Pagine

venerdì 29 ottobre 2021

In Russia sale il numero di detenuti politici. Sono 420 come ai tempi pre Gorbaciov

rainews.it
È paragonabile a quello dell'Urss, prima dell'arrivo di Gorbaciov. Secondo le stime del Centro per i diritti dell'uomo "Memorial", nell'ultimo anno il numero di detenuti politici in Russia è salito da 362 a 420 persone, ed è paragonabile a quello ai tempi dell'Unione Sovietica, prima del rilascio dei detenuti politici per ordine di Mikhail Gorbačëv.


Tra i detenuti, 360 sono imprigionati per motivi religiosi ed altri 80 per motivi puramente politici. I dati sono stati diffusi alla vigilia della Giornata della memoria delle vittime della repressione politica che dal 1990 in Russia si commemora il 30 ottobre. 

Tuttavia, sottolinea "Memorial", il numero reale di prigionieri politici e altre persone imprigionate per motivi politici è senza dubbio significativamente più alto. L'aumento maggiore è dovuto alle condanne dei seguaci di Hizb ut-Tahrir, un'organizzazione politica internazionale pan-islamica e fondamentalista, il cui obiettivo è quello di ristabilire un califfato islamico che unisca tutta la comunità musulmana e che implementi la sharia, e dei testimoni di Geova.

giovedì 28 ottobre 2021

Siria: Onu, la guerra non è finita. Persone uccise, migliaia di detenuti, 12 milioni di sfollati soffrono la fame, 2% di vaccinati.

AnsaMed
La guerra in Siria continua nonostante molti Stati e analisti preferiscono considerare finito il conflitto: parole di Paulo Pinheiro, presidente della Commissione internazionale indipendente incaricata dall'Onu di far luce sulle violazioni umanitarie durante la guerra siriana.

In un discorso pronunciato nelle ultime ore di fronte ai membri della 3/a commissione dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite, riunitisi a New York, Pinheiro ha ricordato che in Siria si contano "diverse centinaia di migliaia di persone uccise", "decine di migliaia di detenuti", "più di 12 milioni di persone che soffrono di insicurezza alimentare" e "12 milioni di sfollati".

Nella sua relazione, Pinheiro ha detto: "molti Stati e analisti preferirebbero chiudere con il conflitto siriano. Il governo controlla oltre il 70% del Paese e il presidente Assad è stato rieletto. Ma la realtà è che la guerra contro il popolo siriano continua". "Mentre parliamo - ha proseguito - milioni di civili continuano a essere condannati alla guerra, al terrore e al dolore. Molti degli sfollati hanno visto le loro proprietà distrutte o sequestrate dal governo, da gruppi armati o gruppi terroristici".

"L'inverno sta arrivando di nuovo - ha aggiunto Pinheiro - portando il freddo pungente nelle loro tende improvvisate. I siriani ora affrontano una nuova ondata di pandemia e solo il 2,1% della popolazione è completamente vaccinata". 

Alla luce di questi dati, il presidente della commissione d'inchiesta afferma: "non è il momento di pensare che la Siria sia sicura per il ritorno a casa dei suoi rifugiati. Siamo invece assistendo a un aumento dei combattimenti e della violenza". Pinheiro cita a proposito l'escalation di violenze armate verificatesi dall'estate scorsa nel nord-ovest, nel sud, nel nord e nell'est del paese. "Centinaia di migliaia di siriani si svegliano ogni mattina, preoccupati per il destino e dove si trovano i propri cari scomparsi", ha affermato.

martedì 26 ottobre 2021

Bangladesh, i profughi Rohingya deportati nell'isola-lager di Bhasan Char. Senza lavoro e scuola cercano la fuga dall'isola

La Repubblica
Bhasan Char è il luogo in cui il governo ha trasferito decine di migliaia di migranti musulmani birmani per dare respiro al famigerato campo di Cox’s Bazar. Ma la vita è un inferno: si rischiano inondazioni, il cibo è scadente, e così in tanti cercano di scappare via barca con l'aiuto dei trafficanti. "Vogliono lavorare e raggiungere la loro famiglia"


