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domenica 30 aprile 2017

ONG/Migranti - Come nasce una fake news ...

Vita.it
Frontex, la Procura di Catania, la politica e la stampa. È questo il triangolo delle Bermuda in cui le organizzazioni non governative impegnate nel Mediterraneo sono finite. Proviamo a fare fact checking 



La notizia è nota e ormai su tutte le prime pagine da giorni. Ma com’è nata la vicenda delle ong che sarebbero colluse con i trafficanti di uomini? È il caso di ricapitolare come sia andata la vicenda sin dall’inizio.

Il primo tassello: Frontex
Il primo colpo arriva da Frontex. L’ex agenzia Ue delle frontiere esterne appena trasformata in una nuova Agenzia europea delle guardie di frontiera e costiera avrebbe scritto in alcuni rapporti interni che le Ong più attive nel soccorso ai migranti irregolari sarebbero colluse con gli scafisti sulle rotte migratorie dalla Libia all’Italia. A renderlo noto è il Financial Times già il 15 dicembre 2016. Si tratterebbe di rapporti interni e riservati. Frontex non commenta. Solo il 23 aprile 2017 però, cinque mesi dopo e a caso ormai esploso, si scopre che nel rapporto “Rysk Analysis 2017” sul fenomeno dell’immigrazione l’agenzia Frontex non usa mai l’espressione “taxi” o “taxi del mare”. Né sostiene che le organizzazioni non governative siano “in collusione con gli scafisti”.
A pagina 32 del rapporto, infatti, si legge piuttosto che le operazioni delle ONG potrebbero avere “unintended consequences”. Le stesse “conseguenze involontarie” che potrebbero avere le attività dell’EUNAVFOR MED, la task force istituita dal Consiglio europeo per salvare i naufraghi capitanata dall’ammiraglio italiano Enrico Credendino».

Dunque le fondamenta dell’inchiesta, la base su cui si poggia e si poggerà tutta la campagna diffamatoria nei confronti delle ong si rivela una bufala. Ma è ormai troppo tardi. La macchina è partita è fermartla è impossibile. Da qui cominciano ad entrare in scena tutti i co-protagonisti che, partendo da una premessa falsa costruiranno, tassello per tasselo, il castello accusatorio.

La procura di Catania e le indagini
Il procuratore Carmelo Zuccaronel febbraio 2017 annuncia di avere aperto una “indagine conoscitiva” sulle Ong che operano nel Canale di Sicilia sulla base di un rapporto di Frontex dove si ipotizza che le modalità operative delle navi umanitarie finiscono con il favorire i trafficanti. Dichiara, in un tour televisivo instancabile, di essere in possesso di “evidenze” su contatti diretti tra trafficanti ed esponenti di alcune ong e di dati che proverebbero ripetuti interventi all’interno delle acque territoriali libiche e di episodi in cui alcune navi spengono i trasponder (un segnale radar che segnala il tracciato delle navi e il loro punto nave). Addirittura il procuratore arriva a dichiarare alla stampa che non è esclusa l’ipotesi che alcune Ong siano “finanziate” dagli stessi trafficanti di esseri umani e che l’operazione delle Ong sarebbe volta a destabilizzare politicamente ed economicamente l’Italia.

Questo finché non appare per l'ennesima volta in tv, questa volta nella trasmissione Matrix del 26 aprile 2017. Qui in diretta nazionale con candore ammette non solo di non avere alcuna prova anche solo indiziaria, ma neanche di “materiale probatorio utilizzabile giudiziariamente”. 

Repubblica avanza, in un articolo l’ipotesi che si tratti di «segnalazioni dei servizi segreti e della stessa Frontex». Quello che risulta evidente è comunque che al momento non ci sono riscontri. La Procura di Catania si è messa comunque a verificare i bilanci di alcune Ong che denunciano donazioni private molto consistenti e spese di centinaia di migliaia di euro al mese per la gestione delle navi. 
Come se la gestione di una nave possa essere economica e, se gestita da un ente non profit, sostenuta da fondi diversi dalle donazioni. Altre due inchieste sono aperte a Palermo e Trapani e una indagine conoscitiva è in corso davanti alla Commissione Difesa del Senato. È di queste ore la notizia che il Csm prenderà in esame lka questione. «Dopo aver sentito i capi di corte e il presidente della prima commissione, Giuseppe Fanfani, sottoporrò il caso Zuccaro all'esame del comitato di presidenza alla prima seduta utile fissata per mercoledì 3 maggio», ha spiegato il vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini.

Di Maio e la battaglia politica
A fare propria la battaglia contro le Ong è il vice presidente della Camera Luigi Di Maio. A più riprese è lui a scaraventare la faccenda al centro dell’attenzione parlando di “taxi del mare” di ong spalla dei trafficanti. 

La teoria del politico a 5stelle si poggia sulle accuse di Frontex (che come abbiamo visto non esistono) e sulle prove del procuratore Carmelo Zuccaro (che come abbiamo visto non ci sono). È talmente vero che Di Maio col tempo deve correggere il tiro. E sempre più si avvicina alla posizione reale di Frontex: potrebbe essere che le navi delle ong costituiscano, loro malgrado, un acceleratore dei viaggi delle carrette del mare. 

Viene da pensare che si tratti di un mero calcolo politico. Come spiega bene Luca De Biase sul magazine Vita di aprile, i movimenti populisti sono maestri nel gestire l’informazione all’epoca del social media.

Intanto nelle ultime ore però a porvare a porre un freno alla polemica è intervenuto il ministro degli Interni Minniti che ha sottolineato: «Bisogna evitare generalizzazioni e giudizi affrettati, attenendosi a una rigorosa valutazioni degli atti». Tradotto: o si portano le prove o si tace.

La stampa e le prove presunte
L’ultimo tassello è il circo mediatico. Di Maio accende la miccia e la stampa italiana, in prima fila La Stampa di Torino, invece di verificare comincia a fare da gran cassa di risonanza. Anzi in alcuni casi, come quello del famoso video che proverebbe i loschi traffici fra Ong e scafisti, si esibisce in vere e proprie notizie inventate o gonfiate.

Rimane solo una domanda: a chi giova? Perché questo fuoco di fila contro le Ong e la politica di salvataggio nel Mediterraneo. È difficle pensare che un castello simile si sia creato da solo. Intanto in Francia sono giorni di elezioni e in Italia ci sono le primarie del Pd. Un caso? Forse. La certezza è che le fake news non sempre sono sciocchezze che appaiono sulla bacheca di Facebook.

Frontex e OIM: "Le Ong sono essenziali, hanno salvato 49.796 vite di migranti nel 2016"

Avvenire
L'Onu: ridefinire le regole. Frontex: i trafficanti sfruttano obblighi internazionali
Le istituzioni internazionali fanno quadrato in difesa delle Ong, dopo le accuse lanciate in questi giorni. Da Frontex all’Oim, in tanti riconoscono il ruolo cruciale svolto dalle imbarcazioni pronte a soccorrere profughi in mare aperto. 


In particolare, è l’Agenzia Ue per il controllo delle frontiere esterne ad aggiustare il tiro. Nello scorso mese di dicembre, infatti, in un report riservato aveva parlato di probabili collusioni delle Ong con i trafficanti del Mediterraneo. Ieri invece Frontex ha sottolineato che i trafficanti in Libia sfruttano gli obblighi internazionali di salvataggio. «È chiaro – ha spiegato la portavoce Izabella Cooper – che i trafficanti che operano in Libia stanno approfittando dell’obbligo internazionale di salvare vite in mare». 

Secondo Frontex, dal 2014 è cambiato il modo in cui i trafficanti libici conducono il loro 'sporco business'. Ma non è una novità. Perchè sono le stesse Ong a confermarlo. Prima le barche che trasportavano i migranti si spingevano fino a Lampedusa – ricordiamo i drammatici grandi naufragi di fronte all’isola siciliana – ora gli scafisti si limitano a spingere barche in legno fatiscenti e gommoni di pessima qualità fino al limite delle acque territoriali libiche. Proprio in quel punto avviene il maggior numero di salvataggi e si consumano purtroppo molte tragedie – alcune delle quali rimangono sconosciute. 

Anche il numero dei migranti imbarcati è cambiato. «Da circa 90 in media nel 2014 per imbarcazioni di 10 metri – aggiunge la portavoce di Frontex – nel 2016 e 2017 sono circa 170». Da inizio anno sono circa 36mila i migranti soccorsi e sbarcati in Italia, con un incremento del 43% circa rispetto a un anno fa.

