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domenica 29 novembre 2020

Guerra in Etiopia - Emergenza rifugiati. Ormai oltre 43.000 in fuga dal Tigray in Sudan. Sovraffollamenti nei centri di transito e carenze di cibo

Dire
“È necessario che la comunità internazionale sostenga il governo sudanese in questa fase di accoglienza; i centri di transito sono sovraffollati e ci sono carenze per quanto riguarda l’accesso al cibo e le misure di prevenzione da Covid-19″. Così all’agenzia Dire, Sophia Jessen, che a Khartoum lavora all’ufficio relazioni esterne dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr).

[Stringer - Anadolu Agency]

L’intervista si svolge mentre sono ormai oltre 43.000 le persone che sono state accolte da Unhcr, con organizzazioni partner ed esecutivo di Khartoum, in tre regioni del Sudan orientale: Kassala, Gedaref e in misura minore Blu Nilo.

Ora a fuggire sono soprattutto gli abitanti della regione etiope del Tigray,appena oltre il confine, dove dal 4 novembre è in corso un’offensiva dell’esercito contro le forze fedeli al partito che controlla la zona, il Fronte di liberazione del popolo tigrino (Tplf). In settimana e’ cominciata una fase definita come “finale” dal governo del primo ministro Abiy Ahmed, con le truppe etiopi alle porte del capoluogo Macalle’.

Jessen riferisce che “la maggior parte dei rifugiati passa il confine sudanese in due punti, Hamdayet e Lugdi, situati nel nord-ovest del Tigray”, a pochi chilometri anche dal confine con l’Eritrea. I centri di transito per chi arriva da questi valichi sono due: Village 8 e Hamdayet. Circa due settimane fa la Commissione per i rifugiati del governo sudanese ha individuato come riferimento principale il campo di Um Raquba, circa 70 chilometri all’interno del territorio sudanese. Secondo Jessen, il campo e’ fondamentale per “alleggerire il peso sui due centri di transito che sono sovraffollati” e “iniziare il processo di identificazione delle persone che arrivano, verificando anche se presentano necessita’ particolari dal punto di vista sanitario o psicologico”. A oggi, Um Raquba ospita oltre 9.600 persone.

Jessen dice che le persone che giungono in Sudan hanno meno di 17 anni di eta’ in quasi la meta’ dei casi, “presentano condizioni di salute generalmente buone e portano con loro pochissime cose”. 

Rispetto al numero degli arrivi, la responsabile aggiunge: “Abbiamo assistito a un deciso calo degli ingressi nell’ultima settimana: se per i primi dieci giorni del conflitto entravano in Sudan circa 4.000 persone al giorno dallo scorso fine settimana sono meno di mille; l’altro ieri e martedi’ sono stati poco oltre i 700”. Secondo fonti della stampa internazionale, rifugiati appena arrivati a Lungi hanno riferito che l’esercito etiope ha bloccato la strada che porta al valico, circa 20 chilometri prima del confine. Jessen dice pero’ di non avere elementi per legare il calo degli arrivi all’evoluzione del conflitto, ricordando che “in tutto il Tigray le linee di comunicazione sono state interrotte” e che e’ molto difficile reperire informazioni.

Tra le priorita’ dell’Unhcr c’e’ anche la prevenzione del Covid-19.“Controlliamo la temperatura di chi arriva nei centri di transito, distribuiamo sapone e mascherine” riferisce la responsabile, aggiungendo: “Partner locali e la Sudanese Red Crescent Society ci stanno aiutando nel lavoro di identificazione degli eventuali sintomi”. Misure rilevanti ma che non possono essere decisive, visto che i centri di transito continuano a ospitare migliaia di persone senza alcuna possibilita’ di distanziamento. Secondo Jessen, “continuare a sostenere il Sudan nello sforzo per riallocare queste persone in altri campi e’ cruciale”.

Brando Ricci

sabato 28 novembre 2020

Trinidad e Tobago - Grave violazione - Respinti 16 bambini fuggiti dal Venezuela separandone alcuni dai genitori. Ad oggi sono 24.000 i venezuelani rifugiati nell' isola.

Blog Diritti Umani - Human Rights
Trinidad e Tobago ha deportato via mare 16 bambini venezuelani, separandone alcuni dai genitori, ha denunciato lunedì un avvocato che ha cercato di fermare il rimpatrio e leader dell'opposizione dal Venezuela. 

I bambini sono stati deportati domenica, poche ore prima della ripresa dell'udienza giudiziaria in cui si richiedeva il loro soggiorno nel paese, ha detto ad AFP l'avvocato Nafeesa Mohammed, che ha chiesto di indagare sul caso e ha chiesto al governo di Keith Rowley di riconsiderare il gestione della crisi migratoria legata all'arrivo dei venezuelani.

Cha ha dichiarato: "Serve un'indagine (...) Sappiamo che abbiamo immigrati irregolari ed è giunto il momento per lo Stato di migliorare il sistema di gestione dei flussi (...) Questi sono bambini".

Il leader dell'opposizione venezuelana David Smolansky, commissario del Segretariato generale dell'Organizzazione degli Stati americani (OAS) per i migranti dal suo paese, contava 29 deportati: 16 bambini - di cui uno di quattro mesi - e 13 adulti. 

La Corte interamericana dei diritti umani (IACHR) ha esortato Trinidad e Tobago a "garantire l'ingresso" dei venezuelani "che cercano protezione internazionale per motivi umanitari". 

L'ONU stima che l'esodo dei venezuelani dal 2015 a causa della crisi acuta nel loro paese sia in oltre cinque milioni, circa 24.000 con destinazione Trinidad e Tobago.

venerdì 27 novembre 2020

Turchia - Altri 337 ergastoli al maxi processo con 475 imputati per il fallito golpe. Ad oggi celebrati 289 processi con 4100 condanne, 2500 ergastoli.

AnsaMed
Sono 337 le condanne all'ergastolo emesse oggi da un tribunale di Ankara al termine di uno dei principali maxi-processi per il fallito colpo di stato del 15 luglio 2016 in Turchia, relativo alle azioni organizzate nella base aerea di Akinci, che fu il quartier generale dei golpisti. 

Tra i condannati ci sono decine di ex alti ufficiali e piloti di jet delle forze armate, accusati tra l'altro di aver bombardato il Parlamento e altre istituzioni simbolo la notte del putsch. Altri 60 imputati sono stati condannati a pene minori e 75 assolti.

Almeno 27 imputati sono stati condannati a decine di ergastoli aggravati a testa, cioè al carcere duro. Lo riporta l'agenzia Anadolu. Tra i capi d'accusa figuravano "tentato rovesciamento dell'ordine costituzionale", "tentato omicidio del presidente della Repubblica" e "omicidio volontario".

L'ergastolo è stato inflitto anche ad almeno 4 civili, tra cui l'uomo d'affari Kemal Batmaz, tutti accusati di aver agito per conto della rete dell'imam e magnate Fethullah Gulen, ex alleato del capo dello Stato Recep Tayyip Erdogan, accusato di aver orchestrato il golpe. La giustizia di Ankara ne ha chiesto ripetutamente l'estradizione dagli Stati Uniti, dove è residente dal 1999, che è stata finora negata dalle autorità americane.

Complessivamente, al maxi-processo sulla base Akinci erano imputate 475 persone, di cui 365 in custodia cautelare in carcere. A oltre 4 anni dal putsch, i processi conclusi in relazione a quegli eventi sono almeno 289, per un totale di oltre 4.100 persone condannate, di cui più di 2.500 alla pena dell'ergastolo. Altri 10 processi risultano ancora in corso, tra cui quello con oltre 500 imputati per le azioni eversive della guardia presidenziale.

giovedì 26 novembre 2020

Iran - Pena di morte - Rischia di essere messo a morte Ahmadreza Djalali, il ricercatore di nazionalità iraniana e svedese che aveva lavorato in Italia

La Repubblica
Ahmadreza Djalali è in carcere in Iran da oltre tre anni, condannato a morte per spionaggio in un processo senza testimoni e senza prove, e ora rischia di essere giustiziato. Ieri sua moglie Vida Mehrannia, che vive in Europa con i loro due figli, ha ricevuto la telefonata del marito dal carcere di Evin, a nord di Teheran: le annunciava che l’avrebbero trasferito in isolamento e che la sentenza di morte potrebbe essere eseguita a breve, che quella avrebbe potuto essere la sua ultima telefonata.
 

Djalali è un ricercatore iraniano esperto di medicina dei disastri e assistenza umanitaria, ha lavorato anche all’università del Piemonte Orientale di Novara, ha doppia cittadinanza iraniana e svedese: nel 2016 fu arrestato in Iran dove era tornato per partecipare a una serie di seminari nelle università di Teheran e Shiraz.

