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domenica 31 marzo 2013

Ungheria - L'allarme di Amnesty International: problemi di natura razziale e di protezione dei diritti umani a Budapest, il paese si allontana dall'Europa

Il Sole24Ore
Lo hanno chiamato Golpe bianco. Ma la costituzione ungherese sanguina eccome.

 Il premier Viktor Orban
Due settimane fa il premier Viktor Orban, forte della sua maggioranza parlamentare, ha cambiato la carta magiara, ha svuotato di poteri la corte costituzionale, limitato l'indipendenza della giustizia, criminalizzato i senzatetto e cancellato i diritti delle famiglie di fatto. Intanto arrivano canzoni che inneggiano all'odio razziale. Appoggiati atteggiamenti antisemiti.



L'Ungheria si allontana così dall'Europa e dai principi fondamentali a cui essa si ispira. Non è il solo campanello d'allarme che viene da Budapest.



Tragedia nel mare di Lampedusa. I due rifugiati morti erano in fuga dalla guerra - Unhcr

LiveSicilia
L'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati esprime, in una nota, il proprio "sincero cordoglio per l'ennesima tragedia nel Canale di Sicilia. I due ragazzi viaggiavano insieme ad altre 108 persone su di un gommone partito dalla Libia quando si sono trovati in difficoltà a causa delle condizioni meteo".
ROMA - L'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) esprime, in una nota, il proprio "sincero cordoglio per l'ennesima tragedia nel Canale di Sicilia dove hanno trovato questa notte la morte per ipotermia due giovani ragazzi somali in fuga dalla guerra". "I due giovani, appena ventenni - dice l'Unhcr - viaggiavano insieme ad altre 108 persone su di un gommone partito dalla Libia quando si sono trovati in difficoltà a causa delle condizioni meteo. Due motovedette della Guardia Costiera sono intervenute per il soccorso a circa 80 miglia a sud di Lampedusa, purtroppo al loro arrivo sull'isola i due ragazzi erano già deceduti". "Nonostante il drastico calo degli arrivi via mare registrato nello scorso anno - conclude l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati - questa vicenda conferma ancora una volta come il Canale di Sicilia continui a rappresentare la via di fuga da violenze e persecuzioni per persone che accettano di viaggiare in condizioni disperate pur di ottenere protezione".

Turchia rimanda in Siria circa 600 rifugiati

La Perfetta Letizia
Amnesty International ha definito "un gesto di profondo disprezzo per l'incolumità delle persone" la decisione della Turchia di rimandare in Siria circa 600 rifugiati, il 28 marzo. 
La decisione della Turchia di rimandare in Siria circa 600 rifugiati ha suscitato preoccupazione presso l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati (UNHCR) e diverse organizzazioni umanitarie. Ankara però si difende e nega di aver espulso centinaia di profughi siriani.

“Se queste deportazioni sono avvenute realmente, sono contrarie ai principi della legge internazionale – sostiene la portavoce dell’UNHCR, Melissa Fleming. “Ricordiamo ai rifugiati – ha aggiunto – che hanno l’obbligo di rispettare le leggi in vigore in Turchia. E incoraggiamo il governo turco ad applicare gli strumenti previsti dalla legge, qualora vengano commessi reati”.

Queste persone si trovavano nel campo rifugiati di Akcakale, nella provincia di Sanliurfa, al confine con la Siria, quando è scoppiata una rivolta probabilmente come protesta contro le condizioni di vita nel campo, dopo l’incendio di una tenda a causa di corto circuito elettrico, che avrebbe provocato la morte di una persona.

Amnesty International ha definito “un gesto di profondo disprezzo per l’incolumità delle persone” la decisione delle autorità turche.

Il ministero degli esteri turco ha negato che alcune centinaia di profughi siriani siano stati espulsi dal campo di Akcakale, dopo gli incidenti di ieri con la polizia, come indicato dalla stampa, precisando invece che circa 50 o 60 rifugiati sono rientrati volontariamente in Siria. Il portavoce del ministero ha detto che alcuni profughi rientrati in Siria potrebbero essere stati coinvolti negli incidenti di ieri. Ma sono tornati in Siria volontariamente.

di Elisa Cassinelli

sabato 30 marzo 2013

Gaza, condannato a morte: "É una spia di Israele"

Corriere della Sera
Domenica scorsa, il tribunale militare di Gaza ha condannato all’impiccagione Faraj Abed Rabbo, un impiegato civile di 23 anni, per reati di collaborazione col nemico. Detto in modo più semplice, spia per conto di Israele.

Dal 1994, anno dell’istituzione dell’Autorità nazionale palestinese, le condanne a morte sono state 133 (di cui 107 emesse a Gaza e 26 in Cisgiordania), 27 delle quali eseguite (25 a Gaza e 2 in Cisgiordania).

Da quando Hamas ha assunto il controllo di Gaza, nel 2007, i suoi tribunali hanno emesso 47 condanne a morte, compresa quest’ultima, 14 delle quali eseguite.

La condanna a morte di Faraj Abed Rabbo ha mobilitato le organizzazioni internazionali per i diritti umani e, non è una novità, quelle palestinesi, tra cui la Commissione indipendente per i diritti umani e il Centro palestinese per i diritti umani.

Le due organizzazioni hanno definito “estrema e inumana” la condanna a morte di Faraj Abed Rabbo e ne hanno chiesto la sospensione, sollecitando un nuovo processo, equo e di fronte a un giudice civile.

Le loro preoccupazioni e richieste, però, vanno al di là del singolo caso.

A essere chiamato in causa è quel ginepraio di legislazioni contraddittorie e in parte illegali, applicate nei processi capitali: la legge n. 74 del 1936, la legge giordana n. 16 del 1960, il codice penale rivoluzionario dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina del 1979 e il codice di procedura penale palestinese n. 3 del 2001.

Da un punto di vista strettamente giuridico, nessuna di queste leggi è stata ratificata dal parlamento palestinese. Inoltre, nessuna condanna a morte eseguita a Gaza dal 2007 è stata firmata dal presidente palestinese Mahmoud Abbas. Hamas non riconosce questa prerogativa ma ciò non rende comunque legittima la procedura d’esecuzione delle condanne a morte.

L’obiettivo finale delle organizzazioni palestinesi per i diritti umani è quello di sospendere l’uso della pena di morte in vista della sua abolizione.

Immigrati, nel Canale di Sicilia 450 sbarchi in 48 ore

Avvenire
Sono oltre 450 gli immigrati sbarcati tra le coste italiane, Lampedusa e la Sicilia, nelle ultime 48 ore. È quanto riferisce il Comando Generale delle Capitanerie di porto Guardia costiera che spiega come «con l'arrivo della primavera e il conseguente miglioramento delle condizioni meteorologiche, riprendono in modo massivo i tentativi di raggiungere le coste italiane da parte di immigrati extracomunitari». Tra gli sbarchi avvenuti tra l'una e le tre di questa notte «due donne sono state ricoverate, una perchè in stato di gravidanza e l'altra accusava malori».

Due egiziani ritenuti gli scafisti dello sbarco di 49 immigrati ieri sulle coste di contrada Targia a Siracusa sono statti fermati da agenti della Squadra mobile e da personale del "Gruppo interforze contrasto immigrazione clandestina" e della Guardia di finanza. I due fermati sono Abo Naga Charaf Issam, 25 anni e Elfeky Mohamed Ali Youssef, 22 anni, entrambi egiziani, nei confronti si ipotizza il reato di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina.

«Non siamo in grado di dire se questi sbarchi rappresentino l'inizio di un nuovo fenomeno massivo, possiamo solo dire che fino a lunedì prossimo è previsto tempo buono e quindi potrebbero arrivare altre imbarcazioni». È quanto afferma il comandante della Guardia costiera, Filippo Marini, all'indomani dei tre interventi di soccorso effettuati «tra l'una e le tre del mattino», nelle acque a largo dell'isola di Lampedusa.
Nel dettaglio, i militari italiani hanno soccorso tre imbarcazioni con a bordo, rispettivamente, 98, 132 e 31 persone, «per un totale di 261 persone che sono state condotte sull'isola di Lampedusa, mentre altre 90 persone sono state soccorse dalla Guardia costiera maltese», informa il comandante.



venerdì 29 marzo 2013

Giustizia: sarebbe irresponsabile chiudere gli #Opg senza aver creato strutture alternative