Il suo nome in bangladese significa “l’isola galleggiante", ma potremmo anche chiamarla l’isola che non c’è. Anzi, che non c’era. E che a forza di dragare i sedimenti del fiume Meghna e costruire argini ora c’è. Anche se rischia d’essere spazzata via dalle tempeste tropicali e dalle alluvioni dei cambiamenti climatici sempre più virulenti nel Golfo del Bengala. Ma il governo del Bangladesh vuol riempirla di 100mila profughi rohingya per alleviare il sovrappopolamento a Cox’s Bazar, il mostruoso campo dove vivono ammassati altri 890mila birmani musulmani, fuggiti dalle pulizie etniche del Tatmadaw, l’esercito buddhista di Myanmar.


Il problema di quest’isola che non c’era, Bhasan Char, 40 chilometri quadrati con 1.440 palazzine e 120 rifugi anti-ciclone, sotto un manto di tetti rossi retti da mattoni forati, è che i 20mila disperati che sono già venuti a viverci non vedono l’ora di scappar via. Sognano di tornare dalle famiglie a Cox’s Bazar, di raggiungere i mariti in Malesia, in Thailandia o in Medio Oriente, per poi aprirsi una strada verso l’Europa. 

Vogliono, soprattutto, non vivere di cibo regalato dagli aiuti umanitari, ma guadagnare qualche soldo, avere la dignità di un lavoro che li illuda di un futuro diverso. Così sono pronti a morire affogati, o a farsi riacciuffare e riportare qui. Ma devono superare la polizia che controlla i loro movimenti e che a volte impedisce ai residenti d’interagire con i vicini. “Sono confinati nell’isola, senza permesso di andarsene”, denuncia Zaw Win di Fortify Rights.

In questi mesi, più di 700 profughi hanno pagato ai trafficanti dai 130 ai 500 euro a testa per salire su una barchetta e traversare i 6 chilometri di mare che dividono l'isola dalla costa. Duecento di loro sono stati arrestati e ritrascinati a Bhasan Char, nelle loro unità ben allineate e organizzate che ricordano tanto un lager. Ad agosto, sono affondate due barche di fuggiaschi. Dodici dispersi nella prima, 14 morti e 13 dispersi nella seconda. Le storie sono tante, ma raccontano la disperazione di non sentirsi a casa, di provare un vuoto senza speranza che fa sembrare la morte come un’alternativa migliore di una vita alienante, lontano dalle persone amate, senza nulla in cui sperare. “E in un’isola dove tempeste e alluvioni mettono a rischio chi ci abita”, come denuncia Human Rights Watch.

“Ci danno da mangiare sempre la stessa sbobba, ogni giorno pesce e riso, pesce e riso”, si lamenta un ragazzo. “È cibo che possono mangiare i bangladesi, ma noi rohingya non possiamo ingoiarci quella roba per il resto della vita”. Un anziano, cieco da un occhio, approfondisce il tema: “Quando la gente non ha soldi, e non ha modo di guadagnarne, anche se ha cibo sul piatto, non può essere felice. Per questo vogliono scappar via tutti”. “Sì, è vero, la responsabilità del Bangladesh è servir loro cibo ogni giorno, non trovargli un lavoro”, analizza così il problema il commissario responsabile dei profughi e del rimpatrio per il Bangladesh, Shah Rezwan Hayat. “Dobbiamo ancora sviluppare una comunità, qui. E ciò richiede che arrivi più gente, non che se ne vadano. Quando arriveranno tutti i parenti di chi vive qui, meno gente vorrà andarsene”.

