine esecutivo non è una messa al bando dei musulmani". Il divieto di immigrazione dai sette paesi islamici "sta funzionando molto bene", ha aggiunto il presidente degli Usa. 

Profughi, corridoi umanitari: domani mattina altri 40 arrivi a Fiumicino raggiungendo il numero di 540

www.santegidio.org
Mentre sui migranti l’Europa fatica e si divide, la società civile dimostra che è possibile un’alternativa

Lunedì 30 gennaio arriveranno altri 40 profughi dal Libano grazie ai corridoi umanitari promossi da Comunità di Sant’Egidio, Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia e Tavola Valdese. Con loro sarà raggiunta la cifra di 540 persone venute in Italia dall’inizio del progetto ecumenico, avviato il 15 dicembre 2015 dopo la firma di un accordo con i ministeri degli Esteri e dell’Interno. Il piano prevede mille arrivi entro il 2017. E' un modello che funziona perché coniuga umanità e sicurezza.

Mentre l’Europa fatica a trovare soluzioni che coniughino umanità e sicurezza dividendosi sulla sorte di migliaia di uomini e donne vittime dei trafficanti di esseri umani, i corridoi umanitari si dimostrano, con il passare del tempo, un modello che funziona. Frutto di una preziosa sinergia tra società civile e istituzioni, favoriscono l’integrazione offrendo a chi fugge dalle guerre - ed è in condizioni di particolare vulnerabilità (famiglie con bambini, donne sole, anziani, malati, persone con disabilità) - di arrivare, in tutta sicurezza e legalmente, nel nostro continente. Alcuni rifugiati, giunti nei mesi scorsi, saranno presenti a Fiumicino per accogliere i nuovi arrivati.


Per partecipare al briefing giornalisti e operatori dovranno arrivare al Terminal 2 di Fiumicino non oltre le ore 10.00.

E' necessario accreditarsi inviando una mail a questo indirizzo: com@santegidio.org

L’appuntamento per il benvenuto e un briefing con la stampa è
alle 11.00 di lunedì, 30 gennaio
al Terminal 2 di Fiumicino (arrivo per i giornalisti entro le 10.00)

Interverranno 
il presidente della Comunità di Sant’Egidio, Marco Impagliazzo
il presidente della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, Luca Maria Negro
il viceministro degli Esteri, Mario Giro
il prefetto Angelo Malandrino per il ministero dell’Interno

sabato 28 gennaio 2017

Guerra ai poveri?. La morte del giovane gambiano, più che un campanello di allarme

Avvenire
Caro direttore, mi sono sempre chiesto che cosa spingesse i carnefici nazisti a farsi fotografare con le loro vittime, tronfi e disumani...


Caro direttore,
mi sono sempre chiesto che cosa spingesse i carnefici nazisti a farsi fotografare con le loro vittime, tronfi e disumani. Non si rendevano conto? Nemmeno temevano il giudizio? Poi ne abbiamo viste tante di storie simili, in ogni guerra, fino ad Abu Ghraib. La guerra disumanizza, lo si ricorda sempre troppo poco. Rende l’uomo una bestia, senza segni di umanità. Qualunque guerra, non solo quelle naziste. In questi anni abbiamo avuto anche il dispiacere di leggere di violenze commesse addirittura da truppe Onu, da Caschi Blu europei... Anche in pace si può diventare simili a mostri: la storia del giovane gambiano, Pateh Sabally, morto in Laguna è agghiacciante. Invece di provare a salvarlo, molte grida di 'annega!'. Cosa siamo diventati? C’è chi ha parlato di «apatia».

Non basta: un argine è stato già superato e mi paiono più vere l’invettiva di Selvaggia Lucarelli («L’avete guardato andare a fondo e l’avete fatto morire») e la dolorosa riflessione di Alessandro Zaccuri che su 'Avvenire' ha scritto della «sindrome degli spettori». Io mi chiedo: perché tanta crudeltà? La risposta è semplice: abbiamo dichiarato anche noi una guerra, quella ai poveri, agli immigrati, ai nomadi, ai senza fissa dimora... Invece di fare guerra alla povertà la facciamo ai poveri…

E quante storie di 'guerre fra poveri' in questi anni! Così ci stiamo disumanizzando, come in una guerra vera. Anzi: la guerra vera la stiamo preparando con questo clima di odio, di crudeltà, di disprezzo per la vita. E arriviamo a filmare la scena del giovane africano che muore, come se nulla fosse. Non riusciamo davvero a comprendere che in questo contesto osceno, ognuno di noi potrebbe essere travolto? Se disprezzi l’altro così ferocemente, contribuisci a creare una situazione in cui qualcuno disprezzerà te. Nessuno è più garantito. Certo: i primi a soccombere sono sempre i poveri. Per questo occorre sempre guardare alla società iniziando dal sensore più delicato, gli ultimi. Quando la vita si indurisce per loro, subito dopo diventa dura per tutti.

Ci stiamo preparando un futuro prossimo pieno di amare sorprese. Non dobbiamo pensare che simili episodi siano di genere minore. Vassilij Grossman ammoniva: «I nazisti rappresentano la più grande menzogna della vita. Ovunque mettessero piede, dal profondo dell’oscurità risalivano in superficie la codardia, il tradimento, la sete di vili omicidi, di sanguinose repressioni dei più deboli. Chiamavano a sé quanto vi è di malvagio nell’uomo, proprio come nelle vecchie leggende una parola malefica evoca gli spiriti del male». Non possiamo lasciare evocare tali spiriti, dobbiamo resistere a cominciare dal nostro Paese. Per chi deve decidere sulla vita degli altri, per chi ha responsabilità politiche, sociali, economiche, la morte del giovane gambiano attorniato anche da frizzi e lazzi deve essere più che un campanello di allarme.

Deve essere come una sirena che annuncia prossimi bombardamenti. Se l’Italia diventa così, non solo sarà il solito Paese caotico e ingovernabile: diverrà attivamente un Paese adepto della morte. Vanno pesate le parole, dunque, e soprattutto vanno posti limiti invalicabili per preservare la nostra convivenza. La vita prima di tutto: questo non deve mai venir meno. Non ci sono vite che valgono di meno, non ci sono classi diverse di umanità, non ci sono uomini e donne inferiori, untermenschen.

