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martedì 31 ottobre 2017

L’Onu ammonisce l’Eritrea: «Regime illiberale, ecco perché la gente fugge»

Africa Rivista
«Chiedo alla comunità internazionale di non volgere le spalle ai rifugiati eritrei. Faccio un appello affinché non si adottino politiche che possono tradursi in violazioni dei diritti umani solo per inseguire promesse elettorali populiste». 



Sheila Keetharuth, relatrice speciale delle Nazioni Unite per l’Eritrea, non ha usato mezzi termini di fronte all’Assemblea generale dell’Onu. La diplomatica ha chiesto di aiutare i cittadini eritrei che continuano a fuggire dal regime repressivo che opprime il piccolo Paese del Corno d’Africa.

«Queste politiche populiste – ha continuato – potranno temporaneamente rallentare il flusso dei migranti eritrei, ma non fermeranno le persone che attraversano deserti e mari in cerca di luoghi sicuri in cui vivere. Nessuna barriera sarà insormontabile per chi scappa dalle violazioni dei diritti umani».
A più di vent’anni dall’indipendenza dall’Etiopia, l’Eritrea non ha ancora una Costituzione democratica e, secondo Sheila Keetharuth, ciò favorisce l’abuso di potere da parte dello Stato. Il regime di Asmara è reo di arresti arbitrari, detenzioni inspiegabili, politiche liberticide. Secondo la relatrice, il governo eritreo ha anche dato l’ordine di sparare contro chi tenta di espatriare.

«L’Eritrea – osserva Sheila Keetharuth – non ha ancora una Costituzione per proteggere i diritti umani fondamentali. Nel Paese non funzionano tribunali indipendenti, né il Parlamento. Non esistono istituzioni che possano garantire controlli indipendenti o proteggere contro l’abuso di potere dallo Stato».

La maggior parte degli eritrei che fuggono di solito si dirige verso Etiopia e Sudan, alcuni di loro cercano anche di attraversare il mare per andare nella Penisola araba. Secondo i recenti dati dell’Organizzazione internazionale per la migrazione, nel 2016 sono fuggite almeno 20mila persone, il 46% di esse aveva tra i 18 e i 24 anni.

Italia - Lo scandalo dei 60 bambini in carcere da 0 a 6 anni reclusi con le loro mamme

Corriere della Sera
Nelle carceri italiane ci sono 60 bambini detenuti. L’ingresso in carcere dei bambini è una scelta della donna. Che però, quasi sempre, non ha una vera opzione Escono solo il sabato con i volontari.



Nelle carceri italiane ci sono 60 bambini detenuti. Hanno da pochi mesi a sei anni e vivono dietro le sbarre. Condividono la reclusione delle madri, anche se il regime carcerario a cui sono sottoposti è attenuato rispetto al resto della popolazione carceraria. Non hanno fatto niente (e cosa potrebbero mai fare?), eccetto nascere al momento sbagliato, in prossimità di un arresto o una condanna.

L’ingresso in carcere dei bambini è una scelta della donna. Che però, quasi sempre, non ha una vera opzione. Spesso il marito è in carcere o non ci sono altri parenti a cui affidare il bimbo. Il numero dei bambini nei penitenziari è più o meno sempre costante negli anni. Non influiscono i vari provvedimenti di legge. Dal 1975 (la legge 354) a oggi (la legge 62 del 2011) ci sono stati cinque interventi legislativi. Ma i bambini restano sempre lì. Non si contano, invece, le promesse solenni di quasi tutti i ministri della Giustizia che si sono succeduti negli ultimi dieci anni (senza andare troppo indietro con il tempo).

Il ministro Clemente Mastella nel 2007 partecipò a un convegno dal titolo: «Che ci faccio io qui? Perché nessun bambino varchi più la soglia di un carcere». Nel 2009 lo sostituì Angelino Alfano e dichiarò: «Un bambino non può stare in cella. Approveremo una riforma dell’ordinamento carcerario che consenta di far scontare la pena alle mamme in strutture dalle quali non possano scappare ma che non facciano stare in carcere il bambino». Poi fu il turno del ministro Paola Severino: «In un Paese moderno è necessario offrire ai bambini, figli di detenute, un luogo dignitoso di crescita, che non ne faccia dei reclusi senza esserlo». Era il 2012. L’anno dopo in via Arenula arrivò Anna Maria Cancellieri: «Stiamo lavorando perché vogliamo far sì che non ci siano mai più bimbi in carcere». Infine, l’attuale ministro della Giustizia Andrea Orlando che nel 2015 promise: «Entro la fine dell’anno (2015, ndr.) nessun bambino sarà più detenuto. Sarà la fine di questa vergogna contro il senso di umanità».

L’istituto penitenziario che reclude il maggior numero di bambini si trova a Roma ed è il Rebibbia femminile «Germana Stefanini», uno dei più attrezzati e meglio tenuti. Ci vivono quindici bambini, quasi tutti sotto i tre anni di età. Ma prima della sentenza Torreggiani (la decisione con la quale la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo stabilì che «il prigioniero sia detenuto in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana») se ne contavano ventuno. La maggior parte delle mamme sono Rom ma troviamo anche un’italiana.
La prevalenza Rom si spiega con l’alta percentuale di recidiva che impedisce loro di accedere alle pene alternative. Così vivono con i figli nelle celle, anche se di giorno le porte sono aperte. Alle 20,00 una poliziotta penitenziaria le rinchiude. I bambini crescono con i ritmi carcerari, tra divise e chiavistelli. 

Un’eccezione sono considerati gli Icam, Istituti a custodia attenuata per madri detenute (il progetto pilota partì a Milano) che si distinguono unicamente per il fatto che ci sono ambienti più familiari, i poliziotti non indossano la divisa ma abiti civili e c’è una maggiore presenza di educatori.

Restano le sbarre alle finestre, le porte blindate, la videosorveglianza e il controllo degli operatori. «Chiedono perché li rinchiudono, credono di aver fatto qualcosa di sbagliato e piangono» ci dice una mamma. Non sanno di essere in un carcere ma percepiscono le restrizioni. I racconti sono questi: «Di notte mio figlio non dorme, si affaccia continuamente alla cancellata, chiama la guardia e chiede “Mi apri?”; Quando so che si avvicina l’ora della chiusura lo porto in bagno ma lui capisce, indica gli agenti con il dito e si nasconde, è brutto»; «I bambini qui diventano aggressivi, non hanno relazioni sociali. Tra l’altro vedono solo donne e manca del tutto una figura maschile».

Una situazione che induce a gridare allo scandalo ma che, in realtà, è molto complessa perché mette il legislatore nella difficoltà di contemperare tre diverse necessità, ugualmente sacrosante: garantire l’espiazione della pena, tutelare i diritti del bambino così come il rapporto che deve esserci tra una madre e il figlio poco più che neonato. Cosa, quest’ultima, che fa escludere a priori l’ipotesi di separare il figlio dalla madre al momento dell’ingresso in carcere. 

I danni si colgono il sabato, quando i bambini possono oltrepassare il confine carcerario grazie all’associazione «A Roma insieme». La fondò Leda Colombini, onorevole del Pci, un passato di grande sofferenza personale e di lotta per i diritti che la portò dai campi di riso ai banchi del Parlamento. Volle fortemente i cosiddetti «Sabati di libertà», giornate che da più di vent’anni rappresentano l’unica boccata d’ossigeno per i bambini detenuti. Elisa, Roberta, Paola, Alessandra, Fabrizio e Vanessa sono i volontari che ci accompagnano. Li chiamano «articolo 17» con riferimento all’ordinamento penitenziario che consente l’ingresso in carcere a persone esterne purché legate a un progetto. Spesso fanno tutt’altro mestiere.

Roberta è un avvocato di un noto studio legale romano. Paola è un’amministrativa dell’ospedale San Giovanni. Poi c’è chi come Fabrizio lavora nel mondo del volontariato, Vanessa che vuole fare un’esperienza compatibile con il suo percorso di studi o Elisa che lavorava come pubblicitaria e dopo aver scoperto la realtà dei bambini in carcere si è iscritta all’Università ed è diventata una educatrice.
Un pullman dell’Atac messo a disposizione dal Comune di Roma (per il servizio l’Atac chiede 25mila euro l’anno) preleva i bimbi da Rebibbia e li porta all’esterno. La nostra presenza coincide con la visita al mare di Ladispoli e alla casa famiglia «Carolina Morelli» gestita dalle suore dell’ordine «Figlie di Maria ausiliatrice». «Molti di loro non sanno cosa siano gli spazi aperti, quando arrivano sulla riva restano stupiti ma anche spaventati», nota Giovanni Giustiniani, volontario della prima ora.
E’ impressionante vedere dei marmocchi che a stento si reggono in piedi varcare i cancelli del carcere. Così come fa specie sentirli pronunciare poche parole ma alcune con estrema chiarezza: porta, chiave, apri, chiudi.