Il Mattino
La data fatidica doveva essere il 31 marzo 2013. Gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, antico retaggio dei manicomi criminali, avrebbero dovuto chiudere. Ma dove sarebbero finiti i circa 1.000 internati reclusi nei sei Opg dislocati sul territorio nazionale?
Mettere la parola fine a questi luoghi dove si concentra la pazzia umana senza pensare a vere alternative sarebbe stato un salto del buio ma anche una ipotesi poco realistica. E così, come auspicato da più parti, è arrivata la proroga al 1° aprile 2014, in attesa che le Regioni realizzino quelle strutture alternative previste dalla Riforma. I fondi destinati alla riconversione delle strutture sanitarie sostitutive non sono ancora disponibili, e le Regioni non hanno ancora approntato il cronoprogramma per la realizzazione di tali siti. Appare, dunque, davvero difficile immaginare cosa sarebbe successo all’indomani della chiusura. Che gli Opg debbano chiudere è un fatto sacrosanto ed è previsto dalla Riforma della sanità penitenziaria del 2008 che, in un disegno globale, ridefinisce tutto l’approccio con cui i detenuti e gli internati devono essere curati nelle carceri italiane. Si passa dall’isolamento all’accoglienza, con un sostanziale cambio di passo nei progetti e prospetti riabilitativi. Sappiamo bene che questo processo è lungo e complesso, e richiede i tempi necessari per la sua attuazione. Un primo risultato delle battaglie di questi anni è stato quello di far riemergere persone abbandonate e dimenticate di cui si erano perse le tracce. È indubbio però che ci sono dei ritardi e dei rimpalli di responsabilità tra Regioni, Asl e Ministero. In fondo rimandare e allontanare la soluzione del problema fa comodo a tutti. Così come è vero che ci sono delle resistenze culturali degli operatori penitenziari e sanitari, poco inclini a questo cambiamento epocale. Nei due Opg della Campania, ad Aversa e Secondigliano, sono attualmente presenti 278 internati, mentre alla fine del 2008 erano 405. Quelli di origini campane, che quindi devono essere seguiti dalle strutture della nostra Regione, sono 109. Un numero, tutto sommato, abbastanza esiguo. In questi anni già 79 persone in carico ai servizi sanitari hanno usufruito di licenza finale di esperimento o libertà vigilata. Tuttavia, se non si bloccano i meccanismi che producono gli ingressi, difficilmente si potrà arrivare ad una chiusura reale degli Opg. Solo negli ultimi giorni nella struttura di Secondigliano ci sono stari 10 nuovi arrivi. Qui molti ricoverati provengono dalle carceri. Alcuni hanno manifestato disturbi psichiatrici subentrati durante la detenzione. Il sistema carcere, invece di rieducare, produce malattia mentale e sembra inadeguato a trattare queste fragilità. Se pensiamo alla promiscuità e al sovraffollamento di un carcere come Poggioreale, dove qualche settimana fa si è superata la cifra record di 2900 detenuti, ci rendiamo conto di come un disagio si può trasformare in patologia psichiatrica. Altri internati, invece, sono stati dichiarati socialmente pericolosi e sono sottoposti a misure di sicurezza provvisorie o definitive, una normativa proveniente dal Codice Rocco. Questo significa che se non decade la pericolosità sociale il giudizio può essere sospeso sine die, oppure si può restare in Opg anche dopo aver espiato la pena. Sono i cosiddetti ergastoli bianchi. E poi c’è tutto il problema del sostegno alle famiglie. Molte sono abbandonate a se stesse, non sanno cosa fare. Non ci dimentichiamo che molti ricoverati hanno commesso reati o atti violenti proprio all’interno della mura domestiche. È inutile fare grandi proclami e grandi battaglie se non si combattono le cause principali per cui le persone entrano in Opg. Se non si riduce il sovraffollamento e non cambiano le condizioni di vivibilità delle carceri e se non vengono modificate quelle norme legislative che sono la porta principale con cui si finisce in un Opg, difficilmente in tempi brevi si arriverà ad un superamento effettivo. Mi sembra che la campagna per la chiusura tout-court, senza avere alternative certe, è veramente da irresponsabili, e può servire solo alla costruzione di qualche carriera politica. Qualche giorno fa ho incontrato alcuni internati dell’ Opg di Napoli. Insieme agli operatori dell’area educativa e penitenziaria avevano allestito una versione musicale de I Promessi Sposi. Mi ha colpito l’intenso dialogo che essi hanno con gli educatori e persino con il direttore. Dire che sono segregati e abbandonati non mi sembra onesto. Anche la follia merita i suoi applausi diceva la poetessa Alda Merini. Mille persone meritano risposte sul loro futuro e attendono che si attivi un impegno serio e determinato per arrivare finalmente al superamento degli Opg. Che quest’anno non passi invano.

di Antonio Mattone

Egitto: profughi eritrei liberati dalle carceri grazie ad un progetto dell’Ong “Ghandi”

9 colonne
Grazie ad un progetto dell’Ong “Ghandi”, attuato in collaborazione con il Centro Missionario di Trento e con la Provincia autonoma di Trento, sono stati liberati dalle carceri egiziane 278 cittadini eritrei rapiti in precedenza da bande di beduini, che sono stati trasferiti in un campo profughi in Etiopia all’interno del quale il Centro Missionario ha realizzato un centro di accoglienza. L’intervento della solidarietà trentina in Egitto è stato reso possibile grazie al sacerdote trentino don Sandro Depretis, il quale già in precedenza - ma in Libia - s’era impegnato ad accompagnare molti lavoratori stranieri al di lì del confine della Tunisia, salvandoli così dalla denuncia di collaborazionismo con Gheddafi e, quindi, dall’arresto. La medesima situazione don Sandro l’ha ritrovata anche in Egitto, dove le denunce, gli arresti, ma anche la detenzione abusiva, le violenze e i ricatti erano invece rivolti ai lavoratori eritrei scappati dalla violenta dittatura che affligge il loro Paese ed espatriati in Egitto per trovarvi fortuna e forse lavoro, per incappare invece nelle bande di beduini del deserto. Per ciascuno dei 278 eritrei liberati è stato pagato il prezzo del biglietto aereo per farli tornare patria e oggi sono ospitati in un campo profughi in Etiopia. Alganesc Fessaha, attivista dell’Ong “Ghandi”, ha presentato a Trento i risultati del progetto in un incontro con l’assessore alla solidarietà internazionale della Provincia di Trento Lia Beltrami Giovanazzi nel quale ha descritto la gravità della situazione, che vede oltre 600 eritrei ancora prigionieri delle bande e altri 400 rinchiusi nelle carceri egiziane. L’impegno quindi continua, così come la missione umanitaria dell’associazione “Gandhi”, impegnata in 12 Paesi africani in cui organizza adozioni a distanza, accoglienza familiare e assistenza ai profughi.

giovedì 28 marzo 2013

Turchia: Amnesty; è tempo di togliere le catene alla libertà

AKI
In un nuovo rapporto sulla Turchia, Amnesty International ha espresso il timore che il pacchetto di riforme legislative all’esame del parlamento di Ankara finisca per essere un’opportunità persa per allineare le leggi nazionali agli standard internazionali sui diritti umani e lascerà le persone a rischio di subire violazioni, tra cui il carcere, solo per aver espresso un’opinione. “In Turchia la libertà d’espressione è sotto attacco, con centinaia di procedimenti giudiziari a carico di attivisti, giornalisti, scrittori e avvocati”, ha dichiarato John Dalhuisen, direttore del Programma Europa e Asia centrale di Amnesty.
“Le riforme succedutesi nel tempo non hanno affrontato il problema principale: la definizione di alcune fattispecie di reato nel codice penale e nella legge antiterrorismo”, ha aggiunto Dalhuisen. Il rapporto analizza il contenuto e le modalità di attuazione dei 10 più problematici articoli di legge che minacciano la libertà d’espressione in Turchia. Rimane in vigore, ad esempio, il famigerato articolo 301 del codice penale sulla “denigrazione della Nazione turca”, usato per processare e condannare il giornalista e difensore dei diritti umani Hrant Dink, poi assassinato.
Secondo Amnesty, negli ultimi anni si è assistito all’aumento dell’uso arbitrario delle leggi antiterrorismo per criminalizzare attività del tutto legittime, come discorsi politici, scritti di contenuto critico, partecipazione a manifestazioni e militanza in organizzazioni e gruppi politici riconosciuti. Dibattiti pacifici sui diritti dei curdi e su altre questioni politiche a loro legate, così come i temi e gli slogan al centro delle manifestazioni in loro favore, danno luogo a procedimenti giudiziari per “propaganda terrorista”.

Iraq executes 18 despite international outcry

AFP
Killings are the first confirmed executions this year

Baghdad: Iraq executed 18 people this month, eight of them on the same day as an attack on the justice ministry, a top official said on Wednesday, despite global condemnation over its ongoing executions.
They were the first confirmed executions this year, after Justice Minister Hassan Al Shammari insisted last week that Baghdad would continue to implement the death penalty in the face of widespread calls for it to issue a moratorium.
Iraq executed at least 129 people last year, according to the justice ministry.
“On Thursday [March 14], we executed eight, and then on Sunday [March 17], we executed 10,” Deputy Justice Minister Busho Ebrahim said.

Alla vigilia della visita di Papa Francesco: detenzione dei minori 468 ragazzi negli Ipm e 2000 nelle comunità

ANSA
Duemila minori in comunità e 468 ragazzi detenuti negli istituti minorili, oltre la metà per reati contro il patrimonio. Alla vigilia della visita a Casal del Marmo del papa, che domani celebrerà la Messa in coena domini nella cappella dell’istituto penale, ecco la fotografia della giustizia minorile italiana.

