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lunedì 30 settembre 2019

Cina, Wang Meiyu attivista diritti umani morto in carcere: chiesta indagine. Secondo la famiglia, segni di tortura sul corpo

Askanews
La morte di Wang Meiyu, l’attivista cinese 38enne arrestato per aver innalzato un foglio con su chiedeva le dimissioni del presidente Xi Jinping, ha provocato lo sdegno degli attivisti per i diritti umani che chiedono un’indagine. Lo rileva oggi il Guardian.

Wang era stato arrestato a luglio, dopo aver innalzato il foglio davanti al dipartimento di polizia dello Hunan, e accusato di aver provocato “disagi”, un’accusa vaga spesso usata coi dissidenti.

Secondo l’avvocato e la madre di Wang, l’uomo è morto lunedì. La moglie Cao Shuxia ha ricevuto una chiamata dalla polizia, che ne notificava il decesso all’ospedale militare di Hengyang. La polizia non ha dato al telefono spiegazioni.

Secondo Mingsheng Guancha, un gruppo per i diritti umani cinese, ha affermato che in seguito la moglie ha visto il corpo di Wang: sanguinava dagli occhi, dalla bocca, dalle orecchie e dal naso, oltre ad avere bruciature sul volto.

“Il governo cinese deve indagare sulle accuse di tortura e morte in detenzione dell’attivista per i diritti umani Wang Meiyu e accertare la responsabilità penale per la tortura e le uccisioni extragiudiziali”, hanno scritto in un comunicato i Difensori dei diritti umani in Cina (CHRD). Secondo il Guardian, alla famiglia di Wang sono stati offerti 2 milioni yuan come risarcimento, circa 220mila dollari.

Nel "deserto liquido" del Mediterraneo restano senza soccorso barca rovesciata con 50 persone e altri allarmi inascoltati

AGI
A lanciare l'allarme è stato l'Alto commissariato dell'Onu per i rifugiati, l'Unhcr.


Si rischia una nuova strage nel Mediterraneo centrale: una barca con a bordo cinquanta persone si è capovolta al largo delle coste libiche. A lanciare l'allarme è stato l'Alto commissariato dell'Onu per i rifugiati, l'Unhcr.


Su luogo del naufragio è intervenuta la Guardia costiera libica, che è ancora impegnata nell'operazione di salvataggio, ma non si hanno notizie sulle persone recuperate. "Un barca con oltre cinquanta persone a bordo si è capovolta al largo delle coste libiche. I soccorritori sono in arrivo e l'Unhcr ha pronto il personale a terra per fornire l'assistenza medica e umanitaria", ha twittato la sessione locale dell'Alto commissariato. Un'ora dopo ha confermato che le fasi di soccorso erano in corso senza tuttavia fornire ulteriori dettagli sulle persone coinvolte.

Un altro allarme è stato invece lanciato dall'osservatorio di Alarm Phone: un'imbarcazione in pericolo con oltre 56 persone a bordo. "Che cos'altro deve succedere affinché le autorità si prendano responsabilita' per la situazione?", chiedeva sempre sulla piattaforma social l'ong sollecitando i soccorsi. Si tratta di una barca "partita dalla Libia giorni fa", avvertiva un primo tweet nella tarda serata di ieri: "Abbiamo informato le autorità in Libia, Italia e Malta, ma nessuno ha lanciato un soccorso".

Con il passare delle ore la situazione, come prevedibile, è peggiorata: "i naufraghi temono di morire e chiedono aiuto. Le persone a bordo dicono che stanno imbarcando acqua". Intorno alle 13 l'ultimo disperato sos dalla barca: "parlano di diritti umani, ma dove sono? Vi prego, aiutateci!". Alarm Phone assicura di aver informato EunavforMed, Guardia costiera, Guardia costiera francese, forze armate maltesi e "la cosiddetta Guardia costiera libica".

Dall'altra parte del Mediterraneo, sulle coste marocchine, le onde hanno invece restituito i corpi di 7 migranti - di nazionalità marocchina - morti nel naufragio di un gommone a bordo di cui tentavano di raggiungere la Spagna.
I sopravvissuti sono tre, tutti ricoverati non in gravi condizioni in ospedale. Non si hanno notizie su quante persone erano a bordo del gommone.

domenica 29 settembre 2019

Migranti - Incendio e rivolta nel campo di Moria a Lesbo, muoiono una donna e un bambino, quindici feriti

La Repubblica
Scontri con la polizia nel campo dove sono ospitati 13.000 migranti a fronte di una capienza di 3.000.


Tragedia nel campo profughi di Lesbo dove la situazione era già insostenibile da mesi con oltre 13.000 persone in una struttura che ne può ospitare 3500.
Una donna e un bambino sono morti nell'incendio ( sembra accidentale) di un container dove abitano diverse famiglie ma le vittime potrebbero essere di più. Una quindicina i feriti che sono stati curati nella clinica pediatrica che Medici senza frontiere ha fuori dal campo e che è stata aperta eccezionalmente.



"Nessuno può dire che questo è un incidente - è la dura accusa di Msf - E' la diretta conseguenza di intrappolare 13.000 persone in uno spazio che ne può contenere 3.000".
Dopo l'incendio nel campo è esplosa una vera e propria rivolta con i migranti, costretti a vivere in condizioni disumane, che hanno dato vita a duri scontri con la polizia e hanno appiccato altri incendi all'interno e all'esterno del campo di Moria, chiedendo a gran voce di essere trasferiti sulla terraferma. 

Ancora confuse le notizie che arrivano dall'isola greca dove negli ultimi mesi gli sbarchi di migranti provenienti dalla Turchia sono aumentati in maniera esponenziale.

Fonte: Repubblica

Pakistan. Dopo 18 anni di carcere la Corte suprema assolve Wajih ul Hassan accusato di blasfemia

La Repubblica
Wajih ul Hassan era stato condannato a morte nel 2002. La sentenza è stata poi confermata dall'Alta corte di Lahore. Le prigioni pullulano di innocenti. La Corte suprema del Pakistan - riferisce Asianews - ha assolto un uomo accusato di blasfemia che ha trascorso 18 anni in carcere. 
Wajih ul Hassan, il giorno del suo arresto nel 2002, da allora detenuto nel braccio della morte
Wajih ul Hassan era stato condannato a morte nel 2002 da un tribunale di Lahore per oltraggio al profeta Maometto secondo la sezione 295C del Codice penale pakistano. Alcuni attivisti laici hanno espresso soddisfazione per l'assoluzione e dispiacere per Hassan, rinchiuso per tanti anni per un fatto non commesso. Hamza Arshad, educatore e giornalista, ha detto: "L'omicidio è il crimine più grave, ma è persino peggio detenere una persona innocente dietro le sbarre per 18 anni".

La "prova maestra? Una presunta lettera blasfema. Il 25 settembre il tribunale composto da tre giudici, guidati da Sajjad Ali Shah, ha stabilito che le prove presentate contro il condannato non sono sufficienti per mandarlo al patibolo e ne ha stabilito il rilascio. Al momento l'uomo si trova ancora nel carcere di Kot Lakhpath. I giudici hanno ribadito che in casi così controversi, dove la prova "maestra" era una presunta lettera blasfema, deve prevalere "la presunzione d'innocenza". Hashir Ibne Irshad, direttore di Exist Communications, sottolinea: "Dopo Rimsha Masih e Asia Bibi, Wajih ul Hassan è la terza vittima prosciolta dall'accusa di blasfemia da una corte superiore. Di rado i tribunali di grado inferiore assolvono le vittime. I processi sono molto costosi e i familiari degli accusati arrivano a vendere tutto ciò che hanno, vivendo nell'indigenza e nel dolore costante".