Mario Giro
Vice Ministro degli Esteri

Onu, nello Yemen rischio carestia e fame. La più grave crisi alimentare mondiale. 2,2 mln bambini soffrono la fame

ANSA
New York - In Yemen è in corso la "più grave crisi alimentare nel mondo, e se non si interviene subito si rischia la carestia nel 2017": a lanciare l'allarme è il capo degli affari umanitari dell'Onu, Stephen O'Brien, durante una riunione del Consiglio di Sicurezza.  
O'Brien ha poi precisato che "ci sono 2,2 milioni di bambini che soffrono la fame". 


E 10,3 milioni di yemeniti hanno bisogno di assistenza immediata per sopravvivere. Per l'escalation del conflitto due terzi della popolazione dello Yemen ha bisogno di aiuti umanitari. 

L'inviato speciale dell'Onu in Yemen, Ismail Ould Cheikh Ahmed, ha poi sottolineato che la "pericolosa" impennata di combattimenti e attacchi aerei ha "tragiche conseguenze per il popolo yemenita", con 18,2 milioni di persone colpite dall'emergenza cibo.

venerdì 27 gennaio 2017

Detenuto tenta il suicidio nel carcere di Porto Azzurro, l'agente lo salva

Blog Diritti Umani - Human Rights
L'agente di sorveglianza sventa il suicidio di un detenuto che ha provato ad impiccarsi, il sindacato lo propone per una lode ministeriale


Porto Azzurro — Se E.J., detenuto nel carcere di Porto Azzurro, è ancora vivo, lo deve alla prontezza di riflessi dell'agente Francesco Panicoche, nella giornata di ieri, è intervenuto salvandogli la vita e sventando il tentativo di suicidio che l'uomo stava mettendo in pratica.

Lo rende noto il Cosp, coordinamento sindacale di polizia penitenziaria, che fornisce maggiori dettagli sulla vicenda: "Il detenuto, confinato nel 3° Reparto, Sezione 13^ cella n. 7, poco dopo le 20 ha tentato l'ultimo estremo gesto con l'impiccamento legando alle sbarre della finestra della cella di detenzione uno straccio attorcigliato di colore rosso".

L'agente Panico, attirato dalle urla dei ristretti è intervenuto immediatamente soccorrendo il detenuto aiutato dagli altri colleghi giunti sul posto alle grida di allarme dell'agente, insieme lo hanno liberato sorreggendolo e trasportandolo all'infermeria dello stesso penitenziario per le cure del caso. Al termine della visita medica è stata disposta anche la sorveglianza a vista.

Un'intervento tempestivo che merita, secondo il Cosp, una lode ministeriale: "Il sindacato congratulandosi con l'agente Panico Francesco, esempio di alta professionalità e spirito di corpo, altruismo e coraggio nell'azione di sostegno e di aiuto, propone che l'amministrazione territoriale di Porto Azzurro e il comando di reparto, a cui vanno dal Cosp anche la gratitudine di tutti noi per aver formato agenti del temperamento del soccorritore, diano avvio alle procedure di legge per la ricompensa della lode ministeriale".

Fonte: Elba.it

Migranti: preoccupazione per l'accordo Unione Europea-Libia per bloccare il flusso dal sud

Radio Vaticana 
L'Unione Europea continuerà a chiedere una equa divisone dei rifugiati. E' questa la risposta della Commissione europea all'annuncio del presidente Trump che gli Stati Uniti bloccheranno l'accoglienza dei rifugiati, siriani compresi. Intanto però l'Ue deve fare i conti anche al proprio interno con il mancato ricollocamento dei migranti arrivati in Grecia e Italia.

Migranti in Libia
Spero che si facciano passi avanti in solidarietà: il Commissario europeo Avramopoulos, oggi a Malta per la riunione informale dei ministri degli interni Ue, ha così chiesto ai Paesi dell’Unione che si sblocchi la questione del ricollocamento dei migranti. Dal 2015, da quando cioè vi fu l’accordo per la divisione delle 160mila persone arrivate in Grecia e in Italia, soltanto 11mila sono state reinsediate in 21 Stati e il piano scadrà il prossimo settembre. Mancano, intanto, pochi giorni alla riunione dei capi di Stato e di governo a Malta il prossimo 3 febbraio, in cui si dovranno discutere le modalità per gestire la rotta del Mediterraneo centrale. In agenda: la necessità di ridurre il numero delle traversate per salvare vite umane, così come l’urgenza di intensificare la lotta contro scafisti e trafficanti. 

In realtà non sono poche le preoccupazioni di organizzazioni come il Centro Astalli, per le quali l’unica proposta politica dell’Unione è quella di trovare un accordo con la Libia per bloccare i flussi e chiudere le frontiere. Lo scandalo denunciato è che ”pur di non salvare vite umane, pur di non attivare canali umanitari per chi fugge da guerre e persecuzioni, pur di non investire in politiche di accoglienza e integrazione si fanno accordi scandalosi con governi non democratici”. L’avvocato Angela Maria Bitonti, del Foro di Matera, esperta di immigrazione e di protezione internazionale:

R. – L’Unione Europea sta facendo molti passi indietro e molto repentinamente, negli ultimi mesi e soprattutto negli ultimi giorni. Sappiamo bene che il 3 febbraio si riunirà il Consiglio europeo dedicato ai flussi dei migranti nel Mediterraneo. Il Consiglio europeo, così come ha fatto presente la Mogherini, per fronteggiare il massiccio afflusso dai Paesi africani dei cosiddetti migranti economici – sottolineiamolo, perché li tiene distinti da quelli che provengono dalla Siria passando per la Turchia, per fronteggiare, quindi, questo afflusso dai Paesi africani per lo più subsahariani, via Libia, L’Ue ritiene che bisognerebbe rafforzare il controllo delle coste libiche per combattere gli scafisti e favorire i rimpatri volontari. Ebbene, io sono scettica riguardo a queste proposte dell’Unione Europea. La Libia non è un Paese stabile con cui poter prendere accordi che possano favorire la pace nel Mediterraneo.