Intanto anche l’Oim – l’Organizzazione internazionale per le migrazioni – getta acqua sul fuoco delle polemiche politiche legate ai soccorsi e alle attività svolte dalle Ong. In una nota diffusa ieri a Ginevra, il direttore generale per l’Europa, Eugenio Ambrosi, conferma di «non essere a conoscenza di casi comprovati di collusione» tra trafficanti e organizzazioni non governative. Secondo Ambrosi, è importante non «alimentare percezioni che mettono sullo stesso piano o confondono interessi criminali a scopo di lucro di chi mette in pericolo vite umane ed entità senza scopo di lucro che lavorano per salvare vite in mare». 

Ma, aggiunge, «non possiamo essere ingenui. Il fatto che navi di soccorso di Ong operino così vicino alle acque libiche può essere sfruttato dai trafficanti. Questo non costituisce una collusione deliberata, ma richiama l’attenzione sulla necessità di definire meglio il ruolo e le regole delle ong e le risorse dell’Ue per l’obiettivo principale di garantire che nessuno muoia in mare». 

Per l’Oim, inoltre «la presenza di navi nel Mediterraneo non costituisce un fattore di attrazione (pull factor) che incita la migrazione». Tale critica, afferma Federico Soda, capo dell’Ufficio di coordinamento per il Mediterraneo dell’Oim, ricorda le osservazioni fatte contro l’Operazione Mare Nostrum. «Ma nei fatti quando l’Operazione è stata portata a termine, senza essere sostituita da altre missioni di salvataggio – prosegue Soda – fu registrato un aumento delle partenze dei migranti dalla Libia e, purtroppo, anche un aumento delle morti in mare». L’Oim sottolinea anche che il lavoro di soccorso delle Ong è stato «essenziale per salvare vite umane». 
Nel solo 2016, su un totale di 181.436 migranti soccorsi e portati in sicurezza in Italia, 49.796 è avvenuto da Ong. 
Intanto non si spegne la polemica politica. Anche ieri il vicepresidente della Camera del M5s, Luigi Di Maio, è tornato nuovamente ad attaccare le Ong, i «taxi del Mediterraneo», in un botta e risposta con lo scrittore Roberto Saviano. Mentre Matteo Salvini ha ribadito, prendendosela anche con i grillini, «arrivati con due anni di ritardo», che «le Ong non salvano vite umane ma fanno soldi». 

Ma c’è anche chi si indigna per gli attacchi sferrati alle organizzazioni non governative. E dopo gli interventi dei giorni scorsi del Capo dello Stato, del presidente del Consiglio e del ministro della Giustizia, ieri è stata la volta del viceministro degli Esteri Mario Giro, che è sceso in campo per zittire gli attacchi. «Basta ipocrisie strumentali sulle Ong – ha detto –Si tratta di attacchi frutto di ignoranza».

Vivere nel reparto per disabili in un orfanotrofio in Serbia

TPI
A Banja Koviljaca, in una zona rurale al confine con la Bosnia-Erzegovina, più di 120 orfani vivono in una struttura priva di operatori preparati e risorse sufficienti



La sala comune del reparto disabili dell'orfanotrofio di Banja Koviljaca, in Serbia, è una stanza troppo piccola per il numero dei suoi ospiti, spoglia e scarsamente arredata. Somiglia più a una sala d'aspetto di un ospedale che a una sala comune per bambini. Tre di loro siedono sul pavimento appoggiando la schiena al muro: fanno parte di coloro che non hanno mai imparato a camminare. Guardano spaesati i movimenti intorno a loro senza la possibilità di muoversi.

Tutti i bambini presentano indizi di scarsa pulizia: bocche incrostate di saliva mai pulita, macchie sui pigiami colorati, capelli incolti. Spesso sotto i vestiti si intravede una benda, segno di medicazioni per ferite causate dalla negligenza degli operatori, costretti a far fronte alle scarse risorse che il governo mette loro a disposizione.

Al centro della stanza un'unica sedia a rotelle è occupata da una bambina con sindrome di down, la cui postura innaturale conferma la mancata assistenza fisioterapica.

La storia dell'orfanotrofio “Vera Blagojevic”
La località termale di Banja Koviljaca è una zona rurale al confine con la Bosnia-Erzegovina. Qui la grande tragedia della guerra protrattasi fino al 1995 ha lasciato profonde cicatrici in una comunità di frontiera. L'economia della zona era basata sulla grande fabbrica di viscosa poco distante dal piccolo centro abitato, che ha chiuso con la crisi alla fine della guerra. Era venuto a mancare il lavoro che sosteneva la zona, creando disoccupazione e un esodo verso zone più industrializzate.

Di conseguenza, come spesso accade, le colpe dei padri ricadono sui figli. L'orfanatrofio di Banja Koviljaca, intitolato a Vera Blagojevic, è diventata l'unica casa per centinaia di bambini che la crisi ha trasformato negli orfani del nostro tempo. Il riflesso della povertà incombe sulle vite di bambini e bambine che, nella maggior parte dei casi, sono allontanati dalle famiglie stesse che non sono in grado di mantenerli.

Intorno agli anni Duemila la Dom za Decu, “la Casa dei Bambini” di Banja Koviljaca, è diventata un rifugio per più di 120 orfani. Ma è un luogo inadatto a custodire e a educare i suoi ospiti a causa dei pochi supporti finanziari e al rapporto troppo alto tra bambini ed educatori – circa 2 a 100 per turno.

Intanto, a seguito di uno scandalo sulla condizione di sovraffollamento delle strutture adibite all'accoglienza dei disabili e sulle condizioni di segregazione e violenza fisico-psicologica che questi erano costretti a subire, il governo serbo ha cambiato le sue politiche di assistenza nei confronti dei disabili.

Le maxi-strutture assistenziali sono state chiuse e molti bambini sono stati ricollocati sul territorio nazionale. Mentre città come Belgrado e Novi Sad beneficiano di un maggiore controllo e finanziamenti più ingenti, le vaste zone rurali del paese non offrono gli stessi servizi e il livello di assistenza nelle strutture è drammaticamente basso.

Dopo questi improvvisi cambiamenti, i primi disabili sono arrivati all'orfanatrofio di Banja Koviljaca nel biennio 2012-2013. Questa distribuzione improvvisa ha causato un inevitabile colpo alla struttura, che, nonostante la graduale fuoriuscita dei suoi ospiti, si è trovata a gestire casi ai quali i suoi educatori non erano preparati.

Per far fronte a questa emergenza sono state fornite alle operatrici tempestive ma inadeguate ore di formazione e alcune cuoche della mensa sono state promosse educatrici senza alcun titolo. Tutto ciò per sopperire alla mancanza di personale per la gestione degli ospiti disabili che nel tempo sono aumentati sempre di più.

Durante i primi anni di permanenza la mancanza di supporti deambulatori ha costretto numerosi ospiti a una condizione di immobilità forzata nei propri letti, causando la perdita della facoltà di camminare unita a malformazioni posturali portate dall'immobilità permanente.

Quella che è la mancanza più dannosa per lo sviluppo socio-comportamentale è l'assenza totale di stimoli creativi come disegnare, giocare e sfogarsi. La vita dei bambini si svolge senza la possibilità di poter studiare e ricevere stimoli che un'istruzione dedicata garantirebbe. Per diversi ragazzi affetti da sindrome di down la mancata alfabetizzazione ha portato alla perdita della facoltà di parlare.


di Nicola Fornaciari e Gabriele Gatti

sabato 29 aprile 2017

Siria - Raid senza umanità: bombe sull'ospedale ostetrico di Idlib

Globalist
È il dodicesimo attacco contro strutture sanitarie nel solo mese di aprile secondo Save the Children.
Ancora bombe su presidi sanitari in Siria. Un ospedale ostetrico supportato da Save the Children a Idlib è stato danneggiato la scorsa notte dopo che almeno due attacchi aerei hanno colpito un’area nelle immediate vicinanze della struttura.


Gli attacchi. Dalle prime informazioni raccolte dal partner locale di Save the Children emerge che due attacchi aerei hanno colpito l’area vicina all'ospedale alle ore 2 locali, provocando danni alla struttura. I pazienti e il personale sono stati evacuati in un seminterrato e al momento non vi sono segnalazioni di vittime.

I medici hanno raccontato che le finestre si sono frantumate e che un laboratorio dell’ospedale è stato gravemente danneggiato. Una unità incubatrice per i bambini prematuri è sfuggita all’esplosione essendo stata spostata nei sotterranei in seguito all’attacco di luglio.

Dell’ospedale supportato da Save the Children beneficiano 2.100 donne e bambini e in questa struttura si effettuano circa 550 parti ogni mese. L'ospedale è dotato di 8 incubatrici per i neonati prematuri e di una clinica ambulatoriale che supporta le donne in gravidanza e fornisce assistenza postnatale. L'ospedale più vicino che fornisce servizi simili si trova a circa 70 chilometri di distanza.

