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lunedì 30 aprile 2018

Sbarchi continui in Andalusia, tratti in salvo 140 migranti. 144 morti nel 2018 nella traversata verso la Spagna

Ansa
Madrid - Proseguono senza sosta gli sbarchi di migranti sulle coste dell'Andalusia. All'alba di oggi sono giunte al porto di Motril (Granada) 51 persone di origini subsahariane, soccorse dai mezzi del Salvataggio marittimo nel mare di Alboran, a 18 miglia a sudest fra la costa di Malaga e Granada


Mercoledì pomeriggio, un'altra barcaccia con 38 migranti a bordo e un gommone con 51 subsahariani, alla deriva per le cattive condizioni di visibilità e per il maltempo, erano stati intercettati nelle acque del mare di Alboran da motovedette coordinate dal Centro di emergenze di Granada. 

Tutti i migranti, sbarcati all'alba di ieri nel porto granatino, sono stati assistiti dalla Croce rossa. Intanto l'elicottero Helimer 207 e la motovedetta Salvamar Spica proseguono le ricerche dei 12 migranti dispersi nel naufragio di mercoledì al largo delle coste del Marocco, a 15 miglia a sudest dell'Isola di Alboran, in cui sono stati finora recuperati cinque cadaveri, mentre 14 persone sono state tratte in salvo. 

Almeno 144 migranti sono morti dall'inizio dell'anno nel tentativo di raggiungere le coste spagnole, secondo i dati diffusi dall'Organizzazione Internazionale delle Migrazioni.

Corridoi Umanitari - Dalla Siria a Frosinone: la forza dell'accoglienza

San Francesco
La forza dei Corridoi Umanitari è quella di garantire ai profughi un percorso di accoglienza ed integrazione.
Sul Sole24Ore dello scorso 27 Marzo leggiamo: “Sono arrivati questa mattina da Beirut all’aeroporto di Fiumicino 43 profughi siriani grazie ai corridoi umanitari promossi da Comunità di Sant’Egidio, Federazione delle chiese evangeliche in Italia e Tavola valdese. Domani ne arriveranno altri 47. Si tratta di nuclei familiari provenienti da Aleppo, Homs, Raqqa e Edlib; oltre un terzo sono bambini. Si tratta del secondo gruppo (il primo gruppo di trenta è arrivato a fine gennaio) del contingente di 1.000 previsto dal secondo protocollo firmato lo scorso novembre tra Sant'Egidio, Chiese Evangeliche d'Italia e il governo italiano.”

La forza dei Corridoi Umanitari è quella di non “fermarsi” all’arrivo in Italia, ma di garantire ai profughi un percorso di accoglienza ed integrazione in diverse realtà del territorio italiano,
ed una famiglia di 4 persone è stata accolta a Frosinone, grazie ad una collaborazione tra la Caritas Diocesana (che ha messo a disposizione un appartamento nel centro storico), la Comunità di Sant’Egidio, ma anche attraverso il supporto attivo degli Scout e degli studenti e professori del Liceo Severi.

Pochi giorni fa ho avuto l’occasione di incontrare la famiglia siriana accolta nel capoluogo ciociaro, per vedere da vicino come funziona il meccanismo di integrazione di prossimità sul territorio. Al mio arrivo a Frosinone, in una splendida giornata di sole, ho trovato ad accogliermi Alice Popoli, nella doppia veste di referente diocesana del progetto e di volontaria (come chi scrive) della Comunità Sant’Egidio, ed Anour, mediatore culturale e per l’occasione interprete dall’arabo all’italiano. Il capofamiglia, che chiameremo Omar, ci raggiunge sottocasa ed insieme a lui prendiamo l’ascensore. Un primo piacevole incontro, sale con noi una vicina di casa che, a gesti, cerca di far capire ad Omar che ha visto i suoi figli che andavano a scuola e che è contenta che si stiano integrando nel quartiere.

Arrivato a casa, mi vedo davanti una tavola riccamente imbandita, ma soprattutto, ci metto davvero poco a capirlo, mi trovo ad incontrare una bella famiglia unita, nonostante le sofferenze della guerra.

Il padre ad Homs (città che prima della guerra era un felice mix tra antico splendore ed infrastrutture moderne) era meccanico in officina e la mamma casalinga, intenta a tenere a bada i due splendidi bambini, uno di 9 ed uno di 3 anni, intenti come tutti i bambini del mondo a giocare, anche se poco dopo preferiscono farsi coccolare da Alisha, un misto tra Alice ed il nome arabo Aisha. (Va specificato che la “casalinga” è colei che ha mandato avanti il focolare in un contesto di guerra, con la famiglia costretta a scappare da una città all’altra della Siria per poter sopravvivere sotto le bombe, per poi rifugiarsi in Libano in una cantina fredda e piena di infiltrazioni d’acqua).

In breve, ci sediamo a tavola, e come per magia sparisce ogni distanza. Tra una portata e l’altra si parla dei primi giorni di scuola dei bambini, del desiderio (che immaginiamo presto verrà esaudito) della moglie di lanciare una moneta nella Fontana di Trevi, si parla anche di calcio (Omar, suo malgrado, è tifoso del Barcellona ed ha scelto la settimana sbagliata per parlarne con me, tifoso romanista….).

Confesso che ho faticato a…tornare giornalista ed a sottoporre ad Omar alcune domande relative alla situazione siriana, si capiva che per lui era una sofferenza ritornare su argomenti delicati e complessi nel bel mezzo di un momento conviviale, tanto che concordiamo di parlare del dramma siriano solo a fine pasto.

Mentre noi adulti parlavamo, il piccolo di casa scorazzava, prendeva un pallone, si sporcava la faccia con il cioccolato, insomma quello che secondo alcuni è un “futuro terrorista”, un “invasore islamico”, si comportava esattamente come i nostri figli e nipoti, intenti a catturare l’attenzione degli zii, dei nonni e dei genitori. Il figlio più grande intanto si divertiva ad imparare nuove parole in italiano, zuccaro, caffè, mela, mele, ed entusiasta ci mostrava di saper contare da 1 a 10 nella nostra lingua.

Cos’è la guerra? Omar mi ha raccontato che quando è morto suo padre non è potuto tornare ad Homs per dargli l’ultimo saluto, e sempre il padre non ha mai visto il secondo nipote, nato quando il nucleo familiare era già in un campo profughi in Libano. Per quanto abbia più volte manifestato la sua gratitudine per quanto sta ricevendo, il suo volto diventava triste quando parlava della Siria, (Siria è il mio cuore! Ha affermato), e sarebbe ben felice un giorno di poter rivedere la sua terra, oggi martoriata.

Il male esiste, è forte, ma ancor più forte è l’opera del bene, specie se condiviso. In tanti, volontari, parrocchiani, professori, vicini, si stanno adoperando per dare una mano e per garantire alla famiglia siriana un futuro migliore. “Cominciate col fare il necessario, poi ciò che è possibile e all’improvviso vi sorprenderete a fare l’impossibile”, si legge in uno dei più famosi aforismi di San Francesco, ed è esattamente quello che accade a chi si adopera con passione per costruire un mondo migliore.

Mario Scelzo

Guatemala. Almeno otto morti per scontri tra bande rivali in un carcere

Nova
Almeno otto persone sono morte in Guatemala a seguito di una insurrezione scoppiata nel "Granja Penal Canadà", carcere nella cittadina meridionale di Escuintla. 

Lo riferisce la Direzione generale del sistema penitenziario (Dgps) in una nota. Gli incidenti sono scoppiati nel tardo pomeriggio di giovedì, ha segnalato il direttore della Dgsp Juvell de Leon: "A quanto pare gruppi che lottano per il potere o per affari illeciti hanno scatenato una rissa degenerata in scontri a fuoco", ha spiegato il direttore citato da "Prensa Libre".

Le morti, e i circa 25 feriti di cui parlano le autorità locali, sono state quasi tutte causate da colpi d'arma da fuoco. Almeno una delle vittime, secondo quanto riferisce la testata "Telesur" sarebbe morta con la scossa ricevuta dal filo ad alta tensione toccato nel tentativo di scavalcare la recinzione.

domenica 29 aprile 2018

I bambini dello Yemen possono scegliere: morire sotto le bombe o di fame

Globalist
Diciotto milioni di persone hanno bisogno di assistenza alimentare. Mentre ogni giorno si bombarda e si uccide.


Una guerra civile senza fine mentre sia l'Isis che Al Qaeda impazzano. Lo Yemen continua a essere un Paese profondamente instabile: circa 18 milioni di persone - oltre il 60 per cento della popolazione - hanno bisogno di assistenza alimentare, secondo l’Onu..
Oltre a ciò un’epidemia di colera ha messo in ginocchio la popolazione e numerosi sono stati i morti.