D. – Quella dei canali umanitari è una soluzione che è stata invocata, perché l’Unione europea non vuole attivarli?

R. – Per una sorta di diffidenza e lo si capisce subito: i muri si alzano quando c’è diffidenza, c’è paura. Ma questa non è assolutamente la soluzione! Tutta questa gente che arriva e fa richiesta di asilo politico, è tutta gente – noi lo vediamo ogni giorno – che fugge non solo dalle guerre, come può essere quella in Siria, ma anche dalle persecuzioni. Mi riferisco alle violenze, alle violazioni di diritti umani che non sono così eclatanti come le bombe che scoppiano, ma che producono morte, producono violenze per queste persone. Quindi noi dovremmo incominciare, più che ad alzare muri, a parlare di diritti. L’Europa, il mondo occidentale, in questo momento di massicci afflussi non può esimersi dal porsi il problema del perché questa gente parta e limitarsi a trovare una soluzione veloce con la chiusura delle frontiere. Soprattutto con la Libia. 
La maggior parte delle violenze che questa gente subisce, le subisce in Libia! Gli uomini vengono incarcerati, le donne raccontano, tutte, di essere state violentate in Libia. E come si fa – io mi chiedo – a fare un accordo con la Libia? Quindi, occorre aprire canali umanitari immediatamente e poi gli accordi – a mio modo di vedere – dovrebbero farsi con i Paesi interessati da cui partono queste persone, cercando di intervenire per eliminare i conflitti, migliorando le condizioni di vita di queste persone nei loro Paesi, intervenendo sulla tutela dei diritti nei loro Paesi.

Giornata della Memoria: No all’indifferenza, né complici di intolleranza e nuovi razzismi

www.santegidio.org
A 72 anni dalla liberazione del campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, il ricordo dell’orrore e dell’abisso causato dall’antisemitismo e dalla predicazione dell’odio razziale è particolarmente importante in questo passaggio storico per l’Europa e il mondo intero. La Giornata della Memoria è un evento ancora più sentito proprio nel momento in cui va scomparendo la generazione dei sopravvissuti e dei testimoni della Shoah. 
Ma non può limitarsi ad un esercizio passivo. Troppa indifferenza di fronte ai nuovi atti di intolleranza e di razzismo, che vediamo riprodursi anche nel continente che conobbe il sorgere del nazismo, rischia di creare una pericolosa complicità. Si devono invece valorizzare gli atti di solidarietà, integrazione e inclusione sociale a favore dei più deboli e discriminati, che vedono protagonisti già tanti cittadini in Italia. Occorre moltiplicarli per creare una nuova cultura e trasmetterla alle giovani generazioni. E’ il modo migliore per celebrare la Giornata della Memoria e impegnarci per costruire una civiltà del convivere in cui ci sia spazio per tutti.

giovedì 26 gennaio 2017

Trump, sì alla tortura: "Il waterboarding funziona". Abolito da Obama nel 2009

Quotidiano.net 
Il presidente spiega: "Dobbiamo compattere il fuoco con il fuoco". E oggi potrebbe firmare l'ordine per lo stop per un mese ai cittadini di 7 Paesi musulmani. Continuando nella 'mission' di smantellare l'opera del suo predecessore, Donald Trump stavolta benedice la tortura, nello specifico il waterboarding. Nella sua prima intervista televisiva dopo l'insediamento alla Casa Bianca il tycoon ha spiegato ieri di ritenere "assolutamente" utile la pratica dell'annegamento simulato durante un interrogatorio, il waterboarding appunto, che è stato ritenuto una tortura e abolito da Barack Obama nel 2009.



Trump spiega alla Abc: "Assolutamente, penso che funzioni". E sottolinea: Ho parlato di recente, 24 ore fa, con persone al più alto livello dell'intelligence e ho chiesto loro: 'Funziona? La tortura funziona?' E la risposta è stata 'Sì, assolutamente'".
In ogni caso, Trump ha precisato che lascerà al capo della Cia Mike Pompeoe al segretario alla Difesa James Mattis la valutazione finale sulla questione: "E se non vogliono farlo, va bene, lavorerò in questa direzione. Voglio che tutto sia nei limiti di quello che possiamo fare, se è legale", ha aggiunto. "Quando l'Isis fa cose di cui non si sente parlare sin dal Medioevo, mi sento fortificato circa il waterboarding. Per quanto mi riguarda, dobbiamo combattere il fuoco con il fuoco".


Altri articoli, Avvenire: Usa. Trump promuove la tortura. Dai vescovi critiche sul muro al confine

La verità sulla morte di Giulio Regeni è ancora lontana, come per tante vittime della violazione dei diritti umani in Egitto

Internazionale
A un anno dalla scomparsa al Cairo del ricercatore italiano Giulio Regeni, le indagini svolte dai magistrati italiani Giuseppe Pignatone e Sergio Colaiocco sono ancora in corso, così come l’inchiesta egiziana sul caso. 



Il 23 gennaio 2017 il procuratore generale egiziano, Nabil Ahmed Sadeq, ha accettato la richiesta della procura italiana di inviare al Cairo un gruppo di esperti italiani e tecnici tedeschi di un’azienda specializzata nel recupero dei dati delle telecamere di sorveglianza per analizzare i video delle telecamere a circuito chiuso della stazione della metropolitana di Dokki, dove Regeni fu visto per l’ultima volta la sera del 25 gennaio 2016.

Lo stesso giorno una televisione egiziana ha pubblicato il video di una conversazione tra Regeni e il capo del sindacato dei venditori ambulanti, Mohammed Abdallah. Il filmato, scrive l’Ansa, era stato girato con una telecamera nascosta in un bottone nella camicia del venditore, un particolare che lascia pensare al coinvolgimento della polizia. Nell’incontro, che rientrava nella ricerca di Regeni sui sindacati indipendenti, Abdallah chiedeva del denaro al ricercatore. Il nome di Abdallah era già emerso in relazione al caso: in un’intervista rilasciata alla fine di dicembre del 2016 il venditore ambulante aveva ammesso di essere stato lui a denunciare il ricercatore italiano al ministero dell’interno perché faceva domande sospette.