Restano cupi fin quando non scendono e i volontari li fanno giocare. Arrivano sulla spiaggia procedendo con prudenza. Si fermano, guardano e scoprono. Alcuni restano attaccati ai volontari. Come Eliot che stringe forte il dito di Claudio Enei, l’autista che li accompagna ogni settimana. «Prima era solo un lavoro. Ora, quando arriviamo, tolgo la divisa dell’Atac e divento un volontario a tutti gli effetti. Spesso mi scambiano per il papà», racconta. Subiscono una metamorfosi quando devono risalire sul pullman per il ritorno. Non è solo per la fine di una giornata di giochi, come fanno tutti i bambini. Associano l’imbrunire con la chiusura delle celle e s’intristiscono. Qualcuno piange, sbatte la manina sul vetro dell’autobus.

Rientrati a Rebibbia non corrono verso le rispettive mamme. «Più di una volta è capitato che restano attaccati addosso e non vogliono andare dalla mamma» ricorda Paola, un’altra volontaria. Gli aneddoti che raccontano sono infiniti. Come quel giorno in cui capitò che un agente lasciò una chiave sul tavolo. Uno dei bimbi la prese e corse dalla mamma: «Mamma, vieni, ti porto fuori, ci sono un sacco di cose belle».

Turchia, giornalisti in marcia per i colleghi in carcere

Corriere della Sera
Hanno marciato questo pomeriggio sulla sponda asiatica di Istanbul in segno di solidarietà con i giornalisti turchi in carcere. La marcia, organizzata nel giorno della “Festa della Repubblica” chiamata “Libertà per i giornalisti” («Gazetecilere Ozgurluk»), ha visto la partecipazione dei capigruppo dei partiti di opposizione, i repubblicani del Chp e i filo curdi dell’Hdp.



Alla fine della marcia la giornalista Gulsah Karadag ha letto un comunicato:

“Siamo al loro fianco. Le nostre azioni vogliono dare sostegno ai nostri amici, in carcere per le loro opinioni. Nessuno di noi può sentirsi libero mentre decine di colleghi si trovano in carcere. Tutto ciò avviene per impedire che si sappia la verità e le falsità vengano a galla. E’una questione di diritti, legge, giustizia”.
La marcia arriva a quattro giorni dalla quarta udienza che vede imputati 17 tra giornalisti e dipendenti del quotidiano Cumhuriyet, accusati di legami con la rete golpista di Fetullah Gulen e con i terroristi separatisti curdi del Pkk. Nel corso delle prime udienze sono stati scarcerati 7 imputati, mentre sono ancora in carcere il direttore Murat Sabuncu e i giornalisti Emre Iper, Ahmet Sik e Akin atalay.

Si stima che siano attualmente circa 160 i giornalisti in carcere in Turchia. Tra questi i due reporter turchi-tedeschi Deniz Yucel e Mesale Tolu, il primo, corrispondente del quotidianao Die Welt, è accusato di spionaggio; la seconda è invece accusata di legami con un’organizzazione di estrema sinistra.


Monica Ricci Sargentini

lunedì 30 ottobre 2017

Siria: a Raqqa il primo matrimonio dopo la liberazione dall’Isis

Corriere della Sera
Foto gallery del matrimonio >>>
La vita riprende lentamente a Raqqa dopo la recente liberazione dall’Isis: nella città siriana si è celebrato il primo matrimonio. Una festa in un cortile di casa, una delle poche ancora in piedi, un corteo festante arrivato camminando in mezzo alle macerie. (Afp)

Diffida legale contro il sussidiario "razzista" che equipara profughi e clandestini

Repubblica
L'Asgi, associazione studi giuridici sull'immigrazione chiede l'immediato ritiro del testo di studio e annuncia iniziative legali. Nel mirino il capitolo del sussidiario in cui si sostiene che “molti (stranieri) vengono accolti in centri di assistenza per i profughi e sono clandestini cioè la loro permanenza in Italia non è autorizzata dalla legge”

Offensiva legale contro il sussidiario razzista destinato ai bambini di quinta elementare edito da Il Capitello. L'Asgi, associazione studi giuridici sull'immigrazione, autrice di tanti ricorsi contro provvedimeti discriminatori, chiede l'immediato ritiro del testo di studio e annuncia iniziative legali. L'associazione, rappresentata a Milano dagli avvocati Alberto Guariso e Livio Neri, prende di mira il capitolo in cui si sostiene che “molti (stranieri) vengono accolti in centri di assistenza per i profughi e sono clandestini cioè la loro permanenza in Italia non è autorizzata dalla legge” e chiosa: "Non è nostra intenzione muovere censure alla peraltro discutibilissima impostazione educativa da Voi prescelta (che omette qualsiasi espressione di carattere solidaristico), né sulla evidente erroneità di mettere in connessione “l’aumento di stranieri” con i “profughi”, laddove è invece noto che titolari di protezione e richiedenti asilo costituiscono una percentuale minima della popolazione straniera presente in Italia".

Nella lettera di diffida inviata alla casa editrice torinese, Asgi aggiunge: "Intendiamo invece segnalarVi che l’affermazione sopra riportata è gravemente errata sotto il profilo giuridico e il suo utilizzo può – a nostro avviso - dar luogo alle sanzioni previste per atti e comportamenti discriminatori. E infatti nei “centri di assistenza per i profughi” non vengono affatto accolti “clandestini, cioè persone la cui permanenza in Italia non è autorizzata dalla legge”, ma soggetti autorizzati a restare in Italia al fine di veder esaminata la propria richiesta di protezione. Ad essi viene rilasciato un regolare permesso di soggiorno e, decorsi 60 giorni dalla domanda di protezione, essi possono anche inserirsi a pieno titolo nel mercato del lavoro".

Il libro sostiene che i profughi sono clandestini, ma l'Asgi replica: "L’equiparazione tra il richiedente protezione (o addirittura il “profugo”) e il “clandestino-che-se-ne-deve-andare” costituisce gravissima violazione dei diritti sanciti dalla Convezione di Ginevra e dalla direttiva dell’Unione 2013/33, nonché comportamento molesto e discriminatorio. Vi segnaliamo che proprio l’utilizzo di analoghe espressioni è già stato censurato dal Tribunale di Milano con ordinanza 22.2.2017, che ne ha affermato il carattere discriminatorio, condannando gli utilizzatori al risarcimento del danno".

La sentenza a cui si fa riferimento è quella contro la Lega di Saronno che tappezzò la città di manifesti in cui si equiparavano i profughi ai clandestini. La richiesta è dunque quella di "sospendere immediatamente la diffusione della pubblicazione e a provvedere al ritiro e alla correzione della stessa nella parte sopra evidenziata" e in assenza di "tempestivo riscontro" l'associazione annuncia una causa legale.

Zita Dazi

Bangladesh. Spunta lo spettro sterilizzazioni per i Rohingya

Avvenire
Il governo di Dacca avrebbe intenzione di avviare una campagna per limitare le nascite nei campi profughi sovraffollati: sono 600mila i rifugiati dal Myanmar


Il Bangladesh intende introdurre la sterilizzazione volontaria dei nei campi sovraffollati di profughi Rohingya appartenenti alla minoranza musulmana in fuga dallo Stato Rakhine del vicino Myanmar. 
Lo scrive il quotidiano britannico Guardian. 

Oltre 600mila Rohingya sono arrivati in Bangladesh dall'inizio di un'offensiva militare ad agosto, che ha innescato un esodo dalle conseguenze umanitarie drammatiche. Queste centinaia di migliaia di persone si sono unite alla massa di Rohingya che erano già scappati dall'ex Birmania, dove alla minoranza musulmana è negata la cittadinanza.

Le condizioni di vita nei campi sono orribili, mancano estese cure sanitarie e igiene. Secondo il Guardian, il capo del servizio di pianificazione familiare del distretto di Cox Bazar, dove si trovano i campi, ha detto che tra i Rohingya "c'è poca consapevolezza sul controllo delle nascite". 