Amnesty International parla di “accuse infondate” nei suoi confronti e di un processo senza garanzie di difesa. “Le autorità iraniane hanno fatto forti pressioni su Djalali affinché firmasse una dichiarazione in cui “confessava” di essere una spia per conto di un “governo ostile”. Quando ha rifiutato, è stato minacciato di essere accusato di reati più gravi”. 
Domani l’organizzazione ha indetto un presidio a Novara alle 18 per chiede il rilascio di Djalali.

Nei mesi scorsi la moglie Vida aveva chiesto aiuto anche alle autorità italiane attraverso Repubblica: “L’Italia faccia il possibile per far tornare a casa Ahmadreza, che è innocente, è ostaggio di uno scambio politico ed economico, non ha fatto nulla”. Il 18 dicembre scorso 134 premi Nobel scrissero un appello alla guida suprema Ali Khamenei per la liberazione di Djalali.
[...]
Negli ultimi anni l’Iran ha arrestato diversi stranieri o persone con doppio passaporto - Teheran non riconosce ai cittadini iraniani la doppia nazionalità - spesso condannabili per spionaggio ma diverse organizzazioni per i diritti umani accusano il regime di usare questa tattica per ottenere concessioni nei negoziati paralleli con i governi.

mercoledì 25 novembre 2020

30 novembre 2020 - Partecipa al LIVE WEBINAR per la Giornata Mondiale "Città per la vita, città contro la pena di morte" promossa da Sant'Egidio

santegidio.org
In occasione del 30 novembre 2020, con più convinzione che mai, la Comunità di Sant'Egidio promuove la giornata mondiale "Città per la vita, città contro la pena di morte".
Partecipa al Webinar: #stand4humanity #nodeathpenalty

LUNEDÌ 30 NOVEMBRE
dalle 17:30 alle 19:00 
(GMT +1)

Intervengono esperti, attivisti, testimoni e società civile da Africa, Asia, Europa e Nord America. L’evento si concluderà con l'illuminazione straordinaria del Colosseo, simbolo della campagna globale contro la pena di morte.

L'evento è multilingue. Verrà trasmesso in italiano, inglese, spagnolo, francese e portoghese.




Giornata Mondiale contro la violenza sulle donne - Nazioni Unite: le chiusure del COVID-19 hanno aumentato le denunce e le violenze nel mondo

Blog Diritti Umani - Human Rights
Nessun paese è stato risparmiato dall'epidemia di Coronavirus, né dal flagello della violenza domestica, che è aumentata durante i blocchi. Picco di stupri in Nigeria e Sud Africa, aumento del numero di donne scomparse in Perù, tassi più alti di donne uccise in Brasile e Messico e picco di segnalazioni alle associazioni in Europa: la pandemia ha aggravato la piaga della violenza sessuale. 

Secondo i dati delle Nazioni Unite diffusi a fine settembre, i blocchi hanno portato ad un aumento delle denunce o delle chiamate per denunciare gli abusi domestici del 25% in Argentina, del 30% a Cipro e in Francia e del 33% a Singapore.

In sostanza, in tutti i paesi, le misure per limitare la diffusione del coronavirus hanno portato donne e bambini a rimanere confinati a casa. "La casa è il posto più pericoloso per le donne", denunciano tutte le associazioni per la difesa delle donne.

A luglio, le Nazioni Unite hanno stimato che sei mesi di restrizioni potrebbero comportare 31 milioni di casi aggiuntivi di violenza sessuale nel mondo e sette milioni di gravidanze indesiderate. La situazione stava anche minando la lotta contro le mutilazioni genitali femminili e i matrimoni forzati, hanno avvertito le Nazioni Unite.

ES

Fonte: AFP

martedì 24 novembre 2020

Guerre dimenticate - Yemen in arrivo la peggiore carestia nel mondo da decenni, conseguenza della guerra

EuroNews
Lo Yemen è in "pericolo imminente" di cadere nella "peggiore carestia che il mondo
abbia visto da decenni", ha avvertito venerdì il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres, chiedendo un'azione immediata per salvare milioni di vite.


Un bambino malnutrito nello Yemen
 Diritti d'autore Hammadi Issa/Copyright 2018 The Associated Press. All rights reserved.

La crisi, secondo le Nazioni Unite, è il risultato della forte riduzione dei fondi forniti alle operazioni umanitarie nel Paese, della mancanza di supporto esterno all'economia yemenita e dell'impatto del conflitto armato e degli ostacoli posti alle agenzie di aiuti umanitari, oltre alle inondazioni e agli effetti di un'infestazione di locuste.

Guterres, in una dichiarazione, ha chiesto un'azione urgente per evitare una "catastrofe" e ha esortato tutte le parti ad astenersi da qualsiasi azione che possa peggiorare la situazione.

"Rischiamo una tragedia non solo per l'immediata perdita di vite umane, ma anche per le conseguenze che si faranno sentire indefinitamente in futuro", ha detto il diplomatico portoghese.

Guterres ha anche messo in guardia contro qualsiasi "iniziativa unilaterale" che potrebbe rivelarsi negativa in un momento così fragile, con il rischio di carestia e con l'ONU che cerca di mediare per arrivare a una soluzione politica al conflitto tra il governo yemenita e i ribelli Houthi.

Quando in conferenza stampa gli è stato chiesto della possibilità che gli Stati Uniti sanzionassero gli insorti, legati all'Iran, Guterres ha risposto: "Penso che non dovremmo smuovere le acque in questo momento", ha detto il segretario generale delle Nazioni Unite.

Guterres ha sottolineato il fatto che le Nazioni Unite sono in stretto contatto con tutte le parti per cercare di farle incontrare e adottare un cessate il fuoco e stabilire un dialogo politico, in un momento in cui c'è un "drammatico degrado della situazione umanitaria".

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lunedì 23 novembre 2020

Bielorussia: profughi, in Polonia, in fuga dalle violenze. Mons. Tadeusz Kondrusiewicz esule in Polonia documenta le proteste a 100 giorni delle elezioni contestate di Lukashenko.

SIR
Dopo 100 giorni di proteste contro la rielezione del presidente della Bielorussia Alexander Lukashenko avvenuta in seguito al voto del 9 agosto scorso, per altro non riconosciuta dall’Ue e molti altri Paesi, sempre più profughi bielorussi cercano rifugio in Polonia. 


Ad oltre un centinaio di persone gravemente ferite durante le manifestazioni a Minsk, come in altre città, le autorità polacche hanno offerto l’assistenza sanitaria permettendo loro di usufruire delle cure specialistiche presso il centro di Duszniki Zdrój, appositamente predisposto a tal fine. Una settantina di profughi poi sono ospitati presso il centro per rifugiati a Biała Podlaska mentre circa cinquanta famiglie con bambini nella struttura allestita presso il vicino villaggio di Horbów.

In Bielorussia numerosi sono i casi “di violenza, torture e disprezzo della dignità personale”, ha scritto lunedì 16 novembre su Facebook il vicario generale dell’arcidiocesi di Minsk, mons. Yurij Kasabucki, aggiungendo che tali comportamenti da parte dei funzionari del regime di Lukashenka “rinforzano il popolo”. Ha anche chiesto le preghiere “per rinforzare gli animi, il coraggio e la temerarietà del popolo bielorusso”. Il presule, in assenza dell’arcivescovo Tadeusz Kondrusiewicz, è a capo dei cattolici della capitale della Bielorussia.

Mons. Tadeusz Kondrusiewicz, arcivescovo di Minsk-Mogilev e presidente dei vescovi cattolici della Bielorussia, dalla fine di agosto è costretto a prolungare il suo soggiorno in Polonia. Le autorità di Minsk non consentono il suo rientro in patria, nonostante il presule, nato nel 1946 a Hrodna, sia cittadino bielorusso in possesso di un regolare passaporto. Secondo le autorità bielorusse, tuttavia, la validità del documento sarebbe giunta alla scadenza prefissata mentre l’arcivescovo si trovava fuori dai confini nazionali e questa sarebbe la ragione per cui al presule è impedito il ritorno nel proprio Paese.

Dopo 100 giorni di proteste contro la rielezione del presidente della Bielorussia Alexander Lukashenko avvenuta in seguito al voto del 9 agosto scorso, peraltro non riconosciuta dall’Ue e molti altri Paesi, sempre più profughi bielorussi cercano rifugio in Polonia. Ad oltre un centinaio di persone gravemente ferite durante le manifestazioni a Minsk, come in altre città, le autorità polacche hanno offerto l’assistenza sanitaria permettendo loro di usufruire delle cure specialistiche presso il centro di Duszniki Zdrój, appositamente predisposto a tal fine. Una settantina di profughi poi sono ospitati presso il centro per rifugiati a Biała Podlaska mentre circa cinquanta famiglie con bambini nella struttura allestita presso il vicino villaggio di Horbów.