Un sistema giudiziario che fa acqua dappertutto. Lo scrittore lancia una provocazione: "Deve essere riformato il sistema procedurale dei casi di blasfemia e stabilito che entrambi - accusato e accusatore - devono rimanere in carcere durante il processo. A quel punto credo che nessuno più farebbe false denunce". In Pakistan, sottolinea, "il sistema giudiziario fa acqua da tutte le parti, dal basso al vertice. I tribunali non sono trasparenti e equi. Le leggi sulla blasfemia sono applicate per risolvere dispute personali. Ci sono decine di esempi che lo provano. Addirittura a volte i tribunali superiori stabiliscono la liberazione dopo vari anni di carcere, senza nemmeno sapere che il presunto colpevole è già morto mentre era in prigione".

Destinati a marcire in galera o linciati a morte. Secondo Bilal Warraich, attivista e difensore d'ufficio, "in Pakistan le leggi sulla blasfemia sono così draconiane nella natura che le folle prendono la legge nelle loro mani e gli accusati sono linciati a morte, oppure costretti a languire in prigione per anni senza poter fare ricorso alla giustizia. Wajih ul Hassan e Asia Bibi sono solo due esempi: ci sono centinaia di cittadini innocenti in prigione, i loro casi sono in sospeso, gli avvocati sono costretti a fuggire per salvarsi la vita, fin dall'omicidio dell'avvocato e attivista Rashid Rehman. Prima di lui, il governatore del Punjab Salman Taseer è stato assassinato dalla sua guardia del corpo perché chiedeva la riforma delle leggi sulla blasfemia". L'avvocato ritiene che sia "interessante sottolineare che la 'spada' della blasfemia non colpisce solo le minoranze, ma anche i musulmani. Controversie sui terreni, i soldi e l"onorè diventano proiettili d'argento per le leggi sulla blasfemia. Come avvocato, ritengo che queste norme siano ripugnanti per il vero spirito della Costituzione che sostiene l'uguaglianza all'art. 10A del capitolo 2".

Prigioni che pullulano di innocenti. L'educatore Hamza Arshad è disilluso: "Potrebbe essere scioccante per il mondo civilizzato, ma nel nostro Paese è la routine. Le nostre prigioni pullulano di innocenti rinchiusi a causa di un sistema giudiziario penoso. La lunga e dolorosa prigionia di Wajih ul Hassan ci ricorda che la legge viene usata per perseguitare i cittadini. Si può solo immaginare l'orrore provato da quest'uomo, ciò che egli deve aver pensato all'ombra del cappio che incombeva, lo spasimo senza fine della famiglia, l'umiliazione e la minaccia provate dalla comunità. 

Ora che la Corte suprema lo ha assolto, chi gli ridarà 18 anni di vita? Gli consentiranno di vivere una vita normale in mezzo alla gente? L'avvocato che ha sporto denuncia sarà arrestato o processato? La società e lo Stato riformuleranno le leggi? La risposta è no. Per questo imploriamo il perdono della famiglia di Wajih ul Hassan, perché lo Stato e la società non faranno nulla per riscattarli".

di Shafique Khokhar

29settembre - Giornata mondiale del migrante - Papa Francesco inaugura la scultura che rappresenta i migranti di ogni tempo.

Vatican News
Nessuno sia escluso dalla società: lo ripete il Papa all’Angelus poi inaugura e benedice in Piazza San Pietro il monumento al Migrante, "Angel Unwares", perché ricordi a tutti la sfida evangelica dell’accoglienza


Al termine della messa, dal Sagrato di Piazza San Pietro, che in questa occasione ha raccolto gente da ogni dove, il Papa ribadisce il senso dell’Eucarestia celebrata per la 105esima Giornata Mondiale del Migrante, cioè quello di rinnovare non solo la vicinanza ma l’attenzione concreta della Chiesa per le diverse categorie di persone vulnerabili.

In unione con i fedeli di tutte le Diocesi del mondo abbiamo celebrato la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, per riaffermare la necessità che nessuno rimanga escluso dalla società, che sia un cittadino residente da molto tempo o un nuovo arrivato.
Non dimenticate l'ospitalità

Per sottolineare tale impegno, dopo la recita dell’Angelus e il lunghissimo giro in papamobile, Francesco inaugura poi una scultura intitolata “Angels Unwares”, Angeli Inconsapevoli, realizzata dall’artista canadese Timothy Schmalz, grazie al suggerimento di padre Michael Czerny sottosegretario della Sezione Migranti e Rifugiati del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, che verrà creato cardinale nel Concistoro del 5 ottobre prossimo. Il tema di quest’opera rimanda alla Lettera agli Ebrei in cui si legge: “Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, senza saperlo hanno accolto degli angeli”. E Francesco dice il perché l'ha voluta in mezzo alla piazza centro del mondo e della cristianità.

Tale scultura, in bronzo e argilla, raffigura un gruppo di migranti di varie culture e diversi periodi storici. Ho voluto questa opera artistica qui in Piazza San Pietro, affinché ricordi a tutti la sfida evangelica dell’accoglienza.
Angels Unwares
A togliere il telo bianco che copre la statua, una famiglia di camerunensi, che il Papa abbraccia e saluta. Poi il Pontefice si avvicina, tocca l’opera, posta accanto al Colonnato e visibile a tutti e la benedice. “Angels Unwares”, realizzata a grandezza naturale, raffigura appunto un gruppo di migranti e rifugiati, provenienti da diversi contesti culturali e razziali e anche da diversi periodi storici. Sono messi vicini, stretti, spalla a spalla, in piedi su una zattera, coi volti segnati dal dramma della fuga, del pericolo, del futuro incerto. All’interno di questa folla eterogenea di persone, spiccano al centro le ali di un angelo, come a suggerire la presenza del sacro tra di loro.

Cecilia Seppia

sabato 28 settembre 2019

Venezuela, ONU avvia un’indagine su violazioni diritti umani - Istituita "missione internazionale indipendente"

Askanews
Il Consiglio delle Nazioni Unite per i diritti umani ha deciso di istituire urgentemente una “missione internazionale indipendente” per indagare sulle violazioni dei diritti umani in Venezuela dal 2014.
Una risoluzione in tal senso, proposta in particolare dai paesi del gruppo Lima (composto da paesi dell’America latina e dal Canada) e sostenuta dall’Unione europea, è stata adottata dal Consiglio di Ginevra con 19 voti favorevoli, 7 contrari e 21 astenuti.

“Questo progetto di risoluzione potrebbe avere un impatto negativo sul processo di dialogo tra i diversi attori politici del paese”, ha dichiarato Jorge Valero, rappresentante del Venezuela all’Onu.

“Si dovrebbero piuttosto istituire delle commissioni d’inchiesta internazionale per quei paesi che violano sistematicamente i diritti umani”, ha attaccato Valero.

“I venezuelani non possono più attendere” ha invece ribattuto la rappresentante peruviana all’Onu Silvia Espinosa.

La Rep. Serba di Bosnia Erzegovia (Srpska) vuole cancellare al pena di morte

Agenzia Nova
Banja Luka - La Repubblica Srpska, l'entità serba della Bosnia-Erzegovina, potrebbe cancellare dalla propria costituzione la disposizione che prevede la pena di morte "per i crimini più gravi". 

Lo ha riferito oggi il quotidiano "Nezavisne novine". La Corte costituzionale di Banja Luka esprimerà il proprio voto in merito il quattro ottobre di quest'anno, in base a una richiesta dei deputati parlamentari in rappresentanza del popolo bosniaco musulmano. 

Secondo il vicepresidente dell'Assemblea popolare della Repubblica Srpska Milan Petkovic, "è attesa una sentenza a favore della richiesta". Petkovic ha comunque ricordato che "la sentenza a morte non è mai stata emessa in quanto non prevista dal codice penale ma esistente nella costituzione soltanto come categoria".

Libia - Sant'Egidio - Aiuti umanitari urgenti al centro di detenzione di Zintan

www.santegidio.org
Nei giorni scorsi la Comunità di Sant'Egidio, in collaborazione con la ONG libica STACO, ha distribuito aiuti umanitari urgenti nel Centro di detenzione per immigrati alla periferia di Zintan, nella Libia nord-occidentale. 