Ma intanto si spara. Si bombarda e si muore.
Due comandanti dei ribelli sciiti Houthi sono rimasti uccisi, assieme a decine di miliziani, in un raid sulla capitale yemenita Sanaa lanciato dalla coalizione araba a guida saudita.
Secondo al-Arabiya, l'attacco ha colpito una riunione di alto livello dei ribelli sciiti yemeniti sostenuti dall'Iran. 
Almeno 38 i morti, compresi due leader.
L'emittente Al-Masirah aveva riferito di un incontro dei comandanti Houthi, riuniti in un edificio del ministero dell'Interno per discutere dei funerali di Saleh al-Sammad, leader politico Houthi ucciso in un precedente raid saudita.

Gli Emirati Arabi Uniti reclutano 8000 mercenari ugandesi per combattere nello Yemen

l'Antidiplomatico
Gli Emirati Arabi Uniti (UAE) prevedono di reclutare 8.000 soldati ugandesi come mercenari per combattere nella guerra contro lo Yemen a favore dell'alleanza guidata dall'Arabia Saudita. Dal 2015, Riyadh ei suoi alleati hanno tentato, senza successo, di riportare al potere l'ex ex-presidente yemenita Abdu Rabu Mansur Hadi.


Secondo il sito web Middle East Eye (MEE), citando fonti e media arabi, gli Emirati Arabi Uniti hanno avviato negoziati con il governo ugandese per reclutare più di 8.000 soldati e si ritiene anche che Abu Dhabi intenda assumere un maggior numero di mercenari.

L'accordo per inviare questi mercenari, che saranno distribuiti esclusivamente nello Yemen sarà completato nei prossimi giorni, in occasione della visita del principe ereditario degli Emirati Arabi Uniti Sheikh Mohammed bin Zayed Al Nahyan, a Kampala, capitale dell'Uganda.

Anche l'Arabia Saudita ha anche negoziando con il governo del Ciad reclutamento di migliaia di soldati ciadiani per la guerra condotta contro lo Yemen, anche se ancora non è sicuro se ci sarà un accordo alla fine.


Fonti consultate da MEE sostengono che il motivo principale per cui gli Emirati Arabi Uniti e l'Arabia Saudita si rivolgono a Ciad e Uganda è la paura del ritiro anticipato delle truppe sudanesi dallo Yemen, poiché il governo del Sudan è deluso dai risultati delle operazioni militari di Riyad e dei suoi alleati e ritiene che "i tentativi di ripristinare il precedente governo nello Yemen non hanno senso".

Fonte: Middle East Eye

Ucciso un altro sacerdote in Messico, padre Moises Fabila Reyes è il terzo in una settimana

La Stampa
Padre Moises Fabila Reyes, sequestrato il 3 aprile, è stato trovato morto ieri nella città di Cuernava. Neanche un giorno fa era stato pagato un riscatto per lui.
Padre Moises Fabila Reyes
Nuovo lutto nella Chiesa messicana. A neppure una settimana dal cruento assassinio di padre Juan Miguel Contreras Garcia, ucciso il 20 aprile da un commando al termine della messa nello stato di Jalisco , si registra l’omicidio di un altro sacerdote. 

Si tratta di padre Moises Fabila Reyes, 83 anni, sequestrato lo scorso 3 aprile durante un viaggio con la famiglia e trovato morto ieri nella città di Cuernava, stato di Morelos.

Come riferito dal sito Il Sismografo che cita la stampa locale, per il sacerdote, membro del clero che presta servizio pastorale presso la Basilica della Madonna di Guadalupe, era stato pagato un riscatto circa 24 ore fa.

Padre Fabila Reyes, ricordato dai fedeli e amici come un uomo sereno e tranquillo, era nato nella Valle de Bravo. Da piccolo ha frequentato le scuole dei Salesiani fino a quando entrò nel Seminario Conciliar de México. È stato ordinato sacerdote il 29 giugno 1961. Dal 2001 era il cappellano del Coro della Basilica della Madonna di Guadalupe.

È il terzo sacerdote ucciso in Messico in una settimana, considerando, oltre a quello di padre Contreras, anche l’omicidio di padre Rubén Alcántara Díaz il 18 aprile scorso.

APPELLO URGENTE per Robert Butts Jr (41 anni), condannato a morte in Georgia - USA - Esecuzione fissata il 3 maggio

www.santegidio.org
Ringraziamo particolarmente Stefania per la sua lunga amicizia di penna con Robert che lo sostiene in questi giorni e non lo fa sentire solo.



La storia:
Nel 1996 Robert ha conosciuto un ragazzo poco più grande di lui, Marion Wilson, ed è stato coinvolto nel piano di rubare un'auto da rivendere ad un'autocarrozzeria.
Sono andati insieme in un negozio della catena Wallmart e qui hanno chiesto un passaggio alla vittima, Donovan Corey Parks. Poco lontano Parks è stato ucciso da un colpo di pistola. L'arma è stata ritrovata sotto il letto di Marion Wilson.

Entrambi sono stati dichiarati colpevoli e condannati a morte. Entrambi sono detenuti al Georgia Diagnostic and Classification Prison. Robert è nato a Milledgville, a sud di Atlanta il 14 maggio 1977.

Quando lui è nato sua madre aveva 18 anni e già una figlia di due. Pochi mesi dopo la sua nascita il padre ha iniziato ad avere problemi di salute mentale. La madre ha iniziato a condurre una vita disordinata. Negli anni successivi ha anche chiesto a Robert di procurarle la droga.
Dopo Robert sono nati da un'altra relazione della madre altri due figli (1980/1982) e da un'altra relazione una figlia (1986).
La sorella maggiore di Robert si chiama Tammy, è nata nel 1975.

sabato 28 aprile 2018

Proteste Gaza-Israele: 4 palestinesi morti, quasi mille feriti. Onu e Amnesty: "Uso sproporzionato della forza"

SKI TG24
Ancora vittime nel quinto venerdì di tensioni per la “Grande Marcia del Ritorno” voluta da Hamas. Dal 30 marzo i morti sono oltre 40. Trump: potrei andare all'apertura dell'ambasciata a Gerusalemme



Ancora scontri, vittime e feriti lungo la barriera tra la Striscia di Gaza e Israele, nel quinto venerdì di protesta sotto lo slogan della "Grande marcia del ritorno" voluta da Hamas. Il numero dei palestinesi rimasti uccisi negli scontri è salito a 4. Lo rende noto il ministero della Sanità palestinese, riferisce Haaretz. La quarta vittima è un ragazzo di 15 anni morto per le ferite riportate. 


Negli scontri sono rimasti feriti almeno 833 palestinesi: di questi, 4 fanno parte del personale medico e sei sono giornalisti, riferisce sempre il ministero della Sanità palestinese. Due feriti sono in gravi condizioni. Dal 30 marzo sono morti più di 40 palestinesi nelle proteste indette per rivendicare il "diritto al ritorno".

Le proteste al confine
Secondo un portavoce, alle manifestazioni hanno partecipato 10mila palestinesi, suddivisi in cinque punti di frizione lungo la linea di demarcazione con Israele. Come nelle settimane precedenti, gruppi di giovani hanno incendiato pneumatici lungo il confine, hanno lanciato verso Israele aquiloni con oggetti in fiamme e hanno cercato di trainare verso la Striscia tratti di reticolati. In una di queste azioni, al valico di Karni, sono stati vicini ad aprire un varco e sono stati respinti col fuoco e con i lacrimogeni. Secondo un portavoce israeliano, i dimostranti “hanno lanciato ordigni esplosivi, bombe a mano, bottiglie incendiarie e pietre” e i soldati hanno impedito il tentativo di infiltrazione.

Gli appelli
La giornata era iniziata a Gaza in un clima di febbrile mobilitazione, dopo che in nottata nel campo profughi di Jabalya è stato sepolto Fadi al-Batsh, l'ingegnere di Hamas ucciso la settimana scorsa in Malesia in un attentato che la sua organizzazione attribuisce al Mossad israeliano. Nel corso della giornata alcuni dirigenti di Hamas hanno raggiunto i dimostranti e hanno esortato la popolazione di Gaza a non desistere dalla lotta per forzare il blocco e rompere le linee di confine. Un consigliere del presidente Abu Mazen ha invece fatto appello agli abitanti di Gaza perché non seguano la politica degli "avventurieri" e "non mandino i figli a morire".
Le accuse

Intanto, l'Alto commissario per i diritti umani dell'Onu e Amnesty International sono tornati separatamente ad accusare i militari israeliani di aver fatto “un uso sproporzionato della forza nei confronti di dimostranti disarmati”. Il Centro di informazione sull' intelligence e il terrorismo (Iitc) di Tel Aviv, invece, ha pubblicato un'analisi secondo cui l'80 per cento dei primi 40 palestinesi uccisi sul confine erano “membri attivi o fiancheggiatori di gruppi terroristici”.