Le famiglie estremamente numerose sono la norma nei campi e alcuni genitori hanno fino a 19 figli, molti uomini Rohingya hanno più di una moglie. I tentativi di convincerli alla contraccezione - rivela il quotidiano citando fonti del governo di Dacca - "non stanno avendo successo". Così il distretto ha chiesto al governoo di approvare un piano per lanciare vasectomie per gli uomini e tubectomie per le donne su base volontaria.

domenica 29 ottobre 2017

Sabato sera di violenza: Torino clochard dato alle fiamme, Roma grave aggressione ad un immigrato.

ANSA
Un clochard è stato aggredito e dato alle fiamme ieri sera a Torino in un giardino pubblico. 
Il clochard dato alle fiamme questa notte in una foto di qualche giorno fa
L'uomo, un romeno di 60 anni, è stato portato all'ospedale San Giovanni Bosco dagli operatori del servizio 118. La polizia sta svolgendo indagini. Il fatto si è verificato ai giardini intitolati a Madre Teresa di Calcutta, nel quartiere Aurora, una delle zone del capoluogo piemontese a più forte presenza di immigrati stranieri..

L'uomo è in rianimazione, presenta ustioni di secondo e terzo grado al volto. La prognosi non è stata sciolta. Data la presenza di un edema alla gola, è stato sedato e intubato. Il centro 'grandi ustionati' dell'ospedale Cto non ha dato indicazione al trasferimento.

"Sono stati degli sconosciuti", ha detto ai soccorritori il clochard. Secondo una prima ricostruzione, qualcuno gli avrebbe gettato addosso del liquido a cui avrebbe poi dato fuoco.

Un uomo è stato bloccato dalla polizia e portato in questura nell'ambito delle indagini sul caso del clochard aggredito e bruciato ieri sera in un giardino pubblico a Torino. Per ora non si hanno ulteriori dettagli. Un uomo è stato bloccato dalla polizia e portato in questura nell'ambito delle indagini sul caso del clochard aggredito e bruciato ieri sera in un giardino pubblico a Torino. Per ora non si hanno ulteriori dettagli.

Un amico, è una persona tranquilla - "Lui viene qui spesso. Si mette a dormire sulla panchina e c'era anche ieri. Abbiamo bevuto del vino tra le 16 e le 17, poi sono andato via". E' il racconto di Mihai Sogea, un senzatetto amico dell'uomo che ieri sera è stato aggredito e dato alle fiamme a Torino. "Lui - spiega - è un tipo tranquillo. Le persone gli danno da mangiare, gli portano del pane e dell'acqua. Mai avuto problemi. Nessuno ci ha mai infastiditi".

ANSA
Branco pesta migrante in pieno centro a Roma, insulti razzisti

Prima gli insulti, come "sporco negro", poi le botte. Aggressione a sfondo razziale nella notte nel centro di Roma. Le vittime, un cittadino del Bangladesh e un egiziano, sono stati circondati da cinque ragazzi in piazza Cairoli e aggrediti, dopo essere stati insultati. Ad avere la peggio il ventisettenne del Bangladesh, trasportato in ospedale con traumi al volto giudicati guaribili in 30 giorni. La polizia ha bloccato cinque ragazzi tra i 17 e i 19 anni. Uno è stato arrestato, gli altri sono stati denunciati.

L'allarme è scattato intorno alle tre della notte scorsa, quando la polizia è intervenuta per soccorrere un uomo sanguinante a terra in Piazza Cairoli, nel centro storico della città. Accanto a lui, un cittadino egiziano che avrebbe raccontato che erano stati vittime di un'aggressione da parte di alcuni ragazzi, che avrebbero rivolto loro insulti a sfondo razziale, passando poi alle vie di fatto.
Dalle descrizioni fornite dalle vittime gli agenti del commissariato Trevi hanno fermato poco dopo cinque giovani in Via delle Botteghe Oscure. Si tratta di un 17enne, tre 18enni e un 19enne. Uno di loro è stato arrestato con l'accusa di tentato omicidio. Per gli investigatori si sarebbe accanito sulla vittima quando era già a terra, colpendola ripetutamente con calci al volto. Gli altri ragazzi invece sono stati denunciati per lesioni aggravate e percosse.
Clochard aggredito e dato alle fiamme a Torino, un fermo
L'uomo, un romeno di 60 anni, è stato portato all'ospedale San Giovanni Bosco

Medio Oriente: Unicef, “1,5 milioni di bambini vulnerabili minacciati dall’inverno”

Agensir
In Medio Oriente sono “1,5 milioni i bambini vulnerabili minacciati dall’inverno”. Lo denuncia l’Unicef, che si sta mobilitando per fornire vestiti, provviste e coperte prima dell’arrivo del freddo, trovandosi ad affrontare anche una “carenza di fondi pari a 60 milioni di dollari”. 


In una nota, il Fondo delle Nazioni unite per l’infanzia segnala che “le temperature sotto lo zero, i temporali e le forti nevicate aggraveranno le tante difficoltà delle famiglie colpite dal conflitto, che stanno già lottando per la sopravvivenza con il minimo indispensabile in Iraq, Siria, nello Stato di Palestina e nei Paesi vicini che ospitano rifugiati. 

Tante famiglie sono state sfollate a causa delle violenze e vivono in campi o in rifugi di fortuna, con una scarsa protezione contro il freddo”. A oggi, Unicef dichiara di aver ricevuto “meno del 20% dei 73 milioni di dollari richiesti per coprire le necessità per l’inverno dei bambini più vulnerabili colpiti dalla crisi nella regione”. Per questo motivo lancia un appello per incentivare le donazioni. 

“Senza aiuto, il freddo potrebbe essere un altro colpo duro per i bambini vulnerabili nella regione – ha dichiarato Geert Cappelaere, direttore regionale dell’Unicef per il Medio Oriente e il Nord Africa -. Lo stato di salute dei bambini è debole a causa di denutrizione, un sistema sanitario inadeguato e dello sfollamento. L’ipotermia e le infezioni respiratorie sono una seria minaccia. Se non vengono curate, i bambini moriranno”.

Corte europea di Strasburgo: In Italia a Bolzaneto ci fu tortura, violati i diritti umani.

Jobsnews
A Bolzaneto ci fu tortura, violati i diritti umani. La Corte europea condanna l’Italia per le violenze delle forze dell’ordine subite da chi manifestava contro il G8 nel 2001. Fratoianni (SI): mai più quelle scene e quelle infamie



Bolzaneto, G8 2001 di Genova, una storia infinita che dopo 16 anni trova la conclusione con una sentenza da parte della Corte europea dei diritti umani che, senza più alcuna ombra di dubbio, afferma che gli atti commessi dalle forze dell’ordine sono “atti di tortura”. 

Una condanna per l’Italia per le violenze delle forze dell’ordine e perché lo Stato non ha condotto un’indagine efficace. Parti civili, una quindicina di persone di otto diverse nazionalità, che non si sono mai arrese ed hanno cercato giustizia a tutti i costi. Sono stati riconosciuti tutti come vittime di torture subite dal 20 al 22 luglio nel carcere di Bolzaneto. Tutte le vittime delle violenze riceveranno tra 10mila e 85mila euro a testa per i danni morali.

Nella sentenza si afferma che “i ricorrenti, trattati come oggetti per mano del potere pubblico, hanno vissuto durante tutta la durata della loro detenzione in un luogo ‘di non diritto’ dove le garanzie più elementari erano state sospese”

Così i giudici di Strasburgo definiscono, nella sentenza di condanna dell’Italia, la situazione vissuta da 48 persone a Bolzaneto. 

I togati evidenziano inoltre che “l’insieme dei fatti emersi dimostra che i membri della polizia presenti, gli agenti semplici, e per estensione, la catena di comando, hanno gravemente contravvenuto al loro dovere deontologico primario di proteggere le persone poste sotto la loro sorveglianza”. 

SulI’Italia un’altra condanna. Nella stessa sentenza infatti si parla di un episodio avvenuto ad Asti di cui, peraltro, non è mai comparsa notizia. Alcuni agenti di polizia penitenziaria di Asti sono stato ritenuti responsabili di tortura e per questo sono stati condannati. Molte le dichiarazioni, a partire da quella di Anna Finocchiaro, ministra dei rapporti con il Parlamento che su Twitter scrive: “Oggi contro fatti così gravi abbiamo la legge che punisce il reato di tortura“.