Le persone che arrivano in Polonia dalla Bielorussia, per evitare le persecuzioni, spesso devono decidere di fuggire in fretta. Superano quindi la frontiera non solo ai valichi presidiati da funzionari di polizia ma a volte anche attraversando a nuoto il fiume Bug, lungo il quale corre parte del confine tra i due Paesi. Così una volta in Polonia i rifugiati si trovano ad avere bisogno di tutto: indumenti e scarpe, prodotti per la cura della persona, ma anche generi alimentari e quelli di prima necessità. A soccorrere i bisognosi ci sono dei volontari, delle organizzazioni dei bielorussi residenti sul territorio polacco, la Caritas. 

Le autorità, per quanto possibile, cercano di garantire a coloro che richiedono protezione qualche sostegno economico e un tetto. La mensa, presso i centri per rifugiati funziona a giorni alterni, e non nei week-end. Tuttavia, per il fine settimana i profughi ricevono dei pacchi con delle derrate supplementari. Le autorità polacche offrono ai giovani la possibilità di frequentare la scuola mentre per i più piccoli presso i centri di soggiorno temporaneo vengono organizzati degli asili, dove, dopo la scuola, anche i bambini più grandi possono trascorrere il tempo sotto l’occhio vigile di un insegnante.

Finché le procedure di accertamento dei requisiti per il conferimento della protezione internazionale non vengono completate, ai rifugiati, però, non è permesso di intraprendere alcuna attività lavorativa. A coloro che si trovano nei centri di soggiorno temporaneo pesa pertanto la mancanza di certezze riguardo al futuro.“Non sappiamo quando ci interrogheranno, nessuno ci ha contattati e non sappiamo nemmeno quanto tempo ancora possiamo rimanere qui”, dice Alexandr che attualmente si trova nel centro di Biała Podlaska. Tuttavia, non tutti i bielorussi rifugiati in Polonia desiderano rimanervi e rifarsi una vita. La maggior parte sono giovani che oltre la frontiera vorrebbero solo “riprendere fiato” e – sfuggendo alle persecuzioni – attendere un cambiamento nel proprio Paese. “In Polonia vogliamo resistere preservando la nostra libertà”, affermano molti richiedenti protezione, impauriti dalle persecuzioni in Bielorussia e dalle pene inflitte a coloro che partecipano alle proteste.

Ihar con la moglie Natalia e una piccola bambina è arrivato in Polonia nel mese di agosto dopo che era stato picchiato dalla polizia e finito per dieci giorni in prigione. È dovuto scappare per preservare la propria incolumità, dopo che era venuto a conoscenza di tre manifestanti morti in circostanze poco chiare, presumibilmente assassinati dai funzionari. Infatti, alle proteste in varie città della Bielorussia partecipano soprattutto dei giovani, ventenni e trentenni che vorrebbero prendere il futuro del loro Paese nelle proprie mani.“Amo la Bielorussia e non voglio lasciarla, ma voglio un cambiamento!”, afferma Sonia, una ragazza 19enne di Minsk. I suoi genitori la lasciano partecipare alle manifestazioni a condizione che torni a casa prima che si faccia buio e ogni mezz’ora mandi loro un sms confermando che tutto va bene. Sonia dice di aver votato per Sviatlana Tsikhanouskaya e che così hanno votato anche tutti i suoi amici. Racconta che quando è venuta a sapere che Lukashenko avrebbe ottenuto più dell’80% delle preferenze “si è sentita presa in giro”.

Prima delle elezioni di agosto scorso molti fra i giovani bielorussi non s’interessavano alla politica. “Mi sono incuriosito solo recentemente quando ho letto il blog di Tsikhanouskij (il marito di Sviatlana e candidato alle presidenziali arrestato a maggio e tutt’ora detenuto) dove in modo convincente venivano smentite le menzogne della Tv di Stato”, racconta Krill, arrestato dagli Omon (reparti speciali della polizia), dopo un comizio di Sviatlana, e brutalmente torturato, insieme ad altri manifestanti.

Le violenze e le persecuzioni in Bielorussia hanno però, secondo Kirill, “l’effetto di una palla di neve”. “Più cercano di metterti paura e convincerti a non fare una cosa, tanto più vuoi farli a dispetto e agisci per ripicca”, spiega.

Alcuni osservatori della situazione in Bielorussia suggeriscono che forse proprio in considerazione della giovane età della maggior parte dei manifestanti, le rappresaglie da parte delle autorità siano così dure. Per dissuadere in meno tempo e con maggiore efficacia, ai giovani vengono inflitte anche delle torture che però, come raccontano i profughi, non sono perpetrate dai funzionari della polizia di Stato ma dai membri di reparti speciali Omon, addestrati in modo particolare e fanaticamente devoti a Lukashenko.

Come afferma Ales Bialiatski, direttore del Viasna Human Rights Centre e vicepresidente della Federazione internazionale per i diritti umani, gli organizzatori delle prime proteste non si aspettavano una risposta così violenta da parte delle autorità: “Eravamo consci che le proteste avrebbero portato a delle repressioni e agli arresti ma non ci aspettavamo una simile aggressività e brutalità da parte dei funzionari”.

Attualmente sono almeno 25mila bielorussi imprigionati dalla polizia durante le varie manifestazioni di protesta. Solo domenica scorsa 15 novembre gli arresti sono stati più di mille. 

Di solito, dopo alcuni giorni di prigionia e torture, i manifestanti vengono rilasciati in cambio di una dichiarazione di rinuncia “a partecipare alle attività eversive”. Ma ci sono anche quelli i cui corpi vengono ritrovati nei boschi o che sembrano spariti nel nulla.

Le manifestazioni pacifiche degli abitanti della Bielorussia inizialmente miravano solo a spodestare Lukashenko. Adesso invece sembra chiaro a molti che il presidente, con violenza e incutendo paura, vuole distruggere una democrazia nascente nel Paese. 

Le violenze e le persecuzioni fanno tuttavia perdere a Lukashenko l’appoggio della società civile e soprattutto dei giovani. “Le attuali proteste – ha sottolineato Tsikhanouskaya durante un recente incontro con Angela Merkel – non sono contro la Russia o a favore dell’Europa, ma sono conseguenza di una crisi interna del Paese, dove il popolo, dopo 26 anni di Lukashenko, non vuole più vivere oppresso; ed è per questo che le manifestazioni continuano e continueranno finché non verranno organizzate le nuove elezioni democratiche”.

Anna T. Kowalewska

domenica 22 novembre 2020

Trump insiste con la pena di morte e si congeda fissando 3 esecuzioni federali prima di Natale. Gesto mai avvenuto nel periodo di transizione.

Il Messaggero
Donald Trump insiste sulla pena di morte: sono infatti tre detenuti nel braccio della morte, la cui esecuzioni dovrebbero avvenire nel periodo di transizione prima che Joe Biden assuma formalmente la presidenza, vengano giustiziati. «Nessuno ha mai tentato di eseguire così tante condanne a morte a livello federale, mai in un tempo così breve. E nessuno lo ha fatto in un modo che ignora così palesemente lo stato di diritto», ha dichiarato a Newsweek Robert Dunham, direttore esecutivo del Death Penalty Information Center (Dpic).

Nel luglio del 2019 Trump ha ordinato la ripresa delle esecuzioni federali e quest'anno, il 14 luglio, un primo prigioniero è stato messo a morte ponendo fine a una moratoria di fatto in corso da 17 anni. 

L'Amministrazione Trump ha giustiziato sette persone quest'anno e prevede di eseguire altre tre condanne a morte prima di Natale. Questo significa che avrà messo a morte più persone in un solo anno di qualsiasi altro presidente. Nessuno, prima di lui, ha poi tenuto detenuti nel braccio della morte nel periodo di transizione.

Le prossime esecuzioni in programma sono quelle di Lisa Montgomery l'8 dicembre, che rischia di essere la prima donna giustiziata a livello federale dal 1953. Il 10 dicembre rischia di essere giustiziato Brandon Bernard per l'omicidio di una coppia del Texas nel 1999, quando aveva 18 anni. 

L'ultima volta che il governo degli Stati Uniti ha eseguito una condanna a morte di una persona di diciotto anni al momento del crimine è stato nel 1952. 