Tale centro era più volte comparso nelle cronache per le tristi condizioni degli oltre 800 immigrati che vi sono detenuti, principalmente provenienti dalla martoriata regione del Corno d’Africa (Eritrea, Etiopia, Somalia).

Nei messaggi fatti trapelare, i migranti lamentavano le difficilissime condizioni di vita, che hanno causato diverse vittime per malattie (in particolare TBC) e malnutrizione. Gli aiuti - cibo, medicinali e materiale per l’igiene personale - vogliono contribuire a realizzare condizioni di vita più dignitosa ai profughi costretti a vivere in questi centri di cui è nota la condizione ai limiti della sopravvivenza.


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venerdì 27 settembre 2019

Sierra Leone – “L’inferno” di Chennu, un minore nel carcere di Freetown, in un cortometraggio di 22 minuti

ANS
“L’inferno”, racconta la storia di Chennu, un bambino di strada di Freetown in Sierra Leone. A 15 anni è entrato nel carcere per adulti di Pademba Road, nella capitale del Paese africano. È un film che vuole mettere in primo piano “le storie di quelle persone che stanno morendo dimenticate in prigione in condizioni disumane”, denuncia Amaia Remírez.

“Kanaki Films”, è il produttore di Raúl de la Fuente e Amaia Remírez, che ha realizzato un cortometraggio sulla vita di un giovane della Sierra Leone che riesce a cambiare la sua vita: dall’essere carcerato ad essere sostegno per i giovani carcerati. Il cortometraggio-documentario è stato proiettato per la prima volta nel programma “Kimuak” del Festival Internazionale del Cinema di San Sebastián, Spagna.

Inoltre, è una storia di superamento personale incentrata sul protagonista, Chennu. Un personaggio “potentissimo”, puntualizza Remírez. Dopo aver trascorso quattro anni in carcere, riesce a cambiare la sua vita e “Ora si dedicata ad aiutare i carcerati”. “È una redenzione completa e un superamento totale delle difficoltà vissute in carcere”. Il cortometraggio è stato prodotto grazie al sostegno del “Centro Don Bosco Fambul” di Freetown in Sierra Leone e di “Misiones Salesianas” di Madrid.

Uno dei gruppi che si assistono al “Don Bosco Fambul”, è quello dei detenuti che si trovano nel carcere per adulti, dove hanno incontrato Chennu. “Con questo cortometraggio vogliamo dare visibilità al lavoro nel carcere che stanno facendo i salesiani, specialmente con i minori e i più malati”.

“Kanaki Films” da alcuni anni si occupa di documentari che prepara la procura “Misiones Salesianas” per dare visibilità al lavoro svolto nei Paesi in via di sviluppo. L’ultimo lavoro è stato “Love”, in Sierra Leone, ma anche “30.000” in Costa d’Avorio, e quello che sarà presto pubblicato su “Palabek. Rifugio di Speranza”, in Uganda.

La prima nazionale de “L’inferno”, si svolgerà alla fine di ottobre al “Seminci” (Settimana Internazionale del Cinema), di Valladolid, nella sezione competitiva dei cortometraggi “Tempo di storia”. “Per noi è un obbiettivo esserci”, ha detto Amaia.

Messico. I 43 studenti spariti e la scoperta della violenza di stato

Il Manifesto
24 degli arrestati sono già liberi. Cinque anni fa la scomparsa dei ragazzi di Ayotzinapa. Inchieste indipendenti hanno dimostrato le responsabilità delle autorità. 



"Fu lo Stato" è ciò che resta, 1.826 giorni dopo il 26 settembre del 2014, dei fatti di Iguala, stato del Guerrero, quando furono uccise 6 persone e 43 studenti della Scuola Normale Rurale Isidro Burgos di Ayotzinapa sparirono nel nulla. 

Ad oggi la determinazione degli studenti sopravvissuti e dei genitori dei morti e degli scomparsi non ha portato alla verità, non ha portato ancora alla luce che fine hanno abbiano i 43, ma ha cambiato per sempre la percezione della violenza politica in Messico.

Per il docente universitario e giornalista Oswaldo Zavala "per la prima volta si è rifiutato il discorso ufficiale sulla sicurezza nazionale secondo il quale i principali responsabili della violenza fossero i trafficanti di droga. 

Da allora la società ha potuto esaminare la violenza di stato perpetrata dalle forze armate. Nessun altro crimine ha ricevuto tanta attenzione e nessun altro crimine ha consolidato il reclamo collettivo contro i governi assassini di Calderon e Peña Nieto".

Turchia. Ihd: 23 prigionieri con gravi malattie con rischio di morte. 290.000 detenuti nelle carceri, ritenuta "normale" la morte di molti detenuti

retekurdistan.it
Nuray Çevirmen dell'Associazione per i Diritti Umani Ihd a Ankara riferisce della situazione dei prigionieri malati nelle carceri turche. 23 prigionieri in Anatolia centrale sono malati in modo così grave che non devono assolutamente restare in carcere. 


La co-Presidente della sede Ihd a Ankara, Nuray Çevirmen, riferisce a Anf della difficile situazione dei prigionieri malati nelle carceri turche. 


L'attivista per i diritti umani spiega che l'Ihd cerca di ottenere più informazioni possibili sulla situazione dei prigionieri malati. "Il numero dei malati nel 2017 era 137. Oggi per via di rilasci e trasferimenti in Anatolia centrale i prigionieri malati sono 116. Ma questo è solo il numero di prigionieri malati che hanno preso contatto con noi. Il problema dei prigionieri malati nelle carceri della Turchia è enorme. 

Il Ministero della Giustizia non rilascia dati in merito. Solo in Anatolia centrale 23 prigionieri sono malati così gravemente che in nessuno caso devono restare in carcere", ha dichiarato.

Diritto a cure sanitarie - L'Ihd si è rivolto a molte istituzioni per garantire il diritta cure mediche ai prigionieri malati. Questi sforzi però sarebbero rimasti senza risultati, riferisce Nuray Çevirmen: "Nel 2018 abbiamo pubblicato un rapporto e lo abbiamo trasmesso alla Commissione Parlamentare per i Diritti Umani, al Ministero della Giustizia, alla direzione generale delle carceri e al Ministero della Salute. L'ultima risposta ci è arrivata dopo un mese. Che ci si prendesse così poco tempo per occuparsi di un tema così importante, mostra quante poche indagini siano state fatte in proposito. Noi abbiamo visto quanti prigionieri sono morti perché è stato loro negato il diritto a cure mediche. Sono morti di malattie cardiache, cancro e molte altre malattie. Per esempio nel carcere di Menemen a Izmir sono morti a causa delle condizioni igieniche".

290.000 prigionieri nelle carceri turche - Çevirmen continua: "La capacità delle carceri attualmente ammonta a 194.000. Nel maggio 2019 il numero dei prigionieri era a 280.000, oggi sono 290.000. Nelle carceri ci sono molti più casi di morte di quelli di cui veniamo a conoscenza. 

Del tema non si tiene conto neanche sulla stampa. Viene accettato come un fatto normale. Ma i casi morte nelle carceri possono essere impediti. Ci siamo rivolti più volte alle istituzioni rilevanti. Noi scriviamo articoli approfonditi per ogni singolo caso. Purtroppo non viene fatto niente. Attualmente la situazione dei prigionieri malati nelle carceri continua a essere un problema enorme".




Fonte: ANF

giovedì 26 settembre 2019

Enar: "Il virus xenofobo infetta l'Italia, dal 2014 raddoppiano i crimini di stampo razzista.