Le presenze giornaliere. Al 15 marzo 2013 sono 468 i ragazzi detenuti negli istituti penali: erano 508 nel 2012 (200 stranieri), 486 nel 2011 e 474 nel 2010. Il 58,7 per cento è imputato per reati contro il patrimonio, l’11,7 per cento per violazione della legge sulla droghe, un altro 11,7 per cento per reati contro la persona e il 2 per cento per resistenza o oltraggio a pubblico ufficiale

Sono dentro per furto e rapina 247 ragazzi, 56 per resti legati al traffico di stupefacenti e 13 per omicidio volontario. La sede con il più altro numero di presenze medie giornaliere è quella di Catania (con una media di 63), seguono Nisida (Na) con poco meno di 60, Milano (53) e Roma (46). Oltre duemila, invece, i minori collocati in comunità (753 stranieri). 

Gli ingressi. Gli ingressi negli Ipm sono in diminuzione nell’ultimo decennio, in linea con la “de-carcerizzazione” in atto già dal 1975: se nel 1998 erano entrati nelle carceri 1.888 ragazzi, nel 2012 il dato è sceso a 1.252 di cui l’89 per cento maschi e l’11 per cento femmine, il 53,2 per cento italiani e il 46,7 per cento stranieri. Anche per i Centri di prima accoglienza (Cpa), gli ingressi sono diminuiti di quasi il 50 per cento nel giro di 14 anni, passando dalle 4.222 unità del 1998 alle 2.193 del 2012. 

Le strutture. Il sistema della giustizia minorile in Italia è sotto la responsabilità del Dipartimento per la giustizia minorile del ministero della Giustizia, costituito nel 2001. I destinatari dei servizi sono i ragazzi e le ragazze che in età compresa tra i 14 e i 18 hanno infranto il codice penale. Le strutture preposte all’esecuzione della pena sono i Centri per la Giustizia Minorile (Cgm), organi del decentramento amministrativo con funzioni di controllo e programmazione tecnico-economica; gli Istituti penali per i minorenni (Ipm) che assicurano l’esecuzione dei provvedimenti dell’autorità giudiziaria (custodia cautelare o espiazione di pena nei confronti di minorenni autori di reato); gli Uffici di servizio sociale per i minorenni (Ussm) che forniscono assistenza ai minorenni autori di reato in ogni stato e grado del procedimento penale e i Centri di prima accoglienza (Cpa) che ospitano i minorenni in stato di arresto, fermo o accompagnamento fino all’udienza di convalida. 
Le Comunità ministeriali, insieme al sistema delle comunità private assicurano l’esecuzione dei provvedimenti dell’autorità giudiziaria nei confronti di minorenni autori di reato.

mercoledì 27 marzo 2013

Delaware Senate approves repeal of death penalty

Associated Press

DOVER, Del. The state Senate has narrowly approved a bill repealing Delaware's death penalty.
The 11-to-10 vote on Tuesday came after lengthy and sometimes emotional debate from both supporters and opponents of the death penalty.
Before debating the bill, senators voted overwhelmingly to remove a provision to spare the lives of 17 killers already on death row, a point of contention for some lawmakers.

The measure, opposed by Attorney General Beau Biden, now goes to the state House for consideration.
Gov. Jack Markell has refused to say whether he favors the legislation.
Supporters of the bill argue that the death penalty is morally wrong, racially discriminatory and ineffective as a deterrent to violent crime.
Opponents argued that some murders are so heinous and atrocious that capital punishment is appropriate.

Israel - More than 60 Israeli laws discriminate against Palestinians

Middle East Monitor
The laws cover areas such as education,
 the national budget, public services,
civil rights and even prisons and prisoners
The Legal Centre for Arab Minority Rights in Israel (Adalah) has revealed that the Israeli authorities have drafted more than 60 laws which discriminate against their Palestinian citizens. The laws cover areas such as education, the national budget, public services, civil rights and even prisons and prisoners.

"Some of these laws also violate the rights of Palestinians in the occupied territories and Palestinian refugees," said the Adala website.
To mark the International Day against Racism and the swearing in of the new Israeli government on Friday, Adala said that it is going to launch a computerised database of all discriminatory laws in Israel. As well as analytical studies and petitions filed to the Israeli Supreme Court against such laws, the database is going to include briefs in Arabic, Hebrew and English. Draft bills waiting to be proposed in the Knesset will also be included.

Egypt - Peine de mort pour un musulman qui a tué deux coptes

Le Matin
Un tribunal égyptien a condamné lundi à la peine capitale un musulman. L'homme est reconnu coupable du meurtre en 2011 de deux coptes (chrétiens d'Egypte) dans une attaque.

Selon une source judiciaire, le tribunal criminel de Sohag (500 km au sud du Caire) a condamné à mort Mahmoud Abdel Nazir, 50 ans. Il est reconnu coupable d'avoir tué deux coptes, blessé trois autres et incendié des biens appartenant à cette communauté pour venger selon lui le meurtre de son frère par un copte.
Le juge a transmis la condamnation à mort au grand mufti d'Egypte, la plus haute autorité religieuse du pays qui doit confirmer cette peine, selon les procédures pénales en Egypte.
Les Coptes représentent 6 à 10% de la population du pays. Des violences et des attentats contre leur communauté ont aggravé leur sentiment d'insécurité au cours des derniers mois.

Giustizia: Flick (Consulta); rieducazione assente, sistema detentivo arrivato in fase terminale

ANSA
“Il carcere è arrivato a una fase terminale”: lo ha detto il presidente emerito della Corte Costituzionale Giovani Maria Flick, intervenendo alla presentazione del Festival del Volontariato, oggi a Roma.
“La pena dovrebbe tendere alla rieducazione ed evitare trattamenti disumani, è questa la sua ragion d’essere. Ma la pena detentiva isola” ha spiegato Flick, sottolineando l’importanza delle pene alternative al carcere e il ruolo che vi svolge il volontariato, “senza il quale le carceri chiuderebbero stasera”.
“Il carcere - ha aggiunto - è ormai diventato la discarica sociale dei diversi, visto che il 30% dei detenuti sono tossicodipendenti e oltre il 40% sono immigrati”. Per aiutare e sostenere queste persone, per creare strutture dove possano scontare la pena domiciliare ad esempio, ha detto l’ex ministro della giustizia del primo governo Prodi, il volontariato ha un “ruolo essenziale” che gli va riconosciuto, anche “facendo una legge quadro per il terzo settore che ancora manca”.

martedì 26 marzo 2013

‘5,000 Ugandans languishing in Zimbabwe, South Africa prisons’

Daily Monitor

Human rights activists say majority are victims of some recruitment firms that take them there, promising them jobs.


Zimbabwean prisons
Human rights activists in Uganda yesterday appealed to the International Human Rights Commission to intervene and force Zimbabwe and South African governments to release and deport Ugandans being held in the various prisons in the countries.
Speaking during a press briefing in Kampala, the executive director for Human Rights Defenders, Mr Gideon Tugume, said there are many Ugandans being held in prisons in the two countries and yet they have never been taken to court.

“There are about 5,800 Ugandans held in prisons of both countries. More than 500 Ugandan prisoners have been identified in South Africa (mainly in Pretoria and Johannesburg) and more than 5,000 in Zimbabwe,” said Mr Tugume.

He added that most of them are held at Khani Prison, Chikurubi Maximum Prison, Kami Prison and Gwanda Prisons, all in Zimbabwe.
In Zimbabwe, most Ugandans are held at Harare Central Prison. “Some of these people that are imprisoned in these countries are not even criminals, they are taken to after being promised jobs especially by some companies that have been advertising job opportunities for unemployed people who want to work out there” said Mr Tugume.

He added that many Ugandans are being trafficked to different countries even outside Africa and when they are held for illegal entry into the countries, those who cannot afford to bribe their way out remain under in custody.

The prisoners are reportedly living in poor conditions as they are tortured, beaten, and survive on just one meal per day and luck enough facilities to retain all of them and yet some of the women in these prisons are even raped.

However, Foreign Affairs state minister Okello Oryem, when contacted by the Daily Monitor, accused the activists of being busy bodies that want to be seen working by their donors. He instead said such complaints should be reported to the Ugandan embassies in the respective countries. “I am not dismissing the reports but their approach is wrong. They should have contacted me or the other Foreign Affairs ministers. We are ready to listen and help them,” Mr Oryem said.

By Angella Nalwanga

Espana - Rescatan a 23 inmigrantes en cuatro embarcaciones hinchables en aguas del Estrecho

ABC.es
Las actuaciones de los equipos de salvamento se han producido después de varias llamadas de alerta
Ayer fueron rescatados otros 27 inmigrantes. Esta foto fue tomada antes de que tocaran tierra [EFE]
Salvamento Marítimo y la Gendarmería marroquí han rescatado esta mañana en el Estrecho de Gibraltar a 23 inmigrantes subsaharianos cuando intentaban alcanzar las costas españolas a bordo de cuatro embarcaciones hinchables.