È proprio la mancanza di un’attività lavorativa e la scompaginazione dei nuclei familiari a spingere alla fuga dall’isola che non c’era. Lo ammette anche il poliziotto di Chattogram, una città lungo la costa, incaricato di intercettare i fuggiaschi. “Sono irritati dal fatto di non avere un lavoro. Vogliono lavorare e guadagnare. Per questo fuggono”. Il direttore del Progetto Bhasan Char, Rahed Satter, conferma: “Sono soprattutto i giovani e gli adolescenti a voler fuggire, via fiume, strada o via mare. Vanno a cercare un futuro”.
Chi resta organizza scioperi della fame e proteste, soprattutto quando arrivano gli osservatori Onu, i giornalisti o le organizzazioni a tutela dei diritti umani. E vedono le finestre spaccate, gli atti di vandalismo che rispecchiano rabbia e non senso d’appartenenza. “Siamo circondati dal mare e viviamo terrorizzati dalle alluvioni”, dice Dil Mohammed. “E poi mancano le scuole. Mio figlio sta dimenticando tutto quello che aveva imparato nelle aule di Cox’s Bazar”.

Chi è riuscito a scappare è felice. “Morivo ogni giorno in quell’isola”, confessa Munazar Islam. Nel 2017 era sopravvissuto alla pulizia etnica buddhista nella regione di Rakhine. Il Tatmadaw gli ha ucciso tre cugini. A Cox’s Bazar si era rifatto una vita, anche se in una baracca sovraffollata in un malsano campo profughi. Era venuto volontariamente fino a Bhasan Char, pensando che avrebbe avuto condizioni di vita migliore. Si è pentito, ha pagato 350 euro a un trafficante ed ora è di nuovo con la famiglia a Cox’s Bazar, dove si trova anche Jannat Ara. Mentre fuggiva su una barca per raggiungere il marito in Malesia, Ara fu intercettata dalla marina bangladese e portata a Bhasan Char a vivere con altre tre donne. “Telefonavo piangendo ogni giorno a mamma e papà, rimasti a Cox’s Bazar”. Poi ha pagato 500 euro a un trafficante che l’ha riportata dalla famiglia. “Solo Allah sa come ho fatto a vivere lì un anno intero. Era una prigione con i tetti rossi circondata dal mare”.

Carlo Pizzati

domenica 24 ottobre 2021

Sulle strade di Haiti tra fame e miseria. I giovani disperati in lotta per il futuro. Contro la fame i rapimenti come principale fonte di guadagno

La Repubblica
In un Paese in cui il 70% della popolazione ha meno di 30 anni manca tutto: il cibo, l'energia elettrica, l'assistenza sanitaria. I più fortunati fuggono sperando di arrivare negli Stati Uniti. Per molti di quelli che restano i rapimenti sono diventati una delle principali fonti di reddito. Ieri il sequestro di diciotto missionari protestanti.


Vedere con i propri occhi i numeri del dramma di Haiti suscita per un verso sgomento, per l'altro sdegno assieme all'urgenza di gridarlo comunque. Chi ha letto il rapporto 2020 sulla fame e la denutrizione nel mondo redatto dalla Fao sa che il 48,2% della popolazione di Haiti (più di 5 milioni di persone, poco meno della metà della popolazione del Paese) patisce una fame cronica; il 21,9% dei bambini sotto i cinque anni soffre di arresto della crescita, il 6,5% muore. Il 70% della popolazione è senza assistenza sanitaria, il 60% senza accesso all'elettricità, il 27% vive sotto la soglia di povertà...e si potrebbe continuare.

Mentre atterro a Port au Prince, capitale di questa nazione martoriata, ho in mente anch'io questi e molti altri tragici numeri che ho letto per prepararmi a un breve viaggio. Vengo da Santo Domingo, e chi ha fatto questo volo si accorge della frontiera tra i due Paesi dal cambio di paesaggio: verde quello da dove viene e il deserto quello dove si atterra. E già questo mette sull'avviso. Quando poi la macchina che mi accompagna inizia ad attraversare la città, lo spettacolo di nugoli di bambini e cumuli di spazzatura mi assorbe: i numeri diventano volti (quale fra la ventina dei più piccoli che ho visto non festeggerà i cinque anni?). Neanche le frenate brusche per evitare le infinite buche delle strade dissestate mi distraggono. Al più mi ricordano che dobbiamo mantenere la velocità elevata e rimanere attaccati alla macchina della scorta: proprio ieri hanno rapito diciassette missionari protestanti - in una delle numerose zone abbandonate del Paese - e non è il caso di fare soste o deviazioni.