Personale e pazienti. "Lo staff dell’ospedale è stato in grado di evacuare il personale e i pazienti nei locali sotterranei e nel corso dell’incidente non si segnalano vittime. Tuttavia è inaccettabile bombardare donne e bambini in un luogo sicuro quale dovrebbe essere un ospedale. Per di più non si tratta di un attacco isolato. Sono infatti già ben 12 le strutture sanitarie colpite in Siria solo in questo mese. Gli operatori umanitari sul campo riferiscono che solo nelle ultime 72 ore ci sono stati 9 attacchi su ospedali e cliniche. Mentre il mondo guarda dall’altra parte, il conflitto in Siria va ancora una volta verso una spirale di violenza senza controllo”, ha dichiarato Sonia Khush, Direttore di Save the Children in Siria.

L’incidente rappresenta il dodicesimo attacco contro strutture sanitarie nel solo mese di aprile, secondo Save the Children, l’Organizzazione internazionale dedicata dal 1919 a salvare la vita dei bambini in pericolo e a promuovere i loro diritti. Lo scorso luglio un simile attacco ha provocato due morti e il ferimento di molte persone, tra cui anche bambini.

Altri due attacchi ieri. Aerei probabilmente russi o siriani hanno bombardato due ospedali della provincia di Idlib il 27 aprile. Il primo attacco contro l'ospedale di Deir al-Sharqi ha causato la morte di tre medici e il ferimento di altre persone. Il secondo ospedale colpito si trova nel villaggio di Maar Zita. In questo secondo episodio le vittime sono state almeno cinque.

L'ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli Affari Umanitari ha denunciato che questi bombardamenti stanno privando la popolazione locale dei servizi basilari di assistenza.

Il Papa in Egitto, una sfida di pace a chi vuole lo scontro globale - di Andrea Riccardi

Huffington Post
Andrea Riccardi
Papa Francesco, il 28 e il 29 aprile, sarà in Egitto: un viaggio difficile anche per questioni di sicurezza (non ha voluto essere protetto negli spostamenti in modo più forte del solito). È un viaggio dall'intensa carica simbolica. Francesco varca la frontiera mediterranea tra Nord europeo e Sud arabo-islamico. 


Va nel più importante paese arabo: nella sconfinata megalopoli del Cairo, dove – tra l'altro - convergono tante rotte di migranti dai Sud del mondo. Qui la sfida è il rapporto tra islam e violenza. Fin dall'inizio del pontificato, il Papa mi disse che il dialogo interreligioso doveva affrontare presto il delicato binomio: violenza e religioni.

Il Papa argentino viene da un paese dalla forte capacità assimilativa, dove c'è una cospicua comunità di musulmani (circa 500.000). Non ha sentito nella sua vita la pressione dell'Islam, com'è avvertita in Europa dai movimenti populisti o dai paesi dell'Est, preoccupati dell'identità "cristiana" per l'"invasione" musulmana. Mette in primo piano il dramma umano dei migranti, rispetto alla difesa dell'Europa cristiana. Eppure è consapevole che vivere con l'Islam è una questione decisiva per i cristiani e il mondo di oggi.

Già nella Repubblica centroafricana, nel 2015, aveva fatto un passo di pace visitando la moschea della capitale, nonostante le gravi tensioni interreligiose. Soprattutto, Bergoglio non ha mai accettato di considerare la religione musulmana come portata alla violenza dalle sue stesse radici: non c'è guerra per la religione, ma per altri motivi. Questa visione ha provocato varie critiche in ambienti cattolici e tra alcuni islamologi. Del resto è stata la posizione di Giovanni Paolo II. Negarla porterebbe a legittimare lo scontro tra l'Occidente (cristiano) e l'Islam. È quanto i terroristi e i radicali vogliono.

Francesco, al Cairo, andrà nella storica Università di Al Azhar, accolto dal grande imam Al Tayyb. È la personalità più autorevole nell'Islam sunnita, anche se non esiste una gerarchia: una figura particolare per il prestigio che ha ridato alla millenaria Università, ma anche per la sua posizione. 

Un solo esempio: durante la visita del papa, si svolgerà ad Al Azhar un convegno di religioni per la pace, cui partecipano cristiani, ebrei ed esponenti delle religioni asiatiche. Tayyb è stato presente a vari incontri nello spirito di Assisi e, soprattutto, è promotore del dialogo tra Oriente e Occidente con la Comunità di Sant'Egidio. Riceverà il Papa nel quadro del convegno interreligioso, cui partecipa il patriarca Bartolomeo. La scelta mostra la sua apertura.

L'altro aspetto del viaggio è il sostegno ai copti. Il Papa ha dedicato recentemente la Messa per la festa di San Marco al Patriarca copto Tawadros. A Roma il Papa e il Patriarca hanno avuto un dialogo intenso sulla condizione del cristianesimo copto. Francesco sa che è una Chiesa di martiri. Sabato scorso, durante la visita al santuario romano dei nuovi martiri, a San Bartolomeo, il Papa è apparso concentrato sul martirio con toni anche drammatici, come ha scritto Piero Schiavazzi.

I copti, la più grande comunità chiesa tra gli arabi, affrontano la violenza terrorista, come nei recenti attentati la Domenica delle Palme: indifesi e non violenti, ma forti, come tanti cristiani in questa stagione di nuove persecuzioni. 

Francesco, accolto dal presidente Al Sisi, non fa una visita politica. Il suo sguardo va oltre, consapevole della drammaticità dello scontro globale. Il vasto e tumultuoso Egitto potrà rappresentare il laboratorio di un'amicizia pacifica tra le religioni nel ripudio della violenza e nel sostegno mutuo. A questo passo, portano il loro autorevole apporto il Papa di Roma, il grande Imam di Al Azhar, il Patriarca copto e quello di Costantinopoli. Così il viaggio di Bergoglio è un messaggio, ben oltre l'Egitto.

Pakistan - Asia Bibi, tempi lunghi per un’udienza. Condannata a morte per blasfemia nel 2010

Vatican Insider
La Corte Suprema respinge l’istanza per accelerare il processo. Studioso musulmano: «La legge sulla blasfemia è contro gli insegnamenti dell’islam»



La Corte Suprema del Pakistan ha respinto la richiesta di un’udienza anticipata per il processo di Asia Bibi, la donna condannata a morte per blasfemia nel 2010 e giunta al terzo e ultimo grado di giudizio. 


Come conferma a Vatican Insider l’avvocato Saiful Malook, due settimane fa la difesa aveva presentato alla Corte un’istanza chiedendo di esaminare il caso nella prima settimana di giugno. La domanda era sostanzialmente motivata da motivi umanitari, dato il lungo periodo di detenzione della donna (otto anni), le sue condizioni di salute, la convinzione della sua innocenza. Il tribunale l’ha rigettata. 

L’avvocato Malook resta fiducioso sulla possibilità di dimostrare l’innocenza di Asia e di ottenere l’assoluzione, ma in primis, rimarca «è necessario che la Corte fissi l’udienza e ci ascolti».

L’ultima volta che il caso della donna cristiana era stato ufficialmente calendarizzato e discusso dal Supremo tribunale era il 13 ottobre 2016, quando uno dei tre magistrati designati si ritirò dal collegio giudicante per una sorta di «conflitto di interessi», avendo già in passato giudicato nel caso di Mumtaz Qadri, assassino del governatore del Punjab Salman Taseer. Questi si era esposto personalmente per proclamare l’innocenza di Asia. I due casi, secondo il magistrato, sono collegati e da qui le sue dimissioni, che però decretarono un rinvio a data da destinarsi.

Non sono per nulla certi, ora, i tempi di una nuova udienza. Secondo alcune fonti interne al tribunale, se non vi sarà un esplicito anticipo del caso, potrebbero passare anche alcuni anni, data la pletora di casi e la rigida cronologia osservata. Per questo la difesa dovrà comunque insistere per ottenere un’udienza anticipata per Asia Bibi, e così sembra si farà: «Esprimiamo grande disappunto perchè oggi la Corte ha respinto la nostra istanza, ma non ci scoraggiamo. Ci organizzeremo per presentarne una nuova», dice a Vatican Insider Joseph Nadeem, tutore della famiglia della donna.

Tecnicamente, lo «stato dell’arte» è fermo al 22 luglio del 2015, quando la Corte Suprema ha sospeso la condanna a morte del verdetto emanato nel 2014 dalla Corte di Appello di Lahore, ammettendo il caso all’esame del terzo grado di giudizio. L’atmosfera generale che attualmente si vive in Pakistan potrebbe essere sfavorevole ad un rapida soluzione della vicenda di Asia Bibi, in quanto è tornato a infiammare l’opinione pubblica e a occupare le prime pagine dei giornali il dibattito sulla famigerata legge di blasfemia, usata per condannare Asia Bibi.