La terza persona che rischia di essere giustiziato è Orlando Hall, un nero condannato a morte da una giuria di soli bianchi nel 1994 per il rapimento e lo stupro di una ragazza di 16 anni. Joe Biden, nel suo manifesto elettorale, ha promesso di eliminare la pena di morte a livello federale e di cercare di convincere gli stati a fare altrettanto. 

Un sondaggio condotto da Gallup nel 2019 ha mostrato che il 60 per cento degli americani ritiene l'ergastolo senza possibilità di libertà condizionale una punizione più appropriata per l'omicidio rispetto alla pena di morte.

sabato 21 novembre 2020

Arrestata in Turchia l’attivista anti-velo Nasibe Semsai, condannata a 12 anni, in fuga da Teheran. Rischia l'espulsione.

La Stampa
Questione di pochi metri e una manciata di minuti e Nasibe Semsai, architetta di 36 anni, avrebbe raggiunto il suo posto sull’aereo diretto in Spagna. Non ce l’ha fatta. L’attivista iraniana in fuga dalla Repubblica islamica è stata arrestata all’aeroporto di Istanbul dalle autorità turche mentre cercava di imbarcarsi. Aveva un passaporto falso, dicono ora da Ankara.

Nasibe Semsai è una delle attiviste della protesta del «Mercoledì bianco», bianco come lo hijab che le donne si tolgono e sventolano come una bandiera, una «blasfemia» in Iran, una sfida al regime degli Ayatollah e alle leggi islamiche che impongono alle donne di coprirsi sempre il capo e i capelli. 

Nasibe, condannata a 12 anni di carcere per aver partecipato alle proteste nel 2018 contro l’obbligo del velo, è chiusa in un centro per migranti irregolari a Edirne, vicino al confine con la Grecia. Ora l’attivista rischia l’espulsione verso il suo Paese d’origine. E in Iran rischia di uscire dal carcere alla soglia dei 50 anni, se non peggio.

L’arresto dell’architetta appassionata di montagna non è che l’ultimo esempio di come la Turchia vìoli le regole internazionali che prevedono di non deportare nel Paese d’origine le persone che rischiano di finire in prigione a causa delle proprie idee

Lo scorso 9 settembre Ankara aveva arrestato Maryam Shariatmadari, un’altra attivista del «Mercoledì bianco» che aveva cercato rifugio in Turchia. Ora anche lei rischia l’estradizione. E Nasibe Semsai non sarà l’ultima ad essere arrestata per aver sventolato uno hijab, o per aver semplicemente partecipato alle proteste. Anche a fine ottobre, in Iran, una giovane donna era stata arrestata per «aver insultato l’hijab islamico». Sui social era apparso un video - girato da qualcuno con un telefonino - che la mostrava in bicicletta senza velo e con un braccio alzato nel centro di Najafabad.

«La mia libertà nascosta»
Dal 2014 sono state decine le donne incarcerate, punite con frustrate e perseguitate per la «rivolta del velo», il movimento nato online da un’idea di Masih Alinejad, attivista di origine iraniana in esilio a New York. Tutto era iniziato con una pagina Facebook, «My Stealthy Freedom», dove le donne in Iran pubblicavano foto di se stesse senza hijab scattate di nascosto. La pagina raccolse oltre tremila immagini in pochi mesi, fotografie e video di donne che si liberavano dello hijab in pubblico e lasciavano «che il vento scompigli i nostri capelli». 

Ma dal 2017 qualcosa è cambiato, e le donne con un coraggio eccezionale hanno preso a manifestare apertamente in pubblico. Ha iniziato, il 27 dicembre 2017, la 31enne Vida Movahed, conosciuta anche come «La ragazza di Enghelab Street»: un video la mostrava in piedi, nel centro di Teheran, mentre sventolava silenziosamente il suo hijab bianco. Fu arrestata dopo un’ora. Nei giorni successivi altre 29 donne furono fermate per aver seguito l’esempio di Vida. Da allora non hanno mai smesso.

La rivoluzione islamica
Prima della rivoluzione islamica del 1979 molte donne iraniane indossavano abiti in stile occidentale, comprese minigonne e top sbracciati, ma tutto è cambiato quando il defunto Ayatollah Khomeini è salito al potere. 

La legge islamica oggi prevede che le donne che non indossano lo hijab possano essere incarcerate da dieci giorni a due mesi e fino a dieci anni se commettono «atti immorali e prostituzione». 

I reati previsti dagli articoli 638 e 639 del codice penale islamico sono appunto quelli che vengono contestati alle donne, poiché togliersi il velo in pubblico, simbolo della «modestia» femminile, equivale a sfidare la rispettabilità e il proprio ruolo nell’obbedienza. 

E Teheran non risparmia neanche gli avvocati che tentano di difenderle: Nasrin Sotoudeh, la famosa e pluripremiata avvocatessa iraniana 56enne, dovrà scontare la condanna a 33 anni di carcere e 148 frustate. La pena più severa mai inflitta finora in Iran ad attivisti per i diritti umani.

Monica Perosino

venerdì 20 novembre 2020

USA - Migranti - Giudice federale blocca le espulsioni di bambini non accompagnati. Rovesciato il decreto di Trump che ha espulso 13.000 bambini da marzo

Globalist
Erano già stati espulsi 13mila minori fino adesso, ma adesso il giudice federale di Washington ha detto basta, rovesciando un decreto dell'amministrazione Trump.
Il giudice ha ordinato di mettere fine all'espulsione dei minori non accompagnati che attraversano il confine.




Secondo quanto riportato dai media Usa, il giudice ha stabilito che espellere i bambini prima che questi possano fare richiesta di asilo vada oltre l'autorità conferita dal decreto di emergenza sanitaria pubblica emesso lo scorso marzo a causa della pandemia di Covid-19.

"Il decreto dell'amministrazione ha già consentito la pronta espulsione di oltre 13.000 bambini che avevano bisogno di protezione, che avevano diritto di fare richiesta di asilo", ha commentato Lee Gelernt, avvocato dell'American Civil Liberties Union, una delle quattro organizzazioni che hanno promosso la causa.

Complessivamente sono oltre 197.000 i migranti espulsi una volta arrivati al confine in virtù di tale decreto, stando ai dati governativi riportati dal sito Axios.

giovedì 19 novembre 2020

Appello urgente - USA (Indiana) - Salviamo Brandon Bernard dalla pena di morte, esecuzione fissata il 12 dicembre 2020 per un reato compiuto 20 anni fa all'età di 18 anni

santegidio.org
Brandon Bernard è condannato a morte per avere cooperato, a soli 18 anni di età e con un comprovato ruolo secondario passivo nell’azione della gang criminale, al rapimento a scopo di rapina di Todd e Stacie Bagley, due fratelli laici attivi nella pastorale giovanile, conclusosi con la loro uccisione nel rogo della propria auto.

Brandon dopo 20 anni trascorsi nel braccio della morte è una persona assolutamente diversa, diventando un riferimento positivo anche per gli altri giovani detenuti.
Oggi, l’autorità federale respinge ogni elemento di difesa, non considerando né la giovane età e il ruolo passivo di allora, né la riabilitazione di oggi.

Nella vicinanza a chi non può cessare di soffrire per un crimine ingiusto ed odioso, siamo fermamente consapevoli che nessuna riparazione può venire mettendo a morte ancora un essere umano, oggi assolutamente distante dal contesto criminale in cui era stato coinvolto nella più giovane età. Non esiste giustizia senza la vita. Non esiste giustizia senza considerare, di fronte al male più grande, le ragioni della misericordia.

Chiediamo a chi può decidere per la vita di fermarsi e considerare, come sempre più sta accadendo nel mondo, ogni misura alternativa disponibile di giustizia e clemenza.

Mozambico: il terrorismo jihadista colpisce il nord del Paese - Necessario aiutare il Paese con un intervento internazionale

Vatican News
Il gruppo ispirato allo Stato Islamico da tre anni imperversa nella provincia di Cabo Delgado, una delle più povere. Duemila le vittima e 400 mila gli sfollati, in una situazione difficile da gestire per il governo. Don Angelo Romano di Sant'Egidio: è sempre più chiaro che c'è bisogno di aiuto


La notizia del terribile attacco jihadista, confermato da fonti giornalistiche ma smentito dal governo e dalle autorità locali, che avrebbe portato la scorsa settimana alla decapitazione di cinquanta persone nel campo da calcio del villaggio di Muatide, ha portato nuovamente l’attenzione sulla minaccia islamista in Mozambico, e in particolare nella provincia settentrionale di Cabo Delgado.

