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sabato 30 novembre 2019

Roma 30 Novembre - Il Colosseo si illumina per dire "NO alla Pena di Morte" insieme alle "Cities for Life"

www.santegidio.org
Anche quest'anno il Colosseo si illuminerà il 30 novembre per dire 

NO ALLA PENA DI MORTE. 

L'appuntamento a Roma è alle ore 18:00 all'Arco di Costantino. Nel corso dell'evento è prevista la scenografia digitale #DefeatingHatred attraverso la proiezione architetturale in Visual Mapping 3D sul Colosseo.

giovedì 28 novembre 2019

Yemen - Oxfam:"12mila civili uccisi anche da bombe Made in Italy. In raid sauditi anche ordigni Gb, Usa e Iran"

AnsaMedIl conflitto regionale in Yemen ha causato in più di quattro anni circa 100mila vittime, di cui 20mila solo quest'anno. Lo denuncia oggi Oxfam, organizzazione umanitaria internazionale che da decenni lavora nel martoriato Paese arabo.


Dal 2015, secondo Oxfam, sono stati uccisi 12mila civili, 8mila dei quali hanno trovato la morte a causa di raid aerei sauditi, con bombe fabbricate in gran parte in Gran Bretagna, USA, Francia, Iran e Italia.


In Yemen sono in corso da anni diversi conflitti intrecciati fra loro e che coinvolgono attori locali accanto a potenze regionali e internazionali. La guerra a cui si riferisce l'ultimo rapporto di Oxfam è quella combattuta dal 2015 dalla Coalizione araba a guida saudita contro gli insorti Huthi, vicini all'Iran.

In questo quadro, secondo Oxfam, "dall'inizio del conflitto in oltre un caso su tre l'uso di armi esplosive ha ucciso una donna o un bambino, vittime 'collaterali' di raid aerei o bombardamenti via terra che colpiscono aree popolate, campi profughi, scuole e ospedali". 

Secondo l'organizzazione internazionale, negli ultimi tre mesi il numero dei civili uccisi è aumentato del 25%.

Dall'inizio del 2019 sono oltre 1.100 i civili uccisi, 12mila dal 2015.

Migranti - ONG a nuovi leader UE: "Fermare politica di punizione dei migranti intrappolati nelle isole greche condizioni disumane"

Ansa
L'Unione europea "deve fermare subito la politica deliberata di punizione collettiva inflitta a persone che cercano solo la salvezza in Europa" e vengono invece "intrappolate a migliaia sulle isole greche in condizioni disumane": questo l'appello del presidente di Medici senza Frontiere, Christos Christou, reduce da una visita ai campi profughi di Lesbo e Samos, in conferenza stampa a Bruxelles.


Campo profughi Lesbo - Grecia
Msf chiede di "evacuare i più vulnerabili dai campi e sistemarli in alloggi sicuri con accesso ai servizi sanitari di base".

"Quello che ho visto nei campi per rifugiati sulle isole greche è comparabile a quello che si vede in zone di guerra o colpite da catastrofi naturali", ed è una situazione che dura da 4 anni, ha affermato Christou. "E' scandaloso che cose di questo tipo succedano in Europa, per di più essendo il frutto di una decisione conscia", ha aggiunto.

Christou è tornato apertamente a criticare la "decisione dei leader europei nel 2016 di intrappolare delle persone sulle isole greche, che doveva essere il prezzo da pagare per ridurre gli arrivi. Doveva essere una misura temporanea. Ma dopo 4 anni l'emergenza è ancora la stessa. 

Noi quattro anni fa capimmo le gravissime conseguenze che questo avrebbe avuto", mettendo i rifugiati e i richiedenti asilo in fuga da zone di guerra in pericolo. Come Ong, "rifiutammo anche i finanziamenti Ue per questo". 

Il presidente di Msf ha parlato della mancanza di latrine nei campi delle isole greche - una ogni 200 rifugiati a Camp Moria e una ogni 300 a Samos - e di acqua potabile che ha obbligato Msf a installare impianti per l'approvvigionamento idrico, "come nelle situazioni estreme dei Paesi in via di sviluppo". 

"Ogni giorno - ha continuato - i nostri servizi per la salute mentale assistono bambini, donne e uomini che sono stati portati al limite". Christou ha denunciato il dilagare fra i rifugiati siriani di atti di autolesionismo, di tentati suicidi fra i bambini, molti dei quali "non giocano, non parlano. Vengono da zone di guerra dove hanno perduto la loro infanzia".



mercoledì 27 novembre 2019

Bari - Presentazione del libro "Liberi dentro" presso l'Università degli Studi di Bari - Dip. di Giurisprudenza

Blog Diritti Umani - Human Rights
Università degli Studi di Bari - Aldo Moro
Dipartimento di Giurisprudenza - Aula G. Contento

Mercoledì 4 dicembre, ore 9.30
Piazza Cesare Battisti, 1 - Bari
I diritti fondamentali 
e la riabilitazione possibile dei detenuti





Presentazione del volume di Ezio Savasta,

"Liberi dentro. Cambiare è possibile, anche in carcere"


Ne discuterà, con l’Autore:

Dott.ssa Clara Goffredo, Giudice Ufficio di Sorveglianza, Tribunale di Foggia




Il Seminario chiude i Corsi di Diritto Costituzionale LMGI (Prof.ssa Cecilia Pannacciulli), Diritto Processuale Penale II LMG (A-L) (Prof.ssa Lucia Iandolo), Diritto Processuale Penale II LMG (M-Z) (Prof.ssa Marilena Colamussi), Diritto Ecclesiastico LMGI (Prof.ssa Maria Luisa Lo Giacco)
Agli studenti che partecipano sono riconosciuti 0,5 CFU

martedì 26 novembre 2019

Cina, la verità dalla fuga di documenti. Come funzionano i “lager” per gli uiguri musulmani

Open
I documenti ottenuti dall’International Consortium of Investigative Journalism rivelano un sistema di prigionia di massa


Un lavaggio del cervello sistematico per milioni di uigiri musulmani detenuti in Cina nella regione dello Xinjiang. È quanto rivelano i documenti ufficiali delle autorità cinesi di cui è entrato in possesso l’International Consortium of Investigative Journalists (ICIJ), a cui appartengono anche la Bbc e il The Guardian.

I documenti classificati sono arrivati all’ICIJ attraverso una catena di uiguri esiliati. Il governo cinese sostiene però da tempo che i campi dello Xinjiang offrano istruzione e formazione volontaria contro l’estremismo alla minoranza uigura. Dai documenti trapelati, ribattezzati China Cables, emerge invece come Pechino abbia dato istruzioni precise su come gestire questi posti: cioè prigioni di massima sicurezza, con una rigida disciplina, punizioni e divieto di fuga, dove la vita dei detenuti viene monitorata continuamente.

Negli ultimi due anni attraverso descrizioni, testimonianze di ex detenuti, e immagini satellitari è emerso un sistema di campi gestiti dal governo nello Xinjiang abbastanza grande da contenere un milione o più di persone. Ultima in ordine di tempo è la rivelazione fatta dal New York Times che attraverso documenti classificati ha svelato gli ordini impartiti dal presidente cinese Xi Jinping in merito alla repressione degli uiguri: “Nessuna pietà”.ù

Oggi 26 novembre nuovo arrivo a Parigi dei profughi siriani provenienti dal Libano con i Corridoi Umanitari

santegidio.org
Il progetto dei corridoi umanitari continua con l'arrivo a Parigi dal Libano la sera di martedì 26 novembre 2019 di un nuovo gruppo di rifugiati siriani: sono famiglie che saranno accolte e accompagnate da organizzazioni, associazioni e cittadini. 


Arrivano in Francia attraverso una via legale e sicura, con un volo Air France. Si tratta 30 persone, tra cui 13 bambini.

Le famiglie saranno accolte Parigi (per la seconda volta) e andranno nella Loire-Atlantique, nella Loire e île d’Oléron.

Sono attesi all'aeroporto di Roissy Charles-de-Gaulle con tutto il calore e la fraternità dovuti a famiglie in esodo e ferite dalla guerra.