Siria: Yarmuk sotto attacco, Onu lancia allarme. A rischio migliaia di profughi intrappolati

SwissInfo
L'Onu lancia l'allarme umanitario per migliaia di civili intrappolati nel campo profughi palestinese di Yarmuk, nella parte sud di Damasco, controllato da tre anni dall'Isis e da una settimana sotto il fuoco aereo e di artiglieria delle forze governative siriane.


In un comunicato diffuso nelle ultime ore, l'agenzia Onu per i rifugiati palestinesi (Unrwa), cita il direttore generale Pierre Krahenbuel della stessa agenzia che ha espresso "preoccupazione per il destino di migliaia di civili, tra cui rifugiati palestinesi" presenti a Yarmuk.

Secondo l'Unrwa, le "ostilità in corso da tempo nel campo e nel vicino quartiere di Yalda hanno causato l'uccisione, il ferimento e lo sfollamento di circa 5mila rifugiati". L'agenzia Onu afferma inoltre che a Yarmuk "c'è un numero imprecisato di civili sotto assedio che hanno estremo bisogno di un passaggio sicuro fuori dal campo".

Etiopia: premier Abiy Ahmed promette di cambiare la costituzione. Limite di due mandati per il primo ministro.

Sicurezza Internazionale
Il nuovo premier etiope, Abiy Ahmed, ha annunciato di voler modificare la costituzione dell’Etiopia,introducendo un limite di due mandati per la carica di primo ministro. Abiy ha rilasciato la dichiarazione nel corso di un discorso pubblico nella città di Awasa, dove migliaia di persone si sono radunate per incontrarlo, giovedì 26 aprile.
Abiy Ahmed
Il premier ha dichiarato che, grazie all’emendamento, nessun leader potrà più rimanere in carica per più di due mandati, affermando che si tratterebbe della fine della “detenzione del potere per tutta la vita” in Etiopia

Come riportato dall’agenzia di stampa locale Ethiopian News Agency, Abiy ha espresso la volontà di emendare la costituzione, ma non ha fornito ulteriori dettagli riguardo i tempi necessari per il cambiamento.

Il primo ministro ha altresì lodato il suo predecessore, Hailemariam Desalegn, per aver deciso di rassegnare le dimissioni e fare spazio a un percorso di ammodernamento e riforme nel Paese. In questo contesto, Abiy ha sottolineato che, nonostante Hailemariam si sia dimesso in un momento in cui avrebbe potuto “fare molto per il proprio Paese”, continuano a esserci leader che “si rifiutano di lasciare il proprio incarico sebbene debbano andare in pensione”.

Abiy ha anche risposto a diverse domande riguardo lo sviluppo delle infrastrutture, il buon governo e l’uguaglianza di genere, impegnandosi a contrastare la corruzione, migliorare l’emancipazione femminile e colmare le lacune presenti in questi settori. Infine, il premier ha ribadito pubblicamente l’intenzione di voler emanare nuove riforme democratiche e migliorare quelle esistenti.

Ad oggi, in Etiopia è in vigore un sistema di governo parlamentare in cui il partito con la maggioranza dei seggi nomina il primo ministro e, come previsto dall’attuale costituzione, il mandato del premier ha durata illimitata. Le prossime elezioni politiche nel Paese sono previste per il 2020.

Da quando ha assunto la carica di primo ministro, Abiy ha promesso “un nuovo inizio politico”, che dovrebbe comprendere l’avvio di riforme democratiche e in materia di sicurezza, per porre fine alle proteste che hanno caratterizzato il Paese negli ultimi tre anni. 

L’Oromia è la regione da cui, nel novembre 2015, sono partite le manifestazioni e le proteste politiche nei confronti del governo etiope a causa del Master Plan, un progetto finalizzato ad espandere il territorio della capitale a discapito degli abitanti delle aree circostanti. Nonostante l’iniziativa sia stata cancellata nel gennaio 2016, le proteste sono continuate, espandendosi nel resto del Paese fino a quando, il 16 febbraio 2018, è entrato in vigore lo stato di emergenza.

Negli ultimi 15 anni, l’Etiopia si è distinta per un alto tasso di crescita economica, diventando uno dei principali attori del Corno d’Africa sia sul piano economico sia su quello della sicurezza. È previsto che lo Stato africano diventi il primo esportatore di energia dell’area, nonché il Paese più importante per la produzione di energia rinnovabile di tutto continente. “Poiché l’Etiopia è in una rapida fase di crescita”, ha riferito il primo ministro Abiy, “non è possibile consentire a poche persone di rimanere in carica per lungo tempo”.

Indonesia - Pena di morte per traffico di droga per 8 taiwanesi

Blog Diritti Umani - Human Rights
Otto Taiwan arrestati in Indonesia dopo aver sequestrato una tonnellata di metamfetamine dalla Cina sono stati condannati giovedì a morte per traffico di droga da un tribunale nell'arcipelago del Sud-Est asiatico.



Gli uomini erano stati arrestati durante diverse operazioni di polizia lo scorso luglio, durante il quale il sospetto capo della rete è stato ucciso durante una sparatoria con la polizia.

"Gli imputati sono stati condannati per cospirazione criminale e traffico di droga", ha detto il presidente del tribunale distrettuale di South Jakarta, Haruno Patriadi.

Queste sentenze arrivano dopo le recenti condanne di altri 11 cittadini taiwanesi alla pena di morte per traffico di droga.

L'Indonesia è un paese con una delle leggi sulle droghe più dure al mondo. Dozzine di condannati a morte per traffico di droga, tra cui il francese Serge Atlaoui, sono nel braccio della morte.

venerdì 27 aprile 2018

Turchia di Erdogan: la morte della libertà di opinione. Condannati 13 giornalisti del Cumhuriyetg

Globalist
Sono i giornalisti dello dello storico quotidiano di opposizione turco Cumhuriyetg.  Accusati con un processo farsa di "sostenere un'organizzazione terroristica ma senza esserne membri".



"La vergogna della giustizia", questo il titolo dello storico quotidiano di opposizione turco Cumhuriyetn dopo che nella tarda serata di ieri 13 dei 18 tra i propri giornalisti e impiegati sono stati condannati dalla corte di Silivri, dove sorge il supercarcere di Istanbul, con l'accusa di "sostegno ad organizzazione terroristica senza esserne membri".


I giornalisti sono stati accusati di avere legami con la rete di Fetullah Gulen, ritenuto la mente del golpe fallito il 15 luglio 2016. Il presidente del giornale Akin Atalay, liberato questa notte dopo 541 giorni di detenzione si è definito "un ostaggio". 

Tra i condannati, che non devono andare in cella in attesa della sentenza di secondo grado, il direttore Murat Sabuncu, liberato lo scorso marzo dopo 434 giorni di carcere, che alla fine della lunghissima udienza ha dichiarato che "nessuna pena potrà fermare Cumhuriyet, che continuerà ad informare, anche da dentro una cella" per poi definire la condanna "una macchia per tutta la Turchia". 

Condannato a sette anni e mezzo di carcere il giornalista d'inchiesta Ahmet Sik, gia' in carcere nel 2011 per un libro che svelava le infiltrazioni di Fetullah Gulen nel Paese nel 2011, e ora accusato di legami con i separatisti curdi del Pkk. 

La Francia si dice "preoccupata per la condanna ieri di 14 tra giornalisti e collaboratori del quotidiano turco Cumhuriyet, tra i quali i giornalisti Ahmet Sik e Murat Sabuncu, nonché il presidente del comitato esecutivo del giornale, Akin Atalay": è quanto si legge in una nota diffusa dal ministero degli Esteri di Parigi. "La Francia - si prosegue nel comunicato - osserva con la più grande attenzione la situazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali in Turchia, Paese membro del Consiglio d'Europa. Porteremo attenzione al processo in appello dei giornalisti e collaboratori di Cumhuriyet"

Migranti: appello vescovo francese Xavier Malle per aiutarli sulle Alpi

AnsaMed
'Basta strumentalizzazioni al confine italo-francese'.
"Aiutateci!": in un intervento pubblicato sul sito di France Info, Xavier Malle, vescovo di Gap e di Embrun, in Francia, lancia un appello alla "solidarietà nazionale" per il sostegno ai migranti in transito sulle Alpi.


Il Colle della Scala, alla frontiera franco-italiana, è oggetto di tensioni tra chi sostiene e tra chi invece vuole bloccare il passaggio dei migranti. Lo scorso fine settimana, dei militanti del gruppo di estrema destra Génération identitaire hanno manifestato sul posto erigendo un muro simbolico contro i migranti, con episodi di tensione con militanti no-border che invece invocano la soppressione delle frontiere.