Ha destato scandalo, infatti, l’omicidio di uno studente universitario musulmano, Mashal Khan, giustiziato da suoi colleghi con l’accusa di presunta “blasfemia digitale”, per alcuni post sul social network Facebook. Negli ultimi giorni diverse testimonianze hanno rivelato che l’accusa era del tutto pretestuosa e che esecuzione è stata una vendetta in piena regola, ordita da alcuni leader dell’università che Khan aveva accusato di corruzione. Per colpirlo, costoro hanno usato la legge di blasfemia.

L’indignazione è salita alle stelle. Intervistato dalla Tv privata pakistana Dunya News, Javed Ahmed Ghamidi, noto studioso musulmano, costretto all’esilio, ha dichiarato: «L’intera nazione è responsabile della morte di Mashal». Ghamidi non risparmia i capi religiosi musulmani: «I leader religiosi non insegnano alla gente a comportarsi secondo l’Islam. Tocca agli ulema dire alle persone che le loro azioni, diffondendo l’odio e la violenza, sono contrarie agli insegnamenti del Profeta e di Allah. Nessuno dovrebbe essere autorizzato a farsi giustizia da solo. Lo Stato dovrebbe intervenire immediatamente». Sulla legge di blasfemia, Ghamidi è molto chiaro: «La legge sulla blasfema è contro il Corano, contro gli hadith (i racconti sulla vita del profeta, ndr). Allah non ha mai rivelato questa legge. Questa legge è un tradimento e un insulto anche per l’islam».

Il punto è – spiega l’intellettuale musulmano – che «lo Stato ha paura degli ulema e della reazione emotiva delle masse. È tempo che i leader religiosi e i politici affrontino insieme questo problema. Bisognerebbe insegnare con chiarezza alla gente che la legge di blasfemia è contro gli insegnamenti del Profeta, e che non è il vero messaggio dell’islam».

Interpellato da Vatican Insider, l’avvocato cristiano pakistano Mushtaq Gill, impegnato ad assistere legalmente i fedeli pakistani, in casi di blasfemia e altre violenze, spiega: «In molti casi la violenza di massa è istigata da capi religiosi musulmani. E molti musulmani alimentano la violenza in nome dell’islam sui social media in Pakistan. Ma lo Stato non li controlla e li lascia agire indisturbati. Il circolo dell’odio continua e i frutti sono esecuzioni extragiudiziali come quella Mashal Khan».


Paolo Affatato

venerdì 28 aprile 2017

Il bambino dello Yemen senza la scuola: distrutta dalle bombe italiane

Globalist
I sopravvissuti alla fame e alla guerra seguono le lezioni nelle tende dell'Unicef.
Armi. Tradizione italiana. Ma quest'anno c'è stato un vero e proprio boom.
Nel 2016 le esportazioni italiane di armamenti hanno raggiunto 14,6 miliardi di euro, con un aumento dell'85,7% rispett0 ai 7,9 miliardi del 2015.


Il bambino nella scuola di Sa'ada distrutta dalle bombe
Tra le aziende esportatrici è moltiplicato il volume d'affati della Rheinmetall che ha faturato circa 500 milioni di export.
Si tratta della società finita nell'occhio del ciclone per la produzione in Sardegna delle bombe utilizzate poi dall'Arabia Saudita per i bombardamenti in Yemen contro i ribelli Houthi sciiti alleati dell'Iran.
Bombe che uccidono, devastano. Come quella che ha distrutto la scuola di Sa'ada. Chi è stato fortunarto a non morire nei raid o di fame ora non ha più una classe ma seguel le lezioni da deltro le tende dell'Unicef. Almeno fino ai prossimi bombardamenti...

Africa/Zambia - I Vescovi criticano il brutale arresto di Hakainde Hichilema il principale leader dell’opposizione

Agenzia Fides
Lusaka - “Non si usi la polizia per regolamenti di conti politici”. È l’ammonimento lanciato dalla Conferenza Episcopale dello Zambia (Zambia Conference of Catholic Bishops -ZCCB) dopo il brutale arresto del leader dell’opposizione, Hakainde Hichilema, accusato di tradimento, perché avrebbe bloccato il corteo di auto del Presidente Edgar Lungu.


L’11 aprile la polizia ha arrestato Hichilema con un raid notturno sulla sua abitazione, sfondando la porta e tirando granate lacrimogene.
I Vescovi hanno biasimato la violenza sproporzionata e inutile con la quale è stato condotto l’arresto di Hichilema. “Non poteva esserci un modo più civile per convocarlo al commissariato per notificargli i capi d’accusa?” afferma la dichiarazione della ZCCB, firmata dal suo Presidente, Sua Ecc. Mons. Telesphore George Mpundu, Arcivescovo di Lusaka. 

Hichilema, leader dell’United Party for National Development (UPND) è stato sconfitto con un ristretto margine dal Presidente Lungu nelle elezioni presidenziali dell’11 agosto 2016 caratterizzate da tensioni prima e durante il loro svolgimento. 

I Vescovi in più occasioni avevano denunciato il clima di violenza politica diffuso nel Paese. Il brutale arresto del principale leader dell’’opposizione, secondo la dichiarazione di Mons. Mpundu, non fa altro che rinfocolare le tensioni tra i sostenitori del partito del Presidente Lungu e quelli dell’UPND. 

“Condanniamo la cattiva abitudine in base alla quale i partiti una volta assunto il potere usano subito i servizi di polizia per regolare i conti politici e per impedire ai loro rivali di organizzarsi per condurre la loro campagna politica, imponendo la propria visione al Paese”.
“È sempre la stessa storia da un’amministrazione all’altra e questa non fa eccezione” rimarca la dichiarazione che conclude criticando il sistema giudiziario per “lasciare che il Paese sprofondi non opponendosi alle manipolazioni politiche e alla corruzione”. (L.M.) 

USA - Arkansas - Pena di morte - L'inesorabile macchina di morte ha eseguito Kenneth Williams il quarto dal 20 aprile

Blog Diritti Umani - Human Rights
Lo stato dell'Arkansas ha eseguito il suo quarto detenuto in otto giorni, somministrando una iniezione letale. Kenneth Williams, 38 anni, è stato dichiarato morto alle 11:05 ora locale presso la prigione della Cummins Unit dello stato.



Kenneth Williams
L'Arkansas lo stato, che non aveva avuto esecuzioni da 12 anni fino a questo mese ha già messo a morte altri tre detenuti dal 20 aprile.

Arkansas aveva inizialmente pianificato l'esecuzione di otto detenuti in 11 giorni ad aprile, il numero maggiore di esecuzioni in un periodo così breve negli USA.

Questo programma senza precedenti è stato impostato dal governatore repubblicano Asa Hutchinson perché un farmaco nel mix per esecuzione, il Midazolam sedativo, scadeva alla fine di aprile.

"Io non sono la persona che ero ma sono stata trasformata da quando ho dato la mia vita a Cristo ", ha detto Williams nella sua ultima dichiarazione. "Non posso annullare la mia colpa ... cerco solo il suo perdono".


Fonte: Reuters

giovedì 27 aprile 2017

Somalia. La fuga di Zeinab, venduta a un uomo per salvare le sorelle dalla siccità

Corriere della Sera
Tra gli arbusti bruciati dal sole, con i raccolti perduti, gli animali morti e i pozzi vuoti, Abdir Hussein non vedeva nessun'altra possibilità per salvare la sua famiglia dalla fame che "vendere" la figlia Zeinab, 14enne. 


Un uomo del villaggio l'aveva chiesta in sposa offrendo in dote mille dollari. Il necessario per intraprendere il viaggio che avrebbe permesso di sopravvivere a lei e alle altre figlie, con nipoti e nipotini al seguito. Destinazione Dolow, cittadina somala al confine con l'Etiopia dove le agenzie umanitarie distribuiscono cibo e acqua agli sfollati in fuga dalla terribile siccità che sta colpendo il Paese dove oltre la metà dei 12 milioni abitanti necessita di aiuti per non soccombere, stima l'Onu.
Il "baratto" - All'inizio la ragazzina aveva opposto resistenza: "Preferisco correre nella foresta ed essere divorata dai leoni", la sua reazione. "Allora staremo qui a morire di fame e gli animali mangeranno anche le nostre ossa", la replica della madre, riferisce la Reuters. Barattare la libertà di Zeinab per la vita delle sorelle è stata una "decisione difficile, ho messo fine ai sogni della mia bambina ma senza quei soldi saremmo tutti morti".
C'è chi nella grande fuga lascia indietro bambini che non camminano o mariti invalidi. "Scelte come queste stanno diventando frequenti in un Paese dove non piove praticamente da due anni e la presenza dei miliziani Shebab complica i movimenti di soccorritori e degli stessi abitanti", raccontano al Corriere gli operatori di Coopi - Cooperazione italiana - , presenti dal 1984 in Somalia con programmi di distribuzione di voucher per alimenti, protezione dei rifugiati e iniziative di sostentamento agli animali. È proprio grazie all'iniziativa di questa ong italiana se la vicenda di Zeinab ha avuto un lieto fine.
Tra gli Shebab - Perché la ragazzina, a soli tre giorni dalle nozze, è riuscita a scappare e a raggiungere i suoi familiari che un po' a piedi un po' in sella a degli asini (affittati) avevano percorso i cinquanta chilometri che separano il luogo della salvezza, Dolow, dal loro villaggio vicino a Malmaley, sempre nella regione di Ghedo. 