Un corpo che parla
La scomparsa di Giulio Regeni ha coinciso con il quinto anniversario delle manifestazioni del 2011, che portarono alla caduta del dittatore Hosni Mubarak. Pochi giorni dopo, il 3 febbraio, il suo corpo fu ritrovato con evidenti segni di tortura lungo un’autostrada che porta fuori della capitale egiziana. 

Come scrive Alexander Stille in un’inchiesta pubblicata sul Guardian e su Internazionale, dall’autopsia svolta in Italia è emerso che la morte avvenne tra le 22.00 del 1 febbraio e la stessa ora del giorno successivo, a causa della frattura del collo. Ma, come ha dichiarato la madre di Giulio Regeni, Paola Deffendi, “il corpo di Giulio parla”. Secondo le ipotesi più accreditate, le torture che ha subìto prima di morire indicano il coinvolgimento dei servizi segreti egiziani, che erano preoccupati per le ricerche svolte in un ambito (quello dei sindacati indipendenti) che il governo egiziano di Abdel Fattah al Sisi considera delicato. Il caso Regeni ha messo in crisi i rapporti tra l’Egitto e l’Italia, che ha reagito richiamando l’ambasciatore al Cairo e sospendendo la fornitura di pezzi di ricambio per gli F-16.

Nel corso dell’ultimo anno la famiglia Regeni ha portato avanti con Amnesty international la campagna #veritàpergiulio per tenere alta l’attenzione dell’opinione pubblica sulla sua morte e per contrastare i tentativi di depistaggio egiziani. Incidente stradale, delitto passionale, rapimento da parte di criminali comuni: in Egitto si è cercato di descrivere l’omicidio di Regeni in vari modi, ma nessuna delle ipotesi ha retto alla prova dei fatti né spiegava le torture a cui era stato sottoposto. È noto, invece, che dopo il colpo di stato che ha portato al potere il maresciallo Al Sisi in Egitto si è instaurato un clima di paranoia.

Come un egiziano
Come ha scritto il giornalista egiziano Amro Ali in un articolo su Mada Masr, “come Rachel Corrie è stata adottata dalla causa palestinese, Regeni potrebbe essere il primo non egiziano a essere inserito tra i martiri della rivoluzione egiziana”. Nel paese, si legge in un rapporto di Amnesty international di luglio del 2016, il giro di vite contro il dissenso ha portato all’arresto di più di 34mila persone, mentre centinaia di persone sono state vittime di sparizioni forzate. Tra loro, anche Hossam Bahgat, il giornalista investigativo vincitore del premio Anna Politkovskaja 2016, che è stato arrestato nel novembre del 2015 e per tre giorni è rimasto nelle mani dei servizi segreti militari per un articolo che aveva scritto. 

mercoledì 25 gennaio 2017

I minori migranti vengono respinti illegalmente in Serbia. Violenze, torture da parte delle polizie di frontiera

Internazionale
Respingimenti illegali, violenze e torture da parte delle polizie di frontiera contro i migranti, anche minorenni, sono sempre più diffusi sulla rotta balcanica: lo denuncia un rapporto di Save the children, che ha registrato 1.600 casi di respingimenti illegali, segnati da violenze di questo tipo, negli ultimi due mesi. 

Campo per migranti di Presevo - Serbia
Si tratta di trenta casi al giorno, che coinvolgono anche bambini di otto anni. I ragazzi hanno denunciato di essere stati picchiati dai poliziotti oppure presi a morsi dai cani della polizia di frontiera per essere respinti al di là della frontiera. 

La Serbia non fa parte dell’Unione europea ed è diventata un territorio di transito per migliaia di persone che continuano a intraprendere la rotta balcanica, malgrado l’accordo tra Bruxelles e Ankara sui migranti del marzo del 2015. Secondo l’ong circa cento persone cercano ogni giorno di entrare nel paese.

Anche in Bulgaria i ragazzi sono esposti a violenze di ogni tipo e ai soprusi dei trafficanti. “Durante il viaggio ho avuto molti problemi, soprattutto nel bosco”, ha raccontato un minore afgano di 12 anni. “La polizia bulgara ci ha picchiato, ha preso i nostri soldi, ci ha chiesto perché veniamo in Europa. Abbiamo avuto molti problemi anche con la mafia”, ha continuato.

A Belgrado, la capitale serba, mille persone dormono in un magazzino vicino alla stazione ferroviaria con temperature di 15 gradi sotto zero. Secondo Save the children i minori sono il 46 per cento dei nuovi arrivati in Serbia, un quinto dei minori non accompagnati che stanno arrivando in tutta Europa.

Molti migranti e richiedenti asilo hanno paura di entrare nei centri per migranti ufficiali in Serbia, per il timore di essere arrestati o espulsi. Così tante persone si arrangiano e dormono per strada e in rifugi di fortuna, ma con le temperature invernali sempre più rigide sono stati registrati casi di congelamento e di malattie respiratorie causate dai roghi dei rifiuti, accesi per scaldarsi. Medici senza frontiere ha detto che la città “rischia di diventare una nuova Calais dove le persone rimangono bloccate”.

“In verità la crisi dei profughi non è terminata, è diventata semplicemente una rotta più pericolosa, specialmente per i minori”, ha detto Jelena Besedic di Save the children Serbia. “L’accordo tra la Turchia e l’Unione europea ha solo consegnato il controllo di questo business ai trafficanti, che stanno usando strategie sempre più pericolose per sfuggire al controllo delle autorità. Abbiamo visto ferite come quelle causate dai morsi di cani, persone che riportano ferite causate da trattamenti brutali durante i respingimenti”.

Burundi. Liberati centinaia di detenuti per l'amnistia annunciata a fine 2016

Nova
Centinaia di detenuti sono stati scarcerati oggi in Burundi a seguito dell'amnistia annunciata alla fine dello scorso anno dal presidente Pierre Nkurunziza nel tentativo di placare le tensioni in corso nel paese. 