Il business dei rapimenti
I rapimenti sono diventati, così mi raccontano, una delle principali fonti di reddito di non pochi giovani che hanno fatto di questa attività l'unica fonte di reddito della loro vita. Non ci sono praticamente prospettive di lavoro...la più prospera è quella dei rapimenti. Il 70% della popolazione è sotto i 30 anni! I giovani più fortunati, e i pochi che non si arrendono malgrado tutto, sperano di prendere al più presto il diploma e di volare negli Stati Uniti: anche loro pretendono un pezzetto del sogno americano, e non importa se questo significa abbandonare il loro Paese, le loro famiglie, i loro amici. Haiti sembra non avere nulla da dare al 70% della sua popolazione che ha meno di 25 anni. Se poi sono donne, il destino è ancora più triste e pieno di violenza: sopravvivere alla fame non è sempre foriero di buone notizie. Lo sfruttamento delle ragazze e delle bambine è abitudine quotidiana.

Mi mostrano alcuni articoli che raccontano come si scappa da Haiti. Per raggiungere gli Stati Uniti un giovane Haitiano deve andare nella vicina Santo Domingo e da lì prendere un volo per il Cile, l'unico Paese del continente americano che non chiede il visto. Dopo alcune settimane di lavoro per racimolare qualche soldo si mette in marcia e, a piedi (sì, a piedi!) inizia un viaggio che dura anche tre mesi e che attraversa tutto il Centramerica. Chi resiste a passaggi in mare, superamento di valichi montani e attraversamento di foreste, si trova a un certo punto il Rio Grande che segna il confine tra Messico e Stati Uniti e il muro che in tutti i modi cerca di contenere questa onda continua. Sono dati che conosco, ma sentire i racconti carichi di rabbia e delusione e vedere le immagini delle persone travolte dal flusso delle acque del fiume volutamente innalzate per "pulire" il Rio Grande è un'altra cosa.

La speranza nel lavoro di associazioni e ong
Il vuoto politico e culturale di questa nazione - la tragedia dell'assassinio del Presidente rende il vuoto politico ancor più drammatico - sposta la speranza all'esterno dei suoi confini: ogni visitatore è accolto con favore ed è destinatario di una richiesta di aiuto. Insistono: qui manca totalmente la speranza per il domani e l'oggi è invivibile. 

Ci sono esempi e me li presentano di Ong e associazioni straniere che hanno progetti di risanamento e di sviluppo. Mi commuovono alcuni giovani di Sant'Egidio che con la "scuola della pace" si impegnano a far crescere più serenamente, per quanto possibile, i bambini di uno slam della capitale. Ma è come la goccia nel mare, o meglio nel deserto di vita e di speranza. Mi chiedono di parlare di loro al Papa, convinti che la sua autorità morale possa innescare un rinnovamento in una popolazione che non riesce a trovare al suo interno una forma strutturata e feconda per affrontare la situazione in cui versa.

Penso al recente discorso che Papa Francesco ha rivolto ai movimenti popolari latinoamericani in cui ha lodato la loro capacità di accompagnare e fare crescere un popolo e mi chiedo se possa valere anche qui. Vedo un popolo resiliente che attende un nuovo futuro per il proprio Paese.
Vedo il bene che fanno, anche a medio termine quei progetti che, seppur avviati da soggetti stranieri, fanno crescere le realtà locali chiedendo di diventare protagonisti del loro futuro e, dono ancor più prezioso di soldi e contributi, offrono loro un motivo per farlo.

Il grido di aiuto di questa popolazione giovane e martoriata risuona sempre più prepotente nella mia testa e nel mio cuore: da oggi ha la forma della giovanissima madre il cui sguardo incrocio in uno "slum" della capitale, o del giovane vescovo di Anse-à-Veau che mi racconta dell'infinito disastro prodotto da un terremoto che ha colpito la sua città.