“Bolzaneto è stata una pagina orribile della nostra storia – commenta il responsabile Sicurezza del Pd, Emanuele Fiano – non ci possono essere giudizi diversi, questa sentenza lo conferma, ancora una volta”. “Ci fu tortura – dichiara Nicola Fratoianni, Sinistra italiana – noi lo sapevamo. Amareggiati per aver atteso quasi 20 anni. Ora mai più quelle scene e quelle infamie”. “L’amarezza – aggiunge Fratoianni – è che i responsabili di quelle atrocità siano stati coperti prima e poi tra indulti, falle legislative abbiano auto punizioni ridicole”.

Malawi - Nonno e nipote innocenti in carcere da 10 anni. La solidarietà li ha liberati

www.santegidio.org
Questa è una storia vera: quella di un'ingiustizia di cui sono state vittime due persone povere, un anziano e un adolescente, e dell'azione liberatrice della Comunità di Sant'Egidio del Malawi, di cui pubblichiamo il racconto:

"Il vento della giustizia ha soffiato nel carcere di Chichiri nella città di Blantyre in Malawi. Nello spirito del Vangelo; "ero carceraro e siete venuti a trovarmi" (Mt 25), i giovani della Comunità di Sant’Egidio si impegnano da anni a visitare e a fornire assistenza legale ai prigionieri, riproponendo al governo di rivedere alcuni casi dimenticati e irrisolti. È stata questa la storia di Matiki Njala 85 anni e di Elia Kadzombe di 24, accusati di un omicidio 10 anni fa e scagionati da pochi giorni, dopo un regolare processo.

A quel tempo Matiki aveva 75 anni e suo nipote Elia 14. Vennero portati in carcere senza nemmeno la possibilità di essere ascoltati. Elia era un bambino, ma fu rinchiuso nel carcere degli adulti. Solo nel 2012 il loro caso arrivò al tribunale, ma all’ultimo momento fu rimandato ad un’ulteriore data, che non sarebbe forse mai arrivata senza l'intervento della Comunità.

Leggi l'articolo del Sunday Times >>>
La loro storia ha avuto una svolta dal 2016 quando nonno e nipote si sono affacciati alla preghiera in carcere che la Comunità di Sant’Egidio fa da anni una volta a settimana. Le parole di speranza predicate nella preghiera li hanno aperti alla fiducia verso i giovani della Comunità ai quali hanno raccontato la loro tragedia. Alexius Kamangira, un giovane avvocato che fa parte della Comunità, si è offerto di seguire gratuitamente il loro caso.

Appena sono state presentate le domande per il riesame, si è scoperto che nell’archivio del tribunale non c’era nessun riscontro della loro condanna, che erano stati incarcerati sulla base di semplici supposizioni e senza prove. Era chiaro che erano destinati a morire in carcere dimenticati dietro le sbarre. Con l'età avanzata Matiki inizia ad avere problemi gravi di salute. Sarebbe stata davvero la sua fine.

Il processo regolare ha stabilito la loro immediata scarcerazione. Tutti e due hanno espressola loro gratitudine a Sant’Egidio per questo amore, per essere stati considerati come figli e familiari, restituendo loro la speranza e una nuova vita, risorta dall’abisso del buio in cui erano stati dimenticati.

sabato 28 ottobre 2017

Ambiente - L'isola di plastica minaccia le coste dei Caraibi

La Repubblica
"Pensate mai a dove finisce la plastica che usiamo tutti i giorni?". Quella di Caroline Power non è una semplice domanda ma un invito a riflettere sulle responsabilità di ognuno circa la produzione di rifiuti e l'inquinamento che ne deriva. 

Foto / Caroline Power - Foto gallery >>>
Qualche giorno fa la fotografa navigava al largo di Roatàn, un'isola tropicale del Mar dei Caraibi al largo delle coste dell'Honduras, quando si è trovata ad assistere a uno spettacolo spaventoso: uscita per una gita in barca si è imbattuta in una vera e propra isola di plastica. Bottiglie, buste, contenitori. 

Chilometri di rifiuti galleggianti - trascinati in mare aperto durante la stagione delle piogge e raccolti dalle correnti in enormi agglomerati - si estendevano davanti ai suoi occhi. 

Caroline ha documentato lo scempio e ha pubblicato le fotografie sul suo profilo Facebook denunciando ciò che accade in quello che un tempo era considerato un vero e proprio paradiso incontaminato e invitando più persone possibili a effettuare una donazione al Roatàn Marine Park. L'associazione si occupa, tra le altre cose, di proteggere i mari e la barriera corallina nei pressi dell'isola dall'inquinamento e dall'azione dell'uomo

IDOS - Immigrazione affare per l'Italia: 3,2 miliardi al fisco, pagate 600 mila pensioni e solo lo 0,3% la percepiscono

AGI
Il numero di residenti di origine straniera residenti in Italia è ormai identico a quello degli italiani espatriati, a quota 5,3 milioni. Il contributo degli immigrati al fisco supera i 3,2 miliardi di euro e questi pagano 600.000 pensioni a cittadini italiani, mentre a percepire assegni pensionistici è soltanto lo 0,3% degli stranieri residenti in Italia.



Conti in tasca, l'immigrazione sembra essere un vero e proprio affare per l'Italia, con un contributo netto per le casse dello Stato che oscilla tra 2,1 e 2,8 miliardi di euro l'anno. 


Questi i dati più salienti della 27ma edizione del Dossier Statistico Immigrazione, curato dai Centri Studi Idos e Confronti, presentato a Roma, in tutte le regioni d'Italia e province autonome. Nonostante l'attualità e il dibattito politico si focalizzino su sbarchi e crescente presenza immigrata sul territorio nazionale, in realtà alla fine del 2016 i cittadini stranieri residenti erano appena 21.000 in più rispetto all'anno precedente.
200mila nati in meno in Italia, 250mila stranieri registrati all'anagrafe


A fronte di un deficit demografico italiano di poco più di 200.000 unità nel 2016, in Italia ci sono 250.000 cittadini di origine straniera che si sono registrati all'anagrafe. In aumento il numero di persone straniere che lo scorso anno hanno acquisito la cittadinanza italiana, in tutto 204.000, in possesso di tutti i requisiti previsti per legge, tra cui permesso di lungo soggiorno, residenza continua per almeno dieci anni, buona conoscenza della lingua italiana, autonomia economica e abitativa.
10% di matrimoni misti, 15% i nati da stranieri

Nel paese il 10% dei matrimoni sono misti e il 15% delle nascite sono straniere. Quasi un milione i bambini di origine straniera che frequentano scuole e università non hanno ancora ottenuto la cittadinanza italiana. La composizione multietnica e multireligiosa dell'Italia è ormai un dato di fatto. 

Da sfatare il mito dell''invasione islamicà: dal 2000 in Italia c'è una netta prevalenza di cristiani tra gli immigrati, che sono il 53%, con una prevalenza di non cattolici, mentre i musulmani sono solo un terzo. 

In costante aumento le imprese a gestione immigrate, in tutto 571.000, mentre gli stranieri rappresentano il 10,5% di tutti gli occupati. 

Questi imprenditori possono facilmente diventare "agenti dell'internazionalizzazione dei prodotti e servizi delle aziende italiane" nei paesi di origine. Infine le rimesse dei migranti, i risparmi privati dei singoli, rappresentano tre volte l'aiuto allo sviluppo su scala mondiale. "Pertanto, numeri alla mano non vale lo slogan aiutateli a casa loro" sottolineano gli autori del Dossier.

L'Alta Corte del Guatemala abolisce la pena di morte per i reati civili

Blog Diritti Umani - Human Rights
Guatemala City - L'Alta Corte del Guatemala ha abolito, con una sentenza, la pena di morte per i reati civili.
 La decisione della Corte Costituzionale è definitiva e avrà effetto una volta pubblicata nel bollettino ufficiale del Governo.


Finora la legge guatemalteca prevedeva la pena di morte in caso di omicidi di persone di età inferiore ai 12 anni o più di 60 anni; sequestri in cui la vittima fosse gravemente ferita o deceduta; assassinio del presidente e in certi reati legati al traffico di droga.

"Non possiamo permetterci di essere uno degli ultimi paesi che applicano questa sanzione", ha dichiarato Jose Alejandro Valverth Flores, uno degli avvocati che avevano presentato una petizione alla Corte Costituzionale per dichiarare incostituzionalmente gli articoli pertinenti il codice penale e la legge che disciplina crimini di droga.

"Riteniamo che sia necessario per il rispetto dei diritti umani in Guatemala", ha aggiunto.

La nazione centroamericana, da alcuni anni, non ha applicato una pena di morte in linea con un accordo regionale sui diritti umani.