"Le nostre montagne - avverte Xavier Malle - non possono essere terreno di giochi politici dove le persone, di un campo come dell'altro, possono liberamente affrontarsi strumentalizzando i migranti. La situazione è già abbastanza complicata, non ne abbiamo davvero bisogno". 

Quindi l'appello per maggiori aiuti in loro sostegno.

Storico incontro al confine tra Corea del Sud e Nord, successo degli sforzi e delle preghiere per la pace. Si allontana per il mondo il rischio di uno scontro nucleare

Corriere della Sera
Entrambi i leader erano sorridenti al momento di stringersi la mano. Kim Jong-Un ha varcato il 38° parallelo per entrare nel territorio del Sud. Poi ha invitato Moon a fare anche lui un passo al Nord. Infine, il colloquio: è durato due ore.



Il momento in cui il leader sud coreano invita Kim Jong-Un a varcare il confine tra le due coree
Fino a pochi mesi fa, erano i missili nordcoreani ad attraversare il territorio sudcoreano. Oggi è stato Kim Jong-un a varcare il 38° Parallelo per entrare nel territorio del Sud a parlare di «una nuova era di pace» con il presidente sudista Moon Jae-in. A Panmunjom hanno camminato uno verso l’altro sorridendo, si sono fermati davanti al gradino di cemento che segna la Linea di demarcazione militare che spacca la Corea in due da 65 anni. Kim ha fatto il grande passo superando il gradino della frontiera alle 9:30 del mattino ora coreana, le 2:30 di notte in Italia.



Un salto al Nord
Lunga stretta di mano tra i due nemici fermi sul confine. Poi Kim si è girato, ha indicato il versante Nord e ha invitato Moon a fare anche lui un passo, ad avventurarsi nell’altra metà della penisola divisa. Così, per un secondo, anche Moon ha restituito la visita e ha messo piede al Nord.

Pace e spaghetti
Si sono colte le prime parole. «Attraversare il confine è stata una decisione coraggiosa», ha detto Moon. «Spero che le piaceranno i noodles che abbiamo portato da Pyongyang», ha detto Kim riferendosi agli spaghetti tradizionali che saranno serviti al banchetto ufficiale. Sul registro degli ospiti della Peace House Kim ha scritto: «Una nuova pagina, la storia inizia, un’era di pace».

Uniformi storiche
Moon e Kim poi si sono incamminati verso la Peace House sul versante sudcoreano, scortati da un picchetto militare sudista che però vestiva la divisa storica dell’antico regno unito di Corea. Il primo di uno di molti accorgimenti simbolici studiato dal cerimoniale.

Guido Santevecchi - da Seul

giovedì 26 aprile 2018

Israele congela il piano per deportare migliaia di rifugiati dall'Eritrea e dal Sudan

La Repubblica
Dopo mesi di tentativi andati a vuoto, di fronte alla polemiche, il governo di Benjamin Netanyahu rinuncia al progetto di deportare migliaia di eritrei e sudanesi entrati illegalmente. 


Ma cercherà di far approvare dal Parlamento una nuova legge. Il governo di Benjamin Netanyahu congela il piano per la deportazione dei migranti africani entrati illegalmente in Israele. "Allo stato, la possibilità di procedere a espulsioni in Paesi terzi non è in agenda", si legge in una nota inviata dall'esecutivo alla Corte suprema dopo mesi in cui ha cercato in tutti i modi di arrivare alla deportazione di migliaia di persone, in maggioranza eritrei e sudanesi.

I migranti saranno quindi di nuovo autorizzati a rinnovare i permessi di residenza ogni 60 giorni. Nel frattempo il governo proverà a ottenere una nuova legge dalla Knesset, come si evince dalla comunicazione al massimo organismo giuridico laddove si ribadisce che lo Stato intende perseguire l'espulsione, volontariamente o con ogni altro mezzo consentito dalla legge. Netanyahu ha inoltre dato istruzioni volte a riaprire centri di detenzione per gli "infiltrati".

Gli irregolari e le associazioni per i diritti umani sostengono che si tratta di richiedenti asilo in fuga da guerre e persecuzioni. Il governo israeliano li considera invece migranti economici in cerca di lavoro e rivendica il diritto a proteggere i propri confini. Dal 2013 circa 4.000 africani hanno lasciato volontariamente lo Stato ebraico per il Ruanda e l'Uganda, ma Netanyahu è stato messo sotto pressione dai suoi elettori di estrema destra e ha puntato sul piano di deportazione. A un certo punto si era parlato anche di un accordo Onu per il trasferimento di 16 mila migranti in Stati occidentali, tra i quali l'Italia. L'intesa era poi naufragata sotto il peso delle polemiche e delle smentite dei Paesi chiamati in causa dall'esecutivo israeliano. E si era tornati al piano di espulsioni, contro il quale diverse associazioni erano ricorse alla Corte suprema.

Grecia, rifugiati nell’isola di Lesbo attaccati da estremisti di destra, mentre si riapre la rotta balcanica, 1750 arrivi a marzo.

Corriere della Sera
I rifugiati stavano protestando per sollecitare una risposta alle richieste d’asilo. Tra i profughi aggrediti anche molti bambini. 

La polizia ha evacuato la piazza. Decine di migranti sono rimasti feriti nella notte nell’attacco di un gruppo di estrema destra a Lesbo, isola greca nell’Egeo al collasso, affollata soprattutto da afghani e da siriani in fuga dalla guerra.

I rifugiati attendono da mesi una risposta alle richieste di asilo e da cinque giorni si erano accampati nella piazza centrale di Mitilene, principale località dell’isola, per chiedere migliori condizioni nel campo di Moria e soprattutto una risposta alle loro richieste di asilo.

Bastoni e pietre sui manifestanti
Ma all’imbrunire diverse centinaia di giovani dell’ultradestra hanno cominciato a insultarli e li hanno attaccati con bastoni e lanci di pietre. Gli aggressori hanno dato alle fiamme cassonetti dell’immondizia. I migranti si sono rifiutati di lasciare la piazza e il centro storico della località è diventato un campo di battaglia, secondo quanto riferito da testimoni.
Tra i rifugiati aggrediti c'erano anche molti bambini, come mostrano i video caricati su Facebook da Ariel Ricker, responsabile della ong Advocates Abroad.
Lo sgombero
La polizia è riuscita a sgomberare la piazza e i rifugiati sono stati ricondotti nell’hotspot di Moria, già al collasso: ospita già quasi 8.000 profughi, per 1800 posti ufficiali. Un record da quando due anni fa l’Unione europea ha firmato un accordo da 6 miliardi di euro con la Turchia per bloccare il flusso di profughi verso la rotta balcanica, una rotta che stando alla ripresa degli arrivi (1750 a marzo), è di nuovo aperta.

HRW - Pena di morte: in Arabia Saudita 48 esecuzioni nel 2018, metà per reati di droga

Blog Diritti Umani - Human Rights


Riyadh - Human Rights Watch ha detto che l'Arabia Saudita ha eseguito la condanna a morte di 48 persone finora nel 2018, metà delle quali per reati di droga.

Altri condannati per reati di droga rimangono nel braccio della morte, secondo quanto riferito dal gruppo per i diritti umani.

In un'intervista rilasciata a Time Magazine il mese scorso, il principe ereditario riformista saudita Mohammed bin Salman ha dichiarato che in alcune aree le sentenze di morte saudite possono essere trasformate in ergastoli.

Sarah Leah Whitson, direttore del Medio Oriente presso HRW, ha dichiarato: "Qualsiasi piano per limitare le esecuzioni di droga deve includere miglioramenti a un sistema giudiziario che non prevede processi equi".

L'Arabia Saudita ha realizzato una serie di riforme nell'ultimo anno, ma i gruppi internazionali per i diritti umani sollecitano il Regno ad apportare modifiche al suo trattamento dei difensori dei diritti umani, a fermare le esecuzioni e a cancellare il suo pervasivo sistema di supremazia maschile.

L'Arabia Saudita ha effettuato circa 600 esecuzioni dall'inizio del 2014, di cui oltre 200 per reati di droga, ha riferito HRW.

Fonte: Reuters

ES

mercoledì 25 aprile 2018

Guerre dimenticate - Yemen, raid saudita su matrimonio: 20 morti. La maggior parte donne e bambini.

Il Manifesto
È di almeno 20 morti e 46 feriti (altre fonti locali parlano di 50 vittime) il sanguinoso bilancio dell’ultimo raid aereo saudita sullo Yemen: ieri l’aviazione di Riyadh ha centrato una tenda nella provincia di Hajjah, nord-ovest del paese, dove si stava celebrando un matrimonio. La maggior parte delle vittime, riporta una fonte medica, sono donne e bambini.