L'offensiva dei jihadisti

Dal 2017 infatti un gruppo che si fa chiamare Al-Shabaab – come la milizia somala legata ad Al-Qaeda, ma ispirata allo Stato Islamico – ha cominciato ad attaccare la zona, uccidendo duemila persone, la metà civili, e causando 400 mila sfollati interni che si sono riversati in tutto il resto del Paese. “Ci sono informazioni contradditorie perché alcuni fonti hanno affermato purtroppo l’esistenza di questo massacro terribile, altre lo hanno smentito”

Così al microfono della nostra collega Helène Destombes, don Angelo Romano, missionario della Comunità di Sant’Egidio che, con la sua mediazione, aiutò a porre fine alla guerra civile del 1992, ”ma quello che è sicuro è che purtroppo i terroristi sono all’offensiva in questo momento. Stanno attaccando e stanno coinvolgendo villaggi e aree che prima non erano state mai toccate dalle loro azioni. Sicuramente ci sono vittime, sicuramente ci sono migliaia di persone che stanno fuggendo dalle nuove zone coinvolte nei combattimenti e c’è il rischio che i terroristi possano presto attaccare città e altre zone di Cabo Delgado, quindi è una situazione molto grave”.

Povertà e disugaglianze a Cabo Delgado
Il nord del Mozambico, dove i terroristi vogliono imporre il loro dominio, è una delle zone più povere del Paese, con i più alti tassi di analfabetismo, disuguaglianze e malnutrizione infantile, sebbene sia anche ricca di miniere. Cabo Delgado è anche una delle poche province a maggioranza musulmana, con una tradizione moderata di ispirazione sufi. 

Non sono quindi ancora del tutto chiare le origini di questo gruppo. Secondo gli analisti, spiega ancora don Angelo, “certamente c’è stata una radicalizzazione di alcune parti della provincia di Cabo Delgado in seguito alla presenza di alcuni predicatori stranieri, provenienti dal Kenya e dalla Tanzania, ma questa predicazione estremista ha incontrato il favore di una parte soprattutto dei giovani e soprattutto in aree nelle quali era diffuso un sentimento di frustrazione e di ostilità nei confronti del governo. Aree che si sentivano dimenticate dall’azione del governo e quindi chi era scontento, chi era frustrato, soprattutto giovani hanno trovato nella proposta islamista un modo per esprimere la loro rivolta. Purtroppo armata”.

L'Onu: "situazione disperata"
L’Alto Commissario Onu per i diritti umani ha chiesto poi “misure urgenti” per proteggere i civili della provincia di Cabo Delgado”, che vivono una “situazione disperata” per ‘l’insurrezione jihadista. Le popolazioni rimaste, ha detto l’Alto commissario Michelle Bachelet , “sono state private dei beni di prima necessità e rischiano di essere uccise, di subire abusi sessuali, di essere rapite o reclutate con la forza da questi gruppi armati”. 

Il governo del Mozambico ha provato a reagire ma, spiega ancora don Angelo, deve fronteggiare anche un’altra emergenza nel centro del Paese, “che è provocata da frange ribelli della Renano che non accettano gli ultimi accordi di disarmo firmati poco prima della visita di Papa Francesco (nel settembre 2019, ndr) e che hanno compiuto diverse azioni armate”. È stato anche chiesto “il sostegno dell’Unione Europea, che è stato garantito soprattutto per quanto riguarda l’assistenza umanitaria ai profughi interni, mentre si discute sempre più apertamente di un possibile intervento internazionale, non si sa bene di che tipo però mi sembra che chiaramente ci sia la necessità di aiutare il Mozambico a uscire da questa crisi”.

Michele Raviart

martedì 17 novembre 2020

Amnesty - Inchiesta dell’Ue: complicità europea nella violenza della Croazia contro migranti e rifugiati lungo la rotta balcanica

Amnesty Italia
L’Ufficio del difensore civico europeo ha annunciato, su sollecitazione di Amnesty International, l’apertura di un’inchiesta sulle possibili responsabilità della Commissione europea nel mancato rispetto dei diritti dei migranti e dei rifugiati da parte delle autorità della Croazia, nel corso di operazioni di frontiera finanziate dall’Unione europea.


“In questi anni Amnesty International e altre organizzazioni hanno denunciato numerose violazioni dei diritti umani, tra cui pestaggi e torture, di migranti e rifugiati da parte delle forze di polizia croate, i cui stipendi sono in parte pagati dall’Unione europea. Dunque, è importante che si accerti perché la Commissione europea continui a consentire che i suoi fondi siano utilizzati senza pretendere il rispetto dei diritti umani”, ha dichiarato Eve Geddie, direttrice di Amnesty International presso le Istituzioni europee.

“Proseguendo a finanziare operazioni del genere e dando via libera all’accesso della Croazia all’area Schengen, la Commissione viene meno al dovere di controllare come venga utilizzata l’assistenza europea e fa capire che gravi violazioni dei diritti umani possono andare avanti senza sollevare obiezioni”, ha aggiunto Geddie.

Già nel settembre 2020, la Commissione aveva ignorato le denunce di violazioni dei diritti umani da parte della polizia croata.
Amnesty International aveva anche rivelato che la Commissione aveva evitato di istituire un Meccanismo indipendente di monitoraggio che avesse lo scopo garantire che le misure adottate dalla Croazia lungo i propri confini, in larga parte finanziate dai fondi di emergenza all’assistenza dell’Unione europea, rispettassero i diritti umani.

Dal 2017 la Croazia è beneficiaria di oltre 108 milioni di euro del Fondo Asilo, migrazione e integrazione e ha ricevuto altri 23,3 milioni di euro dai fondi di emergenza destinati all’assistenza. Dallo stesso anno, le organizzazioni per i diritti umani denunciano pestaggi, distruzione dei beni personali e trattamenti umilianti (come l’obbligo di togliersi vestiti e scarpe e camminare per ore sulla neve o sui letti ghiacciati dei fiumi) ai danni di donne e uomini migranti, anche molto giovani.

lunedì 16 novembre 2020

Si aggravano gli scontri nel nord dell'Etiopia - Missili su Asmara, la guerra in Tigray supera i confini etiopi. Migliaia di tigrigni fuggono in Sudan

Africa Rivista
La crisi nel Tigray supera i confini dell’Etiopia e coinvolge l’Eritrea. Nella serata di ieri almeno tre missili hanno colpito la capitale Asmara. Non è chiaro al momento quali siano gli obiettivi colpiti. Secondo l’emittente web Myviewonnews e l’agenzia Morad News, gli ordigni hanno centrato l’edificio del Ministero dell’Informazione, l’aeroporto e un complesso residenziale ad Asmara. 


Stamattina il leader della regione settentrionale etiope dissidente del Tigray, Debretsion Gebremichael, ha rivendicato il lancio di razzi avvenuto “contro l’aeroporto della capitale eritrea, Asmara”. Gebremichael ha spiegato che “anche le forze etiopi stanno utilizzando l’aeroporto di Asmara” per far decollare i mezzi usati nei raid contro la regione del Tigray, e quindi lo scalo è un “obiettivo legittimo”.


Impossibile al momento stabilire il bilancio e la portata dell’attacco, ma è evidente che il blitz missilistico partito da territorio etiope rischia di infiammare ulteriormente la guerra nella regione, da giorni divenuta campo di battaglia tra le forze armate di Addis Abeba e reparti dell’esercito fedeli al comando politico militare del Tigray.



La guerra è iniziata il 4 novembre, con un’operazione militare lanciata da Addis Abeba al culmine di un periodo di forti tensioni tra il governo etiope, guidato dal premier Abiy Ahmed, Nobel per la Pace 2019, e il Fronte di liberazione del popolo tigrino (Tplf), il partito che domina la regione settentrionale dell’Etiopia, popolata dalla minoranza tigrina. I belligeranti si accusano a vicenda di aver innescato la violenza, quel che è certo è che la dura contrapposizione politica dei mesi scorsi ha lasciato il posto alle armi, con risvolti imprevedibili.

Pochissime notizie e immagini filtrano dalla regione. I collegamenti telefonici e internet sono interrotti. Nella giornata di ieri Amnesty International ha diramato un rapporto secondo cui le operazioni militari condotte dai soldati di Addis Abeba avrebbero già causato “centinaia di civili uccisi”. Notizie, al momento, non confermate.