Según han informado fuentes de la Subdelegación del Gobierno en Cádiz, las actuaciones se han producido después de varias llamadas de alerta realizadas desde teléfonos móviles a las 6.30 horas.

Inmediatamente se ha activado un dispositivo de búsqueda en el que han participado la embarcación «Salvamar Alkaid» de Salvamento Marítimo, la lancha «Hermes» de la Cruz Roja y el helicóptero «Helimer 211».

La primera patera ha sido avistada por la lancha «Hermes» a unas cuatro millas al sureste de Tarifa con cinco subsaharianos a bordo, todos varones y mayores de edad.

La segunda ha sido rescatada a las 7.39 horas por la «Salvamar Alkaid» a siete millas al suroeste de Tarifa con siete inmigrantes, también varones y mayores de edad.

Los ocupantes de las dos primeras embarcaciones han sido trasladados en aparente buen estado de salud al puerto de Tarifa (Cádiz).

La tercera embarcación ha sido localizada por una patrullera de la Gendarmería marroquí a las 8.00 horas a unas ocho millas al suroeste de Tarifa con siete personas a bordo.

Las patrulleras marroquíes han sido también las encargadas de rescatar a la última embarcación, en la que viajaban cuatro inmigrantes.

El helicóptero «Helimer 211» ha regresado ya a su base de Jerez de la Frontera (Cádiz) al dar por concluida la búsqueda, que se ha saldado con el rescate de 23 inmigrantes subsaharianos.

Padova - «No all’ergastolo», in carcere è sciopero della Messa di Pasqua

Il Mattino di Padova
L’appello di un detenuto a favore della campagna per l’abolizione dell’ergastolo: «È come la pena di morte da vivi. Noi siamo cambiati ma non abbiamo speranze»


PADOVA. Uno «sciopero» della Messa di Pasqua in carcere. Un atto semplice ma forte, un appello che nasce dalla disperazione. È l’iniziativa lanciata da Carmelo Musumeci, detenuto del carcere Due Palazzi di Padova, per sostenere la campagna a favore di una proposta di legge di iniziativa popolare per l’abolizione dell’ergastolo. Campagna che ha raccolto numerose adesioni, soprattutto da personalità del mondo della cultura e della scienza. «Lo sciopero di Pasqua - scrive Musumeci in una lettera aperta a don Oreste Benzi (scomparso nel 2007) - perché per noi, almeno su questa terra, non ci sarà mai resurrezione».
Ecco per interno la lettera aperta di Carmelo Musumeci.
Lettera aperta a Don Oreste Benzi (in cielo dal 2007) , fondatore della Comunità Papa Giovanni XXIII
Don Oreste, nonostante le numerose iniziative, appelli, le lettere, le firme raccolte e le numerose adesioni di persone importanti, come Margherita Hack, Umberto Veronesi, Agnese Moro e Bianca Berlinguer, ma anche di tanti uomini e donne di Chiesa, contro l’esistenza in Italia della “Pena di Morte Viva”, l’ergastolo senza benefici, nulla è cambiato. E i buoni, nonostante che siano trascorsi dalle nostre condanne venti, trenta e più anni, non sono ancora sazi e continuano a torturarci l’anima, il cuore e la mente. In questi giorni mi sono domandato che altro possiamo fare per attirare l’attenzione, sensibilizzare l’opinione pubblica, per fare capire ai buoni che ricambiare male con altro male, (murare viva una persona senza neppure la compassione di ucciderla) fa sentire innocente qualsiasi criminale.
Don Oreste, ognuno combatte con le armi che ha ed ho pensato di proporre a tutti gli uomini ombra, sparsi nelle nostre Patrie Galere, lo sciopero della messa di Pasqua, perché per noi, almeno su questa terra, non ci sarà mai resurrezione. Che cosa abbiamo noi da spartire con questa festa? Tanto vale non festeggiarla, è una presa in giro per noi… Lo so, non sarai sicuramente d’accordo, non lo è neppure il mio compagno Ignazio che è di fronte alla mia cella, che non si perde mai una messa, ma che altro possiamo fare per tentare di cambiare il cuore della società civile, dei giudici, dei politici e degli uomini di chiesa, che spesso si occupano solo delle nostre anime e non dei nostri sogni e speranze?
Don Oreste, è da pazzi giudicare un uomo o una donna colpevole per il resto della sua vita e, a parte l’errore, è un orrore. Molti di noi sono diventati uomini nuovi, perché continuano a punirci? Che c’entriamo noi con quelli che eravamo prima?
Don Oreste, dall’ultima volta che ti ho visto nel carcere di Spoleto, quando ti schierasti dalla parte dei più cattivi (prima di te lo aveva fatto solo Gesù), mi manchi, ma perché te ne sei andato così presto in cielo? Potevi rimanere ancora un poco su questa terra per darci una mano ad abolire la “Pena di Morte Viva” in Italia. Ora ci sentiamo più soli. Diglielo tu a Dio, io non ho il coraggio (e poi sono anche ateo) che gli uomini ombra per Pasqua non andranno a messa.
Don Oreste, guarda cosa puoi fare da lassù perché stiamo invecchiando e non abbiamo più tempo. Siamo disperati, molti di noi (siamo già quasi in 300 che hanno aderito) a settembre sono pronti anche ad uno sciopero della fame: non ci resta che la nostra vita per cercare di ritornare nel mondo dei vivi e lotteremo con quella. Don Oreste, è dura vivere nell’ombra ed è per questo che gli uomini ombra non festeggeranno la Pasqua. Perdonaci almeno tu se puoi. Il mio cuore ti manda un abbraccio fra le sbarre.



    lunedì 25 marzo 2013

    Oman - Liberati 50 prigionieri di coscienza

    Amnesty International
    Accogliendo la richiesta di Amnesty International, il 21 marzo 2013 il sultano Qaboos ha disposto la grazia per tutti gli attivisti, scrittori e blogger che erano stati condannati l'anno precedente per i reati di insulto al capo di stato, partecipazione a manifestazione non autorizzata e violazione delle norme sulle comunicazioni elettroniche. Il giorno dopo, decine di prigionieri (secondo attivisti locali, sarebbero oltre 50) sono tornati in libertà.

    Stati Uniti: Dipartimento Immigrazione; troppo isolamento immotivato per detenuti stranieri

    Adnkronos

    Ogni giorno negli Stati Uniti circa 300 immigrati sono tenuti in isolamento in 50 strutture detentive. Circa la metà di loro sono tenuti in isolamento per 15 o più giorni, rischiando gravi traumi mentali secondo quanto sostengono gli esperti di psichiatria. Circa 35 detenuti sono invece tenuti in isolamento per oltre 75 giorni. E' quanto rivelano i dati dello US Immigration and Customs Enforcement, l'agenzia del Dipartimento della Sicurezza Interna degli Stati Uniti responsabile per l'immigrazione. Come scrive il New York Times, i dati non indicano i motivi che spingono le autorità a decidere l'isolamento per questi detenuti, ma secondo un consulente che ha assistito l'agenzia per l'immigrazione nel mettere a punto i dati, per circa due terzi si tratta motivi dovuti a infrazioni di carattere disciplinare, a discussioni con le guardie o a risse. Gli immigrati vengono anche regolarmente messi in isolamento perché ritenuti una minaccia per gli altri detenuti o per il personale carcerario o a scopo protettivo, nei casi in cui l'immigrato sia omosessuale o affetto da problemi mentali. Il Nyt rileva che gli Stati Uniti sono oggetto di aspre critiche sia interne che all'estero per il ricorso all'isolamento carcerario con una frequenza superiore a quella di qualsiasi altro Paese democratico. Sebbene l'agenzia per l'immigrazione ponga in isolamento solamente l'1 per cento del totale degli immigrati detenuti, la pratica, scrive il quotidiano, è comunque inquietante poiché si tratta di individui accusati di reati civili e non penali e la loro detenzione e' decisa solamente per assicurare la loro presenza nelle udienze amministrative a loro carico.