La pena di morte rimane negli articoli del sistema giudiziario militare del Guatemala.

Fonte: AP

venerdì 27 ottobre 2017

Rifugiati - Regolamento Dublino, voto che rompe col passato e piace alle associazioni

Articolo 21
Soddisfazione per la riforma che interviene sul sistema di asilo. Appello al Consiglio Europeo perché accolga il voto del Parlamento. Stc: “Primo passo importante”. Amnesty: “Creare sistema di vera solidarietà”. Astalli: “Dall’Europa segnale di speranza”. Sant’Egidio: “Affrontare il fenomeno in modo più unitario”


Roma – Cambia il regolamento di Dublino e plaudono le associazioni e le ong che da sempre si occupano di immigrazione. Il punto centrale della riforma approvata ieri dalla Commissione Libe del Parlamento europeo, infatti, prevede che migranti e richiedenti asilo non saranno più obbligati a fare domanda di protezione internazionale nel primo paese d’approdo; il meccanismo verrà sostituito da un sistema di ricollocamento, una vera e propria redistribuzione permanente e automatica.

Per anni il sistema di Dublino ha causato inutili sofferenze a troppi richiedenti asilo e rifugiati. Il voto di oggi apre la strada a un sistema che darà dignità ai richiedenti asilo, privilegiando i loro legami familiari, nonché una distribuzione equa tra gli stati membri europei”: è il commento di Iverna McGowan, direttrice dell’ufficio di Amnesty International presso le istituzioni europee. “Così com’è il sistema di Dublino non funziona per i richiedenti asilo, che sono costretti ad avere esaminate le loro richieste nel loro primo paese d’ingresso, e non funziona per quei paesi europei per i quali questo comporta un onere ingiusto. Il voto odierno contribuirà a creare un sistema migliore, di vera solidarietà, che potrebbe funzionare per tutti”.

“La scelta fatta dal Parlamento Europeo è un primo passo importante nella riforma di un sistema che ha costretto troppi minori soli e famiglie a rimanere nei paesi di ingresso come l’Italia e la Grecia, impedendogli in molti casi di ricongiungersi con familiari, amici o comunità in altri paesi europei,” ha dichiarato Karen Mets, Senior Advocacy Adviser di Save the Children, l’Organizzazione internazionale che dal 1919 lotta per salvare la vita dei bambini e garantire loro un futuro. “Le conseguenze dell’immobilismo sono agghiaccianti, e i minori bloccati nei campi nei paesi di ingresso hanno sviluppato gravi stati di ansia, soffrono di depressione e incubi notturni. Alcuni di loro sono arrivati addirittura a tentare il suicidio”. 

L’associazone ricorda che nel 2017, sono arrivati via mare in Italia 14.070 minori non accompagnati, il 13% del totale dei migranti giunti alla frontiera sud del nostro Paese. Solo 56, tra i minori soli presenti sul territorio nazionale, sono stati ricollocati in altri paesi europei e 399 hanno avuto accesso formale alla procedura prima del 26 settembre scorso, quando è stata sospeso il sistema straordinario di ricollocamento europeo. “La mancanza di un sistema di ridistribuzione condiviso tra i paesi europei ha determinato negli ultimi anni gravissimi rischi e conseguenze per la maggioranza dei minori soli che hanno come meta altri paesi europei, dove già vivono familiari o connazionali con cui sono in contatto”, commenta l’organizzazione. “I minori rifugiati costituiscono un terzo dei richiedenti asilo ed è indispensabile che si faccia di più per proteggerli. Abbiamo urgentemente bisogno di un sistema più giusto che redistribuisca in modo migliore i richiedenti asilo entrati in Europa, e dia una reale possibilità di integrazione e futuro a persone che sono fuggite da guerre, conflitti e violenze. Il Consiglio Europeo si deve unire ed accogliere seriamente questo voto del Parlamento facendo sì che il peso dei paesi in prima linea venga condiviso”

Per la Comunita’ di Sant’Egidioil voto a larga maggioranza dimostra che il fenomeno dell’immigrazione puo’ essere affrontato dall’Europa in modo piu’ unitario e, soprattutto, meno condizionato da strumentalizzazioni e paure che hanno il solo effetto di allontanare le soluzioni invece di favorirle”. È necessario “che si esca al piu’ presto dall’obbligo del Paese di primo ingresso per la competenza della domanda di asilo per giungere ad un ricollocamento piu’ equo dei migranti in tutti gli Stati dell’Unione e rispettare, in questo modo, il necessario ‘principio di solidarieta”. Un altro elemento positivo per la Comunità è la facilitazione prevista dei ricongiungimenti familiari, elemento che contribuisce in modo strategico all’integrazione. Sant’Egidio, che sta continuando, insieme alla Chiese protestanti italiane e alla Cei, in diversi progetti, il programma dei Corridoi Umanitari, auspica che vengano prese sempre piu’ in considerazione la possibilita’ di aprire nuove vie di ingresso legale in Europa”.

Anche il Centro Astalli esprime apprezzamento. Per il presidentre Camillo Ripamonti “arriva dall’Europa un segnale di speranza. Prendere in considerazione il progetto migratorio di un rifugiato, valutare la sua storia personale e le sue prospettive di integrazione, nel decidere quale paese sarà competente ad esaminare la sua domanda di protezione internazionale, oltre ad essere un ragionevole atto di umanità e buon senso, è soprattutto il segno di una visione giuridica che guarda al futuro con lungimiranza e responsabilità. Ora il Consiglio europeo continui su questa linea che rafforzerebbe l’Unione tra i singoli Stati e ci restituirebbe finalmente quell’idea di Europa unita che meritano le generazioni future”.

Migranti: corridoi umanitari, giunti altri 120 a Roma. Siamo a mille.

Ansa
Giro, replicheremo il protocollo per altri mille arrivi
Fiumicino - Un nuovo gruppo di 125 profughi siriani è giunto questa mattina a Roma dal Libano grazie ai Corridoi umanitari promossi da Comunità di Sant'Egidio, Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia (Fcei) e Tavola Valdese, un modello che rappresenta un'alternativa concreta ai viaggi sui barconi nel Mediterraneo.


Con questo nuovo gruppo, costituito da famiglie con minori, è stato raggiunto il traguardo delle mille persone arrivate in sicurezza e legalmente in Italia dal febbraio 2016, in accordo con i ministeri degli Esteri e dell'Interno.

Dopo il disbrigo delle pratiche individuali all'aeroporto di Fiumicino, tra cui l'identificazione anche con il riscontro delle impronte digitali, i migranti sono stati smistati in vista dell'affidamento ai centri di accoglienza e alle famiglie, già individuati in varie parti d'Italia, per avviare il reinsediamento e l'integrazione.

Si tratta di 47 nuclei familiari, sia musulmani sia cristiani, tra cui 54 minori (il più piccolo ha un mese e mezzo). Tra di loro anche due giovani novelli sposi, accolti a Fiumicino con un bouquet di fiori dal fratello dello sposo, già integrato in Italia. "Siamo molto felici che oggi, arrivando alla quota simbolica di 1000 arrivi, si chiuda una prima fase del progetto", ha detto il presidente della Comunità di Sant'Egidio, Marco Impagliazzo, che ha accolto i migranti insieme al viceministro degli Esteri, Mario Giro, e a Paolo Naso, della Comunità valdese italiana. 

Per loro anche il commosso benvenuto di familiari e amici siriani, già integrati in Italia e arrivati con i primi dei 16 voli complessivi dall'inizio del progetto umanitario, un anno e mezzo fa, quando arrivò con un regolare volo di linea da Beirut la piccola Falak, originaria di Homs, seguita, il 29 febbraio, dal primo cospicuo corridoio umanitario, composto da un centinaio di siriani.

"Rinnoveremo il protocollo per i corridoi umanitari, un vero successo di accoglienza ed integrazione. Un progetto divenuto un'eccellenza per l'accoglienza di chi viene da terre martoriate dalla guerra. Una strada che anche la Francia ha intrapreso e speriamo anche altri paesi europei", ha affermato Giro, che ha annunciato "l'obiettivo di fare arrivare altri mille profughi, in sicurezza e legalità". "Lottiamo contro il 'divorzio' tra chi sta bene e chi sta male tra le due sponde del Mediterraneo.

Questo 'matrimonio', invece, tra le nostre terre continuerà e che sia un messaggio per tutti gli italiani preoccupati: l'accoglienza si può fare nella solidarietà e nella sicurezza, una risposta a un problema che abbiamo. Intorno al Mediterraneo dobbiamo essere uniti: oggi chi aiuta, domani sarà aiutato. L'integrazione è la vera sfida", ha concluso il viceministro.