Open
Un nuovo report pubblicato dalla Rete europea contro il razzismo (Enar), che cita dati dell’Ocse, restituisce una fotografia dei crimini a sfondo razzista in Europa. Dal 2014 al 2017 l’Italia è passata da 413 a 823 casi di violenze legate alla nazionalità e al colore della pelle. 
Leggi il report >>>
Nel documento, che prende in esame 24 Paesi europei, si evidenzia come anche in Italia molti immigrati decidano di non denunciare le violenze subite per paura che questo possa avere delle conseguenze sulla loro fedina penale.

Il report cita poi la Penisola per la buona pratica di aver introdotto nel 2014 un fondo volto a sostenere legalmente le vittime di discriminazione. Un razzismo che colpirebbe individui, ma anche organizzazioni e rappresentanti di comunità religiose e minoranze etniche.

È positivo che anche l’Italia abbia, così come circa la metà degli Stati Ue, delle linee guida per raccogliere dati e indagare sui crimini d’odio a sfondo razzista, ma, sostiene il report, alle forze dell’ordine non sono fornire «risorse sufficienti» (dalla formazione al personale) per gestire questo tipo di reati.

L’Enar denuncia poi «l’esistenza di forme sottili di razzismo all’interno del sistema di giustizia penale europeo». Di conseguenza «un numero significativo di crimini motivati dall’odio finiscono per non essere giudicati come tali».

Nigeria, jihadisti uccidono operatore di Ong francese

Imola Oggi
Un operatore nigeriano della ong francese Azione contro la fame (Acf) rapito lo scorso luglio con altri cinque connazionali nel nord-est della Nigeria, è stato ucciso da un gruppo jihadista affiliato all’Isis responsabile del sequestro, che ha postato online il video dell’ ‘esecuzione’. 


Ne dà notizia il sito Sahara Reporters.

I sei – l’operatore ucciso, due autisti e tre dipendenti del ministero della Salute nigeriano – erano stati sequestrati sulla strada fra le città di Maiduguri e Damasak il 18 luglio in un’imboscata in cui era stato ucciso un altro autista. 

L’azione è stata rivendicata dalla Provincia dello Stato islamico dell’Africa occidentale (Iswap), che nel video dell’esecuzione ha accusato il governo nigeriano di non avere mantenuto le promesse fatte durante le trattative per la liberazione degli ostaggi.

mercoledì 25 settembre 2019

Egitto: arrestato il prof. Hazem Hosni, noto intellettuale oppositore di Abdel Fattah el Sisi

Ansa
Un noto intellettuale e attivista politico è stato imprigionato ieri sera al Cairo nell'ambito di un'ondata di arresti avvenuti negli ultimi giorni in seguito alle limitate manifestazioni di piazza anti-governative avvenute lo scorso fine settimana in diverse città egiziane. 

A finire in manette è stato Hazem Hosni, docente di Scienze politiche e impegnato sulla scena politica nazionale.

Ne danno notizia i suoi avvocati con un comunicato diffuso via Facebook, precisando che il docente è stato tratto in arresto davanti alla sua abitazione nel quartiere di Mohandesin.
Hosni è un aperto critico del presidente Abdel Fattah el Sisi e nel 2018 sostenne la candidatura dell'ex generale Sami Anan alla presidenza della Repubblica, bocciata dal Comitato nazionale elettorale.

Nel loro comunicato due degli avvocati di Hosni chiedono di essere informati sul luogo di detenzione del loro assistito "per potere incontrarlo e comprendere le ragioni del suo arresto".

Il Centro per i diritti economici e sociali, un'organizzazione egiziana per i diritti umani, afferma che sono 1.298 le persone arrestate in tutto il Paese a partire dal 20 settembre, dopo le manifestazioni di protesta. 

Secondo Amnesty International tra loro ci sono giornalisti, esponenti di movimenti dell'opposizione, attivisti e avvocati.

Texas - Pena di morte - APPELLO URGENTE per Randy Halprin - Esecuzione prevista il 10 ottobre 2019

www.sant'egidio.org
FERMIAMO LE ESECUZIONI! Il 10 ottobre ricorre la Giornata Mondiale Contro la Pena di Morte

Randy Halprin
La storia di Randy Halprin somiglia a quella di molti ragazzi negli Stati Uniti: una giovane vita turbolenta, un crimine minore, la prigione e poi la partecipazione nel 2000, insieme ad altri sei ragazzi, a una fuga dal carcere e a una rapina che provocò la morte di un ufficiale di polizia. A questo seguì una lunga latitanza dei sette ragazzi. Durante la sparatoria Randy fuggì per paura, non sparò, questo è dimostrato dagli esami balistici.

Tutti sono stati condannati a morte ai sensi di una controversa legge in vigore in Texas per cui tutti i soggetti coinvolti in un crimine che abbia provocato una vittima devono essere giustiziati, indipendentemente dal fatto che abbiamo o meno sparato il colpo. Randy di famiglia ebraica è stato condannato da un giudice che ha ripetutamente e pubblicamente manifestato le sue posizioni razziste e antisemite.


Italia - Corridoi Umanitari - Altri 91 rifugiati siriani arrivati in modo legale e scuro. Raggiunto il numero di 2700 rifugiati accolti in Europa.

Rai News 24
Con un volo di linea Alitalia da Beirut altri 64 rifugiati siriani, tra i quali diversi minori, sono arrivati "in modo legale e sicuro", all'aeroporto di Fiumicino, grazie ai Corridoi Umanitari promossi dalla Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia,Comunità di Sant' Egidio e Tavola Valdese, in accordo con i ministeri dell'Interno e degli Esteri. 
Con i 27 sbarcati allo scalo romano già ieri, si è completato, l'arrivo totale a Roma di 91 profughi siriani dal Libano. Ad oggi sono 2.700 le persone accolte in Europa in progetti autofinanziati.

www.santegidio.org
Oggi i corridoi umanitari festeggiano il premio Nansen, conferito dall’UNCHR, l’Alto Commissariato dell’ONU per i rifugiati. L’arrivo di rifugiati dal Libano mercoledì mattina all’aeroporto di Fiumicino coincide con la consegna del premio nello stesso giorno. La conferenza stampa di benvenuto è divenuta allora occasione di festa, insieme a tanti bambini.


Marco Impagliazzo, presidente della Comunità di Sant'Egidio, ha sottolineato l'importanza dei corridoi umanitari, alternativa vera all'inferno dei campi profughi, dove spesso si vive come in una prigione. Ha inoltre ricordato il lavoro di tanti volontari della Comunità di Sant'Egidio, questa estate, a Lesbos e Samos, due isole della Grecia, dove migliaia di persone aspettano per anni di poter arrivare in Europa. 


"I corridoi umanitari parlano di un futuro buono, pieno di integrazione e di novità per la vostra vita. Vogliamo dire che i corridoi umanitari devono crescere, perché oggi voi ce l'avete fatta, ma vogliamo, allo stesso tempo, pensare a tutti quelli che ancora soffrono in Siria". L'integrazione è con chi accoglie e con chi arriva.

martedì 24 settembre 2019

Photo of the day - Greta e Trump

Blog Diritti Umani - Human Rigths

Photo of the day

Iraq - Negata, per motivi "burocratici" la scuola ai figli dei miliziani dell'Isis. Rischio di nuove ondate di radicalizzazione

Corriere della Sera
La denuncia delle ong: espulsi dalle scuole con il pretesto dei documenti mancanti. Il pericolo di nuove ondate di radicalizzazione e dell’aumento del tasso di analfabetismo.



«Tutti gli altri bambini possono studiare. Perché ai miei non è permesso?». Secondo quanto riporta la tv curda Rudaw, Umm Khattab è disperata. Suo marito si è unito all’Isis e poi scomparso. Ora lei è sfollata nel campo di Hamam al Alil, trenta chilometri a sud di Mosul. E non solo non può tornare a casa a causa del disprezzo degli abitanti del suo villaggio e dell’ostracismo della sua tribù. Ma Umm Khattab ogni giorno i suoi figli respinti da scuola.