Lo riporta l'emittente britannica "Bbc", secondo cui tra i prigionieri rilasciati figurano diversi esponenti di spicco dell'opposizione. In totale, l'amnistia dovrebbe portare alla liberazione di circa 2.500 detenuti.
Il Burundi attraversa un'aspra crisi politica dall'aprile del 2015, quando lo stesso Nkurunziza ha annunciato l'intenzione di candidarsi per un terzo mandato alla guida del paese, cosa considerata dall'opposizione e dalla società civile una violazione della Costituzione e degli accordi di pace che nel 2005 posero fine a 12 anni di guerra civile. Le violenze hanno causato finora la morte di almeno 500 persone e la fuga dal paese di altre 200 mila.

Profughi - Corridoi umanitari, dopo l'Italia arriva il sì della Francia

Vita
Il ministro francese annuncia una prossima intesa con Federazione protestante di Francia, Caritas, Comunità di Sant'Egidio e Conferenza episcopale. Il modello da seguire è quello italiano, che nell'ultimo anno ha portato 500 siriani in Italia


Dopo le 500 persone siriane arrivate in Italia nell'ultimo anno, prima e finora unica esperienza vera e propria di corridoi umanitari europei, portata avanti dalla società civile (Comunità di Sant'Egidio, Tavola valdese, Comunità Papa Giovanni XXIII) con il beneplacito dei ministeri italiani di Interno ed Esteri, ora anche la Francia sembra seguire l'unica strada oggi efficace per evitare ai profughi la roulette russa del viaggio con i barconi nel mar Mediterraneo.

L'apertura della Francia sul tema arriva direttamente dal primo ministro Bernard Cazeneuve, che, come riporta Onuitalia, ha appoggiato l'iniziativa che prevede come enti promotori la Fpf, Federazione protestante di Francia, la Comunità di Sant’Egidio, la Caritas francese e la Conferenza episcopale di Francia. Iniziativa che verrà messa nero su bianco con un accordo nelle prossime settimane.

A sua volta, nella stessa occasione (gli auguri istituzionali di inizio anno alla Cité de refuge di Parigi) nel suo saluto al primo ministro francese, il presidente della Fpf, pastore François Clavairoly, ha annunciato la firma di un protocollo d’intesa con il governo francese per l’accoglienza di profughi da parte della stessa Federazione protestante e della Comunità di Sant’Egidio.

Nel frattempo c'è una prossima novità anche per i corridoi umanitari italiani, a cui di recente ha aderito anche la Cei, Conferenza episcopale italiana: tra fine gennaio e inizio febbraio arriveranno i primi profughi dall'Etiopia (scappati dai paesi limitrofi), mentre finora le 500 persone accolte sono arrivate dai campi profughi siriani in Libano.

martedì 24 gennaio 2017

Arabia Saudita - Giovane attivista sciita Alì Mohammd Al Nimr da 5 anni nel braccio morte rischia decapitazione

AnsaMed
Oltre 440mila firme. Sono quelle raccolte su change.org per Alì Mohammd Al Nimr, l'attivista sciita condannato a morte nel 2014 in Arabia Saudita con accuse che vanno dalla "partecipazione a manifestazioni antigovernative" alla rapina a mano armata. Arrestato nel 2012 a soli 17 anni, Ali rischia la decapitazione. 


Lo zio, Nimr Baqr Nimr, era stato arrestato e giustiziato per accuse simili che pendono sul nipote, oggi quasi 22enne. Per il suo caso si sono mobilitate le principali organizzazioni per i diritti umani tra cui Amnesty International e la piattaforma per il lancio di campagne sociali change.org.

Proprio su change.org sono state raccolte oltre 440mila firme in un anno, ma non bastano.

"Nonostante la mobilitazione e l'interesse - dice Stefano Molini, che ha lanciato la petizione - numerosi esponenti del mondo della cultura, della politica e dello spettacolo e la grande attenzione dei media, Al-Nimr ad oggi è ancora nel braccio della morte e ogni giorno che passa si affievolisce sempre più la speranza che venga concessa la grazia". Alla storia del giovane Alì si aggiunge quanto denunciato nei giorni scorsi da Amnesty International e Human Rights Watch. Secondo le due organizzazioni nei primi giorni del 2017 in Arabia Saudita ci sarebbe stata una vera e propria escalation di gravissime violazioni dei diritti umani. Si parla infatti di numerosi arresti e di condanne contro attivisti, giornalisti, scrittori e avvocati pacificamente impegnati nel produrre riforme e nuovi modelli culturali nel regno.

"E' mio auspicio - aggiunge Molini - che non cali mai l'attenzione dei media internazionali sui gravi fatti dell'Arabia Saudita e che l'Unione Europea intensifichi ogni giorno sempre di più il suo impegno a favore di un concreto sviluppo dei diritti umani nel mondo".


“Dateci più migranti”, in Basilicata l’accoglienza non fa paura

Corriere Sociale
Roma – Ne dovevano arrivare mille, ma non bastavano e ne hanno richiesti almeno il doppio. È questa la politica illuminata della regione Basilicata sui migranti, sorprendente di questi tempi in cui si moltiplicano barricate, proteste di comunità spaventate e decise a respingere le quote anche minime di rifugiati assegnate dal Governo ai Comuni. 


Di segno opposto la decisione della regione del Sud, che con una popolazione in costante calo, ha deciso di puntare sull’integrazione sociale e economica di quanti fuggono da guerre e povertà. Una visione che prevede programmi di accoglienza per rigenerare luoghi e quelle comunità interne e montane che più rischiano di rimanere isolate e residuali.

«In controtendenza rispetto a tutte le altre regioni italiane, da tempo ho manifestato la volontà del governo regionale di andare anche oltre la quota di riparto nazionale dei flussi migratori. Questo perché la giunta regionale della Basilicata considera l’accoglienza un’opportunità che, se ben strutturata, può essere un’occasione di sviluppo per il territorio. Soprattutto per le aree interne» spiega Marcello Pittella, presidente delle Regione.