Turkmenistan - Il Presidente concede la grazia a 1600 detenuti per la festa dell'indipendenza

Blog Diritti Umani - Human Rights
Ashgabat (Turkmenistan), 26 ottobre 2017 (AFP) - Il presidente del Turkmenistan, ha annunziato ai mezzi di informazione ce ha concesso la grazia a oltre 1.600 detenuti in occasione delle celebrazioni dell'indipendenza di questa ex repubblica sovietica in Asia centrale.

Secondo il giornale governativo Neutral Turkmenistan, Gurbanguly Berdymukhamedov, il Presidente ha graziato 1.636 prigionieri "per rafforzare ulteriormente l'unità e la coesione della società turkmena e ogni di famiglia."

Tali amnistie sono state annunciate più volte in passato in questo paese, uno dei più chiusi al mondo, spesso in connessione con importanti feste nazionali. I detenuti per i reati di droga, omicidi o tradimenti non esclusi da questo provvedimento.
Nel 2010, Berdymukhamedov, aveva graziato 3.999 prigionieri realizzando così il più grande perdono collettivo dal suo arrivo al potere nel 2006.

giovedì 26 ottobre 2017

Cuccioli del jihad. Un futuro per i bambini dell’Isis dopo la caduta delle città.

Formiche
“Se abbiamo cinque kalashnikov e tre granate, quante armi abbiamo in totale?”. Non è un film, è una lezione di aritmetica nelle “scuole” che i jihadisti dell’Isis hanno organizzato per i loro bambini. 

La caduta di Raqqa, la sconfitta militare sul terreno che sta disperdendo migliaia di estremisti e un’enorme quantità di potenziali terroristi e la possibilità che i foreign fighter tornino nelle nazioni di provenienza fa emergere un dramma di cui si è parlato troppo poco negli ultimi anni, quello dei bambini figli di jihadisti o rapiti perché diventino soldati. Migliaia di bambini, sottoposti fin dalla più tenera età a un lavaggio del cervello, il cui futuro è un’incognita.

Un’accurata fotografia del fenomeno, con dati e testimonianze, è contenuta nell’e-book scritto dal giornalista Maurizio Piccirilli (Cuccioli del jihad, edito da e-letta, 4,90 euro su Amazon). Secondo Save the children, dopo tre anni di vita con l’Isis i bambini mostrano gravi danni psicologici e il percorso di recupero è lungo e molto difficile. La manipolazione psicologica non riguarda solo il Califfato, ma anche altre organizzazioni terroristiche o altri territori come quello afghano: la milizia sciita Hashd al Shaabi, per esempio, ha addestrato militarmente almeno 280 minori facendo combattere dei quindicenni. Cifre peggiori sono contenute in vari rapporti: l’Isis avrebbe “reclutato” almeno 400 figli di combattenti stranieri e ne avrebbe sottratti 1.500 alle loro famiglie, secondo la missione Onu in Iraq invece il Califfato avrebbe rapito 900 bambini tra i 9 e i 15 anni e comunque l’Osservatorio siriano dei diritti umani indica in oltre 2mila i bambini reclutati dal gennaio 2015. Dunque, osserva Piccirilli, si prospetta una nuova emergenza per l’Occidente perché in futuro questi ragazzi potrebbero non cercare alternative al martirio.

Che scuola è quella dell’Isis? “Una scuola – scrive Piccirilli – in cui i volti umani vengono cancellati dai libri di testo, in cui le armi e la guerra sono onnipresenti, una scuola in cui sono invitati gli studenti di prima elementare a capire la differenza tra un toro e un cervo e tra due mitragliatrici, con o senza caricatore”. Le Monde ha trovato un manuale per le elementari nel quale le figure per imparare a contare non sono solo papere e mele, ma anche kalashnikov, spade e aerei da caccia. E così diventa normale che le crocifissioni di omosessuali o di traditori siano considerate uno spettacolo da offrire ai ragazzini in gita scolastica. Non a tutti i bambini è riservata la stessa sorte: se i figli dei combattenti sono destinati a loro volta a combattere, i bambini resi schiavi come i cristiani o yazidi sono costretti a diventare kamikaze e i loro giubbotti sono fatti esplodere con un timer o con comandi a distanza per evitare ripensamenti.

Giovanissimi comprati al mercato degli schiavi con prezzi diversi a seconda dell’età, bambine stuprate perché così (sostengono gli estremisti) prescrive la religione, un manuale destinato alle mamme con le regole da seguire per il giusto indottrinamento della prole: solo immagini di guerra, meglio i siti dedicati all’integralismo islamico e attività “utili” come arti marziali, tiro al bersaglio, orienteering, corsi di guida di veicoli diversi. 

Le conseguenze, secondo l’organizzazione Nowhere to Go, stanno in queste cifre: in Iraq dal 2014 sono stati uccisi 1.075 bambini, 255 nei primi sei mesi del 2017 e oltre 4.650 sono stati separati dalle famiglie. 

Programmi di riabilitazione sono stati avviati in alcuni Paesi tra mille difficoltà e per il futuro anche l’Ue vorrebbe creare un coordinamento. Tutto ciò sollecita ad agire per prevenire e il saggio di Piccirilli si chiude con la legge sulla deradicalizzazione di Andrea Manciulli e Stefano Dambruoso: l’Italia è un’eccellenza nell’antiterrorismo, ma deve guardare al futuro conoscendo meglio se stessa e preparando meglio determinate categorie di professionisti in tanti ambiti. Non ci sono “cuccioli” nelle nostre periferie e non ci saranno purché certi ambienti vengano depurati per tempo.

Grecia - 19 Ong per i diritti umani a Tsipras: trasferire i rifugiati sulla terraferma

Amnesty International
Richiedenti asilo: 19 organizzazioni per i diritti umani chiedono a Tsipras di trasferirli sulla terraferma.

Richiedenti asilo bloccati in condizioni terribili sulle isole greche: 19 organizzazioni per i diritti umani chiedono a Tsipras di trasferirli sulla terraferma

Diciannove organizzazioni per i diritti umani e per l’aiuto umanitario hanno chiesto al primo ministro della Grecia Alexis Tsipras di porre fine alla “politica di contenimento” adottata dal governo di Atene per trattenere i richiedenti asilo sulle isole dell’Egeo.

Migliaia di persone, tra cui bambini, donne sole o in gravidanza e persone con disabilità, sono bloccate sulle isole greche in condizioni terribili proprio mentre si approssima la stagione fredda. Costringere i richiedenti asilo a sopportare condizioni che violano i loro diritti umani e pregiudicano il loro benessere, la loro salute e la loro dignità non può essere giustificato dall’attuazione dell’accordo tra Unione europea e Turchia.

Dal marzo 2016, quando l’accordo è entrato in vigore, le isole greche di Lesbo, Chio, Samo, Coo e Lero sono diventate luoghi di confino a tempo indeterminato, in alcuni casi già da 19 mesi. Migliaia di donne uomini e bambini sono intrappolati in condizioni deprecabili e precarie a molti di loro viene negato l’accesso a un’adeguata procedura d’asilo.

Il recente aumento degli arrivi ha incrementato la pressione sui già sovraffollati “hotspot”, ossia i centri d’accoglienza e d’identificazione, delle isole greche. Il numero dei nuovi arrivi è ancora relativamente basso e dovrebbe essere pienamente gestibile tanto dalla Grecia quanto dall’Unione europea, ma la proporzione di donne e bambini è elevata.

La situazione è particolarmente critica a Samo e Lesbo, dove oltre 8300 richiedenti asilo e migranti sono trattenuti in “hotspot” che potrebbero accoglierne solo 3000. Il recente annuncio del prossimo trasferimento di 2000 richiedenti asilo da due isole verso la terraferma come misura d’emergenza per decongestionare la situazione, è un passo positivo ma non sarà sufficiente ad alleviare il sovraffollamento e non affronterà i problemi di fondo che la “politica di contenimento” ha causato.

Con l’approssimarsi del terzo inverno da quando sono iniziati gli arrivi su grande scala, è evidente che le autorità greche non sono in grado di venire incontro ai bisogni essenziali e di proteggere i diritti dei richiedenti asilo finché questi rimarranno sulle isole dell’Egeo.