    Torino: 30 detenuti dormono per terra, senza materassi e senza serviziigienici

    www.articolotre.com

    Denuncia dell’Osapp sulle condizioni delle carceri: nelle Vallette ci sono 500 detenuti in più rispetto al numero di capienza massimo e 30 persone dormono per terra senza materassi in locali privi di servizi igienici. Intanto l’ennesimo episodio di suicidio in carcere, 13esimo dall’inizio dell’anno; sarebbero 43 i morti in carcere negli ultimi 2 mesi e mezzo. Incredibile denuncia dell’Osapp, che dovrebbe far riflettere soprattutto alla luce dei recenti discorsi affrontati relativamente ai problemi economici in cui versa oggi il nostro Paese: nel carcere delle Vallette di Torino, ci sarebbero 500 detenuti in più rispetto al numero di capienza massimo previsto per l’istituto. Notizia vecchia, questa, potremmo quasi dire, se non fosse che almeno una trentina di questi carcerati starebbero dormendo per terra, senza materassi in locali che, secondo quanto riferito da Leo Beneduci, segretario generale dell’Organizzazione Sindacale Autonoma della Polizia Penitenziaria, sarebbero addirittura privi di servizi igienici. “Purtroppo a parte l’apparente stabilizzazione numerica del sistema” ha riferito Beneduci, “le emergenze che il personale di polizia penitenziaria affronta quotidianamente in carcere si vanno ad aggravare di giorno in giorno, come nell’istituto di Torino, dove per una capienza di 1050 detenuti ve ne sono invece 1580”. Quasi il 50% in più di persone rinchiuse, quindi, rispetto a quante ne prevede il carcere, le quali inevitabilmente si ritrovano a dover vivere in condizioni a dir poco improponibili, a causa delle inevitabili carenze dei servizi. Il problema del sovraffollamento delle carceri è un aspetto della nostra società che non può passare inosservato o in secondo piano, considerando soprattutto il fatto che i tagli economici che inevitabilmente verranno effettuati per far fronte alla crisi non faranno altro che peggiorare questa situazione se non si interverrà adeguatamente per assicurare la garanzia e il mantenimento di tutta quella serie di diritti basilari di cui nessuno al mondo, nemmeno un criminale, può in alcun modo e per nessuna ragione essere privato in uno stato sociale e democratico come il nostro. Tutto questo, purtroppo, dopo l’ennesimo episodio di suicidio in carcere, avvenuto nel carcere di Ivrea dove un uomo di 53 anni si è tolto la vita impiccandosi nella sua cella a meno di un anno dalla sua scarcerazione. È il 13esimo suicidio e il 43esimo morto in carcere dall’inizio dell’anno, cioè in meno di 3 mesi. Troppo spesso, forse, si tende a dimenticare l’esistenza dei detenuti, chiudendo gli occhi, voltando lo sguardo dall’altra parte, considerandoli addirittura, in alcuni casi, alla stregua di animali da stipare in una gabbia il più a lungo possibile, mentre bisognerebbe invece ricordarli, e ricordare insieme ad essi quanto espresso dalla nostra Costituzione cioè che “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” art. 27 comma 3 della nostra Legge Fondamentale.

    domenica 24 marzo 2013

    Obama vows aid for Syrian refugees in Jordan

    Aljazeera
    Syria conflict figures in talks between the two heads of state, as thousands of refugees continue to pour into Jordan.
    Barack Obama, the US president, has pledged an additional $200m in humanitarian aid this year to Jordan to help with Syrian refugees after the two leaders met for talks in Amman.

    Jordan's king and the country's top military brass welcomed President Obama on Friday as the leaders headed into talks focusing on the conflict in Syria.

    More than 400,000 refugees have crossed into Jordan to escape two years of bloodshed at home, crowding refugee camps and overwhelming aid agencies run by this important US ally in the Middle East.

    King Abdullah II says Jordan has "historically opened our arms to many of our neighbours ... that is a challenge we just cannot turn our backs on."

    "Refugees will continue to come ... but the problem is the burden it is having on Jordan - $550m per year."

    Obama emphasised US support for Syria by saying, "We have led with deeds, we are the single-largest humanitarian donor to the Syrian people."

    The US president acknowledged the problems of adding military support to Syria: "The US often finds that if it goes in militarily it is criticised; if it does not, people will ask why not?"

    On Syrian President Assad's legitimacy, Obama was clear: "[Assad] has lost all legitimacy because he is willing to slaughter his own people."

    "I am confident that Assad will go - it is not a question of if but when ... so we have to think about what comes after that."

    Middle East tour

    Obama also will seek to bolster Jordan's efforts to reform its government in an attempt to stave off an Arab Spring-style revolution that has led to the downfall of longtime leaders in Egypt, Tunisia and Libya.

    On Saturday, Obama planned several hours of sightseeing, a tour of the fabled ancient city of Petra before the return trip to the White House.

    Before arriving in Jordan, Obama closed a three-day visit to Israel, another important US ally in the region, by paying respects to the nation's heroes and to victims of the Holocaust.

    The Israeli President Shimon Peres and Prime Minister Benyamin Netanyahu were present at Tel Aviv's Ben Gurion airport on Friday to see off the US president.

    During the trip to Israel the US president reaffirmed US commitment to Israel.

    He also expressed support for a two state solution where Israel and Palestine can co-exist as sovereign states.

    At the Church of the Nativity, Obama ducked to enter through its small Door of Humility. Manger Square, the plaza in front of the church, was almost deserted except for security personnel.

    "Gringo, return to your country," read a sign held by a small group of Palestinian protesters who watched the presidential motorcade roll into Bethlehem from Jerusalem after it passed through Israel's controversial barrier in the occupied West Bank.

    Earlier, Obama visited Israel's most powerful national symbols, paying homage at the Holocaust memorial and the graves of Theodor Herzl, the founder of modern Zionism.

    He also visited the grave of Yitzhak Rabin, the Israeli prime minister, assassinated in 1995 by an extremist Jew over peace moves with the Palestinians.

    Iran - Saeed Abedini, pastore di origini iraniane, scrive alla moglie dal carcere di Evin, Teheran

    cristiani.info

    Saeed Abedini, 32, è un giovane pastore di origini iraniane, nella famigerata prigione di Evin, Teheran, dal 26 settembre del 2012, “per aver attentato alla sicurezza nazionale” (leggi: attività evangelistiche). Nel mese di gennaio del 2013 è stato condannato a 8 anni di carcere. La moglie teme che possa non uscirne vivo. “Otto anni di carcere – ci ha ripetuto Naghmeh giovedì scorso durante un’intervista telefonica – sono pari ad una condanna a morte”. Quella che segue è la prima parte di una lettera che Saeed le ha fatto pervenire.

    Ciao, mio caro amore e moglie,

    Quando ho visto la mia famiglia per la prima volta dietro le pareti di vetro, sono riuscito a vedere mia madre a quattro metri di distanza. Quando mi si è avvicinata e ha visto la mia faccia, è rimasta sconvolta, incapace d’avvicinarsi. Stava piangendo. Ho capito quello che provava perché dopo settimane in cella d’isolamento nella prigione di Evin, io stesso avevo visto la mia faccia nello specchio di un ascensore che mi stava portando all’ospedale del carcere. Avevo salutato la persona che mi fissava; non mi ero riconosciuto. Avevo i capelli rasati; sotto, gli occhi erano gonfi tre volte più del solito; avevo il volto gonfio, la barba era cresciuta.

    Un paio di giorni prima, uno dei membri della mia famiglia, con gli occhi stanchi per essere andato in giro per 15 settimane nel tentativo di farmi uscire dal carcere, mi aveva detto che mio padre diceva ogni giorno “questa settimana riuscirò a tirar fuori dal carcere mio figlio”. Ma questo non accade e lui non è in grado di farmi uscire di prigione. In quel momento ho guardato nel volto pieno di rughe di mio padre e nei suoi occhi stanchi. Mi sono reso chiaramente conto che aveva corso per mesi e che non gli era rimasta più alcuna forza. Era molto duro per me vedere la mia famiglia ridotta in quello stato.

    Tu, moglie mia, dall’altra parte del mondo, da sola con i bambini. Da sola e preoccupata. Qui in Iran la mia famiglia, sottoposta a interrogatorio, stanca e stressata.

    Al grido della guardia carceraria, il tempo delle visite è terminato. Ci hanno bendato gli occhi e ci hanno riportato nella cella buia senza luce naturale.”


    Continua

    Italia - Napoli carcere Secondigliano - Sepe: "Chiederò udienza al papa per i detenuti napoletani"

    La Repubblica


    Il cardinale in visita ai detenuti della casa circondariale di Secondigliano. Celebrata la messa per le festività pasquali.
    (...)"Al papa chiederò una udienza riservata per i detenuti degli istituti di pena di Napoli". Lo ha annunciato il cardinale Crescenzio Sepe parlando oggi ai reclusi del carcere di Secondigliano in occasione della celebrazione della messa per le festività pasquali. "Perché Cristo liberamente ha accettato di morire sulla croce? Perché su quella croce ci sono le croci di tutta l'umanità", ha aggiunto Sepe. Ai reclusi il cardinale ha voluto impartire anche la "benedizione del papa".
    Nella delegazione di detenuti presenti nella cappella - circa duecento - anche l'ex direttore dell'Avanti, Valter Lavitola. Quando il cardinale Sepe è passato nei viali per raggiungere la cappella alcuni detenuti dalle finestre hanno urlato: "Non vi dimenticate di noi" e "Viva il papa Francesco". L'arcivescovo rivolgendosi ai reclusi ha detto: "Cristo sta in questo carcere tra di voi per aiutarvi a portare la vostra croce".
    Sepe ha annunciato l'apertura di un laboratorio artigianale di falegnameria per detenuti in affidamento, l'istituzione di alcune borse lavoro per quei reclusi che seguono un percorso di studio e formazione ma l'applauso più forte si è levato quando il cardinale Crescenzio Sepe, al termine della messa, ha annunciato che a fine maggio saranno rinnovati tutti gli abbonamenti alla pay tv per seguire le partite di calcio.