La coalizione a guida saudita ha fatto sapere che indagherà, sebbene in passato simili promesse siano state lasciate nel cassetto. Eppure non è la prima volta che i sauditi compiono stragi durante un matrimonio: a settembre 2015, 131 uccisi nel villaggio di al-Wahjiah, vicino alla città portuale di al-Mokha; il mese dopo 43 morti nel villaggio di Sanaban.

Nelle stesse ore arriva la notizia dell’uccisione in un raid saudita di uno dei leader del movimento Ansar Allah, riferimento politico dei ribelli Houthi: il capo del consiglio politico Saleh Ali al-Sammad (secondo nella lista saudita dei ricercati) è stato ucciso dall’aviazione dei Saud, nel sud della provincia di Hodeidah, tra le zone teatro dei più duri scontri tra Houthi e forze pro-governative.

25 Aprile - Liberazione dal vecchio e nuovo fascismo e razzismo

Blog Diritti Umani - Human Rights
25 aprile, giorno di festa nazionale in cui si celebra l'anniversario della Liberazione dell'Italia dal nazifascismo per ricordare quel momento storico in cui le truppe alleate anglo-americane, con il fondamentale contributo della Resistenza partigiana riuscirono ad allontanare dal nostro Paese le forze di occupazione naziste e a rovesciare il governo fascista della Repubblica Sociale italiana, mettendo fine a venti anni di dittatura e cinque di guerra.
Ricorrenza che davanti a rigurgiti fascisti e nazisti che si manifestano, soprattutto contro gli immigrati che cercano in Europa un rifugio in fuga da guerra, violenze e fame, rimette in primo piano come il nostro Paese sia fondato sulla sconfitta e la condanna di ogni fascismo.

Bologna. il Vescovo Zuppi al centro sociale Tpo. «Normale parlare con tutti»

L'Avvenire
L'arcivescovo in un luogo simbolo dell’antagonismo bolognese: il Papa si preoccupa dei problemi del mondo affrontandoli con chi se ne occupa tutti i giorni.


Un momento dell’incontro con l’arcivescovo Zuppi con il centro sociale Tpo
La prima volta dell’arcivescovo Matteo Zuppi al Tpo di via Casarini a Bologna, e la prima volta di un vescovo in un centro sociale, perlomeno in Italia. Non poteva non fare notizia l’incontro di lunedì sera nel capoluogo emiliano: «In effetti la Curia bolognese non l’avevamo mai invitata», afferma la voce storica del Tpo, Domenico Mucignat. Ma Zuppi mette le cose in chiaro sin da subito: «No, non voglio mandare nessun segnale, per me è normale parlare con tutti». E continua: «Se parlare fa notizia è veramente preoccupante. Siamo messi male. Bisogna aggiornare le geografie, siamo antichi e parlare non significa diventare uguali. Se parli con tutti costringi tutti a riparlare con tutti. Proprio perché siamo liberi da qualunque strumentalità, siamo qui oggi ». L’occasione è fornita dalla presentazione del libro Terra, casa, lavoro, un volume che raccoglie tre dialoghi di papa Francesco agli incontri mondiali dei movimenti popolari avvenuti a Roma, nel 2014 e nel 2016, e a Santa Cruz, nel 2015.

Un’occasione ghiotta per il centro sociale, ma anche per Zuppi, perché se c’è un tema che tanto il pontefice quanto i movimenti sociali hanno a cuore, è proprio l’antagonismo al sistema neoliberista o “del denaro”, come di solito lo chiama Bergoglio. Tanto che, nella discussione, si toccano temi alti fin da subito: si passa da Togliatti a papa Giovanni XXIII, dal marxismo ai beni comuni, si citano Lenin, Gramsci e naturalmente papa Francesco. «Io non smetto di essere vescovo, come il Papa non ha smesso di essere Papa – scandisce l’arcivescovo di Bologna –. Lui si preoccupa dei problemi del mondo affrontandoli con chi se ne occupa tutti i giorni. Questo forse crea difficoltà perché ci costringe a confrontarci. Cos'è che ci unisce? Abbiamo tanto da dire perché c’è molto da fare. I discorsi del Papa riportati in questo volume ci insegnano a spezzare la tragedia dell’iniquità e dare speranza ai poveri».

Prove di dialogo tra cattolici, a occhio e croce la maggioranza di quelli seduti nel grande cerchio nella sala del Tpo, e attivisti, quelli che fanno la lotta sporcandosi le mani e, se necessario, anche la fedina penale. E infatti le differenze rimangono ed emergono nel corso dell’incontro, sulla sessualità, per esempio, o il corpo delle donne, come ricordano le attiviste a cui Zuppi risponde tranquillo: «Abbiamo diversi punti di vista. Posizioni diverse, tutto qui». Due mondi che in fondo si erano già avvicinati da tempo, due anni fa, sul suolo migliore di tutti, quello dell’esigenza concreta di un richiedente asilo che aveva urgente bisogno di trovare un alloggio. Lo hanno aiutato in due, una parrocchia e lo sportello migranti insieme al progetto “Accoglienza degna” di Làbas, un altro centro sociale.

A dialogare sul libro ci sono anche Luciana Castellina, giornalista e fondatrice del Manifesto e il curatore del testo Alessandro Santagata. «Prendere la parola pubblica insieme anche perché o il conflitto diventa alternativa o non ne usciamo. La prospettiva è un lungo periodo di violenza e di barbarie – sintetizza Castellina –. Che ce ne facciamo di Palazzo Chigi se la società continua a rimanere quella che è? La spinta comune è al cambiamento, mettendo al centro le persone. Gli ultimi». Una parola utilizzata molto spesso, in primis da papa Francesco, da Matteo Zuppi e dagli attivisti. L’arcivescovo di Bologna corona il suo intervento con un’altra parola che gli è particolarmente cara: ricucire. Ricucire una società sbrindellata che disperde le proprie energie anche su battaglie comuni che oggi avrebbero bisogno di un intervento collettivo.


Caterina Dall'Olio

martedì 24 aprile 2018

Siria: Unicef, 2,8 milioni di bambini sono senza istruzione

SIR
Nonostante gli oltre 7 anni di guerra in Siria quasi 5 milioni di bambini siriani vanno a scuola, ma altri 2,8 sono senza istruzione. 


L’allarme è dell’Unicef che, in vista della conferenza a Bruxelles sulla Siria (24-25 aprile), invita a un maggiore supporto per l’istruzione dei bambini. 

Drammatiche le cifre aggiornate dell’Unicef: dall’inizio del conflitto nel 2011, sono state attaccate 309 strutture scolastiche e una scuola su tre non può più essere utilizzata; circa il 40% dei bambini che non vanno a scuola hanno fra i 15 e i 17 anni, rendendoli vulnerabili allo sfruttamento fra cui i matrimoni precoci, reclutamento nei conflitti e lavoro infantile. 

Queste problematiche, afferma l’Unicef, si stanno diffondendo visto che le famiglie stanno facendo sempre più affidamento su misure di sopravvivenza estreme. Per quanto riguarda i bambini che vanno a scuola, il rischio di abbandono incombe mentre affrontano gli impatti del trauma. 

Tuttavia, “contro ogni aspettativa”, 4,9 milioni di bambini siriani continuano ad avere accesso all’istruzione. Circa il 90% dei bambini che hanno accesso all’istruzione frequentano le scuole pubbliche, sia in Siria, che nei paesi vicini. 

In Libano e Giordania, i bambini siriani hanno potuto unirsi ai loro coetanei locali nelle scuole pubbliche. Tuttavia, rimangono sfide enormi. A causa del conflitto che va avanti da sette anni 2,8 milioni di bambini hanno perso la scuola; alcuni di questi bambini non sono mai andati a scuola, mentre altri hanno perso fino a sette anni di istruzione, rendendo loro estremamente difficile recuperare gli anni perduti. 

“I consistenti finanziamenti da parte dei donatori, la generosità senza precedenti da parte dei governi ospitanti e le comunità, il lavoro senza sosta di insegnanti eroici e la determinazione dei bambini siriani e delle loro famiglie hanno aiutato milioni di bambini siriani a ricevere un’istruzione”, ha dichiarato Geert Cappelaere, direttore regionale dell’Unicef per il Medio Oriente e il Nord Africa. 

“I leader mondiali questa settimana si incontreranno a Bruxelles per la conferenza per supportare il futuro della Siria e della regione: chiediamo loro di non arrendersi con i bambini e i giovani che ne hanno già passate così tante. Finanziamenti costanti, flessibili, senza condizioni e a lungo termine per il settore dell’istruzione sono necessari per migliorare il sistema esistente e aumentare il numero di opzioni alternative per i bambini e i giovani di partecipare a un apprendimento di qualità. La protezione e i bisogni dei bambini devono essere la priorità per i decisori politici e per coloro che combattono sul campo”.