Sono più di 2800 i rifugiati arrivati in Europa con i corridoi umanitari

lunedì 25 novembre 2019

25 Novembre - Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne - Ricordiamo le spose bambine

Africa Rivista

Spose bambine, l’altra faccia della violenza sulle donne
Nel mondo, più di 700 milioni di donne e bambine si sono sposate prima di aver compiuto 18 anni. Più di una su 3, circa 250 milioni, si è sposata prima dei 15 anni; a livello globale circa la metà delle ragazze tra i 15 e i 19 anni tende a giustificare chi picchia la moglie o la partner in alcune circostanze come rifiutare un rapporto sessuale; uscire di casa senza permesso, litigare, trascurare i bambini o bruciare la cena.


Sono i dati forniti dall’Unicef (Agenzia Onu che si occupa di infanzia) sulla condizione femminile. Una tragedia, quella della violenza sulle donne (oggi si celebra la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne) che tocca da vicino anche il continente africano. 

La mente corre alle ragazze rapite da Boko Haram o usate come kamikaze in Nigeria, alle bambine fuggite dalla guerra nella Repubblica centrafricana, alle mamme e alle bambine costrette a fuggire dalle violenze della guerra in Sud Sudan, alle migliaia di ragazze eritree e somale costrette a subire violenza nel loro viaggio verso l’Europa. Ma anche alle migliaia di bambine costrette a sposarsi.

Sposarsi in età precoce comporta una serie di conseguenze negative per la salute e lo sviluppo. Al matrimonio precoce segue quasi inevitabilmente l’abbandono scolastico e una gravidanza altrettanto precoce, e dunque pericolosa sia per la neo-mamma che per il suo bambino. Le gravidanze precoci provocano ogni anno 70.000 morti fra le ragazze di età compresa tra 15 e 19 anni, e costituiscono una quota rilevante della mortalità materna complessiva. A sua volta, un bambino che nasce da una madre minorenne ha il 60% delle probabilità in più di morire in età neonatale, rispetto a un bambino che nasce da una donna di età superiore a 19 anni. E anche quando sopravvive, sono molto più alte le possibilità che debba soffrire di denutrizione e di ritardi cognitivi o fisici.

Le statistiche dicono quanto lavoro ci sia ancora da fare in questo settore. Un lavoro non solo di protezione delle donne che hanno subito violenza, ma anche culturale. «Questi dati parlano di una mentalità che tollera, perpetra e giustifica la violenza e dovrebbero far suonare un campanello d’allarme in ognuno di noi, ovunque – spiega Giacomo Guerrera il presidente dell’Unicef Italia –. I dati dimostrano quanto sia indispensabile garantire alle bambine e alle donne il diritto fondamentale a un’istruzione di qualità. 

Vorrei ricordare le parole di Malala, Premio Nobel per la pace: “Un bambino, un maestro, un quaderno e una penna possono cambiare il mondo. L’istruzione è l’unica soluzione. La scuola è un luogo reale di protezione dagli abusi, dallo sfruttamento, dai matrimoni e dalle gravidanze precoci, che mettono letteralmente a rischio la vita delle bambine e delle ragazze, soprattutto in alcuni Paesi del mondo in via di sviluppo dove le bambine e le donne sono ancora fortemente discriminate”».

Ormai chi difende i diritti umani? Per uomini e governi meglio voltarsi dall'altra parte e dimenticare nel disimpegno

Corriere della Sera
Ci commuoviamo per le immagini spettacolari delle proteste a Hong Kong, ma ci giriamo dall'altra parte quando apprendiamo che circa un milione e mezzo di esseri umani appartenenti alla popolazione musulmana degli uiguri è stato deportato nei campi di concentramento detti di "rieducazione".
Ricordare e denunciare le violazioni sistematiche dei diritti umani nel mondo oramai sembra diventato un esercizio patetico, un'invocazione velleitaria destinata allo scacco. 

La difesa dei diritti fondamentali è sparita dall'agenda dei governi, in primis di quegli europei che pure ipocritamente agitano la bandiera dei valori non negoziabili, delle istituzioni internazionali (come il dispendioso ed inutile ente denominato Nazioni Unite), dai sentimenti dell'opinione pubblica ed è rimasta appannaggio di pochi resistenti, a cominciare da Amnesty International e Human Rights Watch. 

Dei curdi eroici nella battaglia contro l'Isis e ora abbandonati nelle grinfie di Erdogan ci siamo già dimenticati. Oblio totale sulle centinaia di migliaia di civili siriani sterminati da Assad.

Indifferenza assoluta sul massacro mostruoso di circa cento morti assassinati dai cecchini del regime iraniano durante le manifestazioni che stanno scuotendo Teheran e silenzio generale sulle ragazze che in Iran hanno avuto il coraggio di strapparsi di dosso il velo obbligatorio e gettate in chissà quale antro delle torture. 

Nessuna richiesta all'Arabia Saudita sul corpo del giornalista Jamal Khashoggi fatto letteralmente a pezzi, con ferocia mafiosa, nel consolato saudita in Turchia.

E che ne è dell'attenzione pubblica per le proteste contro la dittatura di Maduro in Venezuela? Prima titoloni, proclami, risoluzioni. E poi? Svanita, cancellata persino dai notiziari, azzerata. Nessuna istituzione sportiva ufficiale che dica una sola parola sulla discriminazione delle donne negli stadi del Qatar, solo la tv spagnola e quella tedesca hanno promesso che non vorranno trasmettere le partite dei Mondiali del 2022 giocate negli stadi in cui è vietato l'ingresso libero delle donne: silenzio in Italia, ovviamente. 

E parliamo delle torture nei campi in Libia solo in rapporto alle ondate migratorie e al pericolo che ce ne può venire, senza scandalizzarci per la cosa in sé, che richiederebbe un intervento immediato dell'Europa. Neanche per sogno. Meglio dimenticare.

Pierluigi Battista

domenica 24 novembre 2019

Cile, uccise due donne: Daniela Carrasco "el Mino" e Albertina Martínez fotografa dei cortei di protesta. Amnesty denuncia la dura repressione.

Il Manifesto
La denuncia di Ni una menos copntro i carabineros, sono 70 le accuse a pubblici ufficiali. Il rapporto di Amnesty contro la repressione delle forze di Pineras è durissimo.
Daniela Carrasco                                       Albertina Martinez
Mentre il Cile è ancora scosso dal dolore e dall’indignazione per la morte di Daniela Carrasco, l’artista di strada nota come «el Mimo» trovata impiccata alla periferia di Santiago – «violentata, torturata e assassinata», secondo la denuncia del movimento femminista Ni una menos – fa discutere nel paese il caso di un’altra donna, la 38enne Albertina Martínez Burgos, fotografa e assistente alle luci della rete televisiva Megavisión, trovata morta nel suo appartamento nella capitale con segni di percosse e di pugnalate.

Fin dall’inizio della rivolta popolare contro il governo Piñera, la giovane fotografa aveva partecipato attivamente alle proteste, documentando in particolare casi di repressione e di abuso da parte dei carabineros e dei militari nei confronti delle donne impegnate sul fronte della comunicazione. 

«Esigiamo che vengano chiarite le cause della sua morte», ha dichiarato Ni una menos, evidenziando come nel suo appartamento mancassero computer, macchina fotografica e qualunque traccia del suo lavoro sulle giornate di lotta.

Due casi, quelli di Daniela e di Albertina, che gettano una luce inquietante sulla violazione dei diritti delle donne durante la crisi attuale. Non a caso sono arrivate a 70 le denunce di violenza sessuale a carico di pubblici ufficiali, come emerge dal durissimo rapporto di Amnesty International sull’azione delle forze di sicurezza sotto il comando del presidente Piñera, accusate di ricorrere alla violenza – fino alla repressione indiscriminata, al pestaggio selvaggio, alla tortura, allo stupro, all’omicidio – per dissuadere i manifestanti dal partecipare alle proteste. 

E mentre si attende il rapporto dell’Alto Commissario Onu per i diritti umani, la cui équipe ha concluso venerdì la sua visita ufficiale, è chiaro che le violente azioni repressive delle forze dell’ordine – durante le quali oltre 2300 persone sono state ferite (1400 per colpi di arma da fuoco) e 220 hanno subito gravi traumi agli occhi – non servono di certo a rendere più credibile l’accordo sul plebiscito per una nuova Costituzione raggiunto da tutte le forze politiche (ad eccezione del Partido Comunista e di quello Humanista).
[...]