Il grido di aiuto di una nazione non può essere inascoltato. Men che meno dall'Europa che questa isola magnifica ha, lungo i secoli, diviso, depredato e infine abbandonato. In diversi mi chiedono perché l'Italia non riapre l'ambasciata ad Haiti chiusa diversi anni fa. Io mi chiedo come possiamo tornare a camminare insieme a questo popolo, dismettendo le vesti terribili dei colonizzatori e assumendo quelle amichevoli dei compagni di viaggio. Perché, in questo mondo ormai fattosi stretto, ci possiamo salvare solo insieme: noi, ormai avanti negli anni, e i giovanissimi ragazzi che stazionano rumorosamente lungo le strade tutto il giorno senza che nessuno faccia qualcosa per loro. Solo insieme. Ci salveremo.

Vincenzo Paglia -  Presidente della Pontificia Accademia per la vita



sabato 23 ottobre 2021

Etiopia la guerra fratricida in Tigray oscurata. Combattimenti intensi, emergenza sanitaria e ogni giorno oltre 400 persone muoiono di fame

Avvenire
I combattimenti sono sempre in più intensi nel Nord del Paese e l'area è isolata da quasi un anno. Impossibile fare arrivare gli aiuti umanitari


Ne uccide più la fame che le bombe nella guerra civile fratricida oscurata e dimenticata in Etiopia settentrionale. Intanto la controffensiva di terra e d’aria lanciata da Addis Abeba due settimane fa per riprendersi il Tigrai ha toccato l’apice con i bombardamenti che hanno toccato dopo mesi il capoluogo Macallè provocando tre morti e molti feriti. La notizia è stata confermata da entrambi i contendenti.

Dal punto di vista umanitario, dopo 11 mesi di blocco di viveri e farmaci che passano col contagocce, la situazione è sempre più drammatica, con circa mezzo milione di persone a rischio di morte per carestia.

All’ospedale Ayder di Macallè, quello meglio rifornito della regione, i medici che abbiamo potuto raggiungere al telefono confermano che 24 persone ammalate di diabete sono morte per mancanza di farmaci ed è impossibile somministrare cure adeguate ai piccoli pazienti ricoverati per malnutrizione acuta.

I sanitari, che mantengono contatti con i colleghi delle strutture delle altre città e delle aree rurali, denunciano una situazione complessiva peggiore. Il black-out comunicativo voluto dal governo centrale – zero Internet, telefono e viaggi in molti distretti tigrini – che ha caratterizzato la guerra fin dall’inizio isolando la regione rendono molto difficile delineare un quadro dettagliato anche se giungono le prime immagini di bambini allo stremo anche fuori Macallé.

Ocha, agenzia Onu che coordina gli aiuti, ha reso noto che l’altra settimana sono giunti in Tigrai 211 camion di aiuti. Ancora insufficienti. Il cibo è stato infatti distribuito a 145.000 persone, ma per sfamarne 5.2 milioni in stato di necessità occorre raggiungerne 870.000 a settimana.

Altrettanto grave l’emergenza vaccini per 887.000 bambini che aspettano l’antipolio e più di 790.000 che hanno bisogno dell’antimorbillo. La carenza di corrente e carburante rendono difficoltosa la distribuzione. I prezzi del cibo sono alle stelle. Gli accademici dell’università di Gent, in Belgio, applicando i metodi di calcolo del Programma alimentare mondiale e dell’agenzia governativa americana per gli aiuti, Usaid, hanno stimato che in Tigrai ci sono almeno 425 morti per fame al giorno, dimenticati in una carestia nascosta che ricorda quella degli anni ’80, provocata come quella da mano umana. 

Paolo Lambruschi

domenica 17 ottobre 2021

Calais: i migranti sono soggetti a “trattamenti inumani” ed è vietata l'assistenza umanitaria, per i volontari proibito dare cibo e acqua

Metropolitan Magazine
Gli accampamenti dei migranti presenti nella città francese di Calais, a circa 30 km dal confine con il Regno Unito sono soggetti a trattamenti definiti inumani da parte dei poliziotti e dalle leggi locali. Di seguito, il rapporto di Human Rights Watch.