Un viaggio non facile: per arrivarci occorre passare da zone controllate dai miliziani Shebab che estorcono "pedaggi" ai passanti, sequestrano ragazzini da arruolare come combattenti, bloccano gli uomini. Zeinab assicura di essere stata "trattata bene", altro non vuole dire, ha troppa paura di ritorsioni dopo che il suo volto è circolato sui media locali.
Passata indenne dalle zone controllate dagli estremisti, Zeinab si è trovata il marito alle calcagna. L'aveva inseguita. Minacciava la madre: "O mi ridate la dote o mi riprendo la ragazza con la forza". Non avrebbero potuto restituire neanche un centesimo del dovuto.
Non esistono programmi ad hoc per rimediare a queste situazioni, diventate più frequenti dopo la carestia. È a questo punto che entra in scena Coopi. "Dobbiamo fare qualcosa sennò ogni notte ci sarà uno stupro", disse Deka Warsame, coordinatrice regionale di Coopi, arrivata sul posto per la visita dei donatori Ue dell'Echo. 

Ed è partita una raccolta fondi. Così l'uomo è stato "risarcito" e Zeinab ora è una ragazza libera. Con un progetto: "Voglio studiare e diventare un'insegnante di inglese".

di Alessandra Muglia

Venezuela, massacro nel carcere di Puente Ayala: 12 detenuti morti

Globalist
Nel carcere sono stati rinchiusi 17 degli arrestati durante le proteste antigovernative


Almeno 12 persone sono morte e altre 11 sono rimaste feriti durante violenti scontri nella prigione di Puente Ayala, a Barcelona, nello stato di Anzoategui, nordovest del Venezuela. La notizia diffusa da deputati dell'opposizione - nel carcere sono stati rinchiusi 17 degli arrestati durante le proteste antigovernative - è stata confermata dalla ministra per i Servizi Penitenziari, Iris Varela.

Secondo Varela "nove detenuti sono morti per ferite di arma da fuoco, due per overdose di droga e uno per aver subito contusioni". La ministra ha detto che gli scontri sono scoppiati perché "c'è un gruppo di detenuti che non è d'accordo con il nuovo programma di studio, lavoro e disciplina che vogliamo attuare nella prigione".

Varela ha sottolineato che nelle carceri venezuelane "non comandano i gruppetti ne' le mafie, comanda lo Stato". Secondo il deputato oppositore Armando Armas invece, i morti a Puente Ayala sono stati 13 e gli scontri sono nati "da una disputa sui traffici illegali da parte di due 'pranes', i capomafia che controllano il posto".

Migranti: rapporto Oim, 93% va in Libia per fuggire povertà

AnsaMed
Da Niger i più numerosi (33%). 16% punta a Italia, 5% Germania
Il 93% dei migranti che si trovava negli ultimi mesi in Libia ha detto di aver lasciato il paese di origine per fuggire la povertà e l'assenza di opportunità per migliori condizioni di vita, mentre il 5% lo ha fatto per scappare da guerre, conflitti e condizioni di insicurezza e l'1% per la mancanza di servizi primari in patria. 


Lo riporta l'Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni) nel suo ultimo rapporto 'Dtm Libya Migrant Report', sulla base di 1314 interviste sul campo compiute tra dicembre e marzo scorsi.
I dati sono emersi dal Displacement Tracking Matrix, sistema usato dall'Oim - e cofinaziato da Ue e UK Department for International Development (Dfid) - per monitorare i movimenti della popolazione presente in Libia, e sono stati raccolti in con interviste 'random' in nove diverse regioni del Paese.
Il 68% dei migranti intervistati ha riferito che era disoccupato nel Paese di origine. Per quanto riguarda il restante 32%, nel 70% dei casi i principali settori di impiego erano agricoltura, pastorizia, pesca e industria alimentare, nel 9% i settori di costruzioni, fornitura di acqua, energia.

Il 64% dei migranti ha dichiarato che la Libia era il Paese di destinazione, mentre il 16% guardava all'Italia, l'8% alla Francia e il 5% alla Germania. In particolare, il 42% dei nigeriani puntava all'Italia come prima destinazione.

La scelta delle destinazioni era soprattutto legata alle condizioni socio-economiche del Paese di arrivo (83%), mentre l'11% ha scelto in base alle condizioni di accesso all'asilo, ed il 4% per i parenti presenti nei Paesi di destinazione.

Secondo l'indagine, il 53% di chi sceglie l'Italia come destinazione lo fa per motivi economici, il 40% per chiedere asilo, un dato quest'ultimo cresciuto rispetto al 22% del 2016.

Solo il 18% degli intervistati ha preso in considerazione l'idea di tornare nel proprio Paese di origine.

La nazionalità principale tra i migranti intervistati è il Niger con il 33% di persone, seguita dall'Egitto con il 19%, e da Sudan, Mali, Nigeria, Ciad.

La maggioranza dei migranti intervistati era di sesso maschile (98%) e di età compresa tra i 20 e i 29 anni (62%). Il 52% erano single, e nel 76% dei casi avevano completato un percorso di studi: il 25% una scuola coranica, il 22% la scuola primaria, il 12% quella secondaria, il 17% un corso professionale, l'1% un'istruzione superiore.

Per quanto riguarda i viaggi, il 70% degli intervistati ha dichiarato di essere partito da un Paese al confine con la Libia. Nel 90% dei casi il viaggio è stato compiuto in maniera non 'ufficiale' e il 96% degli intervistati ha riferito di essere entrato il Libia via terra. Per il 67.4% il costo per raggiungere la Libia è stato di meno di mille dollari a persona, mentre il 31.7% ha riferito di un costo tra i 1000 e i 5 mila dollari. Cifre che, secondo lo studio, potrebbero coprire il trasporto dei trafficanti, i checkpoint, cibo e alloggio.

Per quanto riguarda la stima dei migranti ora in Libia, tra gennaio e febbraio 2017 l'OIM ha rilevato la presenza di 381,463 migranti sul territorio del Paese, di cui 7,197 in stato di detenzione. Le principali regioni in cui si concentrano quelle di sono Misurata, Tripoli e Sebha. Di questi, il 96% sono adulti, dei quali l'87% uomini e il 13% donne. I minori sono il 4%, il 38% dei quali (uno su tre) non è accompagnato. Sono 38 infine le nazionalità, fra le quali la maggioritaria è egiziana (18%). Seguono migranti del Niger con il 17%, mentre al terzo posto si collocano quelli del Ciad, l'11%.

mercoledì 26 aprile 2017

Turchia: maxi-blitz contro presunta rete Gulen, oltre 1000 nuovi arresti in 72 province

AnsaMed
Operazioni simultanee in 72 province condotte da 8.500 agenti
Istanbul - Nuova maxi-operazione in Turchia contro la presunta rete golpista di Fethullah Gulen. Una serie di retate condotte simultaneamente in 72 province, con la partecipazione di 8.500 agenti, ha portato all'arresto di oltre mille sospetti affiliati alla struttura considerata eversiva. 



Lo ha annunciato il ministro degli Interni, Suleyman Soylu. A finire in manette, ha spiegato, sono stati 1.009 sospetti 'imam', cioè figure di coordinamento dell'organizzazione.
I sospetti arrestati "si erano infiltrati nella polizia" e "hanno cercato di guidarla dall'esterno formando una struttura alternativa", ha sostenuto il ministro Soylu, secondo cui l'operazione di oggi rappresenta un "passo importante" nello "smantellamento" della presunta rete eversiva di Gulen.
Dal fallito colpo di stato del 15 luglio scorso, sono oltre 47 mila le persone arrestate in Turchia per presunti legami con i 'gulenisti'. Tra questi, ci sono almeno 10.700 poliziotti e 7.400 militari.

Migranti - Mario Giro: “Basta prendersela con le Ong che salvano vite”

Radio Popolare
È un’offensiva senza precedenti quella che si è scatenata contro le Ong, le organizzazioni non governative che con le loro navi salvano centinaia di vite nel Mediterraneo.