Claudia Fanti

Fonte: Il Manifesto

Continua la tragedia dei migranti - Naufragio a Lampedusa, recuperati cinque corpi, tutte donne. Si cercano altri dispersi

La Repubblica
Guardia costiera, Finanza e Marina militare impegnate nella speranza di trovare qualcuno ancora in vita. Centoquarantanove i sopravvissuti. Nel mare in burrasca navigano ancora due navi umanitarie, Open Arms e Aita Maridi 


I primi due corpi li hanno recuperati stamattina all’alba talmente martoriati che per uno dei due è stato difficile persino stabilire il sesso, il secondo era di una giovane donna. In mattinata sono cinque i corpi rinvenuti, tutti di donne. 

Ma le ricerche dei mezzi aerei e navali di Guardia costiera, Guardia di finanza e Marina militare a Lampedusa continuano senza sosta perché sono almeno una quindicina in totale i migranti che – secondo le testimonianze dei 149 sopravvissuti – risultano dispersi dopo il naufragio del barcone di dieci metri capovoltosi ieri pomeriggio a solo un miglio dall’isola dei Conigli. Due minorenni tunisini hanno perso i genitori che ancora non figurerebbero nell'elenco dei sopravvissuti.

Tra i primi ad essere salvati, un migrante non vedente è riuscito ad attirare l'attenzione dei soccorritori. Tra gli altri sopravvissuti anche un bimbo di poco più di un anno per fortuna in buone condizioni. Gli agenti della squadra mobile di Agrigento hanno ascoltato per tutta la notte i superstiti, migranti di diverse nazionalità ma soprattutto eritrei, tunisini, pakistani, algerini e anche alcuni cittadini libici in fuga dai bombardamenti. Sembra che il barcone, in modo del tutto simile a quanto avvenuto in occasione dell’ultimo naufragio del 7 ottobre, sia partito due giorni fa da una spiaggia al confine tra Libia e Tunisia. L’imbarcazione, in un weekend in cui i trafficanti hanno fatto partire più di 10 barche contemporaneamente con circa un migliaio di persone, non era stata intercettata da nessun mezzo né – a quanto dice la Guardia costiera – aveva lanciato alcuna richiesta di aiuto.

Il piccolo peschereccio era già in prossimità delle coste dell’isola quando ieri pomeriggio è stato visto, da terra, da un cittadino di Lampedusa che ha avvertito la Guardia costiera. Il mare era in tempesta con onde alte quasi due metri e, non appena le prime motovedette sono arrivate, l’imbarcazione – probabilmente per l’improvviso agitarsi dei migranti a bordo – si è capovolta sotto gli occhi dei soccorritori. In tutto sono state messe in salvo 149 persone ma i superstiti hanno raccontato di diversi dispersi. Questa mattina il ritrovamento dei primi corpi.
[...]
Alessandra Ziniti

sabato 23 novembre 2019

Migranti tragico bilancio: 600 partenze dalla Libia, 400 salvati dalle navi delle Ong, per ora 6 corpi sulle spiagge della Libia

Avvenire
Oltre 600 partenze nelle ultime 48 ore, nove gommoni alla deriva intercettati e quasi 400 persone a bordo di tre navi Ong. Intanto il mare restituisce le prime sei vittime del naufragio.
E' lungo e drammatico il bollettino "da guerra" che arriva dal Mediterraneo. L'inasprimento della guerra civile in Libia ha spinto i trafficanti a far partire i disperati rinchiusi nelle prigioni libiche alla volta dell'Europa. 

Oltre 600 partenze nelle ultime 48 ore, nove gommoni alla deriva intercettati e quasi 400 persone a bordo di tre navi Ong: la Ocean Viking, Open Arms e la Aitamari della Ong spagnola Maydayterraneo. Intanto il mare restituisce i primi sei corpi del naufragio annunciato dalla Ong Alarm Phone martedì sera, in seguito ad un allarme ricevuto da un pescatore libico.

"Almeno sei corpi di migranti" sono stati trovati questa mattina sulla costa di Khums, in Libia. Lo ha fatto sapere su Twitter l'Organizzazione mondiale per le migrazioni (Oim), aggiungendo che altri 90 migranti sono stati raccolti in mare dalla
c.d. guardia costiera libica. Ma le vittime potrebbero essere molte di più. I naufraghi salvati (in tutto una trentina) avevano parlato di 67 persone morte nel naufragio.

Intanto l'Oim esprime "preoccupazione a seguito degli ultimi sviluppi registrati in Libia. Nell'arco di 48 ore almeno nove imbarcazioni con a bordo più di 600 migranti son partite dal paese e una decima barca è arrivata a Lampedusa con 74 persone a bordo". "La Libia non è un porto sicuro; è necessario attivare un meccanismo di sbarco sicuro e strutturato per i migranti che fuggono dalla violenza e dagli abusi" afferma Federico Soda, capo missione Oim in Libia.

Tra martedì 29 ottobre e giovedì 21 novembre, gli operatori delle navi delle Ong Ocean Viking e Open Arms hanno riferito di aver salvato 287 migranti. Allo stesso tempo l'OIM Libia conferma che la Guardia Costiera libica ha riportato a terra altre 289 persone, tra cui 14 bambini e 33 donne. I migranti sono stati trasferiti in un centro di detenzione. Il personale Oim presente al punto di sbarco per fornire una prima assistenza di emergenza, ha riferito che i migranti erano estremamente "vulnerabili e spaventati".

venerdì 22 novembre 2019

Libia. Il massacro dei migranti schiavi, uccisi altri 4 eritrei in fuga dal lager. Tra loro un ragazzo e una ragazza di 18 anni.

Avvenire
I profughi muoiono ancora nei lager libici delle milizie. E i loro diritti vengono calpestati anche nei lager di Stato. Mentre continuano a fare affari i mercanti di uomini.
I profughi muoiono ancora nei lager libici delle milizie. E i loro diritti vengono sistematicamente calpestati anche nei lager di Stato. Soprattutto in quelli che sfuggono al (ristretto) controllo dell’Onu. Dove si praticano impunemente violenze di ogni tipo e il mercato degli schiavi.

Buca la coltre di silenzio grazie ai social la notizia dell’ennesimo massacro compiuto a Bani Walid, distretto di Misurata, circa 150 chilometri a sud-est di Tripoli, uno dei principali snodi del traffico di migranti in arrivo dal sud della Libia e diretti verso la costa. 

Domenica sera sono stati uccisi senza pietà a colpi di mitra quattro giovani eritrei mentre cercavano di fuggire da uno dei lager delle milizie dove si compiono efferate atrocità ai danni dei prigionieri per estorcere riscatti ai parenti. Torture già documentate con fotografie lo scorso gennaio.

Conosciamo il nome di una sola delle vittime. Si chiamava Solomun Teklay, era un profugo eritreo di soli 18 anni. Un’altra delle persone uccise dai miliziani era una ragazza 18enne. Altri due feriti sono stati torturati a morte dagli aguzzini per dare l’esempio. Come facevano i nazisti. E otto feriti senza cure sono stati riportati a Bani Walid e rischiano ora di morire.

Le vittime facevano parte di un "lotto" di 66 prigionieri venduti dal trafficante eritreo Abuselam Ferensawi, il "francese", al clan ditrafficanti libici guidato dal fantomatico Abdellah. Secondo i rifugiati di Eritrea democratica, che hanno ricevuto disperate e brevi telefonate dal lager e hanno tenuto diversi forum su Facebook con i parenti dei prigionieri, i 66 sventurati – tra cui otto ragazze – sono stati "acquistati" al prezzo di 14mila dollari ciascuno.