Le autorità greche e quelle dell’Unione europea citano l’accordo con la Turchia come giustificazione per la “politica di contenimento”. Ma costringere i richiedenti asilo a sopportare condizioni che violano i loro diritti umani e pregiudicano il loro benessere, la loro salute e la loro dignità non può essere mai giustificato.

Le 19 organizzazioni hanno sollecitato il primo ministro Tsipras a proteggere i diritti umani dei richiedenti asilo bloccati sull’isola mettendo fine alla “politica di contenimento”. I richiedenti asilo dovrebbero essere trasferiti sulla terraferma in modo da poter ricevere un’accoglienza adeguata e tutti i servizi necessari ai loro bisogni e da poter accedere a procedure d’asilo eque.

Roma, 23 ottobre 2017

La lettera aperta al ministro Tsipras è online all’indirizzo:
https://www.hrw.org/news/2017/10/23/joint-letter-prime-minister-tsipras-re-deteriorating-conditions-asylum-seekers

I corridoi umanitari fanno 1000. Altri 120 profughi siriani in arrivo,

www.santegidio.org
Venerdì mattina, con l’arrivo a Fiumicino di oltre 120 siriani dal Libano, si raggiunge il migliaio di persone accolte in Italia grazie al progetto promosso dalla Comunità di Sant’Egidio e dalle Chiese protestanti italiane – Un modello sperimentato e replicabile, che rappresenta un’alternativa concreta ai viaggi sui barconi nel Mediterraneo.

L’appuntamento per il benvenuto e una conferenza stampa di bilancio
alle 11.00 di venerdì 27 ottobre
  Arrivo per i giornalisti entro e non oltre le 10.10 

alle partenze del Terminal 3 di Fiumicino 
(porta 3, accanto all’ufficio informazioni) per essere accompagnati nel luogo della conferenza.

Interverranno Marco Impagliazzo, presidente della Comunità di Sant’Egidio, Paolo Naso, per le Chiese protestanti italiane, Mario Giro, viceministro degli Esteri, e rappresentanti del ministero dell’Interno 

Venerdì 27 ottobre giungeranno all’aeroporto di Fiumicino oltre 120 profughi siriani dal Libano grazie ai corridoi umanitari promossi da Comunità di Sant’EgidioFederazione delle Chiese Evangeliche in Italia e Tavola Valdese. Con questo nuovo gruppo, costituito da famiglie con molti minori, sarà raggiunto il traguardo di 1.000 persone, arrivate in sicurezza e legalmente in Italia, dal febbraio 2016, in accordo con i ministeri degli Esteri e dell’Interno.

Mentre l’Europa fatica ancora a trovare un’unità di vedute e di responsabilità di fronte al grande tema dell’immigrazione, un’alleanza tra diversi soggetti della società civile riesce a realizzare e ad autofinanziare un’alternativa concreta ai viaggi della disperazione nel Mediterraneo e ai trafficanti di esseri umani. Ricordando che i corridoi umanitari sono nel frattempo partiti anche in Francia, si segnala che l’accoglienza di venerdì a Fiumicino sarà anche l’occasione per illustrare nuove proposte in tema di immigrazione: soluzioni concrete al posto di scontri, polemiche e strumentalizzazioni.

Per partecipare all’evento giornalisti e operatori dovranno arrivare alle partenze del Terminal 3 di Fiumicino (porta 3, accanto allufficio informazioni) entro e non oltre le ore 10.00 per essere accompagnati nel luogo della conferenza. E necessario accreditarsi inviando una mail a questo indirizzo: com@santegidio.org indicando la testata giornalistica e il numero di tessera professionale o documento. E’ possibile utilizzare il parcheggio multipiano (uno speciale ticket per l’uscita verrà consegnato al momento dell’accredito).

mercoledì 25 ottobre 2017

Appello - Kenya - A Korogocho i fumi di una discarica avvelenano una scuola e una chiesa.

SIR
Kenya: p. Giudici (missionario), a Korogocho “fumi tossici della discarica illegale su scuola e chiesa. Intervenga la comunità internazionale”


“La cosa nuova è che non molto tempo fa, non più di un anno, si è creata a Korogocho un’altra discarica più piccola proprio sotto la chiesa e la scuola di St. John, da una parte, e le case del quartiere di Ngunyumu, dall’altra. 
In breve tempo lo stagno che si trovava lì è stato riempito di rifiuti che poi vengono bruciati. St. John è rimasta, da allora, preda di un fumo acre costante che copre l’anfiteatro che funziona da chiesa, ma, soprattutto, la scuola che ospita quasi mille bambini”. 

A denunciare al Sir la difficile situazione che vive la popolazione di uno dei più grandi slum di Nairobi, è padre Stefano Giudici, missionario comboniano già parroco della parrocchia di St. John e ora impegnato come formatore nel seminario internazionale della Congregazione nella capitale keniana. 

Padre Giudici non ha però dimenticato la sua gente e ha deciso di lanciare un appello perché “solo lo spostamento della protesta a livello internazionale può, forse, smuovere qualcosa”. Purtroppo, precisa il missionario, non si tratta di una novità assoluta: da trent’anni, infatti, la popolazione dello slum convive con la presenza dell’immensa discarica di Dandora, situata proprio di fronte a Korogocho e sotto le case di Dandora. 

La discarica, chiusa nel 2001, non ha però mai smesso di raccogliere, bruciare e selezionare (da quelli che vi ci lavorano) i rifiuti della capitale. 

Oggi però la situazione è ulteriormente peggiorata con la nascita di questa nuova discarica illegale. “A nulla – precisa padre Giudici – sono valse le pressioni e le proteste della gente, della Chiesa, di parte della società civile. I due ‘cartelli’ che gestiscono questa discarica sono coperti dal potere delle autorità, dalla polizia al ‘chief’ (l’autorità amministrativa a Korogocho) ai rappresentanti locali nell’Assemblea della Contea. 

Tutti sono coinvolti, in un modo o nell’altro, direttamente (prendendo tangenti sul business illegale) o indirettamente, per inazione e indifferenza. La gente prima protesta, poi, come è abituale per i poveri più poveri, impotenti, inascoltati e dimenticati, si adatta e si limita a dire ‘ci siamo abituati, non possiamo fare niente’. E ovviamente ha paura dei cartelli (rigorosamente ‘bipartisan’, cioè appoggiati politicamente dai due maggiori partiti, proprio quelli che si stanno combattendo oggi per le elezioni presidenziali)”. 

“Davvero – conclude il missionario – il senso di impotenza è grande perché quelli a cui ci si dovrebbe rivolgere per ottenere giustizia, sono proprio quelli che beneficiano di questa situazione”.

Turchia: via processi ai capi di Amnesty, rischiano 15 anni

AnsaMed
11 accusati di 'terrorismo'. Ong, 'vogliono silenziare critiche'



Istanbul- Si apre oggi a Istanbul il processo nei confronti della direttrice di Amnesty International in Turchia, Idil Eser, e altri 9 attivisti per i diritti umani, che rischiano fino a 15 anni di carcere con accuse di "associazione terroristica". 


Alla sbarra ci sono anche due stranieri, il tedesco Peter Steudtner e lo svedese Ali Gharavi, detenuti da inizio luglio insieme ad altri sette imputati, tra cui la stessa Eser, dopo un blitz in una riunione sull'isola di Buyukada, al largo di Istanbul. 

Secondo la procura, avrebbero avuto in programma di fomentare il caos "con violenze simili a quelle di Gezi Park" durante la "marcia per la giustizia" da Ankara a Istanbul, condotta tra giugno e luglio dall'opposizione turca.

Avrà invece inizio domani a Smirne il processo al presidente di Amnesty in Turchia, Taner Kilic, accusato di "associazione terroristica" per sospetti legami con la presunta rete golpista di Fethullah Gulen. Anche lui rischia 15 anni.

Amnesty respinge con forza tutte le accuse ai suoi membri. "È stato chiaro sin dal momento dell'arresto che siamo di fronte a procedimenti di natura politica aventi l'obiettivo di ridurre al silenzio le voci critiche della Turchia", ha dichiarato il direttore per l'Europa dell'ong, John Dalhuisen.

Chi era Anna Frank, vittima-simbolo della Shoah.

Corriere della Sera
Negli anni 30 la sua famiglia lascia la Germania per sfuggire al nazismo e si trasferisce in Olanda. Costretta a vivere nascosta, scriverà un diario poi reso pubblico (e celebre) dal padre, dopo la morte della figlia nel 1945 in campo di concentramento.