    L'arcivescovo di ha voluto celebrare la funzione nell'istituto penitenziario di Secondigliano che ospita 1200 detenuti. Ma nella cappella hanno potuto trovare posto poco più di 200 persone alle quale è stato distribuito un rosario: "Non dico di recitare ogni giorno cinquanta Ave Maria - ha detto scherzosamente Sepe rivolgendosi ai reclusi - ma almeno una sola per me".

    Al presule un recluso ha voluto regalare un quadro che egli stesso ha dipinto. Il cardinale Sepe è stato accolto dal direttore dell'istituto Liberato Guerriero, dal provveditore regionale, Tommaso Contestabile e dal cappellano del carcere, don Raffaele Grimaldi.

    Rifugiati siriani a Za'atari in Giordania tra violenze e i bambini che lavorano

    La Repubblica

    Un'analisi tra i rifugiati siriani fa luce sulla portata del fenomeno degli abusi sui minori. Pubblicata dalle Nazioni Unite in collaborazione con un Un ponte per... grazie all'esperienza in Giordania, Iraq e Libano nell'assistenza alle donne sole con bambini. Le ricerche mostrano come a Za'atari il problema del lavoro minorile e dell'infanzia negata sia diventata un'emergenza.



    Roma - Un'analisi della condizione dei rifugiati siriani, che fa luce sulla portata del fenomeno degli abusi sui minori: di questo parla lo studio appena pubblicato dalle Nazioni Unite in collaborazione con un Un ponte per... grazie all'esperienza acquisita in Giordania, Iraq e Libano nell'assistenza alle donne sole con bambini. Si tratta della prima parte di lavoro molto più ampio dedicato alla situazione dei profughi siriani in Giordania, e che si occuperà anche di quanto sta accadendo nei centri urbani del paese.

    E' ormai un'emergenza. Le ricerche effettuate dimostrano come a Za'atari il problema del lavoro minorile e dell'infanzia negata sia diventata un'emergenza, vista anche la miseria in cui vivono gran parte delle famiglie rinchiuse nel campo. Nel rapporto si parla di 342 minori non accompagnati e 307 'separatì dai loro familiari, completamente abbandonati a sé stessi, che si dividono tra la vendita di sigarette e tè e l'accattonaggio. Nel rapporto si menziona anche il caso di alcuni ragazzi impiegati nella pulizia dei servizi igienici del campo. Critica anche la situazione dei giovani di 15-18 anni giunti in Giordania dopo essere stati 'usatì dalle milizie siriane, così come ci sarebbero casi di bambini rientrati in patria per unirsi alla guerriglia.

    Le ragazze sono le prime vittime. Lo studio evidenzia anche un aumento della violenza - praticata soprattutto in tenda e nei locali dei servizi igienici - e dei matrimoni forzati, con le donne - e in particolare le ragazze tra i 12-18 anni - che si confermano le prime vittime di questa situazione, anche a causa della difficoltà di proteggerle, insieme ai disabili che non possono contare su servizi adatti ai loro bisogni. Tra le raccomandazioni finali indirizzate a coloro che lavorano nel campo, un maggiore controllo per evitare casi di violenza e sfruttamento, con particolare attenzione a donne sole con bambini, le cui tende dovrebbero essere poste "vicino ai centri nevralgici del campo", in modo da assicurare loro una maggiore visibilità e protezione.

    Un quadro sconfortante. Nonostante il quadro sconfortante, c'è il concreto rischio che vengano aperti altri campi, soprattutto se si considera che i rifugiati sono già diventati il 10% della popolazione giordana, e secondo le previsioni delle Nazioni Unite potrebbero diventare molti di più nei prossimi mesi. A quel punto, diventerà estremamente problematico riuscire a gestire l'emergenza e sarà necessario che la comunità internazionale si concentri molto di più sulla protezione dei rifugiati che sulla guerra in corso. In Giordania i profughi hanno ormai quasi superato il mezzo milione di individui e il Regno Hashemita è davvero giunto ai limiti della sua capacità di accoglienza, come dimostrano le numerose proteste di queste settimane contro la presenza dei siriani.

    100 mila persone in un carcere a cielo aperto. Le organizzazioni internazionali lamentano anche la forte mancanza di fondi, a fronte del deteriorarsi dell'emergenza. La maggioranza dei rifugiati continua a vivere nelle città, con inevitabili conseguenze sul funzionamento dei servizi sociali e delle scuole pubbliche, mentre i problemi di sopravvivenza quotidiana si moltiplicano ogni giorno. Purtroppo gran parte delle risorse finanziarie sono state sinora dedicate al campo profughi di Za'atari, nel nord del paese, da cui i siriani non hanno possibilità di uscire se non attraverso sponsor che garantiscono per loro. Con più di 100.000 persone, il campo è ormai diventato un enorme carcere a cielo aperto. Di qui la scelta di Un ponte per... di lavorare con i profughi che hanno scelto di vivere liberamente nelle città.

    Pena di Morte. Ultimo appello contro l'esecuzione in Florida del cittadino italiano Anthony Farina


    Notizie Radicali
    Antony Farina, il cittadino americano di origini italiane, per il quale le associazioni Reprieve, Nessuno tocchi Caino e Comunità di Sant’Egidio hanno promosso una campagna per il riconoscimento della cittadinanza italiana (ottenuta lo scorso 2 novembre) e contro la sua condanna a morte, ha presentato il 13 marzo il suo ultimo ricorso alla Corte d'Appello degli Stati Uniti, per chiedere la revoca della sentenza capitale. All’udienza ha partecipato in rappresentanza del Governo italiano anche il Console Generale Adolfo Barattolo, che ha presentato un “amicus curiae” volto a sostenere la contrarietà al diritto internazione di una condanna a morte nei confronti di una persona che non ha né ucciso né avuto l’intenzione di uccidere.
    Anthony Farina, la cui famiglia è originaria di Santo Stefano di Camastra (Messina) aveva 18 anni nel 1992 quando, insieme al fratello sedicenne Jeffrey, rapinò un fast food a Daytona Beach, in Florida. Il fratello sparò e uccise una dipendente, ma essendo minorenne all’epoca dei fatti la sua pena è stata tramutata in ergastolo, con la possibilità di ottenere la libertà condizionata dopo 25 anni. Anthony, invece, pur non avendo materialmente commesso l’omicidio, si è ritrovato condannato alla pena capitale dopo un processo in cui il pubblico ministero, invocando la Bibbia, si era proclamato “agente di Dio”.
    Il caso ha visto la mobilitazione anche dell'organizzazione “Americani Uniti per la Separazione tra Stato e Chiesa” e di una coalizione di gruppi religiosi americani contrari alle affermazioni del Pubblico Ministero di essere “servo di Dio” e “strumento di punizione divina”. Sulla vicenda è intervenuto anche Francesco Re, il sindaco di Santo Stefano di Camastra che si è rivolto al Presidente della Repubblica e al Papa.
    Nell’ipotesi di rigetto di quest’ultimo appello presentato da Anthnoy Farina, resterà il ricorso alla Corte Suprema degli Stati Uniti che però non ha l’obbligo di esaminare il caso. Non resterà poi che la richiesta di grazia al governatore della Florida che la concesse, l’ultima volta, nel 1983.

    sabato 23 marzo 2013

    Burma refugees die in Thailand camp fire

    BBC News Asia

    About 30 people have died in a fire at a camp housing Burmese refugees in northern Thailand, local officials say.
    A number of people at the Ban Mae Surin camp were injured in the blaze, which destroyed about 100 makeshift houses.

    Officials say the fire may have been started by a cooking accident, but an investigation is still under way.

    More than 3,000 refugees from Burma - mostly from the Karen minority - live at the camp. Those who lost their homes are being temporarily housed in tents.

    The fire started at about 16:00 local time (09:00 GMT) in the camp in Mae Hong Son province, the local officials say.

    "Most of the dead are women, elderly and children. Some 200 are wounded," one official was quoted as saying by the AFP news agency.

    The blaze was extinguished about two hours later.

    It is estimated about 130,000 Burmese refugees have fled conflicts in the country and are currently living in camps in northern Thailand.