Si trovavano in Libia da almeno un anno nel corso del quale sono stati più volte venduti e schiavizzati. I miliziani libici li stanno torturando notte e giorno per ottenere i riscatti. Ma stavolta senza usare foto, i cellulari vengono utilizzati solo per chiamare le famiglie sconvolte alle urla di dolore e dalle minacce. I riscatti devono essere pagati via money transfer ad emissari dei banditi in Egitto e Sudan.
[...]
Il lager di Bani Walid, la città della tribù dei Warfalla, resta una ferita aperta, dove le metodologie di tortura sono sperimentate. Ad aprile 2018 la Corte di Assise di Milano condannò all’ergastolo Osman Matammud, somalo 25enne accusato di aver torturato qui per oltre un anno 17 persone che lo hanno riconosciuto e fatto arrestare nel settembre 2017 a Milano. Il carnefice usava le stesse modalità raccontate nei giorni scorsi da vittime e parenti a Eritrea democratica: torture in diretta telefonica alle famiglie. Osman, si legge nella sentenza «usava anche l’acqua per tormentare i prigionieri che venivano appesi a testa in giù con mani e piedi legati. A chi urlava veniva messa la sabbia in bocca».

C’era poi il sistema della plastica sciolta: "consisteva nel bruciare borse di plastica con un accendino e poi lasciare colare la plastica incandescente sulla pelle del malcapitato".

Le donne venivano sistematicamente violentate. Ad Osman sono stati anche attribuiti 13 omicidi di ostaggi i cui pagamenti tardavano. Non è cambiato nulla, il capo è sempre Abdelllah e le regole non prevedono pietà per chi tenta di fuggire o non può pagare.


[...]
Paolo Lambruschi

USA. Oltre 100.000 minori detenuti per cause legate all'immigrazione.

Blog Minori Stranieri Non Accompagnati
Oltre 100.000 minorenni sono attualmente sottoposti a detenzione amministrativa negli Stati Uniti, per cause legate all'immigrazione, spesso in violazione del diritto internazionale. 


Questa è la triste verità che emerge dal rapporto Onu sui minori in stato di detenzione. L'autore del report, Nowak, ha affermato che la cifra si riferisce ai minori migranti, che hanno raggiunto il confine americano, attualmente in custodia negli Usa. Il dato si riferisce sia ai non accompagnati, sia ai minori detenuti con parenti o separati dai loro genitori prima della detenzione.

"Il numero totale attualmente detenuto è di 103.000", ha dichiarato Nowak, definendolo una valutazione "conservativa", basata sugli ultimi dati ufficiali disponibili e su ulteriori fonti "attendibili".

A livello globale, almeno 330.000 bambini in 80 paesi sono detenuti per motivi legati alla migrazione, secondo lo studio globale lanciato lunedì, il che significa che gli Stati Uniti rappresenta quasi un terzo dei bambini in detenzione. 

Lo studio ha in parte esaminato le violazioni della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell'infanzia, che impone che le detenzioni minorili vengano utilizzate "solo come misura di ultima ratio e per il periodo di tempo più breve". "La detenzione legata alla migrazione per i minori non può mai essere considerata una misura di ultima ratio o nel migliore interesse del minore. Ci sono sempre alternative disponibili", ha detto Nowak ai giornalisti a Ginevra. È utile ricordare, soprattutto in questa giornata, che gli Usa non hanno ancora ratificato la Convenzione dei diritti del fanciullo.
Leonardo Cavaliere

lunedì 18 novembre 2019

Bambino di 9 mesi morto per disidratazione nel campo di Moria a Lesbo. Accade in Europa

Corriere della Sera
Morire a 9 mesi di disidratazione nel 2019. Accade in Europa, sull’isola greca di Lesvos. «L’ospedale di Lesvos ci ha confermato che un bambino di 9 mesi è morto alcuni giorni fa per una grave disidratazione nel campo di Moria, in Grecia. Siamo devastati da questa nuova tragedia». 


E’ sabato sera quando l’ong Medici Senza Frontiere denuncia su Twitter l’accaduto. La notizia arriva dopo che le autorità greche hanno trasferito 424 migranti e rifugiati dall’isola di Lesvos alla terraferma nell’ambito di un piano elaborato dal governo di Atene per ridurre il numero di persone che vivono nei centri di accoglienza sulle isole.

E mentre per mercoledì è prevista l’evacuazione di altri 200 stranieri, l’agenzia di stampa Amna spiega che sono circa 15mila le persone accolte nel centro di Moria a Lesbo. Attualmente il centro ospita un numero di persone tre volte superiore alla sua capacità. Solo nel fine settimana sono più di 300 i migranti e i richiedenti asilo arrivati a Lesvos. A settembre sono stati invece oltre 10mila i migranti arrivati sulle isole, contro i quattromila del 2018, secondo dati Onu.

Come denuncia la ong Medici Senza Frontiere «le terribili condizioni di vita e la mancanza di cure adeguate» nel centro per migranti sull’isola greca sono le responsabili di questo decesso. «Oggi ci sono oltre 15.000 persone intrappolate nel campo di Moria, tra cui 5.000 minori. Dovrebbero essere allontanati da questo inferno ORA», conclude Msf. Sul campo di Moria infatti più volte sono stati presentati appelli, inchieste e interrogazioni.

E se sulle isole - Lesvos e Samos gli hotspot principali - la situazione è tragica, non va meglio a terra. Secondo la rivista tedesca Der Spiegel, la Grecia è accusata di aver respinto illegalmente 60 mila migranti ai suoi confini con la Turchia. 

Nella fattispecie, si tratterebbe dei cosiddetti «push backs», respingimenti che violano il diritto europeo e internazionale, secondo cui gli Stati hanno l’obbligo di assicurare la possibilità di presentare domanda d’asilo, con tutto quel che tali procedure comportano. 

Secondo le accuse, che sono condivise anche da alcune organizzazioni per i diritti umani, le autorità greche respingerebbero da anni illegalmente migranti al fiume Evros. L’ultimo caso sarebbe di pochi giorni fa: lo scorso 3 novembre la polizia turca aveva intercettato 252 profughi vicino al confine di Kapikule. Qui gli agenti si sarebbero resi conto che i migranti erano riusciti ad arrivare fino in Grecia: ma da qui sono stati rimandati via senza che fosse data loro la possibilità di presentare domanda d’asilo.

Sul tema migranti le relazioni tra la Turchia e la Grecia sono sempre più tese: a inizio mese il ministero degli Esteri di Ankara ha parlato esplicitamente di arresti arbitrari, di migranti picchiati, talvolta derubati dei loro vestiti e poi rispediti in Turchia senza passare dalle regolari procedure. «Abbiamo documenti e fotografie», ha aggiunto il ministero. Dichiarazioni che però vanno inserite nel quadro dei rapporti tra Ankara e Bruxelles, complicati anche dal lancio dell’operazione militare nel nord Est siriano. Il premier greco, Kyriakos Mitsotakis, ha reagito seccamente: «Coloro che usano la crisi dei migranti per utilizzare i perseguitati come pedine per i propri obiettivi geopolitici dovrebbero fare più attenzione quando si rivolgono alla Grecia». La polemica, peraltro, va ad aggiungersi ai ripetuti avvertimenti lanciati dal presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, che ha minacciato di «riaprire i confini» verso l’Europa, se l’Ue non manterrà le promesse fatte al tempo della sottoscrizione dell’accordo sui migranti del 2016, che Ankara ha chiesto di rinegoziare.
Marta Serafini

Milano - 19 novembre 2019 - I Rom di via Rubattino 10 anni dopo - Un'Integrazione possibile

Comunità di Sant’Egidio - Milano


COMUNICATO STAMPA

A 10 anni dallo sgombero della baraccopoli di via Rubattino: 73 famiglie rom in casa, donne e uomini lavorano, ragazzi alle superiori
La Comunità di Sant'Egidio fa il punto sulle storie dei rom sgomberati dieci anni fa a Milano: uno dei più significativi percorsi di integrazione di famiglie rom in Italia

Il 19 novembre 2009, 400 rom romeni venivano sgomberati dalla baraccopoli di via Rubattino a Milano. In un clima ostile e di "caccia all'uomo", diversi bambini arrivarono ad essere sgomberati 20 volte in un anno, costretti a cambiare 8 scuole in tre anni. La Comunità di Sant'Egidio, insieme a tanti cittadini della zona ("Mamme e maestre di Rubattino"), reagì con azioni solidali, come le insegnanti che ospitarono gli alunni sgomberati.
Il 19 novembre 2019, la quasi totalità di quelle persone (73 famiglie) vive in casa, è finito il tempo delle baracche e dei topi; in ogni nucleo almeno un adulto lavora; il 100% dei minori frequenta le scuole dell'infanzia, primarie e medie, molti ragazzi studiano alle superiori e fanno volontariato.
Alla vigilia della Giornata dei diritti dell'infanzia, la Comunità di Sant’Egidio invita alla serata "I Rom di Via Rubattino 10 anni dopo. Immagini, video e racconti di un'integrazione possibile" (19 novembre, ore 20.30, CAM Garibaldi, Corso Garibaldi 27).