Ufficialmente il motivo dell’esclusione è di tipo burocratico. I bambini IDP, sfollati, possono frequentare le lezioni nelle scuole gestite da organizzazioni umanitarie, ma non sono ammessi nelle scuole irachene a meno che non abbiano documenti in regola. Molti minori però sono sprovvisti di regolari carte di identità. Durante l’occupazione i miliziani dell’Isis hanno sequestrato ai civili i documenti e hanno impedito alle donne i cui mariti non fossero fedeli alla loro causa di registrare i figli alla nascita. Inoltre nella fuga e nella devastazione registri e anagrafi sono andate distrutte. 


Con il risultato che, secondo l’ong Norwegian Refugee Council (NRC), sono almeno 80 mila le famiglie della piana di Ninive costrette a tenere i figli a casa, nonostante le lezioni siano iniziate già da una settimana.

In realtà un documento del settembre scorso firmato da alti funzionari del Ministero dell’Istruzione di Bagdad accordava il permesso ai bambini privi di documenti di frequentare le lezioni. Tuttavia, secondo l’ong Human Rights Watch, molti presidi agendo in autonomia hanno espulso gli studenti privi di documenti dopo aver concesso solo 30 giorni di tempo per mettersi in regola. Inoltre in alcune scuole sono stati richiesti certificati anche ai genitori, complicando le cose soprattutto a quelle madri rimaste sole dopo l’uccisione dei mariti in battaglia. Così, anche nel caso in cui i bambini abbiano documenti in regola perché nati prima dell’occupazione dell’Isis nel 2014, molti studenti vengono esclusi dall’istruzione solo perché il padre non è più presente o perché la madre non dispone di un certificato di morte del marito o di divorzio.

Secondo Human Rights Watch più che a cavilli burocratici, la negazione del loro diritto allo studio è da imputarsi a motivazioni politiche e a vendette tribali. E va in assoluta controtendenza con i proclami di riconciliazione fatti dai politici all’indomani della sconfitta dello Stato islamico. A molte donne e madri i documenti sono stati negati apertamente perché i loro mariti erano affiliati dell’Isis. Tuttavia — come fa notare Lama Fakih , direttore del Medio Oriente di Human Rights Watch — «negare ai bambini il diritto all’istruzione a causa di qualcosa che i loro genitori potrebbero aver fatto è una forma di punizione collettiva fuorviante». E mette a repentaglio il futuro dell’Iraq minando «l’opera di prevenzione e contrasto dell’ideologia estremista spingendo questi bambini ai margini della società».

L’articolo 18 della Costituzione irachena prevede che a tutti i bambini nati da padre o madre iracheni sia concessa la cittadinanza. Sempre la costituzione garantisce poi a tutti i minori il diritto all’istruzione, senza discriminazioni. E se un governo deve adottare misure per garantire che l’istruzione non venga interrotta durante le crisi umanitarie, tanto più se si considera che il tasso di analfabetismo in Iraq è tra i più alti del mondo con il 47%, non si capisce allora perché i funzionari iracheni stiano attuando una politica del genere. Tanto più se si considera che l’Iraq ha ricevuto aiuti dalla comunità internazionale che ammontano a 250 milioni di dollari solo dagli Stati Uniti. «Alcuni bambini iracheni hanno perso tre anni di istruzione sotto l’ISIS» — ha aggiunto Fakih — «Il governo dovrebbe fare tutto ciò che è in suo potere per garantire che i bambini non perdano più anni di istruzione cruciale».

A maggior ragione se si vuole evitare una nuova ondata di radicalizzazione religiosa e che un’altra generazione di ragazzi finisca nelle mani delle milizie jihadiste.


Marta Serafini

lunedì 23 settembre 2019

Brasile, uccisa bimba di 8 anni. "Agatha Felix colpita dalla polizia". Proteste social e in migliaia scendono in piazza

La Repubblica
Gli agenti di Rio De Janeiro avrebbero sparato nella favela Complexo Alemão contro una moto e un proiettile di rimbalzo avrebbe colpito la bambina alla schiena. In migliaia sono scesi in piazza con cartelli che chiedevano: "Smetti di ucciderci" e "La vita conta anche nella favela".


Il suo viso dolce, il buchetto sul sorriso dell'incisivo caduto, i capelli neri e ricci piegati su un lato. Si chiamava Ágatha Félix, aveva 8 anni. È stata colpita venerdì sera da un proiettile alla schiena mentre rientrava a casa su un furgone con la nonna.

È la sedicesima bambina vittima della violenza a Rio. Quest'anno. La quinta a morire. A ucciderla è stato un proiettile dei 70 sparati dalla polizia nella favela di Complexo Alemão. Da mesi questo enorme agglomerato urbano, povero e abitato soprattutto da gente di colore, è al centro di battaglie furibonde tra le gang per il controllo del territorio e dalle incursioni della polizia che si sommano a quelle delle milizie.
Nella scorsa settimana ci sono state sei vittime. La polizia militare ha detto che la squadra della UPP Fazedinha, squadre speciali di pattuglia, è stata attaccata da più fronti e ha reagito al fuoco.

Un'agenzia di stampa riferisce che gli agenti avrebbero sparato contro una moto e che un proiettile di rimbalzo avrebbe colpito la bambina.

L'episodio è finito subito nella rete. A Rio ci sono chat e pagine di Facebook dove puoi segnalare sparatorie o situazioni di pericolo. I social rilanciano e commentano. Il tam-tam si diffonde, poi la favela è come un paese, anche di 100 mila abitanti, la voce gira e. Si irradia. Giù valanghe di proteste, commenti, vignette, disegni.

Whatsapp la fa da padrone. Qui in Brasile è la messaggeria più usata. La gente si riversa per strada, decide che bisogna fare qualcosa. Si raduna sul posto della tragedia, i poliziotti tengono alla larga ma non sono visti bene. La Polizia Militare non si pronuncerà. Deve ancora fornire la sua versione anche se è chiaro che a sparare è stato un suo uomo o donna.

I social sono inondati da foto della piccola Agatha, sorridente e felice mentre indossa un costume da Wonder Woman.
È l'anima della vera destra estrema. Non a caso ha sfidato Jair Bolsonaro: si candiderà alle elezioni del 2022.

Intanto si è appreso che anche un poliziotto è morto dopo aver partecipato all’operazione nella favela di Alemão. Si chiamava Felippe Brasileiro Pinheiro, 34 anni. Non ha retto alle gravi ferite ricevute. Un secondo poliziotto era morto ieri. Anche lui faceva parte della pattuglia in azione nella favela. Forse una ritorsione, una vendetta. Occhio per occhio.

Il caso assume anche valenza politica per il provvedimento sicurezza varato con decreto ma adesso all’esame del parlamento. Roddrigo Maia, presidente del Congresso, si è buttato a pesce sulla tragedia per dire basta alla tolleranza. Ha proposto di abolire tutte quelle condizioni che come lacci impediscono di sparare e uccidere chi pensi ti minacci.

Legittima difesa, aggressione, minacce etc. Ha l’appoggio di 16 deputati. Ma essendo il presidente del Parlamento e secondo partito, per numero di seggi, che appoggia Bolsonaro, può raccogliere altri consensi.

Unico a dire una parola di conforto nei confronti della famiglia è stato il ministro della Giustizia Sergio Moro. Ma di forma. Dovrebbe almeno trovare chi ha sparato e ucciso. Ha poteri sulla sicurezza interna.


Daniele Mastrogiacomo

domenica 22 settembre 2019

Migranti. La tratta delle ragazze dalla Nigeria all'Italia via Libia: "Preghi di morire"

Il Manifesto
Da Benin City all'inferno e ritorno. Storie di abusi infiniti nell'ultimo rapporto di Human Rights Watch. Blessing come molte altre ragazze nigeriane ha accettato l'allettante proposta di lavoro in Libia come collaboratrice domestica per un salario di 150.000 naira (circa 400 euro, tre volte lo stipendio medio nel suo paese).