    Ivrea (To): suicida detenuto italiano di 53 anni con solo un anno di pena residua

    ANSA
    “A Ivrea si è impiccato un detenuto italiano di 53 anni con solo un anno di pena residua ed è il 13° suicidio ed il 43° morto in carcere dall’inizio dell’anno ma, nonostante gli appelli accorati e le dichiarazioni di intento della politica e delle massime cariche istituzionali, la situazione non cambia”. A comunicarlo in una nota è Leo Beneduci segretario generale dell’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria). “Purtroppo - prosegue il leader dell’Osapp - a parte l’apparente stabilizzazione numerica del sistema 66mila detenuti a fronte di poco meno di 43mila posti letto reali, per 23mila detenuti in più del consentito, le emergenze che il personale di polizia penitenziaria affronta quotidianamente in carcere si vanno ad aggravare di giorno in giorno, come nell’istituto di Torino dove per una capienza di 1.050 ve ne sono 1.550 e 30 detenuti dormono per terra senza materassi in locali privi di servizi igienici”. “Come sindacato ci siamo già espressi stigmatizzando gli scarsissimi risultati raggiunti dal governo Monti e dalla Guardasigilli Severino riguardo alla soluzione dei problemi penitenziari del Paese, tenendo anche conto degli innumerevoli appuntamenti mancati sulle indispensabili riforme del sistema e della polizia penitenziaria - conclude Beneduci - e in assenza di programmi concreti nella precarietà di condizioni in cui un eventuale nuovo governo si troverà ad operare ci fanno ritenere probabili peggioramenti definitivi già nel corso dell’attuale legislatura.

    venerdì 22 marzo 2013

    Papa Francesco, Giovedì Santo in carcere Il Pontefice celebrerà la Messa e il rito della Lavanda dei piedi nel carcere minorile di Casal del Marmo


    Corriere della Sera
    Roma - Papa Francesco celebrerà la messa del pomeriggio del Giovedì Santo, il prossimo 28 marzo, nel carcere minorile romano di Casal del Marmo. Lo riferisce un comunicato della sala stampa vaticana.
    Papa Francesco il giorno della Messa d'insediamento in piazza San Pietro (Ansa)Papa Francesco il giorno della Messa d'insediamento in piazza San Pietro (Ansa)
    Il 28 Marzo- Il Giovedì Santo, celebrerà al mattino nella basilica di San Pietro la Messa Crismale e al pomeriggio - informa il comunicato - «si recherà all'Istituto Penale per Minori di Casal del Marmo per la celebrazione della "Messa nella Cena del Singore", alle ore 17.30». «Com'è noto - sottolinea la sala stampa vaticana - la Messa della Cena del Signore è caratterizzata dall'annuncio del Comandamento dell'amore e dal gesto della Lavanda dei piedi. Nel suo ministero come Arcivescovo di Buenos Aires, il cardinale Bergoglio usava celebrare tale Messa in un carcere o in un ospedale o in un ospizio per poveri o persone emarginate». Con la celebrazione a Casal del Marmo, «il Papa Francesco continua tale uso, che dev'essere caratterizzato da un contesto di semplicità». Le altre celebrazioni della Settimana Santa si svolgeranno invece secondo l'uso abituale, come poi renderà noto l'Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche. Papa Benedetto XVI aveva visitato l'Istituto di Casal del Marmo il 18 marzo 2007, celebrandovi la Messa nella Cappella del «Padre Misericordioso».

    giovedì 21 marzo 2013

    Italia - Slitta di un anno la chiusura degli OPG

    Avvenire
    Il Consiglio dei ministri ha approvato, su proposta del ministro della Salute, un decreto legge che contiene interventi urgenti in materia sanitaria. Con uno di questi, spiega la nota, «viene prorogata all'1 aprile 2014 la chiusura degli opg in attesa della realizzazione da parte delle Regioni delle strutture sanitarie sostitutive. Nel decreto si sollecitano le Regioni a prevedere interventi che comunque supportino l'adozione da parte dei magistrati di misure alternative all'internamento, potenziando i servizi di salute mentale sul territorio. Si prevede, in caso di inadempienza, un unico commissario per tutte le Regioni per le quali si rendono necessari gli interventi sostitutivi».

    La decisione, tuttavia, non giunge inattesa. «La situazione è che il ministero della Giustizia, in particolare il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha fatto tutto quello che era nelle sue competenze – aveva spiegato questa mattina il capo dipartimento del Dap, Giovanni Tamburino -. Il passaggio alle regioni, che sono venti e hanno livelli di attuazione diversi tra di loro, sta comportando una impossibilità di rispettare il termine originario che era il 31 marzo». Ritardi che però non cambiano la sostanza della sorte degli ospedali psichiatrici giudiziari. «Tutte le regioni hanno fatto dei notevoli passi in avanti – ha detto Tamburino -. Il percorso che porterà sicuramente alla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari ha già compiuto dei passi notevoli».

    In Italia ci sono sei ospedali psichiatrici giudiziari: Barcellona Pozzo di Gotto (Messina, chiuso dopo essere stato posto sotto sequestro il 19 dicembre del 2012), Aversa (Caserta), Castiglione delle Stiviere (Mantova), Montelupo Fiorentino (Firenze), Reggio Emilia e Napoli. In totale le persone che oggi sono ancora all’interno degli Opg sono 1.215 (dato aggiornato a febbraio 2013).

    È la legge 9/2012, approvata a febbraio del 2012, a fissare per il 31 marzo la data di chiusura e a stabilire che sia concluso un accordo tra le regioni e l’amministrazione penitenziaria per individuare strutture sostitutive degli Opg. Per il superamento degli Opg, la legge prevede un finanziamento di 273 milioni di euro (93 per il personale e gli altri per le strutture). All’approvazione della legge, nata da un disegno di legge presentato dalla Commissione Sanità presieduta dal senatore Ignazio Marino che nel 2011 ha visitato i 6 Opg, ha contribuito anche una grande mobilitazione della società civile riunita nel Comitato Stop Opg. Mobilitazione che è proseguita anche dopo la sua emanazione, in particolare in relazione al dibattito sorto sulle strutture sostitutive, evidenziando il rischio di un ritorno ai manicomi, nella forma dei cosiddetti mini-Opg.

    Delaware - Bill repealing death penalty, sparing current death row inmates, clears Senate panel

    Associated Press

    DOVER, Del. — A bill that would repeal Delaware’s death penalty and spare the lives of 17 killers already on death row cleared a Senate committee on Wednesday and is heading to the full Senate for a vote.

    Members of the Senate Executive Committee voted 4-2 to release the bill after hearing from both supporters and opponents.

    Supporters of the bill argue that the death penalty is morally wrong, racially discriminatory, ineffective as a deterrent to violent crime and far more costly than putting killers in prison for life.

    They also point to cases in other states where condemned killers have later been exonerated.

    “If it happened to me ... it can happen to anybody,” said Kirk Bloodsworth, a Maryland man who was the first person in the United States freed because of DNA evidence after being convicted in a death penalty case.

    Bloodsworth was convicted of killing a 9-year-old girl outside Baltimore in 1984 based on eyewitness testimony. He spent two years on death row before a retrial that resulted in a life sentence. He was later exonerated based on DNA evidence. Another man pleaded guilty to the murder in 2004 and was sentenced to life in prison.

    But Lewes Police Chief Jeffrey Horvath, chairman of the Delaware Police Chiefs’ Council, said there’s no evidence that an innocent person has ever been sentenced to death in Delaware.

    “The Delaware system, in the opinion of the Delaware Police Chiefs’ Council, is not broken,” Horvath said. “We have many safeguards in place, and one of finest court systems in the country.”

    “We believe that the residents of Delaware have faith in our criminal justice system in deciding the fate of a murderer,” he added.

    Brendan O’Neill, head of the state public defender’s office, countered that the death penalty is morally wrong, and that killers facing the death penalty often are mentally ill, poor, and victims of substance abuse.

    “We do and can punish them, but we should not kill them,” O’Neill said.

    Attorney General Beau Biden, whose office has sought the death penalty in several cases, issued a statement last week reiterating that he believes capital punishment is appropriate for criminals who commit “the most heinous crimes.”

    Copyright 2013 The Associated Press. All rights reserved. This material may not be published, broadcast, rewritten or redistributed.

    Nigeria - Al menos 45 personas murieron cuando un barco con 166 inmigrantes se hundió frente a las costas

    Reuter

    Afausat, de Benín, ingresada en el Centro
    Médico de Bákor, tras 42 horas en el agua
    - En el bote iban 166 inmigrantes a Gabón con la promesa de un trabajo

    - 'Una gran ola golpeó el bote, arrancó el motor y comenzó a inundarse'

    - Hasta ahora 27 personas han sido rescatadas y sigue la búsqueda


    Al menos 45 personas han muerto al naufragar frente a las costas nigerianas un bote con 166 inmigrantes indocumentados a bordo que se dirigía a Gabón, según han informado testigos y fuentes médicas a la agencia de noticias Reuters.

    Kive Sani, de 27 años de edad y uno de los supervivientes, ha relatado que acordó con un hombre nigeriano que le consiguiera un buen trabajo en Gabón a cambio de pagarle parte de su salario por un periodo indefinido.

    Hafsat Zakare, de 13 años de edad, otro superviviente, ha indicado que la mayoría de las personas que iban a bordo del bote eran mujeres y niños de África Occidental. Las autoridades nigerianas creen que casi todas eran de Ghana.

    La embarcación partió el pasado viernes de la localidad nigeriana de Oron a través del golfo de Guinea. "Una gran ola golpeó el bote y arrancó el motor, entonces comenzó a inundarse", ha dicho Zakare, que consiguió sobrevivir aferrándose a una bombona de gas vacía.