Articolo correlato: AfricaExPressLa guerra tra Etiopia e Tigray incendia tutto il Corno d’Africa: massacri e profughi
 

domenica 15 novembre 2020

L'Egitto arresta Mohammed Basheer direttore dell'Epir, l'ong di Patrick Zaky

La Repubblica
Il direttore amministrativo dell'Eipr è stato fermato nella notte: contro di lui le stesse accuse mosse allo studente dell'università di Bologna. Nei giorni scorsi i rappresentanti del gruppo avevano incontrato gli ambasciatori dei Paesi europei, di Usa e Canada per esprimere preoccupazione sullo stato dei diritti umani


Le autorità egiziane hanno arrestato il direttore amministrativo dell'Eipr, una ong per i diritti umani con cui collaborava Patrick Zaky, lo studente egiziano dell'università di Bologna di 28 anni e che è detenuto al cairo da ormai nove mesi. L'accusa per Mohammed Basheer è di "appartenenza a un gruppo terroristico", "diffusione di notizie false sui social" e di "finanziamento del terrorismo", secondo quanto da detto l'organizzazione. "In un'escalation senza precedenti per l'Iniziativa egiziana per i diritti personali (Eipr), una forza di sicurezza ha arrestato in casa sua il direttore amministrativo dell'Eipr", ha detto l'organizzazione.

L'Eipr ha dichiarato che Basheer è stato interrogato dalla Procura suprema per la sicurezza dello Stato (Sssp) sul lavoro dell'organizzazione e una visita specifica all'inizio di questo mese al suo ufficio del Cairo "da parte di un certo numero di ambasciatori e diplomatici" per discutere dei diritti umani. 

Tra gli ambasciatori era presente anche quello dell'Italia, Giampaolo Cantini. E' stato posto in custodia cautelare per 15 giorni e sarà interrogato in un secondo momento, ha aggiunto l'Eipr che chiede alle autorità di rilasciarlo immediatamente.

Secondo la legge egiziana, la custodia cautelare può durare fino a due anni, ma spesso il periodo è prolungato. Basheer è tra gli altri avvocati, attivisti e giornalisti di spicco per i diritti umani accusati in un unico caso noto localmente come causa 855/2020. 

"La detenzione di Mohammed Basheer è solo l'ultimo episodio della repressione in corso che mira a intimidire e spaventare i professionisti legali e dei diritti umani, nonchè gli attivisti", ha evidenziato l'Eipr in una nota.

Covid in carcere, serio aumento di contagi. 75 istituti colpiti, 600 detenuti (32 ricoverati), 800 tra il personale. Urgente ridurre il numero dei detenuti.

redattoresociale.it
Aggiornamento del Garante nazionale: 75 gli istituti su 190 in cui si è verificato un qualche caso: contagiati 600 detenuti (di cui 32 ospedalizzati) e oltre 800 tra il personale. Antigone: "Intervenire con la concessione di misure alternative". 


"Ridurre i numeri della popolazione detenuta": lo chiede Antigone richiamando l'ultimo aggiornamento del Garante nazionale delle persone private della libertà, Mauro Palma, secondo cui nell'arco di pochi giorni i contagiati hanno superato le 600 unità tra i detenuti (di cui 32 ospedalizzati) e sono oltre 800 tra il personale che, a vario titolo, opera nelle carceri. Sono 75 gli istituti su 190 in si è verificato un qualche caso di contagio. 

Rispetto al numero di tamponi effettuati in questa nuova tornata di epidemia, precisa il Garante, il tasso di positività in carcere è alto (più del 15 per cento), ma comunque in linea con quello del territorio nazionale.

Da settembre l'osservatorio di Antigone è tornato a visitare gli istituti penali del paese, dopo lo stop alle attività che la prima fase dell'emergenza coronavirus aveva comportato. "In molti casi - si legge in una nota - ci si è trovati davanti a situazioni di sovraffollamento che non aiutano il contenimento del contagio, né favoriscono l'isolamento dei detenuti positivi o di coloro che, dopo un contatto con un positivo, hanno bisogno di osservare un periodo di quarantena. 

Su indicazione del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria, alcune sezioni sono state sgomberate per fare posto a reparti Covid, questo ha però prodotto un ulteriore sovraffollamento in altre aree degli istituti. Inoltre, la necessità di far osservare il periodo previsto per la quarantena ai nuovi giunti, fa sì che spesso questi vengano trasferiti in carceri anche a centinaia di chilometri di distanza dalla loro città per l'arco di tempo previsto e, solo dopo, ricondotti negli istituti di competenza".

"Ciò che occorre in questa fase - sottolinea il presidente Patrizio Gonnella - è ridurre i numeri della popolazione detenuta. Dopo l'importante contrazione registrata durante la prima ondata, il dato dei detenuti si era stabilizzato e, dopo l'estate, era ricominciato a crescere".

Secondo i dati del Garante si riducono, seppur lentamente, i numeri delle persone detenute in carcere: 54.767 quelle registrate ma 53.992 quelle fisicamente presenti. "Con questi numeri, nonostante i protocolli adottati, è difficile poter contenere il diffondersi del contagio. - sottolinea Antigone - Occorre dunque intervenire attraverso la concessione di misure alternative al carcere, in primo luogo gli arresti domiciliari, per chi ha fine pena brevi o importanti patologie pregresse. Si deve inoltre, così come sollecitato dal Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, ridurre al minimo gli ingressi, utilizzando la custodia cautelare in carcere solo laddove è strettamente necessaria".

"Chi non potrà uscire ha bisogno di non sentirsi abbandonato. - dichiara ancora Gonnella - L'angoscia che si vive nel mondo libero è infatti amplificata quando ci si trova in spazi chiusi e con un'inevitabile contatto quotidiano con decine di persone. Per questo vanno potenziate le telefonate e le video-telefonate su cui alcuni istituti, dopo le concessioni della prima ondata, stavano tornando indietro. Va garantito inoltre il diritto allo studio, predisponendo la possibilità che i detenuti seguano le lezioni in dad. Questi riteniamo siano provvedimenti urgenti e necessari. Ci auguriamo che lo stesso Comitato Tecnico Scientifico possa concentrare la propria attenzione sul sistema penitenziario affinché, tanto la salute dei detenuti che quella degli operatori, sia salvaguardata".

"Molto allarme circola in rete ed è ripreso anche dai media rispetto ai numeri del contagio in carcere. - si legge nel punto del Garante - La preoccupazione non è senza motivo". Tuttavia segnala Palma, se da un lato è indispensabile prevedere una riduzione delle presenze per "disporre di spazi adeguati per tutti gli isolamenti necessari e per fare fronte a malaugurati scenari futuri", dall'altro è necessario "non aggiungere ansia a situazioni di per sé ansiogene, proprio a causa del loro configurarsi come luoghi che ovviamente non consentono la libera determinazione dell'individuo".

Patrizio Gonnella

sabato 14 novembre 2020

14 mila migranti in fuga dall'Africa Occidentale in Spagna nel 2020, senza interventi adeguati le Isole Canarie diventeranno come le isole greche

Il Manifesto
Il molo di Arguineguin, nella località Mogán, nell’isola di Gran Canaria, sembra un campo profughi. Sono almeno 1500 le persone nelle tende. Dall’inizio dell’anno sono arrivati alle Isole Canarie, territori spagnoli, più di 14.000 persone. Una cifra impressionante, un aumento del 600 % degli arrivi rispetto allo scorso anno.


Il fine settimana del 7-8 novembre scorso, sono state 2200 le persone arrivate in piena crisi sanitaria, che morde le isole come la Spagna continentale. 

Le barche partono non solo dal Marocco e dalla Mauritania, le due nazioni più vicine all’arcipelago, ma anche dal Senegal e dal Gambia, più di 1.000 chilometri (600 miglia) più a sud.

«Oltre le persone sul molo, che dormono all’addiaccio, ci sono altre 5.000 persone circa alloggiate in hotel vuoti, dato che la stagione turistica dell’isola si è fermata a causa della pandemia Covid-19. 
[...]
Secondo le agenzie internazionali che si occupano di migrazioni, senza un’azione rapida da parte del governo spagnolo la situazione potrebbe precipitare e arrivare ai livelli delle isole greche. 

Christian Giacinto Elia

venerdì 13 novembre 2020

Libia - Uccisa a Bengasi l’attivista per i diritti umani Hanan al-Barassi: aveva denunciato corruzione e abuso di potere e difendeva i diritti delle donne

Green Me
Uccisa a colpi d’arma da fuoco mentre era sulla propria auto a Bengasi. E’ morta così Hanane Al-Barassi, avvocatessa e attivista dei diritti umani che si batteva per i diritti delle donne e contro la violenza. 
Hanane Al-Barassi, avvocatessa e attivista dei diritti umani

Un assassinio avvenuto all’indomani delle critiche che l’avvocatessa aveva fatto al figlio del generale Khalifa Haftar e al ministro dell’Interno. Nello specifico aveva denunciato “corruzione, abuso di potere e violazioni dei diritti umani in Libia”.