Persone rom porteranno la loro testimonianza, interverranno l'Assessore alle Politiche sociali del Comune di Milano Gabriele Rabaiotti, il direttore di Avvenire Marco Tarquinio e Milena Santerini dell'Università Cattolica e Comunità di Sant'Egidio; coordinano Stefano Pasta, Assunta Vincenti, Flaviana Robbiati e Elisa Giunipero. Sarà proiettato il video "Mi sembra che è un sogno".

La vicenda dei rom di Rubattino rappresenta uno dei maggiori casi di superamento della baraccopoli e di accesso alla casa, tra i più significativi percorsi di integrazione di famiglie rom in Italia. E' stato realizzato interamente da persone che hanno operato a titolo gratuito e volontario (gli operatori della Comunità di Sant'Egidio e i tanti cittadini che si sono uniti in questa catena di solidarietà).

Spiega la Comunità di Sant'Egidio, che in questi anni ha coordinato le azioni solidali di tanti milanesi: "Dieci anni di amicizia ci dicono che tanti muri sono stati abbattuti, tante cose che ritenevamo impossibili sono diventate la normalità: è normale che un ragazzo finisca le medie e si iscriva alle superiori, è normale che due amici rom e non rom escano insieme a Milano che è la città di entrambi, è normale che un anziano milanese sia accudito da una donna rom. E' diventato normale che persone tanto diverse si sentano parte della stessa famiglia. E' stata un'amicizia che ha chiesto di cambiare a tutti, ai rom e ai non rom".

E ancora: "Nel 2009 attorno a famiglie e persone rom ci siamo legati e, negli anni successivi, abbiamo legato altri, mostrando come la solidarietà possa essere contagiosa. La vicenda di via Rubattino sconfigge la rassegnazione e ci insegna che è più bello per tutti - rom e non rom - vivere gli uni insieme agli altri e non gli uni contro gli altri".

Per informazioni:
Comunità di Sant’Egidio – Milano              santegidio.milano@gmail.com
Stefano Pasta, cell. 338.7336925               web www.santegidio.org

venerdì 15 novembre 2019

Gli anziani aumentano, ma mancano le badanti: meno 210mila in 7 anni. La chiusura agli immigrati causa disagio agli anziani, lavoro nero e mancato gettito da contributi

Avvenire

Le richieste sono in crescita, ma aumenta il lavoro nero o "grigio". Stranieri penalizzati per la mancanza di "quote" di lavoratori stabili all’interno dei cosiddetti "decreti flussi".


L’«esercito della salvezza» per centinaia di migliaia di anziani (e di loro famiglie) conta oltre 850.000 uomini; anzi, per la maggior parte si tratta di donne... E sono una "legione straniera". Parliamo dei lavoratori domestici, cioè colf e badanti, che a fine 2018 ammontavano esattamente – secondo gli elenchi Inps – appunto a 859.233, di cui 613.269 immigrati: un quarto esatto dei 2,4 milioni di lavoratori stranieri presenti nel Belpaese. 


Eppure le badanti risultano in calo: come mai? Ci sono forse meno anziani da assistere? Tutt’altro: l’utenza è in crescita ma – con essa – è in aumento purtroppo il lavoro nero. «Nel 2012 – spiega infatti Andrea Zini, vice-presidente dell’Associazione nazionale Datori di lavoro domestico (Assindatcolf) – i lavoratori stranieri regolarmente impiegati nel comparto erano 823mila. Quindi in 7 anni si sono persi 210mila contratti, a causa di una politica che non ha saputo riformare il welfare familiare e valorizzare questa forza lavoro, contribuendo al contempo al dilagare del lavoro 'nero' o 'grigio' che nel settore ha percentuali altissime: si stima infatti che 6 domestici su 10 siano irregolari, ovvero 1,2 milioni di lavoratori». 

La stessa Assindatcolf presenta una fotografia aggiornata del settore grazie al Dossier Statistico Immigrazione 2019 elaborato da Idos Centro Studi e Ricerche e presentato ieri a Milano. Gli stranieri sono indispensabili soprattutto nel settore della cura e dell’assistenza domiciliare, dove la loro incidenza supera il 70% del totale, ma di fatto sono penalizzati per la mancanza di 'quote' di lavoratori stabili all’interno dei cosiddetti 'decreti flussi'.

«Dal 2011 in poi – chiarisce Luca Di Sciullo, presidente Idos – l’Italia ha sostanzialmente bloccato i canali d’ingresso legali agli stranieri che intendano venire stabilmente per motivi di lavoro. Tanto che ad oggi, per molti migranti economici, l’unica possibilità di entrare in Italia è quella di unirsi ai flussi di chi arriva come richiedente asilo, pur non avendo i requisiti per il riconoscimento. Una situazione che da una parte penalizza il mercato del lavoro, lasciando scoperti ambiti a forte domanda di manodopera estera e aumentando il lavoro nero, e d’altra parte complica la già critica gestione dell’immigrazione, sciupando un potenziale beneficio per la società e lo Stato».

Da qui l’appello alla politica: «È necessario tornare a una programmazione dei flussi d’ingresso, prevedendo quote dedicate a lavoratori non stagionali e modificando anche il sistema di rilevazione del fabbisogno. Si devono prendere in considerazione, oltre alle esigenze delle imprese, anche quelle delle famiglie, superando così una delle tante contraddizioni di una gestione miope».

giovedì 14 novembre 2019

Libano - L'inferno del carcere di Roumieh che racchiude disperazione, disgraziati e minori. 4.000 detenuti per 1.000 posti

Il Manifesto
Medio Oriente. Viaggio dentro il carcere di Roumieh, il più grande del paese: 4mila detenuti, profughi senza permesso, persone ai margini, bambini. Lo specchio di una società che chiede equità


Bisogna inerpicarsi su una strada tortuosa, che dal lungomare sale sui colli orientali della città, per scendere in uno dei peggiori inferni di Beirut e del Libano intero. Tutto intorno, a punteggiare uno scenario di cave e calanchi, una miriade di villette affacciate sul baratro raccontano di una speculazione edilizia che è diventata ormai un tratto distintivo di quella che chiamano la Parigi del Medio Oriente.

Una discesa, che è salita, agli inferi. Una contraddizione tra le molte che vive un paese scosso dai tumulti di quella che viene definita la nuova «primavera araba». Ma per capire le ragioni di una protesta così esplosiva – tanto da aver provocato in pochi giorni la caduta del governo – bisogna partire dalle radici. Scendere all’inferno per poter parlare di ciò che accade in superficie.

E Roumieh un inferno lo è. Un penitenziario che da solo assorbe più della metà dei detenuti di tutto il Libano: 4.000 prigionieri tra criminali comuni, profughi senza permesso, disgraziati rimasti ai margini di un sistema tra i più dispari che esistano, terroristi o presunti tali, minori.

A fronte di una capacità massima che si aggira attorno ai mille posti. Tuttavia, nella sua pancia, si agita molto di più. Ed è probabilmente la testimonianza più preziosa delle ragioni di una rivolta, che giura di diventare rivoluzione.

Non certo la prima che si promette all’ombra dei Cedri, senza che sia mai cambiato molto. Ma di sicuro finora capace di mettere in discussione la stessa architrave portante del paese. Quella fragile ma inespugnabile tela di ragno, intessuta tra 18 confessioni, che è sopravvissuta a tutti gli sconvolgimenti che l’Oriente Medio e Vicino ha vissuto negli ultimi settant’anni.

Il viaggio nell’inferno di Roumieh comincia di fronte a una sbarra mobile, pilotata dal braccio muscoloso di un agente della Isf (Internal Security Force). Cioè la polizia libanese, dipendente dal ministero dell’Interno che in Libano – altra amara contraddizione – è responsabile del settore penitenziario.