Una volta in Libia la "signora" le ha svelato che tipo di lavoro avrebbe dovuto fare, akwuna (la prostituta) così lei le ha detto "ma non è un lavoro domestico". La "signora" le ha risposto "sì che lo è".

Blessing è stata minacciata di morte e chiusa in una stanza per quattro giorni senza cibo. "Uscirai quando restituirai il tuo debito per il viaggio (4 mila euro)". È iniziata così la discesa nei sotterranei dello sfruttamento sessuale, si è liberata ed è scappata con un ragazzo che è stato ucciso dai miliziani dell'Isis, lei invece è sopravvissuta solo perché in stato di gravidanza, ma è stata tenuta segregata e violentata per tre anni finché i soldati libici l'hanno consegnata all'Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni) che l'ha aiutata a rientrare in Nigeria. Adesso si trova in un rifugio gestito dall'agenzia nigeriana anti-tratta. Quella di Blessing è una delle 76 storie descritte nell'ultimo report di Human Rights Watch, il cui titolo You pray for death (Preghi di morire) è tratto dal racconto di una delle ragazze intervistate.

La maggior parte delle vittime di tratta nigeriane (più di 9 su 10) proviene, secondo l'ufficio delle Nazioni unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (Unodoc), dallo stato di Edo. Il numero di "potenziali" vittime della tratta nigeriana in Italia è cresciuto drammaticamente negli ultimi anni. Secondo Oim nel 2017 l'aumento è stato del 600% e si stima che riguardi l'80% delle ragazze che arrivano dalla Nigeria (in questi ultimi mesi il flusso risulta molto ridimensionato, segno che i trafficanti sono alla ricerca di nuove rotte).

Il viaggio negli ultimi anni ha seguito la rotta libica e poi via mare nel Mediterraneo con lo scopo preciso di inserire le ragazze nei progetti di assistenza per richiedenti asilo in modo da farle avere un documento regolare. Chi arriva in Italia mantiene il segreto con la famiglia, manda fotografie che la ritraggono come barista, sarta, parrucchiera... alcune negli anni diventano madam i cui guadagni danno un impulso notevole alla ricchezza di Benin City, dove hanno costruito case, negozi... Potremmo dire che lo sviluppo della città è lastricato dai corpi delle donne che hanno battuto le strade italiane.

Forse più drammatica è la situazione delle ragazze che ritornano in Nigeria dove oltre alla tratta devono affrontare la povertà e lo stigma ("le ragazze che tornano dall'Europa stanno costruendo case per le loro famiglie e tu sei tornata senza niente ...") e i progetti di reinserimento risultano ancora poco adeguati.

La situazione è fluida: l'attività delle ong, dell'agenzia nazionale nigeriana contro la tratta e i media hanno accresciuto la conoscenza del fenomeno, tant'è che le ragazze che partono ora sanno il lavoro che andranno a fare, ma restano inconsapevoli dello sfruttamento e del debito da pagare.

Le madam sono convinte di essere un aiuto per le ragazze e infatti amano definirsi sponsor: una delle reclutatrici ha dichiarato alla Reuters che "le ragazze che vogliono venire in Italia sono talmente tante che non è più necessario ingannarle per convincerle a partire". La novità degli ultimi mesi sarebbe, secondo Don Carmine Schiavone delle Caritas di Aversa, la tratta secondaria: "Le ragazze una volta in Italia se non riescono a restituire il debito lo azzerano con la cessione di un rene, cornee o altri organi".

Fabrizio Floris

sabato 21 settembre 2019

Inferno Yemen, il dramma dei bambini tra fame e bombe: videoreportage

La Repubblica
Nello Yemen, il Paese più povero del golfo, la guerra ha portato milioni di persone sull'orlo della carestia. 

Da un lato, il blocco imposto dalla coalizione a guida saudita ha rallentato l'arrivo di beni primari e cibo e ha contribuito a un vertiginoso aumento dei prezzi: milioni di persone hanno perso il lavoro e sono ridotte in povertà estrema. 

Dall'altro gli Houti, i ribelli sciiti sostenuti dall'Iran, hanno ostacolato il lavoro delle agenzie umanitarie nelle zone settentrionali sotto il loro controllo e sono accusati di aver trattenuto e rivenduto aiuti alimentari e aver favorito parenti e sostenitori del movimento, affamando chi ne aveva invece diritto.

Secondo Save the Children, sono 85 mila i bambini sotto i 5 anni morti per malnutrizione acuta da quando è iniziata la guerra civile nel 2015. Secondo ICRC, su 27 milioni di persone che vivono nello Yemen, 20 milioni non hanno accesso alle cure sanitarie: quasi il 75 per cento della popolazione.

Questo video, girato nello Yemen a Luglio 2019, contiene immagini che potrebbero urtare la vostra sensibilità.




Filippine. Preoccupazione per la situazione dei diritti umani. Uccisioni di massa e arresti degli agricoltori.

NEV.it
Mentre sempre più persone nelle Filippine perdono i propri cari a causa di omicidi extragiudiziali e sono falsamente accusati di crimini da parte delle autorità, il Consiglio ecumenico delle chiese (CEC) sta aumentando il suo sostegno e l’accompagnamento delle persone che lottano per i diritti umani nelle Filippine.


Il 16 settembre si è svolto presso il Centro ecumenico di Ginevra un evento dal titolo: “Difendere la santità della vita e la dignità della creazione: la situazione dei diritti umani nelle Filippine”.


Peter Prove, direttore della Commissione delle Chiese per gli affari internazionali (CCIA) del CEC, ha sottolineato l’importanza della risoluzione del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite sulle Filippine, che impone un’indagine sulla situazione dei diritti umani nel paese.

Due brevi video, “War on Drugs: Ang Pagbangon (Rising Up)” e “Defend Negros”, hanno denunciato la guerra contro i poveri e i massacri di agricoltori e indigeni, condotta sotto la copertura della cosiddetta “guerra alla droga” e della risposta del governo alle insurrezioni armate.

Le uccisioni di massa e gli arresti degli agricoltori arrivano dopo la chiusura unilaterale del governo dei negoziati di pace con il Fronte nazionale democratico delle Filippine (NDFP). Da quando si sono conclusi i negoziati per la pace nel paese si vive paradossalmente un clima crescente di ostilità relazionato soprattutto ai conflitti per la terra e allo sfruttamento minerario. 

Un rapporto del Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite dell’ottobre 2016, parla di violazioni diritti umani in relazione alle attività estrattive che provocano deforestazione, spostamenti forzati di popolazioni e accaparramento delle aree più fertili e redditizie da parte di imprese transnazionali che ricevono sostegno dal governo. 

Nel dicembre del 2017 le relatrici speciali delle Nazioni Unite, Victoria Tauli-Corpuz e Cecilia Jimenez-Damary avevano denunciato la militarizzazione ed evidenziato che molte delle violenze nei confronti delle comunità rurali sarebbero frutto dell’errata convinzione che i contadini appoggino i gruppi ribelli del New People’s Army.

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venerdì 20 settembre 2019

Libia, migrante "salvato" dalla Guardia Costiera libica tenta la fuga dopo lo sbarco: ucciso con un colpo d’arma da fuoco

TPI
La tragedia è stata denunciata dall'Organizzazione internazionale per le migrazioni.
Un migrante di origine sudanese è stato ucciso con un colpo d’arma da fuoco a Tripoli, in Libia: l’uomo si era rifiutato di essere trasferito nel centro di detenzione subito dopo lo sbarco e aveva tentato la fuga.


La tragedia è avvenuta nella giornata di ieri, giovedì 19 settembre, ed è stata denunciata dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), che era presente con il proprio staff sul luogo dove è avvenuta la sparatoria.


Secondo quanto riferito dall’Oim, nel centro di Abusitta erano appena sbarcati 103 migranti, i quali hanno opposto resistenza al trasferimento nei vari centri di detenzione che si trovano nel paese nordafricano.