    El director de la Agencia de Gestión de Emergencias Estatal de Cross River (SEMA), Vicent Aquah, ha informado de que hasta ahora 27 personas han sido rescatadas y de que el operativo de búsqueda de supervivientes sigue en marcha.

    Por otro lado, un médico forense local ha revelado a la agencia de noticias británica que el pasado martes ya había 45 fallecidos a causa del naufragio, aunque este extremo carece de confirmación oficial.

    Los accidentes marinos son bastante comunes en África. En 2010, un barco se hundió en un río de República Democrática del Congo dejando 138 muertos. En 2008, en un accidente similar, 35 personas fallecieron cuando su barco se dirigía desde Nigeria a Gabón.

    Siria - 6 rifugiati annegati al largo di Lesbo, fra cui 3 bambini

    AFP
    Erano partiti dalle coste della Turchia, tre persone disperse
    Atene, Sei rifugiati siriani, fra cui una donna incinta e tre bambini, sono annegati mentre cercavano di raggiungere l'isola greca di Lesbo dalle coste della Turchia: lo ha reso noto l'Alto Commissariato per i rifugiati dell'Onu, precisando che altre tre persone risultano al momento disperse.
    Il gruppo, a bordo di un gommone, avrebbe cercato di raggiungere Lesbo il 6 marzo scorso: la Guardia costiera ellenica ha recuperato fino ad ora sei corpi, ma secondo i familiari delle vittime - che erano rientrate recentemente in Siria dalla Grecia - all'appello mancherebbero ancora tre persone.

    Stati Uniti: a Guantánamo raddoppiato numero detenuti in sciopero fame, adesso sono 24

    TM- News

    Il numero dei detenuti in sciopero della fame nella prigione di Guantánamo è quasi raddoppiato dalla scorsa settimana, con almeno due prigionieri che sono stati ricoverati a causa della disidratazione. Il capitano Robert Durand - scrive il sito di Al Jazeera - ha confermato che oggi 24 prigionieri sono in sciopero della fame, mentre lo scorso 11 marzo erano in 15. Si tratta della protesta più diffusa finora mai resa nota nella struttura di massima sicurezza di Guantánamo, ma secondo Durand non ci sono elementi per dire che lo sciopero della fame si estenderà a tutti i 166 prigionieri, come riportato da alucni media. I detenuti accusano le guardie di maltrattamenti, di sottrazione di beni personali. (...)

    mercoledì 20 marzo 2013

    Corea del Nord: se questo è un uomo, Shin nato in catene negli orrori dei campi di prigionia

    Il Sole 24 Ore

    Campi di prigionia in Korea del Nord

    “Quando hanno impiccato mia madre e fucilato mio fratello ho pensato che se lo meritavano: avevano infranto le regole del campo meditando di fuggire”. Shin Dong Hyuk all’epoca aveva 14 anni, tutti passati dentro un recinto di filo spinato.
    È l’unica persona nata nei campi di prigionia della Corea del Nord che sia mai riuscita a scappare. Internate da generazioni in questo inferno a cielo aperto da dove nessuno esce vivo ci sono almeno 200mila bambini, donne e uomini ridotti a degli automi, tenuti in bilico sulla soglia della morte per fame e sfinimento, fucilati per un nonnulla, torturati fino alla fine, violentati per il sollazzo delle guardie, privati persino del più elementare conforto della nostra comune umanità.
    È sconvolgente la testimonianza di Shin, al centro del documentario “Camp 14. Total control zone”, vincitore del “Festival du film et forum international sur les droits humains” di Ginevra che si svolge in concomitanza con l’annuale Consiglio per i diritti umani dell’Onu, che sta infine pensando di aprire un’inchiesta per crimini contro l’umanità in Corea del Nord.
    Sono settimane, queste, in cui la composta città svizzera risuona del racconto in prima persona degli abusi più atroci, per esempio lo stupro usato come arma dalle milizie stanziate nel l’Est della Repubblica democratica del Congo, dove il 23 per cento degli uomini e 30 per cento delle donne - bambine di due anni o ottuagenarie - sono stati violentati.
    Ma il racconto di Shin toglie il sonno anche a chi pensava di avere già sentito tutto. “Il nostro unico scopo era seguire le regole del campo e morire. Non sapevamo nulla di ciò che c’era fuori. Sapevamo solo che i nostri genitori e i nostri nonni erano colpevoli, e che noi dovevamo lavorare duro per questo. Nessuno di noi aveva mai pensato che avremmo potuto lasciare il campo. Ogni tanto qualcuno fuggiva, spinto dalla paura di morire di fame o di essere picchiato, ma veniva subito catturato e giustiziato, divenendo oggetto dell’odio di chi aveva lasciato indietro”. Perché anche i parenti di chi cerca di scappare sono spesso torturati e uccisi, così come chi non avvisa subito le autorità se sospetta che qualcuno abbia intenzione di evadere o di infrangere il regolamento del campo.
    Quando Shin vede che suo fratello ha lasciato la fabbrica di cemento prima del tempo sa bene che assentarsi dal lavoro è un errore punito con la morte. Osserva sua madre consegnargli del riso tenuto da parte: non gli resta che la fuga. Shin non perde tempo, va subito a denunciarli al suo insegnante. “Non ho pensato di fare finta di non avere visto - confessa in un primo momento - . Forse ero arrabbiato perché avevo così fame e mia madre non mi dava mai una razione in più. Ero solo un bambino”. Un bambino il cui primo ricordo, a quattro anni, è un’esecuzione, un bambino che ha visto picchiare a morte una sua compagna di classe perché aveva in tasca cinque chicchi di granturco forse rubati, che lavora da quando ha sei anni e mangia anche le ossa dei topi perché la sua razione di cibo è 300 grammi di mais al giorno e un cucchiaio di zuppa di cavolo. Non conosce altro: si è nutrito di questo per tutta la sua vita, a colazione, pranzo e cena.
    Poi quello che è ormai un bel ragazzo di trent’anni dalle braccia deformate dal lavoro infantile e dalla tortura ci ripensa e aggiunge “Se non avessi denunciato mia madre e mio fratello probabilmente mio padre e io non saremmo sopravvissuti. Lo traduca questo”. Ma fare la spia non basta: il mattino dopo lo arrestano, lo torturano per otto mesi fino a quando per caso dice: “perché mi fate questo se ho denunciato i miei parenti?”.
    Si scopre così che l’insegnante non aveva riportato la delazione. Shin viene trascinato in una cella dove c’è un vecchio carcerato che gli cura le ferite infettate e lo aiuta a non morire. “Era la prima volta che provavo un supporto emotivo. Non sapevo che gli uomini potessero aiutarsi a vicenda, che fossero degli animali sociali” racconta, con questa insolita espressione scientifica che avrà letto chissà dove cercando di capire la nuova emozione che era entrata nella sua vita. Poi lui e il padre, che a sua insaputa era nella stessa prigione, vengono rilasciati, per essere portati ad assistere all’esecuzione della madre e del fratello.
    “Non ho provato nulla, il concetto di famiglia mi era estraneo. Non sapevo che si doveva piangere, tutto quello che avevo imparato è che si doveva obbedire alle regole del campo”, racconta Shin, la cui madre era stata data “in premio” al padre dalle guardie. Nel 2004 arriva un nuovo detenuto, nelle interminabili giornate di lavoro gli racconta che fuori dal campo c’è un mondo diverso.
    Non è il desiderio di libertà che spinge Shin a fuggire, ma descrizioni della carne di pollo che lui non ha mai provato, e la brama di mangiare per una volta nella vita riso fino a sazietà. Un giorno i due vedono che non ci sono guardie e si lanciano verso la recinzione elettrificata. Il nuovo prigioniero muore fulminato, il suo corpo, riverso sul filo spinato, apre un varco. Passando sopra il cadavere, pur prendendo la scossa, Shin riesce a scappare. È il 2006. “Fuori ho visto la gente ridere e girare liberamente. Non potevo credere che quel mondo esistesse”.
    “Quando sono arrivato in Corea del Sud i servizi segreti mi hanno interrogato, ma sapevano già tutto quel che avveniva nei campi”. Racconta ancora Shin, che dorme tuttora per terra in un disadorno appartamento di Seul. “Si finisce in questi campi per crimini politici, per esempio per non aver anteposto la parola “compagno” al nome del comandante militare supremo Kim Jong - un o per essersi arrotolati una sigaretta con il giornale del popolo senza rendersi conto che vi era contenuta una foto del presidente eterno” spiega uno degli altri due intervistati. Sono un ex - agente segreto Nord coreano e una ex guardia del Campo 22 che ora vivono a Seul e che confermano l’inaudita realtà dei campi, spiegando con volto impassibile di avere ucciso, torturato, stuprato “per il bene della nazione”. “Dovevo solo sorvegliare i prigionieri, se mi stufavo gli sparavo”, racconta.