Quella che segue è un’interminabile via crucis di check point. La stessa che ogni settimana i familiari sono costretti a percorrere per incontrare i detenuti. Quindici minuti, one shot. Attraverso pannelli e inferriate e mediati dagli apparecchi, se il prigioniero è ancora in attesa di sentenza – e lo è nel 60% dei casi. In uno stanzone comune, se invece c’è già stata una condanna o se il detenuto è minorenne.

Come Youssef – nome di fantasia, per ovvie ragioni – che a dodici anni sconta una pena per omicidio. E nello strazio a guardarlo e ad ascoltarlo non può che tornare alla mente quel Cafarnao che nel 2018 è valso alla regista Nadine Labaki il premio della giuria al Festival di Cannes.

Ma i problemi non si fermano qui. «Il sovraffollamento è il più evidente – spiega Charlotte Tanios di Mouvement Social, una delle principali associazioni libanesi che da decenni lavora nelle prigioni – celle spesso da 70-80 persone, promiscuità e sporcizia ne sono allo stesso tempo cause ed effetti. Nessuna assistenza offerta dallo Stato, né servizi di socializzazione e riabilitazione. Le uniche attività svolte all’interno del carcere sono realizzate dalle associazioni».

Mouvement Social e Ajem (Association Justice et Miséricorde) sono i partner locali di un progetto presentato da Arci e Arcs e finanziato dall’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo. Si chiama «Droit» e ha l’ambizione di migliorare le condizioni detentive in Libano con azioni mirate e il potenziamento dei servizi socio-assistenziali prestati dalle associazioni.

Manal El Dika e Salma Maalouf lavorano dentro Roumieh proprio grazie ad Ajem. Assistente sociale la prima e psicologa la seconda. Raccontano delle paure dei detenuti. Che quella dei secondini – personale non formato, che nel carcere lavora praticamente per punizione – sarebbe la minore, visto che le guardie sono solo 90 in tutta la struttura.

«Semmai il detenuto ha paura degli altri prigionieri – dicono – Scoppiano continui scontri, specie tra sciiti e sunniti. Ma anche tra libanesi e stranieri (dall’inizio della guerra in Siria si stima che il numero di internati in Libano sia aumentato di oltre il 30%, ndr). A causa della scarsità di personale penitenziario, l’ordine è mantenuto grazie ai cosiddetti shawish: detenuti, che un po’ come i kapò gestiscono l’organizzazione interna di ciascuna sezione e cercano di evitare i problemi. Anche se i problemi rimangono».

Come le scarse condizioni igieniche: ogni sezione del carcere ha a disposizione un gallone al giorno di acqua – fredda, ovviamente – per la doccia. O il cibo, che tanto è pessimo che spesso non viene consumato. Oppure la mancanza di servizi sociali, con solo il 4% dei detenuti che ha accesso a formazione e assistenza. O ancora le condizioni psico-fisiche degli stessi. «Sono frustrati, depressi – continuano – Moltissimi si isolano e vivono in una realtà immaginaria. Aiutare queste persone è difficilissimo e i tentativi di suicidio sono all’ordine del giorno».

Problemi che, sommati all’analfabetismo, alla povertà, al vasto consumo di droga e alla mancanza di prospettive, fanno di Roumieh uno specchio aumentato della realtà sociale libanese. Quella che non sta all’inferno, ma che abita una superficie oggi scossa dalle rivendicazioni e dalle proteste popolari. Quella che magari questa volta riuscirà a farla, la rivoluzione.

Marco Pagli

mercoledì 13 novembre 2019

Migranti - Esame della proposta di legge popolare "Ero straniero" alla Camera - Realismo e non propaganda per il governo del fenomeno migratorio in Italia

Avvenire
Riprende alla Camera l'esame della proposta di legge popolare "Ero straniero". Meno nero, più regolarizzazione e un'entrata aggiuntiva per le casse italiane di circa un miliardo di euro l'anno. Sarebbero questi gli effetti del superamento della Bossi-Fini, la legge che dalla prossima settimana sarà rimessa in discussione. Riprende infatti alla Camera la proposta di legge di iniziativa popolare "Ero straniero".



Il testo era stato incardinato un anno fa con la sola illustrazione da parte del relatore Riccardo Magi (+Europa). "Si tratta di una operazione di legalità a beneficio di circa 670 mila persone irregolari che saranno nel nostro Paese nel 2020" spiega Paolo Pezzo di Action Aid Italia, presentando la proposta di legge di iniziativa popolare, per la quale nel 2017 sono state raccolte 90mila firme, dal titolo "Nuove norme per la promozione del regolare permesso di soggiorno e dell'inclusione sociale e lavorativa di cittadini stranieri non comunitari".

La proposta prevede l'introduzione di un permesso di soggiorno temporaneo per la ricerca di occupazione; la reintroduzione del sistema dello sponsor; la regolarizzazione su base individuale degli stranieri "radicati"; l'effettiva partecipazione alla vita democratica col voto amministrativo e l'abolizione del reato di clandestinità.

La campagna è stata promossa da diverse associazioni fra cui, solo per citarne alcune, Fondazione Casa della Carità, Acli, Asgi, Centro Astalli, Legambiente, Federazione chiese evangeliche in Italia e con il sostegno di diversi sindaci ed altre organizzazioni. "Con un provvedimento di emersione dal nero e regolarizzazione, entrerebbe almeno un miliardo di euro ogni anno per lo Stato - spiegano i promotori.

Considerando l'emersione per 400 mila persone, quindi non per tutti, e considerando che il reddito medio mensile di un lavoratore in Italia è di 20.000 euro lordi l'anno, si avrebbe a regime una entrata di 2.232 euro all'anno a persona, che per 400 mila persone fa 893 milioni di euro di gettito fiscale".

"Sono tanti a sostenere - aggiunge il presidente della commissione Affari Costituzionali della Camera, Giuseppe Brescia (M5S), annunciando l'inizio della discussione che modifica la Bossi-Fini - che il decreto flussi annuale non garantisce più i fabbisogni del mercato del lavoro.

Lo dimostrano i dati: a inizio luglio erano più di 44mila le domande presentate per i lavoratori stagionali a fronte di 18mila ingressi autorizzati". Oggi, con un question time in commissione, Brescia chiederà al Ministero dell'Interno un aggiornamento sul numero di domande presentate. "La realtà parla sempre più forte della propaganda".

Nigeria. Hrw: migliaia di persone con problemi psichiatrici tenute in catene e vittime di abusi

Blog Diritti Umani - Human Rights
Un rapporto di Human Rights Watch denuncia  diffusione in tutta la Nigeria dell'abuso e della tortura dei pazienti con problemi di salute mentale, afferma che le persone vengono incatenate e subiscono violenze fisiche e sessuali inclusa la terapia con elettroshock nei centri gestiti da organizzazioni pubbliche e private.


Il rapporto di HRW mostra che gli interventi operati dal governo non sono riusciti a risolvere un problema diffuso in tutta la Nigeria. 
Stigma e idee sbagliate, comprese le convinzioni secondo cui le condizioni di salute mentale sono causate da spiriti maligni o demoni, di conseguenza i pazienti sono spesso detenuti, abusati e costretti a "dormire, mangiare e defecare all'interno dello stesso spazio confinato", spesso di fronte ad altri.

Sono presenti meno di 300 psichiatri in una popolazione di oltre 200 milioni di abitanti, la loro carenza aumenta il ricorso a centri di guarigione religiosa con trattamenti inadeguati. 

Una donna detenuta in un tradizionale centro di cura vicino alla capitale, Abuja, è stata trovata vincolata a un tronco d'albero con un anello di ferro. Era lì da tre settimane "con la parte superiore del corpo nuda ... non era in grado di muoversi e quindi è stata costretta a mangiare, urinare e defecare dove sedeva"

ES

Fonte: The Guardian: Abuse and torture of mental health patients ‘rife’ across Nigeria, says report

martedì 12 novembre 2019

Viterbo. Nuovo suicidio in carcere, ventenne trovato impiccato in cella

fanpage.it
Ennesimo suicidio nel carcere di Mammagialla. Ieri, poco dopo le 14, un ragazzo sudanese del 1995 si è tolto la vita appendendosi con le lenzuola. Il giovane era recluso nell'istituto penitenziario viterbese da poco tempo, secondo quanto appreso aveva dei problemi psichiatrici. Gli agenti della penitenziaria che lo hanno soccorso non hanno potuto far nulla, quando sono entrati in cella aveva già smesso di respirare.
Non è la prima tragedia che accade a Mammagialla. Lo scorso anno furono due i ragazzi morti suicidi in cella: Andrea De Nino a maggio e Hassan Sharaf a luglio. Avevano 36 e 21 anni. "Il problema - afferma il segretario dell'Uspp, Danilo Primi - è sempre lo stesso e lo abbiamo denunciato più volte. Non è possibile gestire la mole di detenuti psichiatrici, devono essere inseriti in strutture adeguate che possano seguirli. Viterbo sta diventando un putiferio".