Alcuni di loro hanno tentato la fuga e un gruppo di uomini armati ha aperto il fuoco, colpendo allo stomaco uno dei migranti, il quale è deceduto poco dopo nonostante l’intervento immediato degli uomini dell’Oim.

La vittima faceva parte di un gruppo di migranti appena riportati a terra dalla Guardia Costiera libica, che negli ultimi cinque giorni ha "soccorso" e riportato in Libia quasi 500 persone.

“L’uso di armi da fuoco contro civili inermi è inaccettabile in ogni circostanza” ha affermato il portavoce dell’Oim Leonard Doyle, denunciando l’accaduto.

L’organizzazione considera la morte del migrante sudanese un “severo promemoria delle gravi condizioni in cui si trovano i migranti raccolti dalla Guardia costiera libica dopo aver pagato trafficanti per essere portati in Europa, solo per poi ritrovarsi nei centri di detenzione in condizioni disumane”.

Migranti - La sfida degli arrivi. L'Onu premia i corridoi umanitari. Dal 2016 sono arrivati 2100 profughi in modo sicuro.

Avvenire
Riconoscimento internazionale al progetto nato dalla collaborazione tra Chiese cristiane e istituzioni Dal 2016 una via legale e sicura che ha permesso di accogliere 2.100 profughi.
Un modello per l’Europa, una buona pratica replicabile, una via sicura di accesso per chi parte e per chi accoglie. Sono i corridoi umanitari, inventati dalla collaborazione tra chiese cristiane e istituzioni, che da febbraio 2016 hanno accolto e integrato circa 2.100 profughi siriani, somali ed eritrei. Più altri 600 tra Francia, Belgio e Andorra. E presto anche in Germania, grazie alla chiesa evangelica di Vestfalia. 

Una scommessa vinta, che ieri ha ricevuto dall’Acnur, l’agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite, il prestigioso Premio Nansen 2019 per la regione Europa. Il 24 e 25 settembre a Fiumicino si replica, con l’arrivo di un altro centinaio di siriani. L’annuncio del premio – intitolato a Fridtjof Nansen, esploratore norvegese e primo Alto commissario per i rifugiati della Società delle nazioni dal 1920 al 1930 – è arrivato ieri nella nuova sede dell’Ac- nur in zona piazza Vittorio, presenti i promotori: Caritas italiana per la Cei, Comunità di Sant’Egidio, Federazione delle Chiese evangeliche in Italia (Fcei), Tavola Valdese.

Con loro anche i funzionari dei ministeri dell’Interno e degli esteri - Michele Di Bari e Luigi Maria Vignali – che curano l’aspetto amministrativo, legale e diplomatico. Il primo protocollo, firmato a dicembre 2015 da S.Egidio, Fcei e Valdesi, ha visto il trasferimernto di 1.035 rifugiati, soprattutto siriani fuggiti in Libano. Il secondo, attivato a gennaio 2017 dalla Cei attraverso la Caritas, in collaborazione con Sant’Egidio, ha portato in Italia 498 eritrei e somali rifugiatisi in Etiopia. Il terzo, aperto a novembre 2017 per altri 1.000 rifugiati, per ora ne ha portati 595, tutti siriani.

A maggio 2019 la Cei ha firmato un altro protocollo al Viminale che per il trasferimento di 600 persone: siriani dalla Giordania, somali ed eritrei dall’Etiopia, subsahariani dal Niger. Tutti prevedono accoglienza e integrazione totalmente a carico dei promotori, cioè diocesi, parrocchie e comunità cristiane riformate. «I corridoi umanitari rappresentano una grande sfida e allo stesso tempo dimostrano che gestire in modo umano e sicuro l’arrivo dei rifugiati è possibile», spiega Roland Schilling, rappresentante Acnur per il Sud Europa. «Un canale sicuro che permette alle persone di arrivare in dignità, senza dover ricorrere ai trafficanti rischiando la vita». I corridoi «rappresentano un segno tangibile di solidarietà internazionale anche nei confronti di quei Paesi, come il Libano e l’Etiopia, che accolgono un numero altissimo di rifugiati. Si parla molto di quelli che arrivano in Europa, ma è fuorviante: la maggior parte, oltre l’80%, vivono in Paesi in via di sviluppo».

«La prima motivazione è nata da un moto di indignazione – spiega per la Comunità di Sant’Egidio Claudio Cotatellucci - e cioè la volontà di interrompere le morti in mare: è paradossale che la protezione cui si ha diritto sia inaccessibile e si debba rischiare la vita». 
«Per noi i corridoi sono soprattutto una sfida culturale - dice Oliviero Forti della Caritas italiana – perché l’accoglienza dei profughi è un tema divisivo e che crea conflitti sui territori, cioè lì da dove nascono le scelte politiche fatte dai governi. È un modo per far capire alle nostre comunità che questo è un tema da affrontare con consapevolezza e non da delegare a Terzo settore e istituzioni». Alessandra Trotta della Tavola Valdese sottolinea «il valore ecumenico dei corridoi, portati avanti dalle Chiese cristiane attraverso un’accoglienza diffusa e accompagnata». 

Luca Maria Negro della Fcei sottolinea che «è una buona pratica replicabile». Oltre a Francia (390 rifugiati), Belgio (150) e Andorra (12), «presto i corridoi esordiranno anche in Germania». L’annuncio è arrivato nei giorni scorsi da Annette Kurschus, presidente della Chiesa evangelica della Vestfalia: il progetto si chiama Neustartim Team cioè «ripartire in squadra», abbreviato in NesT, che in tedesco significa «nido». «Questo premio lo dedichiamo a tutte le persone ancora rinchiuse nei lager libici – aggiunge Luca Maria Negro – perché finalmente l’Unione europea realizzi corridoi umanitari per un’evacuazione umanitaria distribuita nei paesi membri». E ricorda che «intanto va salvato chi è costretto a prendere la via del mare: come i corridoi, così sono altrettanto legali i salvataggi operati dalle ong, che agiscono come il buon samaritano che salva il viaggiatore ferito».

Che i corridoi funzionino anche come strumento di integrazione lo testimonia Danait Guush Grebreselassie, insegnante di 28 anni, arrivata dall’Etiopia, accolta a Trivento dall’arcidiocesi di Campobasso-Bojano. «Sono fuggita dall’Eritrea – dice in perfetto italiano perché lì non si può vivere. C’è un regime dittatoriale che impone il servizio militare obbligatorio che dura quasi tutta la vita. Nessuno di noi è in grado di avere una vita dignitosa: non possiamo studiare, avere una famiglia o lavorare. Ora ho ripreso i miei studi e lavoro come come mediatrice: voglio aiutare altri ragazzi a ricostruire le loro vite da zero».

Luca Liverani

giovedì 19 settembre 2019

Migranti - Tra i disperati di Lesbo, in coda per un uovo e un futuro in Europa

La Repubblica
È accanto alle latrine che si snoda la coda per il cibo, sulla collina dov'è stato allestito il campo profughi di Moria, che coni suoi diecimila ospiti è il più affollato e malconcio d'Europa. "Due ore d'attesa per un uovo, un pomodoro e una patata bollita", si lamenta Mohamed, 32 anni, afgano di Herat, sbarcato la notte scorsa assieme a 194 persone dalle coste turche, che dalle spiagge di Lesbo distano meno di tre miglia marine.


"Mi hanno registrato, messo una coperta in mano e detto che per me al campo non c'è posto e che devo arrangiarmi come posso". Come lui, dall'inizio dell'anno sono già arrivati 40mila disperati, la maggior parte dall'Afghanistan e dalla Siria, gli altri dall'Iraq, dal Congo e dalla Striscia di Gaza.