Accampamenti vicino alla città francese di Calais, i migranti sono perseguiti dalla polizia

“La giungla”, soprannome dato alla zona vicino alla città di Calais, sita nel nord della Francia, è un luogo precario, che tuttavia ha rappresentato fino al 2016, anno in cui è stata demolita una sorta di stabilità per oltre 10.000 persone.

Cinque anni dopo, le politiche migratorie europee non si sono fatte più umane o ragionevoli, anzi. I migranti sono ancora a Calais, maltrattati e calpestati.

HRW ha condotto oltre 60 interviste a migranti adulti e minori non accompagnati che si trovano a Calais e nella comune di Grande-Synthe, da ottobre a dicembre 2020 e da giugno a luglio 2021.

Il report di Human Rights Watch (HRW) afferma che gli ufficiali della polizia francese sottopongono regolarmente queste persone a trattamenti inumani e degradanti. Evidenzia anche le ripetute operazioni di sfratto, le molestie praticamente giornaliere, il mancato accesso all’assistenza umanitaria subiti.

Ecco i “trattamenti inumani” a cui sono sottoposti i migranti

Innanzitutto, sono attive operazioni di sgombero, tende, sacchi a pelo e coperte vengono distrutti. Si tratta di pratiche comuni, che spesso vengono fatte passare come “operazione di salvataggio”, portandoli in rifugi più stabili.

Tuttavia, il riparo viene garantito solo per pochi giorni. Queste tattiche costringono adulti e minori, che non sono tutelati a stare sempre in guardia, portandoli ad un stato di esaurimento mentale oltre che fisico. E’ anche vietata l’assistenza umanitaria, ordinanze locali proibiscono la distribuzione di cibo e acqua da parte di gruppi umanitari nel centro di Calais.

Charlotte Kwantes, la coordinatrice nazionale del gruppo Utopia 56, ha affermato che: “Queste persone non viaggiano fino al nord della Francia perché muoiono dalla voglia di soggiornare in una tenda in mezzo al bosco, esposti al freddo e alle molestie. Non vengono qui nemmeno per farsi dare un po’ di acqua e cibo dai volontari, come un’elemosina. Arrivano qui perché c’è il confine”.

Il confine con il Regno Unito dista solo 30 chilometri e con la sua uscita dall’Unione Europea, il Paese non può più riconsegnare i migranti richiedenti asilo provenienti dalla Francia senza prima considerare la loro richiesta di asilo. Inoltre, non è più tenuto ad accettare il ricongiungimento familiare da parte di minori non accompagnati.

Veronica Tassiello

sabato 16 ottobre 2021

16 Ottobre - Memoria della deportazione degli ebrei da Roma. Pietre di inciampo sulla soglia di casa mia.

Blog Diritti Umani - Human Rights

Le pietre di inciampo sulla soglia di casa mia di 7 persone che vivevano nel mio condominio e che sono stati deportati e assassinati ad Auschwitz, 5 di loro il 16 ottobre del 1943,  3 di loro sono bambini piccoli.

Mi ricordano ogni giorno l'orrore della guerra, del nazismo, del fascismo e dell'antisemitismo.


Celeste Viviani, nata nel 1906, arrestata il 16/10/1943, deportata ad Auschwitz assassinata il 23/10/1943

Cesare Di Consiglio - nato nel 1912, arrestato il 21/3/1944, assassinato il 23/3/1943 alle Fosse Ardeatine

Ada Di Consiglio - nata nel 1937 (6 anni), arrestata il 16/10/1943, deportata ad Auschwitz assassinata il 23/10/1943

Marco Di Consiglio - nato nel 1939 (4 anni), arrestato il 16/10/1943, deportato ad Auschwitz assassinato il 23/10/1943

Mirella Di Consiglio - nato nel 1942 (1 anno), arrestato il 16/10/1943, deportato ad Auschwitz ssassinato il 23/10/1943

Lazzaro Spizzichino, nato nel 1899, arrestato il 27/3/1944, deportato ad Auschwitz assassinato

Eleonora Anav, nata nel 1908, arrestata il 27/3/1944, deportata ad Auschwitz assassinata

Afghanistan. Il dramma delle spose bambine vendute o barattate con armi e bestiame. Nella povertà estrema usate come una moneta.