Il Garante dei detenuti: "Dare risposta a disperazione stranieri in carcere" - "Ancora un suicidio in carcere, oggi a Viterbo. Un ragazzo di ventiquattro anni, detenuto da marzo, fine pena nel 2020, un anno circa il totale. Sudanese, non faceva colloqui né telefonate. Impressionano la giovane età, la solitudine, il fine pena breve, alla faccia di quelli che dicono che tanto in carcere non ci va nessuno, che sotto i due-tre anni di pena stanno tutti fuori". Lo ha dichiarato in un post su Facebook Anastasia, denunciando la vicenda.

"C'è una disperazione tra i giovani stranieri in carcere a cui non sappiamo dare risposta, minacciando loro solo la pena aggiuntiva della espulsione. Ancora una volta: non perdiamo tempo su presunte colpe individuali, della mancata assistenza, della mancata vigilanza, e pensiamo piuttosto se tutto questo carcere per cose da niente serva davvero a qualcosa".

Siria, sacerdote cattolico armeno Hovsep Petoyan, con suo padre uccisi dal Daesh

Avvenire
I due erano in auto, impegnati in una ricognizione sullo stato della chiesa armena di Deir ez-Zor, quando è scattato l'agguato, rivendicato dal Daesh.
Padre Hovsep Petoyan
Un prete cattolico armeno e suo padre sono stati uccisi oggi in un agguato rivendicato dal Daesh nel distretto siriano di Busayra, nella regione di Deir ez-Zor sotto controllo delle forze curdo-siriane. La zona si trova nel nord-est lungo il confine con la Turchia. Le prime informazioni parlavano di due preti, ma poi la radio pubblica dell'Armenia ha chiarito la dinamica.
Le vittime sono padre Hovsep Petoyan, della Comunità cattolica armena di Qamishli, e suo padre Abraham Petoyan. Quest'ultimo è rimasto ucciso sul colpo, mentre il sacerdote è deceduto poco dopo. Ferito il diacono Fati Sano, della chiesa di al-Hasakeh, che viaggiava con loro.
I tre erano in missione, a bordo di un Suv grigio, per ispezionare i lavori di restauro della chiesa cattolica armena di Deir ez-Zor. Lungo la strada che collega Hasakeh a Deir ez-Zor l'auto su cui viaggiavano è stata crivellata di colpi.

Nella rivendicazione, apparsa sui suoi canali Telegram, il Daesh afferma che «due sacerdoti cristiani sono stati uccisi oggi dal fuoco di combattenti dello Stato islamico» e pubblica la foto del documento di identità del sacerdote.

Nella stessa zona, sempre oggi, almeno sei civili sono stati uccisi dall'esplosione di tre bombe, scoppiate simultaneamente in un mercato. Si sarebbe trattato di una motocicletta imbottita di esplosivo e di due auto-bombe.

La Chiesa cattolica armena è una piccola ma antica comunità cristiana riconosciuta ufficialmente nel 1742. Oggi conta all’incirca seicentomila fedeli. Si tratta di una Chiesa patriarcale sui iuris cioè in piena comunione con Roma pur mantenendo una certa autonomia di riti. È presente prevalentemente in Libano, Iran, Iraq, Egitto, Siria, Turchia, Israele, Palestina. Ha sede centrale a a Bzoummar in Libano e il suo primate è il patriarca di Cilicia (Beirut). Attualmente Krikor Bedros XX Ghabroya, classe 1934, in carica dal 2015.

La comunità armena in Siria, i cui numeri attuali sono sconosciuti, è rappresentata dai sopravvissuti al genocidio ottomano degli armeni all'inizio del XX secolo. A Deir ez-Zor si trovano una chiesa e un memoriale dedicato ai martiri del genocidio armeno. La chiesa - scrive il portale curdo Rudaw - era stata fatta saltare in aria nel 2014. Sebbene i responsabili non siano mai stati identificati, alcuni hanno incolpato il Daesh, che all'epoca deteneva il controllo della maggior parte della provincia. Altri hanno puntato il dito contro Jabhat al-Nusra, ex affiliato di al-Qaeda in Siria.

lunedì 11 novembre 2019

Migranti. Patto "segreto" e illegale tra Libia e Malta per riportarli indietro

Il Riformista
Spunta un accordo segreto far Malta e Tripoli. Avrebbero stretto un patto in base al quale le Forze armate maltesi si coordinerebbero con la guardia costiera libica per intercettare i migranti diretti verso l'isola e riportarli in Libia. A rivelarlo è il giornale Times of Malta, che parla di accordo di "mutua cooperazione" siglato tra l'esercito della Valletta e la guardia costiera libica, con il funzionario governativo Neville Gafà come intermediario.
Il quotidiano maltese pone in evidenza la figura di Gafà, accusato in precedenza di comportamenti illeciti e controversi, tra cui legami con un leader delle milizie libiche che gestisce estorsioni e centri di detenzione privati. Come controversa, peraltro, è anche l'attività della guardia costiera della Libia. "Abbiamo raggiunto quello che potreste chiamare un'intesa con i libici: quando c'è una nave diretta verso le nostre acque, le forze armate maltesi si coordinano con i libici che la prendono e la riportano in Libia prima che entri nelle nostre acque e diventi nostra responsabilità", ha dichiarato una fonte a Times of Malta.

La guardia costiera libica è stata accusata di violazioni dei diritti umani tra cui tortura, ostacolo alle attività di salvataggio delle organizzazioni umanitarie, legami con le gang del traffico di esseri umani. Fonti interpellate dal giornale maltese giustificano l'intesa in quanto - sostengono - si basa sul modello di quella già raggiunta tra Libia e Italia. Immediata l'accusa della ong che si occupa di soccorso ai migranti Alarm Phone che stigmatizza l'accordo come grave violazione del diritto: "Sebbene non sia una sorpresa - sottolinea - ora è confermato che le autorità maltesi coordinano le intercettazioni in collaborazione con la Libia. Questo impedisce alle persone in fuga da una zona di guerra di raggiungere un porto sicuro e viola le convenzioni internazionali sui diritti umani".

La Valletta puntella l'accordo che fa già discutere. Un portavoce del primo ministro maltese spiega che incontri bilaterali vengono continuamente condotti da Malta su base regolare e assicura che il Paese "rispetta sempre" le convenzioni e le leggi internazionali. "L'Ue - dichiara - si spende attivamente a favore del rispetto delle istruzioni delle competenti autorità europee che sono contro l'ostruzione delle operazioni condotte dalla guardia costiera libica, che è finanziata ed addestrata dall'Unione europea per la gestione dei migranti e contro il traffico di esseri umani".

Rassicurazioni di La Valletta a parte, la notizia dell'accordo qualche imbarazzo potrebbe crearlo, visto che proprio a Malta a settembre era stato firmato l'accordo fra cinque Paesi Ue, oltre a La Valletta, Francia, Germania, Finlandia e anche Italia.Nicola Fratoianni di Sinistra Italiana usa toni durissimi e parla di "spregio" al diritto internazionale con l'unico obiettivo "di non avere grattacapi anche se ci sono esseri umani a rischio della vita". E chiede alla Ue e agli organismi internazionali, a partire dall'Onu, di avviare una commissione di inchiesta, perché "formalizzare i respingimenti, che sono illegali, è un'ombra pesante sul governo maltese".

Yemen. Torture nella prigione nascosta nel sito Total

Il Fatto Quotidiano
Violazione dei diritti dell'uomo. L'Osservatorio sugli armamenti e altre Ong hanno raccolto testimonianze di dissidenti "bastonati e rinchiusi" nell'area segreta degli Emirati a Balhaf. 