La Lega Nord, con Matteo Salvini, ha minacciato di “denunciare il governo italiano” per aver soccorso migliaia di persone al largo della Libia, chiedendo un’indagine parlamentare sulle Ong. Anche il leader dei Cinque stelle Beppe Grillo sul suo blog ha parlato “del ruolo oscuro delle Ong”. Ancora più pesante il vicepresidente della Camera Luigi Di Maio, secondo cui le navi delle Ong impegnate nel salvataggio sono i “taxi del Mediterraneo”. E ha aggiunto: “Chi dice che è inopportuno attaccarle, fa finta di non vedere il business dell’immigrazione”.

Tutto era iniziato il 15 dicembre del 2016, con un articolo del Financial Times. Il quotidiano britannico era venuto in possesso di un rapporto riservato di Frontex, l’Agenzia europea per il controllo delle frontiere esterne, che parlava dei presunti legami tra i trafficanti di esseri umani e le imbarcazioni delle organizzazioni umanitarie. Ipotesi poi ripresa dal direttore di Frontex, Fabrice Leggeri, che qualche settimana dopo in un’intervista a Die Welt aveva accusato le Ong di essere un fattore di attrazione (pull factor) per i migranti in fuga dalla Libia.

I sospetti di Frontex erano diventati poi elemento per la Procura di Catania, città in cui ha sede l’Agenzia europea per il controllo delle frontiere, per aprire un’indagine sulle Ong.

A tutte queste accuse e sospetti risponde il viceministro degli Esteri italiano Mario Giro, intervistato da Piero Bosio.

Viceministro, ancora in queste ore ci sono forze politiche che avanzano sospetti e denunce di legami tra Ong e trafficanti nel Mediterraneo. Lei che cosa dice?

“Il legame tra Ong e trafficanti è un problema che non esiste. La verità è che da qualche mese a questa parte le navi di Frontex si sono ritirate a nord di Malta e quindi sono rimaste solo le imbarcazioni delle Ong che vengono accusate di essere ‘pull factor’, cioè fattori di attrazione per le imbarcazioni con i migranti. In realtà il vero pull factor è la vicinanza dell’Europa all’Africa, cosa che credo non si possa cambiare. Chi accusa le Ong non conosce la verità di ciò che accade dall’altra parte del mare, in Africa, dove i ‘push factor’, cioè i fattori di spinta per partire, sono molto ma molto più forti di qualsiasi ipotetica attrazione da parte delle navi delle Ong. E questi fattori continueranno a esserci finché non avremo una politica integrata di gestione comune dei flussi insieme ai Paesi africani”.

Intanto c’è chi sostiene che le navi delle Ong entrano nelle acque libiche per prendere i migranti.

“No, questo non lo sostiene più nessuno, nemmeno la Procura di Catania, che oggi dice che si fermano ‘al limite’ (delle acque territoriali, ndr). Adesso è in corso un’indagine conoscitiva. Aspettiamo la magistratura, abbiamo piena fiducia. Se qualcuno ha fatto qualcosa che non doveva fare, naturalmente è giusto che venga punito ma io ho la ragionevole certezza che questi fatti finiranno in un nulla. Questa è una mia opinione, ovviamente aspettiamo la magistratura. In ogni caso abbiamo l’esigenza morale e politica di salvare le persone in mare e non prendiamocela con le Ong che fanno un ottimo lavoro, tra l’altro un lavoro che è monitorato passo a passo dal centro operativo della Guardia costiera che sta a Roma. Ogni movimento delle loro imbarcazioni è autorizzato dai permessi della Guardia costiera, quindi sarà facile rendersi conto di cosa si tratta”.

Lei dice questo ma Fabrice Leggeri, direttore di Frontex, accusò le Ong di avvicinarsi troppo alle coste libiche e disse che “dobbiamo evitare di sostenere il business dei trafficanti andandoli a prendere”.

“Primo: il rapporto di Frontex è molto più complesso e le dichiarazioni di Leggeri non rispecchiano il rapporto di Frontex. Secondo: Frontex si è ritirato indietro e quindi loro vogliono coprire anche quello che stanno facendo o meglio quello che non stanno più facendo. Terzo: Leggeri mi dovrebbe spiegare prima di tutto perché scaricano tutti quanti in Italia e perché invece non si fanno carico dell’accoglienza anche in altri Paesi. Questo è il vero tema. Perché non è possibile che l’Italia rimanga l’unica a doversi far carico di tutti quelli che vengono salvati in mare. Leggeri nasconde questo fatto politico di primaria importanza, su cui vari governi italiani insistono da anni, e se la prende con i più deboli della catena che sono quelli che fanno un ottimo lavoro. Non mi sembra giusto”.

Come si spiega questa offensiva – chiamiamola così – da parte di Frontex sulle Ong?

“Prima ancora di Leggeri c’erano stati altri che avevano fatto alcune osservazioni in questo senso. Da un lato dà fastidio che ci siano delle entità indipendenti, come sono le Ong internazionali, che si interessano di un fatto che invece le polizie vorrebbero gestire in totale autonomia. Ma questo non è possibile, tutto avviene sotto gli occhi di tutti. Certamente la Libia è un inferno sotto ogni punto di vista. Il governo italiano sta perseguendo la via della riunificazione libica attraverso il negoziato e la trattativa. Ci vorrà del tempo. Naturalmente siamo tutti preoccupati di quello che succede nel Mediterraneo, però non si può fare nessun ragionamento al prezzo di vite umane”.

Osservando tutte queste polemiche contro le Ong non le pare che sia in atto una sorta di campagna di disinformazione sulle Ong, alimentando i sospetti su di loro?

“Quando, come adesso, si avvicinano le elezioni in maniera contemporanea in vari Paesi europei, il tema delle migrazioni, da qualunque punto di vista lo si voglia prendere, ritorna sempre in auge come questione politica. Io dico: togliamo il tema delle migrazioni dalle vicende politiche nazionali. Facciamone una vera politica europea così la smettiamo di strumentalizzare questo tema, che è di grande sofferenza umana, al fine di logiche politiche interne”.


Leggi anche >>> Il Manifesto: "La Cei scomunica Di Maio: “Le sue accuse alle Ong sono vergognose”

USA - Arkansas - Pena di morte - Continua la mattanza, altre 2 esecuzioni in un giorno.

Corriere della Sera
Per un prigioniero c'era stato un rinvio: "È obeso, potrebbe soffrire". L'Arkansas ha eseguito le due condanne a morte programmate per martedì sera; un giudice federale in un primo tempo aveva sospeso la seconda esecuzione: l'avvocato del detenuto aveva infatti presentato un ricorso sostenendo che il primo prigioniero aveva sofferto in seguito all'iniezione letale. Sofferenze che, a suo avviso, avrebbe potuto patire anche il suo assistito, per via dell'obesità. Un giudice aveva concesso il rinvio ma alla fine non c'è stato nulla da fare.

Jack Jones e Marcel Williams
Il primo condannato, Jack Jones, 52 anni, è stato dichiarato morto nelle prigione di Cummins, a circa 120 km dalla capitale Little Rock. Qualche ora dopo è stato messo a morte anche il detenuto Marcel Williams, 34 anni. 

L'Arkansas è così diventato il primo stato americano a portare a termine una doppia pena capitale dal 2000. Il governatore dello Stato, Asa Hutchinson, ha messo in programma quattro doppie esecuzioni nell'arco di undici giorni, prima che a fine aprile scadano le scorte del sedativo midazolam, uno dei veleni usati nell'iniezione letale.
[...]
I condannati, entrambi rei confessi, avevano affidato le loro ultime speranze a un ricorso basato sulle cattive condizioni di salute, sostenendo che i loro problemi medici potevano provocare loro dolori orribili durante la procedura della "morte di Stato".

martedì 25 aprile 2017

Corridoi umanitari: 27 e 28 aprile, altri 125 profughi, arrivando al numero totale di più di 800

La Repubblica
Il 27 e 28 aprile arriveranno in Italia 125 profughi siriani che inizieranno una nuova vita tra Torino, Milano, Padova e la Calabria. Il loro sarà un viaggio sicuro e legale, organizzato con voli di linea dalla Fcei (Federazione delle chiese evangeliche d'Italia) e dalla Comunità di Sant'Egidio per il progetto Mediterranean Hope, che ha l'obiettivo di scongiurare la conta dei morti in mare e non alimentare il traffico dei migranti, evitando di riprodurre all'infinito la strage dei barconi. 
Con questo arrivo il numero di rifugiati siriani arrivati in Italia con corridoi umanitari sono più di 800.


Attraverso una selezione restrittiva, il progetto dei corrodoi umanitari individua tra i profughi chi vuole realmente vivere in Italia e informa i residenti dei comuni che accoglieranno le famiglie in arrivo sulla storia di ognuno di loro.