Non si è perso tempo, nessun intoppo o rimpallo tra Istituzioni, le cifre parlano chiaro e raccontano di vite accolte e anche di nuovo lavoro a beneficio di tutta la collettività. Sono infatti 2240 i richiedenti asilo in tutta la regione, di cui 185 minori non accompagnati. Oltre 44mila migranti hanno un lavoro, al 90% con un contratto. Oltre la metà lavora in agricoltura. Vuol dire che gli stranieri rappresentano il 13% circa della forza lavoro totale, cioè più di un lavoratore su 10 è straniero.

«Noi abbiamo deciso ampliare ancor più il nostro impegno per i rifugiati e i richiedenti asilo – aggiunge Pittella – focalizzando tutte le migliori esperienze e le energie regionali e proponendo un approccio sistemico alla materia della migrazione e del diritto di asilo». Nel Metaponto, si toccano le punte massime delle presenze: su 34mila lavoratori, 14mila sono stranieri. Sono in 460 gli operatori lucani a lavorare intorno ai progetti per l’accoglienza e sono 55, oltre un terzo, i Comuni ad aver accettato di ospitare migranti nei loro territori.

Un modello quello lucano che non solo viene considerata positiva a livello nazionale ma che attira anche sostenitori stranieri, come Naguib Sawiris, un magnate egiziano intenzionato ad aiutare i rifugiati che ha siglato con la regione l’accordo “We are the people”, un progetto economico e sociale nato per garantire l’accoglienza dei rifugiati.

«La Basilicata – conclude Pittella – si candida a diventare, nella cornice europea dell’emergenza sanitaria, una Regione-Laboratorio per sviluppare un nuovo modello socio-economico di integrazione, in grado di apportare benefici tanto ai lucani in difficoltà, quanto ai migranti provenienti dai Paesi del Mediterraneo. Investire sulle persone – ha aggiunto il Governatore lucano – è la grande sfida del nostro tempo, con una visione di sviluppo fondata su agricoltura sociale, turismo eco-sostenibile, industria creativa e servizi innovativi».

di Gaia Pascucci

Brasile, il carcere di Alcacuz dopo le rivolte del 14 gennaio è ancora fuori controllo.

tvsvizzera.it 
A giorni dall'inizio della sommossa, è ancora fuori controllo la situazione nel penitenziario di Alcacuz, in Brasile, dove lo scorso 14 gennaio, dopo i primi incidenti, sono morti 26 reclusi.



Agenti della Forza nazionale sono stati inviati dal governo federale per cercare di riportare la calma, ma i detenuti in rivolta continuano ad occupare la struttura senza apparentemente voler cedere ai tentativi di mediazione delle autorità: nel carcere è in corso una guerra sanguinaria tra due gang rivali, il Sindicato do Crime e il Primeiro Comando da Capital.

Per cercare di separare le fazioni ed evitare nuovi scontri, il governo locale ha anche fatto costruire un muro fatto di container.

Intanto le forze dell'ordine hanno già trovato tre tunnel scavati dentro il locale, situato alla periferia di Natal, capitale del Rio Grande do Norte (nord-est).

lunedì 23 gennaio 2017

USA - Obama commuta due condanne a morte 3 giorni prima della fine del mandato

Repubblica
L'ormai ex presidente Barack Obama ha commutato due condanne a morte, a pochi giorni dalla fine del suo mandato, la condanna federale di Abelardo Arboleda Ortiz e quella militare di Dwight J. Loving.

Obama in visita alle carceri degli USA
Come è noto, è consuetudine dei presidenti degli Stati Uniti concludere i loro mandati promulgando una serie di provvedimenti di clemenza. Il 17 gennaio, 3 giorni prima del giuramento del nuovo Presidente, Donald Trump, Obama ha emesso 209 commutazioni e 64 grazie. 

Per commutazione si intende abbreviare una condanna, per grazia si intende disporre l’immediata scarcerazione per effetto del “perdono presidenziale”. Il caso che più ha attirato l’attenzione dei media è quello del “soldato Manning”, condannato a 35 anni per aver “passato” a Snowden e Assange le informazioni riservate del caso Wikileaks. Ma due casi hanno riguardato due condannati a morte. Abelardo Arboleda Ortiz, 50 anni, colombiano, venne condannato a morte in una corte federale del Missouri il 19 dicembre 2000 per concorso in un omicidio in un contesto di traffico di cocaina. Ortiz venne arrestato assieme a due connazionali, con l’accusa di aver ucciso, il 26 novembre 1998, Julian Colon.

Iran, 31 persone impiccate in soli quattro giorni. Tra loro due donne e un minorenne.

Repubblica
Almeno trentuno detenuti - si legge in un report di Nessuno Tocchi Caino - sono stati impiccati in Iran tra il 14 e 17 gennaio. In particolare, il 14 gennaio due prigionieri sono stati giustiziati nella prigione di Dizel Abad a Kermanshah - come riferisce la sezione iraniana di Human Rights Watch. 

Sono stati identificati come: Seifollah Hosnian, 33 anni, arrestato nel 2010 per possesso di due chili e 200 grammi di crack e un chilo e 80 grammi di metanfetamina; Tofigh Bahramnejad, 31 anni, arrestato nel 2012, sempre per droga. 

Sempre il 14 gennaio, almeno 14 prigionieri sono stati impiccati nel carcere centrale di Karaj per reati legati a possesso e traffico di stupefacenti. L'orgnizzazione umanitria ha identificato dieci dei giustiziati: Mohammad Soleimani, Ali Ebadi, Ali Reza Moradi, Majid Badarloo, Omid Garshasebi, Ali Yousefi, Seyed Ali Sorouri, Ebrahim Jafari, Ali Mohammad Lorestani, e Mohsen Jelokhani. Dodici di questi prigionieri erano stati posti in isolamento l’8 gennaio, in attesa di essere giustiziati.

Anche due donne tra i detenuti uccisi. Secondo un parente di uno dei giustiziati, tra i 14 messi a morte figurerebbero due donne, che erano state trasferite dal carcere di Gharchak a quello di Karaj per essere giustiziate. Non si conoscono le generalità delle due donne. 