24 aprile - Ricordo dell'olocausto del popolo armeno nel 1915. "Medz Yeghern" "Il grande male"

Internazionale
I massacri della popolazione cristiana (armeni, siro cattolici, siro ortodossi, assiri, caldei e greci) avvenuti in Turchia tra il 1915 e il 1916 sono ricordati dagli armeni come il Medz yeghern, “il grande crimine”. Le uccisioni cominciarono nella notte tra il 23 e il 24 aprile 1915, quando furono eseguiti i primi arresti tra l’élite armena di Costantinopoli. 



L’operazione continuò nei giorni successivi. In un mese più di mille intellettuali armeni, tra cui giornalisti, scrittori, poeti e parlamentari furono deportati verso l’interno dell’Anatolia.

Lo sterminio e la deportazione di massa della popolazione cristiana dell’Armenia occidentale erano stati decisi dall’impero Ottomano a causa delle sconfitte subite all’inizio della prima guerra mondiale per opera dell’esercito russo, in cui militavano anche battaglioni di volontari armeni. Dall’inizio del 1915 gli armeni maschi in età da servizio militare erano stati concentrati in “battaglioni di lavoro” dell’esercito turco e poi uccisi, mentre il resto della popolazione era stato deportato verso la regione di Deir ez Zor in Siria con delle marce della morte, che coinvolsero più di un milione di persone: centinaia di migliaia morirono per fame, malattia, sfinimento o furono massacrati lungo la strada.

Secondo lo storico polacco Raphael Lemkin (che ha coniato il termine genocidio) si è trattato del primo episodio in cui uno stato ha pianificato ed eseguito sistematicamente lo sterminio di un popolo. La Turchia però non ha mai accettato la definizione di genocidio, sostenendo che le uccisioni compiute dall’impero Ottomano erano una risposta all’insurrezione degli armeni e alla necessità di difendere le sue frontiere, e sottolineando che anche migliaia di turchi erano morti nel conflitto.

Il numero degli armeni morti in questo secondo massacro (altre stragi erano state commesse nel 1890) è controverso. Fonti turche fermano il numero dei morti a duecentomila, mentre quelle armene arrivano a 2,5 milioni. Gli storici stimano che la cifra vari tra i 500mila e due milioni di morti, ma il bilancio di 1,2 milioni è il più diffuso.

I paesi che riconoscono ufficialmente il genocidio armeno sono 22, tra cui l’Italia, mentre in altri è riconosciuto solo da singoli enti o amministrazioni. Molti altri paesi, tra cui gli Stati Uniti e Israele, continuano a non usare il termine genocidio per timore di una crisi nei rapporti con la Turchia. Barack Obama si era espresso in favore del riconoscimento prima di diventare presidente degli Stati Uniti, ma da quando è stato eletto, pur promuovendo la pacificazione tra Turchia e Armenia, ha evitato di usare il termine.

Cosa sta succedendo in Nicaragua? Venticinque morti nelle proteste contro il governo.

AGI
Tra le vittime un giornalista e almeno un poliziotto. A scatenare la rabbia popolare contro l'esecutivo dell'ex guerrigliero Ortega è la riforma delle pensioni, che prevedeva un aumento dei contributi che gravano su imprese e dipendenti.



* Il presidente del Nicaragua, Daniel Ortega, ha annunciato la revoca della riforma previdenziale, che ha dato il via alla violenta ondata di proteste in cui sono morte almeno 25 persone, tra le quali anche un giornalista che stava facendo una diretta su Facebook. In un incontro con uomini d'affari, l'ex guerrigliero sandinista ha detto che l'istituto previdenziale nicaraguense ha deciso di revocare la riforma che avrebbe aumentato i contributi dei lavoratori e dei datori di lavoro per dare stabilità finanziaria al sistema pensionistico.

C'è anche un giornalista che stava realizzando una diretta Facebook tra i 25 morti nelle proteste contro la riforma delle pensioni in Nicaragua. Il bilancio di cinque giorni di rivolta contro il governo del presidente Daniel Ortega comprende anche 67 feriti, 43 dispersi e 20 arresti, secondo i dati diffusi dal Centro per i diritti umani del Paese centro-americano. Tra le vittime, registrate a Managua e in alcuni comuni vicini, c'è almeno un poliziotto.

Angel Gahona, questo il nome del giornalista, stava mostrando in diretta su Facebook gli scontri fra polizia e manifestanti e i danni a una banca della città di Bluefields, sulla costa caraibica, quando è stato centrato da un proiettile. Le immagini lo mostrano a terra, sanguinante. I colleghi hanno accusato la polizia affermando che a colpirlo è stato un tiratore scelto e che gli unici armati erano gli agenti antisommossa. Ma alcune foto scattate dai reporter di France Presse raccontano una realtà diversa: anche alcuni dimostranti sono armati.

Quelle scoppiate mercoledì scorso sono le più gravi proteste in Nicaragua in 11 anni di presidenza dell'ex guerrigliero sandinista Ortega. La riforma delle pensioni si propone di aumentare il costo dei contributi che grava su imprese e dipendenti per colmare il buco di 76 milioni di dollari del sistema pensionistico.

Nel mirino della dura repressione della polizia sono spesso finiti i giornalisti a cui è stata sequestrata l'attrezzatura. Ortega sabato si è offerto di avviare un negoziato con il settore privato ma le imprese hanno chiesto che prima cessi la repressione della polizia. Tra i dimostranti, si starebbero mischiando numerosi sciacalli che, approfittando della distrazione delle forze dell'ordine, starebbero saccheggiando i negozi.

La preoccupazione del Papa
Papa Francesco si è detto "preoccupato per quanto sta accadendo in questi giorni in Nicaragua". "Esprimo la mia vicinanza nella preghiera a quell'amato Paese", ha affermato il Pontefice durante il Regina Caeli in piazza San Pietro, "e mi unisco ai Vescovi nel chiedere che cessi ogni violenza, si eviti un inutile spargimento di sangue e le questioni aperte siano risolte pacificamente e con senso di responsabilità". Il Nicaragua è un Paese a maggioranza cattolica e la Conferenza dei vescovi in Nicaragua ha condannato la repressione appellandosi al buonsenso del governo.

lunedì 23 aprile 2018

USA - Dopo la nascita del movimento "March For Our Lives" - L’onda degli studenti contro le armi torna in piazza. «Enough is enough»

Il Manifesto
Nell'anniversario della strage alla Columbine. «Enough is enough», ripetono gli studenti, «quando è troppo è troppo», e sono serissimi ed organizzati, ripetono che la loro arma è il voto è molti di loro saranno maggiorenni in tempo per votare alle elezioni di medio termine a novembre, penalizzando i politici che non abbracciano una posizione seria per il controllo delle armi.



Sono passati diciannove anni dal massacro alla Columbine High School in Colorado, dove hanno perso la vita dodici studenti e un insegnante, vennero ferite 24 persone, e i due studenti autori della strage si suicidarono, sparandosi a loro volta.

La data di questo drammatico anniversario è stata scelta da migliaia di studenti delle scuole superiori in tutti gli Stati uniti per tornare a manifestare, facendo un walk out, un’uscita contemporanea dalle scuole all’ora in cui, quasi 20 anni fa, si apriva il fuoco nel liceo del Colorado. Gli studenti hanno ripetuto ancora una volta che i politici non fanno abbastanza per garantire la loro sicurezza, nonostante da allora le sparatorie, specialmente nelle scuole, non siano mai diminuite; l’ultima è avvenuta solo un’ora prima delle manifestazioni, a Ocala, in Florida, dove una ragazza di 19 anni con una pistola è entrata in una scuola superiore ed ha sparato a una ragazza di 17 anni.

ENOUGH IS ENOUGH, ripetono gli studenti, «quando è troppo è troppo», e sono serissimi ed organizzati, ripetono che la loro arma è il voto è molti di loro saranno maggiorenni in tempo per votare alle elezioni di medio termine a novembre, penalizzando i politici che non abbracciano una posizione seria per il controllo delle armi.
Alcuni degli studenti più noti di questo neonato ma già bene organizzato movimento, come David High, sopravvissuto alla sparatoria del 14 febbraio scorso a Parkland in Florida, è diventato maggiorenne pochi giorni fa e ha ribadito sui social la sua determinazione a votare per le elezioni di midterm, dalle quali dipendono le sorti degli equilibri al Congresso. Campagne di sensibilizzazione che puntano a riempire le urne di giovani contro le armi sono organizzate e diffuse capillarmente, come quella spinta da Now This, il sito web e società portale di notizie che distribuisce contenuti, principalmente video, per dispositivi mobili e piattaforme social, dove in tre minuti una neo diciottenne spiega perché questo voto che si avvicina può fare la differenza.

È una novità  questo impegno politico così sentito da parte di un’intera generazione di giovani, sostenuti da tutti i politici e attivisti per il controllo delle armi che da decenni non riescono a far breccia nella direzione di una legislazione responsabile, ma che ora vedono in questo movimento la possibilità di poter incidere.