La Stampa
Il numero delle ragazze scambiate come moneta è in netto aumento nelle zone di povertà estrema. I taleban minacciano l'Europa con "un'ondata di rifugiati" se non verranno subito tolte le sanzioni economiche, mentre l'Afghanistan precipita nella miseria ed esplode il fenomeno della spose-bambine, minorenni cedute a uomini di mezza età per denaro. 

Era una piaga già sotto il precedente governo, frenata però dagli aiuti umanitari e dall'azione delle Ong internazionali, a cominciare dall'Unicef. Adesso le province rurali sono tagliate fuori dal mondo e la fame colpisce con durezza sempre maggiore, soprattutto nelle aree centrali del Paese.

Lontano da Kabul i matrimoni combinati tra famiglie sono una tradizione ancestrale ma la povertà estrema ha stravolto tutto e genitori disperati sono arrivati a vendere le figlie ancora in fasce, a volte di un solo anno, come ha denunciato l'agenzia locale Raha. 

Mancano i soldi e molte famiglie non riescono a comprare cibo a sufficiente. Allora cedono le figlie a famiglie più abbienti, a un prezzo che varia dai 100 mila ai 205 mila afghani, pari adesso a 1000-2500 dollari.

Se il pretendente non ha contanti, paga in natura, cibo, bestiame oppure armi. Il rapporto ha analizzato in particolare la situazione nella remota provincia di Ghor, dove la situazione umanitaria è oltre il livello di guardia. La siccità eccezionale ha dimezzato i raccolti. Il flusso di denaro dagli uffici pubblici si è prosciugato, perché il governo del nuovo Emirato islamico non ha neppure i soldi per pagare gli stipendi agli impiegati. L'altra risorsa, gli aiuti internazionali distribuiti dalle Ong, è a zero. In un mese e mezzo la provincia, come le altre confinanti, ha fatto un balzo indietro di vent'anni, se non di più.
[...]
La miseria spinge l'età delle spose sempre più in basso. Un rapporto dell'Unicef del luglio 2018 ha calcolato che il 34 per cento delle donne fra i 20 e i 24 anni, e il 7 per cento degli uomini, si è sposato prima di compiere 18 anni, l'età minima consigliata dall'Onu. Il precedente governo aveva stabilito all'articolo 70 del codice civile un'età minima di sedici anni per le ragazze e di 18 per gli uomini e considerava "forzato" ogni matrimonio sotto quel limite.

Ma il nuovo governo taleban ha spazzato via tutto. Per le bambine di Ghor e delle altre province rurali non si pone neanche il problema. I matrimoni precoci sono la principale causa dell'abbandono scolastico. L'Afghanistan si chiude in un cupo Medioevo. Ma anche i taleban hanno bisogno del mondo. Hanno accettato nuovi colloqui con gli Stati Uniti. Chiedono lo sblocco dei 9 miliardi di dollari della Banca centrale, bloccati negli Usa. E aiuti umanitari.

Dietro il volto "moderato" però rispuntano sempre i loro metodi. Dopo i negoziati a Doha il viceministro degli Esteri Emirhan Muttaki ha avvertito che si corre il rischio di "migrazioni economiche" verso l'Europa se la comunità internazionale non permetterà "il normale funzionamento delle banche, in modo che Ong e agenzie governative possano pagare di nuovo i salari". Un ricatto in stile Erdogan. Soldi in cambio dello stop ai flussi di rifugiati.

Giordano Stabile

mercoledì 13 ottobre 2021

Migranti: Amnesty, in Libia arresti di massa senza precedenti. 5.000 uomini, donne e bambini, ora trattenuti in condizioni di tortura e di abusi sessuali

Keystone-ATS
Le forze di sicurezza e le milizie libiche a Tripoli hanno usato armi e violenza in una retata di oltre 5 mila tra uomini, donne e bambini, ora trattenuti in condizioni dove dilagano la tortura e gli abusi sessuali. Lo afferma una nota di Amnesty International.