Ancora il 14 gennaio, almeno cinque prigionieri sono stati impiccati nel carcere Rajai Shahr di Karaj, nel nord dell’Iran. Fonti vicine all’organizzazione Iran Human Rights hanno reso noto che i cinque erano stati riconosciuti colpevoli di omicidio e Moharebeh (guerra contro Dio). Sempre Iran Human Rights è riuscita a conoscere le generalità di quattro dei cinque giustiziati: Siamak Shafiee, Abouzar Alijani, Saeed Teymouri, e Reza Naghizadeh.

A morte anche un minorenne. Il 15 gennaio altri due prigionieri, identificati come Akbar K. e Morteza H., sono stati giustiziati nella prigione centrale di Qazvin per traffico di droga, ha annunciato Ismail Sadeqi Niaraki, procuratore della città. 
Il 15 gennaio Arman Bahr Asemani è stato impiccato nella prigione di Kerman insieme a un co-imputato adulto, Shams Allah R. Nato il 10 febbraio 1997, Asemani era minorenne al momento dell'omicidio del 2012 per cui lui e Allah R. sono stati arrestati. La stampa iraniana ha incentrato la notizia sul caso su Allah R., l'adulto, con nessun riferimento ad Asemani, ha riportato la HRANA. 

La Fondazione Abdorrahman Boroumand ha documentato almeno 122 esecuzioni di minorenni in Iran dall'inizio del 2000. Il 16 gennaio un prigioniero è stato impiccato in pubblico nel villaggio di Bektash, nei pressi della città iraniana di Miandoab. Lo hanno reso noto fonti ufficiali iraniane, secondo cui il l’uomo era stato riconosciuto colpevole degli omicidi di cinque membri di una stessa famiglia, commessi nell’estate del 2016.

Contadino francese Cédric Herrou rischia il carcere per aiutare i migranti in pericolo

Il Fatto Quotidiano
Continua la repressione nei confronti di Cédric Herrou, l’agricoltore francese sotto processo per aver ospitato, sostenuto e accompagnato dall’Italia alla Francia, nell’ultimo anno, oltre 300 migranti privi di documenti. 


Herrou ha 37 anni e abita e lavora in Val Roja, territorio di Francia a 30 chilometri dal confine di stato di Ventimiglia. Pur consapevole del rischio di pagare sulla sua pelle con 5 anni di carcere e 30.000 euro di multa le sue azioni solidali, il giovane francese non ha interrotto il suo impegno, ed è stato arrestato ancora mercoledì scorso mentre indicava i sentieri verso la Francia a tre ragazzi eritrei.
Mentre l’agricoltore solidale si trovava ancora in stato di fermo, nella sua fattoria facevano irruzione nella mattinata di ieri una ventina di poliziotti francesi in tenuta antisommossa, che hanno proceduto all’ennesimo rastrellamento e all’arresto dei migranti irregolari che si trovavano sul posto.
Cédric non è l’unico abitante della Valle che rischia il carcere per questo impegno, sono un centinaio gli abitanti più attivi dell’associazione “Roya Citoyenne” e già una decina tra contadini, insegnanti, avvocati e agricoltori hanno subito denunce, multe, arresti perquisizioni. 

Ma nonostante la repressione continua, in Val Roja non hanno alcuna intenzione di fermarsi finché le politiche di frontiera non cambieranno. Da quando infatti, due anni fa, la Francia ha chiuso la frontiera, centinaia di migranti, nel tentativo di eludere i controlli della polizia, arrivano in Val Roja per passare il confine. In questo tentativo camminano lungo l’autostrada, percorrono sentieri impervi e vanno a piedi lungo le linee ferroviarie. Negli ultimi mesi sono morte cinque persone, ma i cittadini della Val Roja ritengono che possano essere anche di più, per questo hanno deciso di ribellarsi alle leggi che determinano questa situazione. 

Dopo mesi di attività clandestina, come spiega lo stesso Cédric Herrou ai microfoni de ilfattoquotidiano.it, i solidali della Valle hanno deciso di uscire allo scoperto: “Se continuavamo ad aiutare di nascosto, non avremmo potuto mostrare al mondo che c’è questo problema, e i politici non lo stanno assolutamente gestendo”. 
Sottolinea Cédric, che aggiunge: “Se vedo delle persone in grave pericolo, e l’unica soluzione è caricarli con me, io li porto con me e non capisco come questo possa essere vietato”. “Il silenzio è complice in questa situazione: la Francia sta violando diritti fondamentali con la sua politica delle frontiere, la frontiera uccide chi vuole passare. La verità è che la gente muore, e la Francia è responsabile di questi morti. E se la polizia francese respinge in Italia i minori che hanno pieno diritto di chiedere Asilo in Francia – aggiunge -, caricandoli sui treni verso l’Italia nascondendoli alla polizia italiana, sono loro a commettere illegalità, e non capisco perché gli italiani non dicano nulla”. “Ma non è condannandomi o mettendomi in prigione che risolveranno il problema – conclude Cédric – e se devo pagare con il carcere per aver salvato delle persone penso che questo sia un onore e non un sacrificio”. 
La sentenza sarà venerdì 10 febbraio, e di fronte al Tribunale di Nizza si sono già dati appuntamento centinaia di cittadini per manifestare la loro solidarietà con il giovane agricoltore che è diventato il simbolo di una Valle.

di Pietro Barabin

domenica 22 gennaio 2017

Guerre dimenticate - Yemen - Circa 70 morti nei combattimenti tra governati e ribelli

Internazionale
Secondo fonti mediche e di sicurezza, sarebbero 66 le vittime dei combattimenti e degli attacchi aerei avvenuti nelle ultime ventiquattro ore sulle costa occidentale dello Yemen. 


I ribelli sciiti houthi e i loro alleati, i partigiani dell’ex presidente Ali Abdullah Saleh, hanno perso 52 combattenti nella regione di Mokha sul mar Rosso, colpita da raid aerei della coalizione a guida saudita. Quattordici soldati delle forze governative sono morti negli scontri.

Papa Francesco scrive ai detenuti: mai incarcerare la dignità. Siete prima di tutto persone.