Quarantasei anni, Al-Barassi gestiva anche un’associazione locale di tutela per le donne. Il suo assassinio ha suscitato grande scalpore ed emozione nel paese.

“Hanane Al-Barassi è stata uccisa a colpi di arma da fuoco in Street 20, una delle principali vie dello shopping di Bengasi”, ha detto un testimone all’Afp, che ha chiesto l’anonimato: “Pochi minuti prima, lei stava trasmettendo un video in diretta su Facebook dove criticava aspramente i gruppi armati in Oriente. “La sua tragica morte è la prova delle minacce con cui devono fare i conti le donne libiche che osano parlare e ricorda ai libici che devono portare giustizia nel Paese e porre fine a un clima di impunità”, ha spiegato Amnesty International.

Hanan Al Barassi Hanan era soprannominata ‘Azouz barqua’ ovvero, la signora della Cirenaica. La sua battaglia per i diritti umani, soprattutto nella zona controllata da Haftar passava anche attraverso i social. Aveva denunciato la corruzione della macchina amministrativa di Tunisi, dato voce alle donne vittime di violenza in famiglia, arrivando a mettere in rete le loro denunce.

“Mentre i libici di tutto lo spettro politico si riuniscono a Tunisi, questa sfacciata uccisione sottolinea l’importanza di istituire un governo che sia responsabile nei confronti del popolo libico piuttosto che consentire alla corruzione e alla forza bruta di dettare il futuro della Libia”. Che ci sia allora un’ indagine delle autorità libiche su questo omicidio”, dice l’ambasciata americana in Libia.

La Libia è sprofondata nel caos dopo la caduta del regime di Muammar Gheddafi nel 2011, divisa tra il governo di accordo nazionale (GAN), stabilito in occidente, a Tripoli, e riconosciuto dalle Nazioni Unite (ONU ), e un potere incarnato da Khalifa Haftar. Dopo il fallimento dell’offensiva del maresciallo nell’aprile 2019 per conquistare la capitale, i combattimenti sono cessati nel giugno 2020. Un cessate il fuoco permanente è avvenuto ad ottobre. I rappresentanti libici di tutte le fasce hanno iniziato colloqui diretti in Tunisia, sotto gli auspici delle Nazioni Unite, per trovare una soluzione politica al conflitto.

giovedì 12 novembre 2020

Foto del giorno - Una tenda di plastica per poter "abbracciare" i propri cari colpiti dal COVID

Blog Diritti Umani - Human Rights

La 'stanza degli abbracci' per i pazienti #Covid-19 a Castelfranco Veneto. Attraverso una speciale tenda di plastica anti contagio, le persone ricoverate possono finalmente riabbracciare i loro cari.
Piero Cuciatti / AFP

Migranti, Open Arms: almeno 6 vittime in naufragio tra cui un bambino di 6 mesi. Soccorsi in 100 in acqua in Mediterraneo centrale

AnsaMed
Aggrappati ai galleggianti nel tentativo di salvarsi: il gommone sui cui stavano cercando di attraversare il Mediterraneo non ha retto, forse, il peso dei tanti che erano a bordo. In sei hanno perso la vita, inghiotti dalle onde, compresa una bimba di soli 6 mesi.

Il salvataggio in mare dei migranti - Open Arms - 10/11/2020

"Stiamo terminando il soccorso delle circa 100 persone che sono finite in acqua dopo che si è sfondato il fondo del gommone su cui si trovavano da un paio di giorni" dice in un video il presidente di Open Arms italia, Riccardo Gatti sottolineando che in questo momento la Ong sta operando "da sola. Possiamo contare solo sui nostri mezzi, che sono 2 lance rapide e sei soccorritori".

La Ong ha diffuso un video in cui si vedono decine di migranti in mare, la maggior parte attaccati a quel che resta del gommone su cui viaggiavano e con indosso il giubbotto di salvataggio. Altre sono invece appoggiati a due grandi galleggianti di salvataggio lanciati in acqua dai soccorritori mentre alcuni, più isolati, sono distanti qualche decina di metri dai resti dell'imbarcazione.

I volontari di Open Arms stanno operando con due Rhib, i gommoni di salvataggio utilizzati proprio per raggiungere più velocemente possibile le imbarcazioni dei migranti in difficoltà ed effettuare i soccorsi in mare.

Il numero delle vittime totali "ancora non lo sappiamo, stiamo andando avanti con i soccorsi" prosegue Gatti, che poi aggiunge: questo ennesimo naufragio "dimostra come sia necessaria prima di tutto un'operazione congiunta in mare da parte dei governi dell'Unione europea e l'apertura di corridoi umanitari".

Testimoni oculare dell'ennesima tragedia sono stati i volontari di Open Arms, l'unica nave umanitaria impegnata in questo momento nell'attività di ricerca e soccorso dei migranti che fuggono dalla Libia e che già nella giornata di ieri aveva soccorso altri 88 disperati. La segnalazione di un gommone in difficoltà è arrivata alla Ong spagnola in mattinata da parte di uno dei velivoli di Frontex. L'imbarcazione, dice la Guardia Costiera italiana, era in area Sar di responsabilità libica e la Ong è stata contattata in quanto "mezzo più utilmente impiegabile al momento".

Una volta raggiunto il punto indicato, però, i volontari si sono trovati di fronte una "complicatissima operazione di soccorso": il gommone, dice infatti Open Arms, con a bordo circa cento persone tra le quali alcuni bambini e donne incinte, "aveva ceduto e le persone erano già tutte in acqua, prive di salvagente e di dispositivi di sicurezza". Secondo la Guardia Costiera il cedimento è avvenuto durante le operazioni di soccorso.

Un altro soccorso in mare oggi per Open Arms. La ong informa di aver prestato soccorso a "un'altra imbarcazione con 65 persone a bordo". Open arms aveva stamani tratto in salvo i superstiti di un naufragio nel Mediterraneo. Tra le vittime, anche un bambino di sei mesi, e non una bimba come si era appreso in un primo momento, che si chiamava Joseph e veniva dalla Guinea.

martedì 10 novembre 2020

Riportati nel "porto sicuro" in Libia 119 migranti, sono donne e bambini. Sono 10.000 nel 2020 i migranti riportati nell'inferno libico.

AnsaMed
Tunisi - "La notte dell'8 novembre, 119 migranti, tra cui donne e bambini, sono stati intercettati e riportati in Libia dalla Guardia costiera". 


Lo scrive l'Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) in Libia su Twitter aggiungendo che "mentre il personale dell'Oim era al punto di sbarco per fornire assistenza di emergenza, ribadiamo che la Libia non può essere considerata un porto sicuro".

"Finora quest'anno oltre 10.000 uomini, donne e bambini che hanno tentato di fuggire dal Paese, sono stati rimpatriati andando incontro a detenzione, sfruttamento e abusi", ha twittato in riferimento a quest'ultimo episodio la portavoce di Iom-UN Migration Safa Msehli.

lunedì 9 novembre 2020

Amnesty International USA lancia un appello a Joe Biden perchè la difesa dei diritti umani sia una priorità negli Stati Uniti

Blog Diritti umani - Human Rights
A seguito delle notizie secondo cui Joe Biden diventerà il 46 ° presidente degli Stati Uniti d'America, il direttore esecutivo ad interim di Amnesty International USA, Bob Goodfellow, ha rilasciato la seguente dichiarazione: 
"In qualità di organizzazione dedita alla difesa dei diritti umani di tutti negli Stati Uniti e nel mondo, Amnesty International USA invita la nuova amministrazione Biden ad agire immediatamente per porre fine alle violazioni dei diritti umani perpetrate dal governo degli Stati Uniti, inclusa la detenzione e la separazione dei bambini e dei loro famiglie in cerca di sicurezza."

 “Sebbene l'attuale amministrazione abbia commesso numerose violazioni dei diritti umani, molte sono state prima di Donald Trump. Per iniziare a cambiare le sorti della lunga storia delle violazioni dei diritti umani degli Stati Uniti, il presidente eletto Biden e il Congresso devono dare la priorità a un'agenda audace sui diritti umani. Abbiamo sviluppato undici priorità fondamentali in materia di diritti umani e lavoreremo con i nostri membri per garantire che siano attuate e sostenute, comprese la violenza della polizia, la violenza armata, i rifugiati, il genere, la vendita di armi e la libertà di espressione."