Marina Catucci - New York

Migranti si buttano in mare al grido di "No Libia": salvate decine di persone

La Repubblica
Ancora una volta una nave umanitaria è stata mandata in zona e poi fermata dalla Guardia costiera italiana. Di fronte alla reazione di coloro che si trovavano sul gommone, i libici hanno accettato che la Sea Watch li prendesse a bordo.



Un altro drammatico salvataggio nel Mediterraneo, un'altra nave umanitaria prima inviata e poi fermata dalla Guardia costiera italiana, i migranti che si buttano in mare senza salvagente al grido di "No Libia" appena vedono arrivare la motovedetta libica che, alla fine, permette che i volontari della Ong tedesca Sea Watch tirino fuori dall'aqua uomini, donne e bambini. 

Testimone del salvataggio la giornalista Rai Angela Caponnetto, a bordo della Sea Watch, che all'alba twitta: "Li abbiamo tutti a bordo, sono 90, i libici hanno acconsentito".

Tre ore prima, su indicazione della sala operativa di Roma, era stata la Sea Watch a raggiungere il gommone con i migranti ma poi i volontari erano stati fermati dall'ormai consueto ordine di lasciare campo alla Guardia costiera libica nonostante le motovedette fossero ancora lontane. "Per tre ore - racconta la giornalista - non si è visto nessuno. Poi quando sono arrivati, i migranti si sono gettati tutti in acqua. Cosa sarebbe successo se non avessimo dato noi i giubbotti di salvataggio?".
Un nuovo episodio, dunque, che testimonia come - anche in assenza di motovedette libiche sul posto - la sala operativa della Guardia costiera di Roma continui a fermare le Ong ordinando loro di stare a guardare in attesa dell'arrivo dei libici e lasciando che i migranti vengano riportati indietro.
Ieri, giornata di bel tempo, ci sono state numerose partenze. Più di 500 le persone salvate nel giro di un'ora da altre due navi umanitarie, la Aquarius di Sos Mediterranee e la Astral di Open Arms, ma anche dalla nave Diciotti della Guardia costiera italiana. Da quest'ultima i migranti sono stati poi trasbordati sulla Aquarius che ha fatto rotta verso il porto di Trapani.

Migranti, naufragio nel mare di fronte alla Libia: 11 morti, 263 soccorsi

La Repubblica
Almeno 11 migranti sono morti e 263 sono stati soccorsi durante due operazioni di salvataggio al largo delle coste della Libia. La notizia è stata data da un portavoce della marina libica all'Afp. 


La prima operazione, ha detto il generale Ayoub Kacem, è avvenuta al largo di Sabrata (70 km a ovest di Tripoli), dove una pattuglia ha recuperato i corpi di 11 migranti e 83 sopravvissuti che erano su una barca. La seconda è avvenuta al largo di Zliten (170 km a est di Tripoli), dove 180 migranti sono stati salvati da due gommoni e riportati a Tripoli.

L'ultima tragedia in mare avviene a poche ora da un drammatico salvataggio durante il quale una nave umanitaria era stata mandata in zona e poi fermata dalla Guardia costiera italiana. Di fronte alla reazione di coloro che si trovavano sul gommone (si sono buttati in mare senza salvagente al grido di "No Libia"), i libici avevano accettato che la nave dei volontari della Ong tedesca Sea Watch li prendesse a bordo.

domenica 22 aprile 2018

Più di 200 bambini soldato rilasciati in Sud Sudan.

Blog Diritti Umani - Human Rights
Ganiko e Jackson di 12 e 13 anni, sono due dei 207 bambini-soldato che sono stati rilasciati il ​​17 aprile da gruppi armati nel Sud Sudan. Si prevede che, nei prossimi mesi, altri 1.000 abbandoneranno i gruppi armati che li hanno rapiti



Nel 2016, Khamisa [nome fittizio], 15 anni, stava andando a scuola quando è stata rapita insieme ai quattro amici che erano con lei. Gli uomini armati li portarono a una base dove c'erano molti altri bambini. Khamisa era responsabile della pulizia, della preparazione del cibo e della raccolta della legna da ardere, ma ha anche ricevuto un addestramento militare. Gli hanno insegnato a marciare e tenere una pistola, ma non gli è mai stato chiesto di sparare. Poco dopo essere stato rapito, suo padre morì. "Non c'è nessuno che sia responsabile per me adesso", si lamenta. "Mia madre è troppo povera per prendersi cura di noi."

I genitori di Nawai [nome fittizio] sono fuggiti nella Repubblica Democratica del Congo nel 2016 con l'ondata del conflitto, e lei è stata rapita insieme alle sue due sorelle mentre camminavano verso casa. Uno dei due minori è stato restituito al villaggio alcuni giorni dopo, non smettendo di piangere. Per due anni, Nawai, che ora ha 15 anni, ha condiviso una piccola stanza con altre ragazze del gruppo ed è stata costretta a cucinare, pulire e andare a prendere l'acqua per gli uomini armati. "Una volta mi hanno chiesto di raccogliere l'acqua, e quando sono tornata, hanno detto che mi ci è voluto troppo tempo e hanno minacciato di colpirmi", ricorda. Ora vuole tornare a scuola.

L'ultimo rilascio di minori appartenenti a gruppi armati, iniziativa sostenuta dall'Unicef ​​si è svolta nella comunità rurale di Bakiwiri, a un'ora di auto da Yambio, nello stato di Western Equatoria. Durante la cerimonia, i bambini sono stati formalmente disarmati e forniti di abiti civili. Ora verranno effettuati esami medici e i bambini riceveranno consulenza, formazione professionale e supporto psicosociale. L'assistenza alimentare sarà fornita alle loro famiglie per tre mesi.

Fonte: El Pais - Sebastian Rich / Unicef

ES

Olivia Arévalo Lomas, uccisa perché proteggeva i diritti degli ultimi indigeni in Perù

TPI
La donna si batteva per proteggere i diritti del popolo indigeno degli shipibo-konibo, in Perù. È stata uccisa da 5 colpi di arma da fuoco.

Olivia Arévalo Lomas, 81 anni
Olivia Arévalo Lomas era una donna di 81 anni, leader degli shipibo-konibo, una tribù indigena del Perù che vive lungo il fiume Ucayali.

È stata uccisa da 5 colpi di arma da fuoco nella comunità interculturale di Victoria Gracia, nella regione di Ucayali, nel centro del paese.

Saggia indigena e studiosa delle tradizioni degli shipibo-konibo, si era battuta per anni in difesa dei diritti culturali e ambientali di questo popolo. L’identità degli assassini è ancora sconosciuta.

Olivia conservava le conoscenze legate alla medicina tradizionale degli shipibo-konibo e i canti sacri, dichiarati patrimonio culturale a giugno del 2016 dal Ministro della cultura peruviano.

La Federazione delle comunità native di Ucayali e Affluentes (FECONAU) e altre organizzazioni hanno condannato l’omicidio e hanno chiesto allo Stato del Perù di tutelare i leader delle popolazioni indigene.

Questo il comunicato stampa e la foto di Olivia, pubblicate su Facebook dalla Federazione:
“Comunicato stampa:Assassinata l’attivista per i diritti culturali del popolo shipibo-konibo.Nella comunità interculturale “Victoria Gracia”, situata a 20 minuti dalla località di Yarinacocha, oggi [19 aprile 2018] alle 12.30 circa, la nostra sorella shipibo-konibo Olivia Arévalo Lomas e saggia (meraya) è stata assassinata con 5 colpi di pistola al cuore, da degli sconosciuti.FECONAU e COSHICOX, gli organi più importanti del popolo shipibo-konibo, condannano energicamente questi fatti di sangue che insultano la famiglia e il popolo shipibo-konibo.Facciamo appello all’opinione pubblica nazionale e internazionale affinché lo Stato peruviano ci dia delle garanzie sulla sicurezza degli altri leader indigeni del popolo shipibo-konibo che oggi devono affrontare altre minacce di morte.Yarinacocha, 19 aprile 2018FECONAU e COSHICOX,”

Fascisti francesi e italiani presidiano il confine italiano per bloccare i migranti

Globalist
A Colle della Scala, quattro chilometri da Bardonecchia, si sono dati appuntamento gli estremisti neri di Génération Identitaire. Stanno issando reti per impedire il passaggio dei profughi.


Ci sono fascisti francesi, e anche italiani a presidiare il confine con l'Italia al Colle della Scala per respingere i migranti che cercano di raggiungere la Francia. Sarebbero circa un centinaio di camicie nere che hanno aderito alla campagna Defende Europe lanciata da Génération Identitaire, una formazione neofascista con addentellati in diversi Paesi europei, tra cui l'Italia.