Nata in Germania, a Francoforte sul Meno, il 12 giugno 1929, la ragazzina ebrea Anna Frank (il nome tedesco era Anne) è divenuta il simbolo delle vittime innocenti della Shoah. Negli anni Trenta la sua famiglia è costretta a lasciare la Germania per sfuggire alle persecuzioni del nazismo e il padre Otto avvia un’attività imprenditoriale in Olanda, ad Amsterdam. Non riescono invece i suoi tentativi di emigrare in Gran Bretagna o in America.

Nel 1940 il Terzo Reich invade l’Olanda e sotto l’occupazione tedesca la condizione degli ebrei diventa difficilissima. Il 6 luglio 1942 Anna e i suoi cari entrano in clandestinità. Lei, i genitori e la sorella Margot, con la famiglia di un dipendente del padre, anch’egli ebreo, si nascondono in un alloggio segreto ricavato nel retro dei locali che ospitano la ditta di Otto Frank.

La giovanissima Anna, costretta a vivere rinchiusa, trova conforto tenendo un diario. Per due anni parla di sé, racconta i suoi turbamenti, scrive brevi racconti. A un certo punto comincia una nuova stesura in vista di una possibile pubblicazione dopo la guerra. Ma il 4 agosto 1944 i clandestini vengono scoperti e arrestati dai nazisti. Deportata nei lager di Auschwitz e poi di Bergen Belsen, Anna muore di tifo nel marzo 1945.

Il padre Otto, unico sopravvissuto della famiglia, recupera il diario di Anna, trovato in un nascondiglio, e ne pubblica una prima versione, con modifiche e cancellature, nel 1947. Il testo colpisce i lettori e ha un successo mondiale. Seguiranno molte ristampe e adattamenti. Solo nel 1986 uscirà l’edizione critica di tutti gli scritti della ragazza.

Antonio Cariotti




martedì 24 ottobre 2017

Cambogia, Hun Sen e l'accelerazione autoritaria indisturbata

Lettera43
Leader dell'opposizione arrestati. Radio e giornali chiusi. E un piano per sciogliere il partito di minoranza. Nel Paese che sotto Pol Pot divenne un regime dell'orrore il premier tenta l'ultimo giro di vite. L'Onu che fa?


Era il gennaio del 1985 quando Hun Sen divenne primo ministro della Cambogia. In Italia era al governo Bettino Craxi, negli Stati Uniti alla Casa Bianca c’era Ronald Reagan. Oggi Hun Sen, ancora in carica, è il primo ministro con il mandato più lungo sul pianeta. È nella top ten dei governanti che occupano da più tempo il potere esecutivo. Sopra di lui ci sono solo dittatori e presidenti a vita.

ORMAI UN PADRONE ASSOLUTO DEL PAESE. Ora il leader della nazione asiatica e capo del Partito popolare cambogiano si accinge a compiere l’ultimo passo che lo consacrerebbe padrone assoluto del suo Paese: ha chiesto lo scioglimento del Partito della salvezza nazionale della Cambogia, l’unica formazione di opposizione politica che può rappresentare una sfida al suo potere.

Non si tratta di azioni improvvise. Hun Sen da anni sta limitando gli spazi di libertà del Paese. Ma l’accelerazione è avvenuta alla fine dell’estate 2017. L’attuale leader del Partito della salvezza nazionale, Kem Sokha, è stato arrestato il 3 settembre ed è in prigione, accusato di alto tradimento. Il suo vice Sam Rainsy è già in esilio ed è stato raggiunto da quasi metà dei 55 parlamentari del partito.

IL PROGETTO: GOVERNARE PER ALTRI 10 ANNI. Un altro oppositore, il senatore Sok Hour, è detenuto ed è stato condannato a sette anni per aver diffuso materiale di propaganda su Facebook. Questa campagna consentirà al partito di governo di vincere ancora una volta le elezioni politiche del 2018 e il primo ministro, che oggi ha 65 anni, ha già annunciato l’intenzione di governare per un altro decennio.

La Cambogia è una monarchia costituzionale, il re Norodom Sihamoni è una figura del tutto simbolica. Istruito come ballerino classico in Europa e amante delle arti, si è ritrovato monarca nel 2004 a seguito dell’abdicazione del padre, il re Sihanouk, e ora vive una vita quasi da prigioniero nella sua reggia, circondato da illazioni dei suoi stessi sudditi sul suo scarso desiderio di rivestire il ruolo che ha e circa le sue inclinazioni sessuali.

HUN SEN CAPACE DI REINVENTARSI SEMPRE. L’uomo forte Hun Sen deve invece la sua longevità politica alla capacità di reinventarsi. Nel 1975 era nei ranghi delle milizie dei Khmer rossi che conquistarono la capitale Phnom Penh. La Cambogia, destabilizzata dai bombardamenti a tappeto ordinati dal presidente americano Nixon che voleva punire il Paese per l’appoggio ai Vietcong, si trovò in preda alla guerra civile.

[...]

LA MINACCIA DELLA GUERRA CIVILE. In occasione delle elezioni amministrative dell'estate 2017, Hun Sen è ritornato dopo anni a fare campagna elettorale, ma più da caudillo che da capo democratico, minacciando il ritorno alla guerra civile, mobilitando l’esercito nelle circoscrizioni a lui poco favorevoli e dicendosi disposto a «eliminare 100 o 200 persone per assicurare la vita di milioni di altre». Il voto locale ha poi visto ancora una volta la vittoria del partito governativo, ma l’opposizione ha conquistato un 43% dei voti insidiando la maggioranza del premier.

Migranti, Francia - Che fine ha fatto la «giungla» di Calais?

Il Manifesto
Un anno dopo. Il 24 ottobre 2016 le autorità francesi sgomberavano la più grande bidonville d’Europa. Ma i migranti non sono mai andati via
Enayatollah muove i suoi passi su una spianata di terra umida della rugiada di primo mattino, lì dove un anno fa il terreno fangoso tremava al passaggio dei bulldozer. Lui, migrante afghano, conosce bene la storia di questi luoghi.
Trecentosessantacinque giorni fa era qui, quando il governo francese radeva al suolo la «giungla» di Calais, la più grande bidonville d’Europa, che ha ospitato fino a 10.000 persone.

IL 24 OTTOBRE dello scorso anno, debuttavano all’alba le spettacolari operazioni di sgombero. Centinaia di CRS (agenti della Compagnie Républicaine de Sécurité) furono mobilitati. Più di 7.400 persone, di cui circa 2.000 minorenni, furono spostate nei CAO (Centri d’accoglienza e d’orientamento) sparsi su tutto il territorio francese. Secondo l’Ofii, l’agenzia governativa che gestisce le domande d’asilo, il 46% degli abitanti della bidonville aspetta ancora una risposta definitiva, il 42% ha ottenuto l’asilo, il 7% è stato rifiutato.

Ma cosa ne è, un anno dopo, della «giungla» di Calais? Prova a spiegarlo il prefetto del Pas-de-Calais Fabien Sudry, che constata come «la pressione migratoria è nettamente diminuita. Oggi ci sono 500 migranti, l’anno scorso ce n’erano 8.000. Non ci sono più né squat, né campi, né intrusioni nell’Eurotunnel».

Tuttavia, la situazione sembra essere differente. I migranti, in realtà, non sono mai andati via. Già due mesi dopo lo sgombero i primi esiliati cominciavano a riaffacciarsi in città, il punto più vicino al Regno Unito. Dal 24 ottobre 2016, secondo una stima delle associazioni, sono stati distribuiti più di 236.000 capi di abbigliamento, più di 7.000 scarpe e circa 8.000 sacchi a pelo.

«ERO QUI UN ANNO FA. Sono di nuovo qui un anno dopo. Prima era difficile passare, ma adesso è praticamente impossibile. La polizia ci bracca ogni giorno», sospira grave Enayatollah, incamminandosi verso il nuovo accampamento di migranti in rue des Verrotières, nella zona delle Dune, a poche centinaia di metri dalla vecchia bidonville.
La chiamano già «la nuova giungla». Secondo le associazioni 700 migranti trovano riparo in questo bosco nella zona industriale di Calais.

DOPO LO SGOMBERO della bidonville il solo a sparire è stato lo stato francese che non propone alcun dispositivo di accoglienza, nonostante le sollecitazioni del Consiglio di Stato – la più alta autorità amministrativa francese – e delle Nazioni unite, che in un recente rapporto aggiunge duramente che i migranti dispongono di «un accesso limitato all’acqua potabile, alle docce e ad altri dispositivi sanitari».


Stefano Lorusso Continua a leggere l'articolo >>>