"Da sessant'anni difendiamo la libertà da dittatori e prepotenti in tutto il mondo e non intendiamo fermarci adesso. Lavoreremo per creare slancio attorno a questi cambiamenti che chiediamo al governo degli Stati Uniti e riteneremo l'amministrazione Biden responsabile degli obblighi in materia di diritti umani degli Stati Uniti ".

ES 

domenica 8 novembre 2020

Covid nelle carceri, casi triplicati in 10 giorni. Positivi 448 detenuti e 547 agenti. Prevista e necessaria la detenzione domiciliare per i detenuti con meno di 18 mesi di pena residua

Il Messaggero
Il Covid corre anche nelle carceri. In dieci giorni è triplicato il numero dei detenuti positivi. Se al 28 ottobre erano 150, adesso sono 448. Ancora più alto il contagio tra i poliziotti penitenziari e il personale addetto: in 574 hanno contratto la malattia.


Una diffusione che avviene mentre le carceri continuano a essere piene oltre la loro capienza: sono 54.809 i ristretti a fronte di 50.533 posti disponibili. Per ora sono modesti gli effetti del dl Ristori, che proprio per alleggerire le carceri nell'ottica di rendere più facile limitare la diffusione del contagio, ha previsto la detenzione domiciliare per i detenuti ai quali resta da scontare una pena inferiore a 18 mesi (ma solo per reati meno gravi e con l'obbligo del braccialetto elettronico).

Hanno lasciato il carcere solo in 85. Troppo pochi come nota l'ufficio del Garante nazionale detenuti, che perciò invoca, come "assolutamente necessari", "interventi più decisivi", da introdurre in sede di conversione del decreto. I casi di positività nelle carceri sono concentrati in sei Istituti, oltre due hub lombardi che funzionano da strutture ricettivo- sanitarie per le zone limitrofe. Piccoli i numeri del contagio in altri 49 Istituti, nessuno nei rimanenti 135.

sabato 7 novembre 2020

Dov'è Akram Aylisli scrittore azero di 83 anni che ha denunciato le violenze sul popolo armeno nel Nagorno-Karabakh?

Corriere della Sera
Ora diteci dov’è Akram Aylisli. Coscienza (rinnegata) degli azeri
Lo scrittore, 83 anni, ha denunciato le violenze del suo popolo sugli armeni. Era atteso a ottobre a un evento internazionale, poi annullato e rinviato al 4 dicembre


Lo scrittore, 83 anni, ha denunciato le violenze del suo popolo sugli armeni. Era atteso a ottobre a un evento internazionale, poi annullato e rinviato al 4 dicembre.

Che fine ha fatto Akram Aylisli che sei anni fa fu candidato al Nobel per la pace come una sorta di "Sakharov dei Balcani"? Hanno provato in tanti, da quando un mese fa è riesplosa la sanguinosa guerra nel Nagorno-Karabakh, a cercare un contatto col grande scrittore azero accusato dai suoi compatrioti nazionalisti d'aver "tradito" l'Azerbaigian narrando la decimazione di un secolo fa degli armeni nel suo villaggio d'origine, Ajlis, in quella che oggi è la Repubblica autonoma di Naxcivan, l'exclave azera stretta tra l'Iran, l'Armenia e la Turchia.

Niente da fare. Vaghe rassicurazioni. Pare che... Forse... Probabilmente... L'ultima traccia, anzi, ha lasciato nuovi dubbi. Il 16 ottobre scorso infatti, dopo anni di silenzi, l'ottantatreenne e malandato autore di Sogni di pietra, pubblicato la prima volta in Occidente nel 2015 da Guerini, avrebbe dovuto partecipare, sia pure in remoto da Baku, la capitale azera dove vive come fosse in domicilio coatto, alla presentazione di Farewell, Aylis, Addio Aylis, la trilogia uscita due anni fa negli Stati Uniti.
[...]

Gian Antonio Stella

venerdì 6 novembre 2020

Migranti - Cadono le accuse per Open Arms. Non luogo a procedere. Per i giudici hanno "solo" salvato delle vite.

Il Dubbio
La decisione del Gup di Ragusa a due anni dallo sbarco a Pozzallo. Non luogo a procedere per Marc Reig Creus e Ana Isabel Montes Mier, rispettivamente comandante e capo missione della Open Arms, accusati di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e violenza privata. 


È quanto ha deciso il tribunale di Ragusa nell'udienza preliminare che si è svolta ieri, al termine della quale il giudice ha stabilito che il fatto non sussiste per il reato di violenza privata e che non punibile per stato di necessità per il reato di favoreggiamento. Insomma, impossibile processare l'Ong per aver messo in salvo persone la cui vita era a rischio.
"Ancora una volta - ha dichiarato Open Arms attraverso una nota - è stato dimostrato che il nostro agire è sempre stato dettato dal rispetto delle Convenzioni internazionali e dal diritto del mare, quello che ci muove è la difesa dei diritti umani e della vita, principi fondativi delle nostre Costituzioni democratiche". 
I fatti finiti al centro dell'indagine risalgono al 15 marzo 2018, quando il rimorchiatore della Ong soccorse al largo della Libia 218 persone, fatte sbarcare a Pozzallo dopo l'evacuazione urgente di una donna e di un neonato a Malta. Secondo l'accusa, Open Arms avrebbe impedito alla guardia costiera libica di terminare il soccorso, dopo che la stessa aveva assunto il coordinamento dell'operazione Sar.

Coordinamento che l'Ong rifiutò, in virtù dell'impossibilità di riconoscere la Libia come porto sicuro, così come confermato dalla comunità internazionale. Open Arms, dunque, per la procura aveva commesso reato per il "rifiuto di consegnare i profughi salvati a una motovedetta libica" e perché, "nonostante la vicinanza con l'isola di Malta, la nave proseguì la navigazione verso le coste italiane, come era sua prima intenzione".

Dopo lo sbarco a Pozzallo, la Procura distrettuale di Catania guidata da Carmelo Zuccaro aveva aperto un'inchiesta per violenza privata e associazione per delinquere finalizzata all'immigrazione clandestina. In quell'occasione la procura dispose anche il sequestro della nave perché, "l'obiettivo primario era salvare migranti e portarli in Italia, senza rispettare le norme, anzi violandole scientemente".

Per il gip non c'erano però elementi per ritenere contestabile il reato associativo, evidenziando però che "non poteva essere consentito alle Ong di creare autonomi corridoi umanitari al di fuori del controllo statuale e internazionale, forieri di situazioni critiche all'interno dei singoli paesi sotto il profilo dell'ordine e della sicurezza". Da qui l'ipotesi di accusa di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e di violenza privata e la trasmissione del fascicolo, per competenza, alla Procura di Ragusa, che aveva chiesto il loro rinvio a giudizio. Ma per il giudice Creus e Mier non sono colpevoli: hanno "solo" salvato delle vite.

Simona Musco

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giovedì 5 novembre 2020

Scontri etnici in Etiopia - 54 civili uccisi nella regione dell'Oromia. Sono donne , bambini, anziani di etnia Amhara

Blog Diritti Umani - Human Rights
Secondo Amnesty International, almeno 54 persone sono state uccise in un attacco dei ribelli nella regione dell'Oromia in Etiopia nel fine settimana, . 


I sopravvissuti al massacro hanno contato 54 corpi in un cortile della scuola nel villaggio di Gawa Qanqa, che è stato preso di mira domenica. Si sospetta che la strage sia stata effettuata da membri dell'Oromo Liberation Army (OLA). 

La maggior parte delle vittime erano donne, bambini e anziani, secondo i sopravvissuti che si erano nascosti nelle foreste vicine. 

È probabile che l'incidente aumenti la pressione sul primo ministro, Abiy Ahmed, vincitore del premio Nobel per la pace lo scorso anno, con richieste di migliorare la sicurezza in un paese alle prese con la violenza etnica. 

La violenza si è verificata in un'area dell'Etiopia occidentale nota come Wollega. Gli aggressori hanno preso di mira membri del gruppo etnico Amhara, il secondo più grande dell'Etiopia, e le vittime "sono state trascinate fuori dalle loro case e portate in una scuola, dove sono state uccise". 

Lunedì scorso, il governo regionale di Oromia ha detto che gli autori appartenevano all'OLA, un gruppo accusato di rapimenti e attentati dinamitardi nell'Etiopia occidentale e meridionale. Un sopravvissuto di Wollega ha detto che la violenza è esplosa dopo che le forze di sicurezza di stanza nell'area si sono improvvisamente e inspiegabilmente allontanante, consentendo ai combattenti dell'OLA di radunare i civili e di realizzare il massacro. 

ES

Fonte: The Guardian : At least 54 killed in Ethiopia massacre, says Amnesty