Orfani tunisini nelle carceri libiche: la storia del piccolo Tamim Jaboudi

euronews.com
Tamim Jaboudi è tunisino, ha due anni ed è in carcere a Tripoli, in Libia. Il padre, combattente dell'Isis, potrebbe essere morto dopo un raid areo statunitense a Sabratha nel 2016.


Della madre non si hanno notizie, il nonno materno - sostenuto dall'associazione Ratta (Rescue Association for Tunisians Trapped Abroad) che si occupa delle famiglie dei foreign fighters - chiede che Tamim Jaboudi venga liberato: "La prima volta che ci siamo incontrati in prigione non si è voluto avvicinare a me, ha abbracciato lo sceicco che conosce molto bene. Tutti lo amano e soffrono per lui perché è un orfano".

Il piccolo si trova in una prigione di Mitiga, vicino Tripoli. Non si hanno notizie precise sul suo stato di salute. Non è l'unico orfano in Libia, sono 22 i bambini tunisini che si trovano nelle prigioni del Paese. 

Ad occuparsi di Tamim Jaboudi sono donne che hanno aderito allo Stato Islamico. "Lo Stato Islamico lavora su tre livelli: a breve, medio e lungo termine. Nel breve termine lavora per reclutare giovani che lasciano i propri Paesi per andare in Libia, Siria e Iraq. 

Il passo successivo è far partire l'intera famiglia", dice Mohammed Iqbel a capo dell'associazione Ratta (Rescue Association for Tunisians Trapped Abroad) che si occupa anche della reintegrazione dei combattenti dell'Isis che decidono di tornare. Secondo questa associazione il carcere non è la soluzione per questi bambini che devono tornare in Tunisia.

lunedì 24 aprile 2017

Cecenia, parlano i ragazzi sopravvissuti ai lager gay: siamo stati torturati

Globalist
La Cnn ha intervista alcuni ragazzi omosessuali riusciti a scappare ai campi di concentramento per gay in Cecenia. I ragazzi hanno raccontato quello che hanno dovuto subire da parte delle forze dell’ordine. I loro racconti sono molto simili a quello fatto da un altro ragazzo (qui per leggere la sua storia) riuscito a lasciare la Cecenia.


Uno dei ragazzi intervistati dalla Cnn ha ricordato: “La mia auto si è fermata in un checkpoint della polizia e mi hanno chiesto i documenti. Li hanno controllati e poi mi hanno detto: ‘Ti prendiamo0. Hanno iniziato a prendermi a pugni e a calci. Volevano i nomi dei miei amici gay. Mi hanno attaccato dei fili alle mani e dei ganci di metallo sulle braccia per l’elettroshock. Hanno attrezzature speciali, molto potenti. Quando ti danno la scossa, salti. Se la mia famiglia scoprisse che sono gay non sarebbe necessario l’intervento del governo, loro mi ucciderebbero”.


Di seguito il servizio andato in onda sulla Cnn che denuncia la terribile situazione che stanno vivendo gli omosessuali nel paese asiatico, fortemente conservatore e omofobo e dove è in corso una vera e propria campagna anti-gay.

Libri: profugo o migrante economico, l'artificio delle parole

AnsaMed
Curi, 'stratagemma inventato per lasciare mano libera a governi'
"Perché chi rischia di morire per fame non merita lo stesso trattamento di chi rischia di morire a seguito di bombardamenti?". A chiederselo è Umberto Curi, docente emerito di Storia della filosofia all'Università di Padova, introducendo la raccolta di saggi "Vergogna ed esclusione. L'Europa di fronte alla sfida dell'emigrazione" (Castelvecchi, pp. 192, euro 17,59).


Quasi una domanda retorica la sua, alla luce del buon senso e di un codice etico elementare, ma che assume un significato particolare di fronte alla distinzione "migranti economici" e "richiedenti asilo" dominante nel dibattito italiano ed europeo sull'immigrazione. Ormai una "verità apodittica" quel binomio, osserva, che 'salva' chi giunge in Europa se fugge da guerre e conflitti dandogli il titolo per chiedere protezione, ma condanna al rimpatrio forzato chiunque altro, in quanto considerato migrante 'irregolare' se non 'clandestino'.

E' una distinzione netta, quella tra migranti 'forzati' alla fuga e migranti 'economici' e dunque 'volontari', e che, scrive il curatore, "contraddice palesemente" anche "la Carta di Milano firmata dai Grandi della Terra e dai visitatori dell'Expo 2015 e presentata come documento di impegno collettivo sul diritto al cibo", "eredità immateriale" dell'Expo. Ed è anche smentita dai fatti, cioè dalla "combinazione di fattori diversi" che spinge ogni migrante a partire per un futuro migliore. Al tempo stesso, nemmeno la concessione dell'asilo è certa per chi ne abbia i requisiti, visto che i criteri variano da Stato a Stato: tanto che nel 2007 per esempio - esemplifica - lo status di rifugiato è stato ottenuto dall'82% dei richiedenti iracheni in Svezia e da nessun iracheno che lo chiedeva in Grecia.

A dispetto della sua "presunta oggettività", infine, il binomio richiedenti asilo-migranti economici serve in realtà a "distinguere i 'buoni' dai 'cattivi', ossia chi si è deciso di accogliere e chi no: "stratagemma inventato per lasciare mano libera ai governi degli stati europei", che possono così "trincerarsi dietro l'apparente neutralità di un criterio obiettivo". Il quale invece, sottolinea Curi, getta sul migrante 'economico' "lo stigma di essere considerato un abusivo e dunque un clandestino, poi un criminale e infine un terrorista".

Quando invece nulla giustificherebbe dal lavarsi le mani da "verità rimosse" relative all'ineguale distribuzione delle ricchezze a livello globale: ad esempio, "un bambino americano consuma l'equivalente di ciò che consumano 422 coetanei etiopi", mentre "1/5 della popolazione mondiale dispone di 4/5 delle risorse".

Da qui il vero pericolo segnalato, oltre alle guerre ed al terrorismo quali conseguenze indirette del "fallimento" dei programmi Onu per i Millennium Developments Goals fissati nel 2000: "se quel fiume di persone bisognose di tutto - avverte - sulla spinta della disperazione, dovesse trovare soltanto i muri e le recinzioni di filo spinato anziché organiche e lungimiranti politiche dell'accoglienza, potrebbe trasformarsi presto o tardi in qualcosa che somiglia ad un esercito disposto ad esigere con la forza ciò che gli è stato negato alle implorazioni di aiuto".

Questo per l'"esclusione" nel titolo, e la "vergogna"? A rispondere è Luciano Manicardi, della comunità monastica di Bose. Il suo "sottile e brutale meccanismo", scrive, "fa spesso sì che chi, di fronte a poveri, mendicanti e rifugiati, dovrebbe vergognarsi per la loro umanità offesa e conculcata (...) si sottragga alla vergogna trasferendola sulle vittime".

Autori degli altri saggi Stefano Allievi (sui temi sempre aperti di quando i migranti eravamo noi e sull'islam italiano), Emiliana Baldoni, Gianpiero Dalla Zuanna, Mirko Sossai, Carlo De Chiara, Giovanni Palombarini. Gianpaolo Scarante e Renato Rizzo.

(di Luciana Borsatti)

domenica 23 aprile 2017

Etiopia, Cei e Sant’Egidio al lavoro per il primo corridoio umanitario dall’Africa

InTerris
Secondo l'Unhcr, l’Etiopia oggi è il Paese che accoglie il maggior numero di rifugiati africani
La Caritas Italiana e la Comunità di Sant’Egidio, in questi giorni, è al lavoro ad Addis Abeba, per aprire il primo corridoio umanitario dall’Africa, secondo il protocollo siglato a Roma il 12 gennaio 2017. 