“Prenderemo possesso del passo alpino e ci assicureremo che nessun clandestino possa entrare in Francia – dice un loro portavoce Romain Espino - Spiegheremo ai migranti che ciò che non è umano è far credere loro che attraversare il Mediterraneo o scalare il passo innevato non sia pericoloso. Non troveranno un El Dorado”.

Secondo quanto scrive l'edizione torinese di Repubblica: "I militanti di destra stanno installando delle reti per segnare il confine tra i due Stati". In un comunicato i fascisti scrivono: "Le nostre squadre stanno perlustrando la zona e fermeranno ogni tentativo di entrare illegalmente in Francia – scrivono in un comunicato - Dall'estate del 2017 il flusso di clandestini che percorre questo passaggio continua a crescere. Oltre 2mila immigrati clandestini sono già stati ufficialmente registrati. Quanto sono in realtà quelli arrivati? Il Governo Macron si rifiuta di proteggere il confine: gli dimostriamo che con la volontà è perfettamente possibile. 

Piuttosto che sbloccare fondi per creare nuovi centri di accoglienza per i migranti clandestini, dovrebbe rimpolpare i bilanci della polizia di frontiera. Chiediamo lo stop dell'immigrazione di massa e il blocco definitivo del passaggio del Colle della Scala. Nessun clandestino deve poter entrare illegalmente in Francia percorrendo questa strada – precisano - I francesi non vogliono più immigrazione Il posto di questi migranti clandestini non è né in Francia, né in Italia, ma nel loro paese d'origine”. Né il sindaco di Bardonecchia, Francesco Avato, né il suo omologo oltre confine di Nevache, Jean-Louis Chevalier, erano stati informati dell'iniziativa.

sabato 21 aprile 2018

Libano, Hrw denuncia espulsioni rifugiati siriani dai loro alloggi per motivazioni incoerenti e discriminatorie

AFP
Beirut - Migliaia di rifugiati siriani sono stati allontanati con la forza ed espulsi in alcune città del Libano con motivazioni "incoerenti" e discriminatorie. Lo ha affermato in un rapporto l'ong Human Rights Watch (Hrw).


Almeno 3.664 rifugiati sono stati espulsi da almeno 13 comuni tra il 2016 e il primo trimestre del 2018, "apparentemente a causa della loro nazionalità o religione", ha sottolineato Hrw, basandosi su cifre diffuse dall'Unhcr (Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati ).

Il Libano, piccolo Paese di quattro milioni di abitanti, ha visto arrivare sul suo territorio almeno quattro milioni di rifugiati dalla vicina Siria, funestata dalla guerra dal 2011.

Venezuela - Provea: 210 persone hanno perso la vita in manifestazioni contro il governo di Maduro.

Blog Diritti Umani - Human Rights
Il Programma venezuelano di educazione-azione sui diritti umani (Provea) ha stimato che 34.332 persone sono state arbitrariamente detenute durante le manifestazioni contro il governo di Nicolás Maduro e circa 210 persone hanno perso la vita a seguito della repressione delle forze armate.



"Nella sua gestione, dal 2016, sono state registrate 23.227 violazioni di integrità personale, tra cui torture, ferite e trattamenti crudeli contro centinaia di venezuelani", ha affermato l'organizzazione tramite il proprio account Twitter.

Si distingue che durante l'attuale governo 210 persone hanno perso la vita nelle manifestazioni, un dato superiore del 244% rispetto agli 86 decessi registrati nelle proteste registrate nei 21 anni precedenti il suo mandato.

ES

Grecia: Corte suprema: non trattenere i richiedenti asilo sulle isole dell'Egeo

Corriere della Sera
Con una sentenza emessa il 17 aprile su un ricorso presentato dal Consiglio greco dei rifugiati, la Corte suprema di Atene ha invalidato la politica del governo di imporre limitazioni geografiche ai richiedenti asilo arrivati sulle isole di Lesbo, Rodi, Samo, Coo, Lero e Chio. 


Quella politica era figlia dell'accordo del 20 marzo 2016 tra Unione europea e Turchia: i richiedenti asilo arrivati dopo quel giorno sarebbero stati bloccati sulle isole del mar Egeo orientale per rendere più facile il ritorno, ai sensi dell'accordo, in Turchia.

Il risultato è stato pesantissimo per i richiedenti asilo (e naturalmente per le piccole isole greche e la loro popolazione), trattenuti in territori piccoli, in condizioni squallide e di sovraffollamento, destinatari di straordinari gesti di solidarietà ma anche di brutali atti di violenza. 

La sentenza della Corte suprema greca non ha effetto retroattivo e dunque non risolverà il problema dell'intenso sovraffollamento sulle isole dell'Egeo orientale, a meno che con una decisione politica il governo non disponga che tutti gli altri richiedenti asilo siano trasferiti sulla terraferma, lontano dalle attuali inaccettabili condizioni di vita.

Riccardo Noury

USA - Pena di morte - Messo a morte in Alabama Walter Leroy Moody Jr. di 83 anni: è il condannato a morte più anziano

La Repubblica
A 83 anni era il condannato a morte più anziano da quando, negli Stati Uniti, le esecuzioni della pena capitale sono riprese negli anni '70. 

Walter Leroy Moody Jr
La morte di Walter Leroy Moody Jr. è stata pronunciata in Alabama alle 20 e 42 ora locale, le 3 e 42 in Italia. È spirato dopo essere stato sottoposto ad una iniezione letale nella prigione di Atmore.

Era stato condannato per aver ucciso con una bomba un giudice federale - Robert S. Vance di Birmingham - nel 1989, in un'ondata di azioni terroristiche nel sud degli Stati Uniti. La Corte suprema aveva rinviato temporaneamente l'esecuzione. Ma si è trattata di una speranza vana. Esaminato il ricorso d'urgenza dei legali, alla fine è stato dato il via libera.

venerdì 20 aprile 2018

Le bombe italiane nella guerra in Yemen: presentata una denuncia alla procura di Roma

Corriere della Sera
Alle 3 di notte dell’8 ottobre 2016 uno degli innumerevoli attacchi aerei della coalizione militare guidata dall’Arabia Saudita in Yemen colpisce il villaggio di Deir Al-Hajari, nel nord-ovest del paese.


L’attacco uccide una famiglia di sei persone, tra cui una madre incinta e quattro bambini.
Sul luogo dell’attentato vengono rinvenuti alcuni resti di una bomba MK80 e un anello di sospensione (componente bellico necessario per caricare la bomba su un aereo) fabbricati da RWM Italia S.p.A., società controllata dal produttore tedesco di armi Rheinmetall AG.

Per fare luce sul contributo fornito da soggetti italiani in quell’attacco, ieri l’European Center for Constitutional and Human Rights (ECCHR), la Rete Italiana per il Disarmo e l’organizzazione non governativa yemenita Mwatana hanno presentato una denuncia penale alla Procura della Repubblica italiana di Roma.

Nella denuncia si chiede che venga avviata un’indagine sulla responsabilità penale dell’Autorità italiana che autorizza le esportazioni di armamenti(Unità per le Autorizzazioni dei Materiali d’Armamento – UAMA) e sugli amministratori della società produttrice di armi RWM Italia S.p.A. per le esportazioni di armamenti destinate agli stati membri della coalizione militare guidata dall’Arabia Saudita coinvolti nel conflitto in Yemen.
Dal marzo 2015 tutte le parti coinvolte nel conflitto nello Yemen hanno ripetutamente violato i diritti umani e la popolazione civile sta affrontando una crisi umanitaria di vaste proporzioni. Numerosi attacchi aerei sferrati dalla coalizione militare guidata dall’Arabia Saudita sono stati giudicati dalle Nazioni Unite in violazione del diritto umanitario internazionale. Amnesty International parla ripetutamente di crimini di guerra.

“Ciò nonostante, l’Italia continua ad esportare armi verso i membri della coalizione militare guidata dall’Arabia Saudita. Ciò è contrario alla legge italiana n.185/1990, che vieta l’esportazione di armi verso paesi in conflitto armato. Inoltre, è in contrasto con le disposizioni vincolanti della Posizione comune dell’Unione Europea che definisce norme comuni per il controllo delle esportazioni di attrezzature militare e contro le prescrizioni contenute nel Trattato internazionale sul commercio delle armi”, ha dichiarato Francesco Vignarca, della Rete Italiana per il Disarmo.

Radhya Al-Mutawakel, direttrice di Mwatana, ha aggiunto: “Dal 2015 la coalizione guidata dall’Arabia Saudita ha ucciso e ferito migliaia di civili in Yemen e ha bombardato anche scuole, ospedali, case, ponti e altro ancora. È molto triste che anche l’Italia stia alimentando questa guerra, vendendo armi ad alcuni stati membri della coalizione guidata dall’Arabia Saudita”.

Riccardo Noury