Sono stato rinchiuso in una cella. Poi mi hanno preso a pugni e bastonato, trascinato per la barba e colpito al volto. Mi hanno fatto credere che i miei compagni di cella mi avessero denunciato e accusato di far parte dell'Isis, di Al Qaeda o dei Fratelli Musulmani".

Mohammad (nome di fantasia) è yemenita. Sostiene di essere stato rinchiuso e picchiato dalle forze emirate a Balhaf, costa sud dello Yemen, in un sito industriale gestito dal consorzio Yemen Lng (Ylng) il cui principale azionista è il gruppo francese Total (circa il 40%).

La sua testimonianza emerge da un rapporto pubblicato giovedì scorso dall'Osservatorio sugli armamenti e dalla Ong SumOfUs, in collaborazione con Amici della Terra ("Operation Shabwa - La Francia e Total in guerra nello Yemen?"), che Mediapart e Le Monde hanno potuto consultare.

Vi sono prove che l'impianto di Balhaf è stato usato dagli Emirati Arabi Uniti come prigione segreta dove i detenuti sarebbero stati sottoposti a trattamenti "disumani e degradanti". I fatti risalgono al 2017 e 2018, durante la guerra, ancora in corso, tra i ribelli Huthi, un movimento politico islamico armato, e il governo di Abd Rabbih Mansur Hadi, presidente riconosciuto dalla comunità internazionale e sostenuto dal 2015 dalla coalizione di Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti. Abbiamo contattato sia Total che Ylng, senza risposta.
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Le associazioni denunciano anche la creazione sul sito nel 2017 e 2018 di una prigione segreta, basandosi sulle testimonianze di due yemeniti, tra cui Mohammad. "Tra 5 e 10 detenuti sono ammassati in celle minuscole, di 5-8 metri quadrati. Dormono per terra. Non c'è acqua corrente e si soffoca per il caldo. Vengono segnalati casi di tortura e maltrattamenti: i prigionieri sono picchiati e i malati lasciati senza cure", si legge nel rapporto. Anche l'associazione Sam di Ginevra per i diritti e la libertà aveva registrato l'arresto nell'agosto 2017 e la detenzione nel sito di Balhaf di diverse persone, tra cui bambini.
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"Le persone che vi sono rinchiuse sono in genere accusate di appartenere a al-Qaeda nella penisola arabica (Aqap)", scrivono l'Osservatorio sugli armamenti e Sum Of Us. Secondo le testimonianze raccolte da Amnesty International, verrebbe preso di mira anche chi critica la coalizione e i suoi alleati, tra cui attivisti e giornalisti, nonché sostenitori e membri del Congresso di riforma yemenita. "Tuttavia - scrive ancora Amnesty - molti arresti si baserebbero su sospetti infondati e vendette personali".

La Ong reclamava già nel luglio 2018 l'apertura di "inchieste per crimini di guerra". "In queste carceri si sono verificati atti di tortura", hanno dichiarato a Media-part Bonyan Jamal e Ali Al Razzaqi, due avvocati della Ong yemenita Mwatana for Human Rights, che lavorano sulle prigioni segrete. Le associazioni chiedono ora l'apertura di una commissione d'inchiesta per fare luce sulle responsabilità della Francia nella situazione in Yemen.

Dopo le rivelazioni di giovedì, Total ha diffuso un comunicato: "Total è stato informato nell'aprile 2017 dalla Yemen Lng, della requisizione, da parte delle autorità internazionalmente riconosciute dello Yemen, di una parte delle installazioni del sito di Balhaf, non in uso, a favore delle forze della coalizione". Ma che Total "non dispone di informazioni relative all'uso che la coalizione ne fa".

*Traduzione di Luana De Micco

domenica 10 novembre 2019

Antisemitismo in Europa - Danimarca, profanate 80 lapidi in un cimitero ebraico Dipinte con vernice verde e rovesciate.

Ansa
Oltre 80 lapidi sono state vandalizzate in un cimitero ebraico risalente al 1807 a Randers, una cittadina danese dello Jutland. 


Lo riporta il giornale locale Randers Amtsavis. Le lapidi sono state dipinte con graffiti verdi e alcune sono state rovesciate. Sono in corso le indagini della polizia. "Abbiamo uno dei più antichi siti di sepoltura ebraici e lo custodiremo sempre", ha denunciato il sindaco della cittadina Torben Hansen.

Su una delle lapidi è stato anche incollato un adesivo giallo con la stella di David e la scritta 'Jude'. Non è chiaro quando sia avvenuto l'atto di vandalismo antisemita ma, sottolinea il quotidiano danese, non sembra del tutto casuale la coincidenza con l'81/o anniversario della Notte dei cristalli in Germania, quando tra il 9 e il 10 novembre del 1938 centinaia di cittadini ebrei furono uccisi dai nazisti e furono distrutte sinagoghe, cimiteri, negozi e case.

Rifugiati climatici - Saranno più di 200 milioni in questo secolo, ma non hanno nessuno status e nessun diritto

Il Manifesto
Migrazioni. Tra i 200 e i 300 milioni in questo secolo, secondo il Rapporto Green economy 2019. Non esiste ancora uno status che riconosca protezione a chi scappa dalle catastrofi ambientali


Potrebbero essere tra i 200 e i 300 milioni, le persone costrette a migrare a causa degli effetti dei cambiamenti climatici nel corso del secolo, sempre che non si riesca a contenere l’aumento di temperatura sotto dei due gradi come indica l’Accordo di Parigi.


Il dato si legge nell’ultima pagina della Relazione sulla Green Economy 2019 presentata il 6 novembre a Rimini in occasione della fiera Ecomondo. Per quanto sia difficile fare previsioni accurate e precise, questi numeri forniscono un ordine di grandezza della gravità del fenomeno. 

Del resto la Banca Mondiale, in un suo rapporto pubblicato lo scorso anno dal titolo Preparing for Internal Climate Migration (Misure per la migrazione climatica interna) stima in 143 milioni le persone che potrebbero essere costrette a spostarsi all’interno dei loro Paesi per sfuggire agli impatti a lungo termine dei cambiamenti climatici. 

Il fenomeno riguarderà maggiormente i Paesi più poveri, ma nemmeno l’Italia ne sarà immune: nella Relazione presentata ieri si fa una previsione su quello che potrebbe accadere nel nostro Paese in assenza di misure di mitigazione e adattamento: entro il 2050 le persone esposte solo al rischio inondazione per effetto dell’innalzamento del mare potrebbero essere dalle 72mila alle 90mila (oggi sono 12mila), mentre a fine secolo potrebbero salire a 198-265mila.

A livello globale i movimenti migratori più massicci avverranno in una cinquantina di Stati dove, per altro, si prevede che la popolazione raddoppi entro il 2050. Sono Paesi che hanno meno risorse per affrontare i rischi e la cui sopravvivenza dipende proprio da quei servizi ecosistemici (foreste, coste, laghi e fiumi) che sono più minacciati. Negli ultimi due decenni la maggior parte delle migrazioni riconducibili ai cambiamenti climatici si sono verificate nei Paesi non-Ocse, ovvero quelli in via di sviluppo, e il 97% degli sfollati per eventi estremi improvvisi del periodo 2008-2013 è avvenuto in Paesi a reddito medio basso.

A spulciare poi le comunicazioni nazionali che i vari Stati forniscono al segretariato dell’Accordo di Parigi, si scopre che 44 Paesi su 162 (principalmente da Africa, Asia Pacifico e Oceania) fanno preciso riferimento a fenomeni di migrazione, interna e non, dovuti al clima. Anche gli scienziati dell’Ipcc (Intergovernamental Panel on Climate Change) mettono in guardia: nel rapporto presentato la scorsa estate dedicato al suolo e ai rischi di degradazione degli ecosistemi si avverte che questi fenomeni non faranno che amplificare la migrazione ambientale, là dove gli eventi estremi metteranno a repentaglio la sicurezza alimentare e la possibilità stessa di vivere in ambienti sconvolti dall’aumento delle temperature o dalla desertificazione dei suoli.

[...]

Daniela Passeri