Avvenire 
Francesco in una lettera rivolta ai detenuti della Casa di reclusione Due Palazzi di Padova chiede loro di tenere accesa la luce della speranza: essere persone prima che detenuti. Serve una conversione culturale, perché i detenuti non smettano mai di essere prima di tutto persone con la loro dignità e affinché la pena non sia la fine della loro vita; affinché ciascuno possa aspirare a un avvenire migliore.

Papa Francesco al carcere di Palmasola in Bolivia
Lo scrive papa Francesco in una lettera rivolta ai detenuti della Casa di reclusione Due Palazzi di Padova, in occasione di un convegno sull'ergastolo, organizzato nei giorni scorsi da "Ristretti Orizzonti", il giornale realizzato dai reclusi di Padova.

"Tenete accesa la luce della speranza", nonostante le tante fatiche, i pesi e le delusioni. Prega per tutti loro papa Francesco e chiede a chi ha "la responsabilità e la possibilità" di aiutare i detenuti a far sì che la speranza non si spenga, affinché l'essere persone "prevalga" sull'essere detenuti. "Siete persone detenute - scrive il Papa - sempre il sostantivo deve prevalere sull'aggettivo, sempre la dignità umana deve precedere e illuminare le misure detentive".

Il messaggio di Francesco è un incoraggiamento alla riflessione, perché si realizzino "sentieri di umanità" che possano attraversare "le porte blindate" e affinché i cuori non siano mai "blindati alla speranza di un avvenire migliore per ciascuno". 


È urgente una conversione culturale, si legge ancora, "dove non ci si rassegni a pensare che la pena possa scrivere la parola fine sulla vita; dove si respinga la via cieca di una ingiustizia punitiva e non ci si accontenti di una giustizia solo retributiva; dove ci si apra a una giustizia riconciliativa e a prospettive concrete di reinserimento; dove l'ergastolo non sia una soluzione ai problemi, ma un problema da risolvere". Se la dignità "viene definitivamente incarcerata", è l'avvertimento di papa Francesco "non c'è più spazio, nella società, per ricominciare e per credere nella forza rinnovatrice del perdono". Ma è in Dio, è la conclusione, che c'è "sempre un posto per ricominciare, per essere consolati e riabilitati dalla misericordia che perdona".

Due milioni e mezzo di donne in marcia contro Trump in 700 luoghi. 500 mila a Washington

AGI
C'era anche Madonna tra li due milioni e mezzo di donne in quasi 700 luoghi - dal'Antartide alla Moscova, da Los Angeles a Tokyo - marciano contro Donald Trump, che il 20 gennaio si è insediato alla Casa Bianca. Secondo gli organizzatori di #WomensMarch che tengono il conto sul sito www.womensmarch.com: le "sister" (sorelle) sono 2.587.190 in 673 località in tutti i continenti. 




Oltre alle principali città Usa citano manifestazioni dall'Antartide all'Australia, dalla Bielorussia al Brasile. In Europa proteste sono in corso secondo le organizzatrici proteste in Francia, Germania, Italia (Firenze, Milano e Roma, sostiene il sito), Gran Bretagna, Austria, Spagna. Manifestazioni anche in Africa e Sud America.

Come è nata #womensmarch
Teresa Shook è un giudice in pensione, nonna di quattro nipotini. Vive alle Hawaii e ha votato per Hillary Clinton. La notte dopo le elezioni che hanno incoronato Donald Trump presidente degli Stati Uniti ha chiesto agli amici come fare per creare una pagina Facebook. L'ha aperta e ha scritto questa frase: "E se le donne marciassero in massa a Washington dopo l'Inauguration Day?" In pochi minuti sono arrivate 40 adesioni. Teresa Shook è andata a letto. Il giorno dopo, le donne iscritte alla pagina erano diventate 10mila. Ora oltre 150mila persone hanno annunciato la loro partecipazione alla marcia di Washington.

La campagna sui social
Mai Teresa Shook avrebbe pensato di diventare l'organizzatrice di una manifestazione di protesta che si annuncia dirompente. Tanto che c'è chi l'ha già paragonata alla grande marcia su Washington in cui il 28 agosto del 1963 Martin Luther King prununciò il celebre discorso I have a dream. Un paragone forse troppo azzardato, bisogna dirlo.

All'appello di Teresa Shook hanno aderito personalità del mondo dello spettacolo, musicisti, attori, da Scarlett Johansson, alle protagoniste della fortunata serie tv 'Orange is the new black', da Demi Moore a Cher. E tanti influencer che hanno rilanciato la marcia sui loro profili social, come Janelle Monae (con 1 milione e mezzo di follower su Instagram) e KT Turnstall (che si esibiscono in piazza a Washington, vicino Capitol Hill).

La marcia anche in Italia e nel resto del mondo
L'iniziativa ha varcato i confini nazionali ed è arrivata anche in Italia. Manifestazioni si sono svolte a Roma e Milano. "I diritti delle donne sono diritti umani, 'Dump Trump' (scarica Trump) gli slogan sui cartelli. Proteste si sono svolte in Australia e Nuova Zelanda: a Sydney 3mila persone hanno marciato nel parco di Hyde fino al consolato americano; ad Auckland in 2mila hanno manifestato fin davanti alla sede diplomatica Usa. Manifestazioni anche in numerosi Paesi europei, in Sudafrica e in Canada.

Perché questa marcia
Una marcia contro la misoginia, il fanatismo, contro chi ha "insultato immigrati, musulmani, omosessuali, neri e disabili" sono le motivazioni che accomunano tutti i partecipanti. Insomma, una protesta che ha l'obiettivo di mandare un messaggio chiaro al nuovo presidente, nel suo primo giorno in carica: "I diritti delle donne sono diritti umani. Noi siamo insieme, difendere i più emarginati è difendere tutti noi". Sul sito ufficiale womensmarch.com sono state pubblicate tutte le informazioni e link per scaricare l'app, la 'guida' per protestare e il collegamento alla pagina Facebook guardare i livestream delle manifestazioni. 

di Giorgio Baglio