Il Protocollo di intesa con lo Stato italiano, promosso dalla Conferenza Episcopale Italiana, che agisce proprio attraverso la Caritas Italiana e la Fondazione Migrantes, e dalla Comunità di Sant’Egidio, è finanziato con fondi della Cei provenienti dall’8×1000 e prevede il trasferimento dai campi etiopici di 500 profughi Eritrei, Somali e Sud sudanesi in due anni. Una missione congiunta per dare un futuro a quanti fuggono dalla propria casa a causa delle guerre, carestie e terrorismo che imperversa in Africa.
La generosità dell’Italia

L’Agenzia Fides riporta un comunicato della Conferenza Episcopale Italiana, secondo il quale il Vice-Ministro degli Esteri etiope, la signora Hirut Zemene, incontrando la delegazione italiana, ha sottolineato la generosità di questa “operazione umanitaria rivolta alle persone più vulnerabili”, ponendo l’accento sull’impegno dell’Italia e della sua “società civile verso i migranti”, in questo periodo particolarmente complesso. Grande soddisfazione è stata espressa poi dal Vescovo del luogo, il Metropolita di Addis Abeba e Presidente della Conferenza Episcopale di Etiopia ed Eritrea, Sua Eminenza il cardinal Berhaneyesus Souraphiel. Anche Caritas Etiopia si è detta contenta degli sforzi che la Cei, tramite la Caritas, sta compiendo per portare in salvo i migranti africani.
La situazione in Etiopia
Le agenzie delle Nazioni Unite che monitorano i flussi dei rifugiati, hanno offerto piena collaborazione, come l'”Arra”, l’agenzia di Stato che si occupa degli oltre 850.000 profughi presenti in Etiopia. La missione proseguirà nei prossimi giorni con una prima ricognizione nei campi in Tigrai, al confine con l’Eritrea, facilitata dalla Ong “Gandhi Charity”. Secondo l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati (Unhcr), l’Etiopia oggi è il Paese che accoglie il maggior numero di rifugiati in Africa, più di 670.000 persone: un afflusso di dimensioni tanto ampie è stato determinato da una pluralità di motivi, da ultimo la guerra civile in Sud Sudan scoppiata nel dicembre 2013.
Il Protocollo d’Intesa
Il 12 gennaio del 2017 è stato firmato al Viminale il Protocollo di intesa per l’apertura di nuovi corridoi umanitari che permetteranno l’arrivo in Italia di profughi provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente. A siglare il “protocollo tecnico” quattro soggetti: la Conferenza episcopale italiana (che agirà attraverso la Caritas Italiana e la Fondazione Migrantes), e la Comunità di Sant’Egidio con il suo presidente, Marco Impagliazzo; presenti anche il sottosegretario all’Interno, Domenico Manzione, e il direttore delle Politiche migratorie della Farnesina, Cristina Ravaglia, per lo Stato italiano. “Troppo spesso ci troviamo a piangere le vittime dei naufragi in mare, senza avere il coraggio poi di provare a cambiare le cose: questo Protocollo consentirà un ingresso legale e sicuro a donne, uomini e bambini che vivono da anni nei campi profughi etiopi in condizioni di grande precarietà materiale ed esistenziale”, ha dichiarato mons. Galantino: “La Chiesa italiana si impegna nella realizzazione del progetto facendosene interamente carico, senza quindi alcun onere per lo Stato italiano; attraverso le diocesi accompagnerà un adeguato processo di integrazione ed inclusione nella società italiana”.

Yemen: rapporto rilancia, Riad entri in lista nera diritti infanzia

AnsaMed
Save the Children e Watchlist, 1.546 minori uccisi in due anni
Oltre 14,8 milioni di persone - di cui 8,1 milioni di bambini - senza accesso alle cure di base; oltre 160 strutture mediche (compresi gli ospedali pediatrici) distrutte o fuori uso; 1.546 bambini uccisi e 2.450 mutilati. 



Sono soltanto alcuni dei dati raccolti da Save the Children e le Ong di Watchlist on Children and Armed Conflict sugli effetti degli ultimi due anni di guerra in Yemen,e contenuti in un rapporto presentato oggi nella sede dell'Onu a New York. Una situazione in cui tutte le parti del conflitto che oppone il presidente Abd Rabbo Mansur Hadi ed i ribelli sciiti Houthi, ma in primis la coalizione a guida saudita che sostiene il primo, vengono chiamate in causa. Una situazione ''che peggiora di giorno in giorno'', sottolineano le ong che hanno stilato il rapporto, chiedendo alle Nazioni Unite di reinserire proprio la coalizione araba guidata dall'Arabia Saudita nella lista nera dei Paesi che violano i diritti dell'infanzia.

Accuse nuovamente respinte al mittente dall'Arabia Saudita che sostiene - si legge nel rapporto, cui ha contribuito anche con lavoro sul campo la giornalista italiana Laura Silvia Battaglia - che la propaganda dei ribelli Houthi (sostenuti dall'Iran, ndr) starebbe esagerando, gonfiando i dati relativi al numero di persone rimaste uccise.

A oggi, rende noto il rapporto rilevando che le violenze sono perpetrate contro la popolazione da tutte le parti in causa, soltanto il 45% delle strutture ospedaliere del Paese è ancora in funzione.

Se dall'inizio del conflitto la metà delle strutture sono state distrutte, quelle ancora in piedi mancano di medicinali e materiali, dei quali è impossibile fare rifornimento dopo il blocco marittimo 'de facto' del porto di Hodeidah. A inizio 2017, riferisce infatti Save the Children, è stato impedito anche l'approdo delle navi che avrebbero dovuto consegnare i medicinali raccolti dalla ong e destinati a curare i bambini colpiti da diarrea, morbillo, malaria e malnutrizione. Secondo gli ultimi dati disponibili, ricorda la ricerca, lo Yemen attraversa la più grave emergenza alimentare, con 17 milioni di persone colpite da insicurezza alimentare. Secondo l'Unicef, inoltre, ogni 10 minuti un bambino yemenita muore per cause legate alla guerra in atto nel Paese.

Già nel 2016 le Nazioni Unite avevano inserito l'Arabia Saudita nella lista nera di chi compie violazioni contro i diritti dei minori, ripensandoci però solo una settimana dopo.

L'ex segretario generale, Ban Ki-moon, ricorda lo studio, aveva fatto sapere che Riad aveva minacciato di tagliare le risorse destinate ai fondi per i programmi umanitari.

Gli Usa da parte loro starebbero in questi giorni considerando la possibilità di aumentare il sostegno alla coalizione a guida saudita, cui già forniscono sostegno di intelligenze e nel rifornimento aereo, per spingere gli Houthi ai negoziati.

http://watchlist.org/about/report/yemen/


(di Cristiana Missori)

sabato 22 aprile 2017

Papa. «I campi per i rifugiati non siano campi di concentramento»

Avverire
Fra ncesco ha pregato per i "martiri del nostro  tempo nella basilica di San Bartolomeo all'Isola Tiberina. "Anche oggi tanti i cristiani perseguitati"


Nella foto: Il Papa depone nella cappella dedicata ai martiri de Medio Oriente la colomba  con l'ala spezzata proveniente dall'iconostasi della Cattedrale di Aleppo distrutta.

"La Chiesa è Chiesa se è Chiesa di martiri". Sono le parole del Papa che ha presieduto la Liturgia della Parola nella basilica di San Bartolomeo all'Isola Tiberina, consacrata al culto dei "martiri" del XX e XXI secolo. Il quale ha anche chiesto che aiuto per i profughi. 

"I campi di rifugiati, tanti, sono campi di concentramento per la folla di gente lasciata lì e i popoli generosi che li accolgono debbono portare avanti da soli questo peso, e gli accordi internazionali sembrano più importanti dei diritti umani". Significative da questo punto di vista, anche le parole pronunciate a braccio sulla porta della Basilica, prima di anadare via: "Pensiamo alla crudeltà che oggi si accanisce su tanta gente. Lo sfruttamento di tanta gente. La gente che arriva sui barconi, ma che non resta nei Paesi generosi come l'Italia e la Grecia che li accolgono. Se in Italia si accogliessero due migranti per municipio, ci sarebbe posto per tutti. Che questa generosità da Sicilia, da Lesbo e dal Sud contagi anche il Nord. Noi siamo una civiltà che non fa figli ma anche chiudiamo la porta ai migranti. Questo si chiama suicidio".
In un giorno significativo (esattamente quattro anni fa venivano rapiti i vescovi ortodossi di Aleppo Boulos Yazigi e Gregorios Ibrahim, dei quali non si hanno più notizie, come del resto del gesuita italiano, padre Paolo Dall'Oglio) e a pochi giorni dal suo viaggio in Egitto, Francesco ha sottolineato che "Tutti costoro sono il sangue vivo della Chiesa. Sono i testimoni che portano avanti la Chiesa; quelli che attestano che Gesù è risorto, che Gesù è vivo, e lo attestano con la coerenza di vita e con la forza dello Spirito Santo che hanno ricevuto in dono. Ricordare questi testimoni della fede e pregare in questo luogo è un grande dono".

"Siamo venuti pellegrini in questa Basilica di San Bartolomeo all’Isola Tiberina - ha sottolineato dunque -, dove la storia antica del martirio si unisce alla memoria dei nuovi martiri, dei tanti cristiani uccisi dalle folli ideologie del secolo scorso, e uccisi solo perché discepoli di Gesù". "L’eredità viva dei martiri - ha proseguito il Papa - dona oggi a noi pace e unità. Essi ci insegnano che, con la forza dell’amore, con la mitezza, si può lottare contro la prepotenza, la violenza, la guerra e si può realizzare con pazienza la pace. E allora possiamo così pregare: O Signore, rendici degni testimoni del Vangelo e del tuo amore; effondi la tua misericordia sull’umanità; rinnova la tua Chiesa, proteggi i cristiani perseguitati, concedi presto la pace al mondo intero".