Donne in un centro di detenzione a Tripoli, Libia. KEYSTONE/AP/MOHAME BEN KHALIFA sda-ats

Amnesty International afferma di avere avuto accesso a numerose prove dei fatti denunciati, tra cui alcuni filmati e fotografie condivisi in rete da testimoni oculari.

Nel comunicato, l'organizzazione umanitaria sostiene che "il primo ottobre, uomini armati delle milizie e delle forze di sicurezza affiliate al ministero dell'Interno libico hanno fatto irruzione con la violenza nelle abitazioni e nei rifugi temporanei nell'area di Gargaresh a Tripoli, dove risiede una folta popolazione di rifugiati e migranti, sparando proiettili veri, danneggiando effetti personali e rubando oggetti di valore.

Migranti e rifugiati terrorizzati, alcuni dei quali negli elenchi dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), sono stati poi trasferiti in centri di detenzione a Tripoli, dove viene negato l'accesso all'UNHCR e ad altre agenzie umanitarie, e sottoposti a torture e maltrattamenti.

Amnesty International esorta quindi le autorità libiche a rilasciare immediatamente tutte le persone detenute arbitrariamente esclusivamente sulla base del loro status di migrante e ad avviare indagini su tutti gli episodi di uso illegale della forza, tortura e violenza sessuale. 

Nel frattempo, le autorità dovrebbero garantire che le persone detenute siano trattate umanamente, trattenute in condizioni che soddisfino gli standard internazionali e garantire l'accesso immediato e senza ostacoli all'UNHCR e ad altre organizzazioni umanitarie.

domenica 10 ottobre 2021

10 ottobre - Giornata mondiale contro la Pena di morte - Appello urgente per la vita di Kosoul Chanthakoummane

santegidio.org


Kosoul Chanthakoummane è nato in Illinois il 1/10/1980. E’ stato arrestato e in seguito condannato a morte nel 2006. Nella sua vita aveva sempre lavorato come autista di camion e magazziniere, non era mai stato in carcere prima. E’ stata fissata la sua data di esecuzione per il prossimo 10 novembre 2021.

sabato 9 ottobre 2021

Sierra Leone: Il presidente Julius Maada Bio firma l'abolizione della pena di morte

ANSA-AFP
Dopo voto parlamentare luglio che la sostituisce con ergastolo, il presidente della Sierra Leone, Julius Maada Bio, ha firmato oggi il disegno di legge che abolisce la pena di morte nel Paese. La firma arriva dopo il voto parlamentare di luglio, che aveva stabilito di sostituire la condanna capitale con l'ergastolo o un minimo di 30 anni di carcere.


"Come nazione, oggi abbiamo esorcizzato gli orrori di un passato crudele", ha detto Bio in un comunicato, aggiungendo che la pena di morte è "disumana". "Oggi affermiamo la nostra fede nella sacralità della vita", ha aggiunto. 

La Sierra Leone si sta riprendendo dopo decenni di guerra civile ed è stata frequentemente accusata dalle organizzazioni per la difesa dei diritti umani per il mantenimento della pena capitale. L'ultima esecuzione nel Paese si è verificata nel 1998, quando 24 ufficiali militari furono condannati a morte a causa di un tentato golpe l'anno prima.

lunedì 4 ottobre 2021

Incontro Internazionale “Popoli fratelli, terra futura. religioni e culture in dialogo” - Roma 6-7 ottobre 2021

Blog Diritti Umani - Human Rights

L'Incontro internazionale “Popoli Fratelli, Terra Futura. Religioni e Culture in Dialogo”, è il trentacinquesimo promosso dalla Comunità di Sant’Egidio nello “spirito di Assisi”, dopo la storica giornata voluta da Giovanni Paolo II nel 1986.




L’evento si svolge il 6 e 7 ottobre a Roma. Vede riunite le grandi religioni mondiali dopo un anno dominato dalla crisi sanitaria per la pandemia da Covid-19, ma anche dai troppi conflitti ancora in corso in tante parti del mondo, la crisi ambientale e quella umanitaria con migliaia di profughi costretti ad abbandonare le loro terre, come è accaduto recentemente in Afghanistan.