"Ogni giorno, sulla nostra isola approda una mezza dozzina di barconi ed è soltanto l'inizio di una nuova catastrofe migratoria", dice Giannis Balpakakis, che la settimana scorsa per protestare contro il sovraffollamento e le pessime condizioni igieniche di Moria s'è dimesso da direttore del campo. È vero, la struttura è colma fino all'inverosimile: prevista per tremila persone ne ospita adesso diecimila, con quattro famiglie per container, la cui privacy è assicurata soltanto da un telo divisorio.

Tutto ciò per colpa della nuova politica migratoria del presidente Recep Tayyip Erdogan, che da qualche mese ha reso più poroso il confine turco: da un lato, perché in questo modo spera di sollecitare il saldo dei 6 miliardi promessi dall'Europa nell'accordo del 2016, dei quali gliene sono stati versati un po' più della metà; dall'altro per evocare la possibile sciagura che comporterebbe l'evacuazione degli oltre due milioni di rifugiati ammassati nella regione siriana di Idlib, che è ancora nelle mani delle rivolta e che dallo scorso aprile è pesantemente bombardata dall'aviazione di Mosca e del regime di Damasco.

Eppure, tornata a essere il principale punto di arrivo dell'immigrazione illegale nell'Unione europea, superando Spagna e Italia, la Grecia è totalmente inadeguata ad affrontare una futura, massiccia crisi migratoria. Basti dire che Atene ha mobilitato due soli medici per i diecimila ospiti di Moria, dove si registra una doccia per 440 persone e una latrina per 83.

Per fortuna, a Lesbo sono accorse anche le organizzazioni non governative, prima tra tutte Medici senza frontiere che ha aperto una clinica pediatrica fuori dal campo e una di salute mentale a pochi chilometri da li, al porto di Mitilene. L'altro dato agghiacciante è che questa nuova massa di migranti è composta per il 43% da bambini, che qui vengono morsi da scorpioni, serpenti e topi, che giocano tra escrementi umani e che patiscono la fame.

Negli ultimi due mesi, quasi un centinaio è stato indirizzato verso la clinica di Msf: tre di loro avevano tentato il suicidio, e diciassette avevano compiuto gesti di autolesionismo, ferendosi con dei coltelli o strappandosi con violenza ciocche di capelli. "Sono sempre più numerosi i bambini che smettono di giocare, che hanno incubi, che hanno paura di uscire dalle loro tende e che iniziano a isolarsi dalla vita. Alcuni di loro smettono di parlare.

Con il costante aumento di sovraffollamento, violenze e insicurezza nel campo, la loro situazione peggiora di giorno in giorno. Per prevenire danni permanenti, devono essere immediatamente portati via da Moria", ci spiega Tommaso Santo, capomissione dell'organizzazione umanitaria in Grecia. Intanto, l'afgano Mohamed ha finalmente trovato un angolo dove pernottare, a pochi metri dalla recinzione del campo di Moria, in quello che chiamano il "giardino degli ulivi" o anche, usando un toponimo già tristemente noto sulle coste della Manica, la "giungla".

Al momento, sono già duemila le persone che vi hanno trovato rifugio, accampate alla meglio, senza alcuna protezione e usufruendo delle poche e malandate strutture predisposte per gli ospiti di Moria. "C'è chi sta molto peggio di lui. Qui, fuori dal campo ufficiale, giace in una tenda senza materasso una donna all'ottavo mese di gravidanza. Poco lontano, nelle sue stesse condizioni c'è un malato di cancro", dice Maurizio Debanne, operatore di Msf che ci fa da guida in quest'inferno.

"C'è poi una bimba afgana con una brutta ferita di guerra a una gamba che viene a farsi curare nella nostra clinica e che invano, da settimane, aspetta di essere evacuata sul continente o verso altri Paesi europei". Tutto ciò avviene a pochi passi dalle splendide spiagge e dagli affollati locali di Lesbo dove ancora si divertono i molti villeggianti, per lo più nordeuropei, che riempiono gli hotel dell'isola.

"Siamo ancora in piena stagione turistica, ma l'inverno è diverso: può anche nevicare e l'isola è spazzata da venti gelidi, il che in passato ha provocato vittime a Moria. Non oso immaginare quello che accadrà quest'anno tra le tende della "giungla"", dice ancora Debanne. Fatto sta che quattro anni dopo la più grande crisi migratoria dei tempi moderni, c'è il rischio che la storia si ripeta. I migranti possono liberamente circolare per tutta Lesbo, ma sono prigionieri sull'isola.

Molti di loro aspettano da più di un anno la decisione delle autorità greche e nell'attesa sono l'angoscia, l'inattività e la promiscuità a minare la loro salute mentale, soprattutto per chi fugge la guerra, la tortura o la miseria. Mohamed sembra consapevole del destino che l'aspetta. "Ma adesso sono troppo stanco per pensarci", dice, infilando la testa sotto la coperta.

Pietro Del Re


Africa - “Pace senza confini”: Touadera (presidente Repubblica Centrafricana), “voglio abolire la pena di morte”

SIR
Non ci sarà stabilità e sviluppo dell’Africa senza l’Europa e non ci sarà stabilità e sviluppo dell’Europa senza l’Africa. La voce del continente africano irrompe a Madrid, al convegno internazionale della Comunità di Sant’Egidio ‘Pace senza confini’. 


È quella di Faustin Archange Touadera, Presidente della Repubblica Centrafricana, un Paese che sembrava condannato alla frammentazione e alla violenza e che invece ha trovato la sua identità nel processo di pace. 
“Per quanto mi riguarda – ha sottolineato Touadera – voglio abolire la pena di morte. Sarebbe un segno di pacificazione, il segno di un Paese che entra definitivamente in una nuova fase storica”. 
Altre tre prospettive, avverte il presidente, possono nel frattempo rendere più solida una visione “eurafricana”: il sostegno al disarmo (Touadera si è impegnato a “riabilitare” il suo Paese in questo senso), progetti contro il cambiamento climatico (altrimenti “le conseguenze saranno le guerre e le migrazioni”), il diritto alla salute con l’accesso alle cure mediche per tutti, fermare ovunque la pena di morte (“L’Europa ha una grande tradizione e il continente africano si sta muovendo sempre più nella giusta direzione”)

Touadera ha infine ringraziato la Comunità di Sant’Egidio per come sta aiutando il processo di pace nel Paese e per la sua presenza con il centro Dream per la cura dei malati di Aids in Africa.


mercoledì 18 settembre 2019

L'immigrazione non è un'emergenza ma un fenomeno perfettamente gestibile

La Stampa
Ogni giorno ci svegliamo con l'ennesimo naufragio nelle acque del Mediterraneo. Ogni giorno dobbiamo fare i conti con le decine di migranti e rifugiati che perdono la vita cercando di raggiungere l'Europa. Ogni giorno siamo confrontati a retoriche opportunistiche di coloro che sembrano avere dimenticato la loro umanità. Eppure quei morti si possono evitare, perché dobbiamo smettere di pensare all'immigrazione come una emergenza.
 

Bisogna smettere di trasformare in tragedia, un fenomeno perfettamente gestibile alzando muri e fili spinati, chiudendo i porti o scaricando la responsabilità sui paesi di arrivo.

Sembra impensabile che un progetto politico visionario quale l'Unione europea che, lasciandosi alle spalle la tragedia di due conflitti mondiali e la guerra fredda, sapendo garantire per oltre sessant'anni la pace nel continente, si areni davanti a un fenomeno perfettamente gestibile. Sembra inaudibile che in un paese come l'Italia, che per secoli ha visto i suoi cittadini emigrare in America e Australia e che ancora soffre di una grande emigrazione di giovani all'estero, si trovi oggi a stigmatizzare l'immigrazione seminando odio e paura in casa, fomentando tensioni e divisioni in Europa. 

A pochi giorni dall'inizio di un nuovo esecutivo europeo con a capo la tedesca Ursula von der Leyen, ci sembra opportuno puntare i riflettori sul fatto che bisogna smettere di puntarci il dito addosso e metterci intorno a un tavolo per trovare una soluzione.

La prossima presidente della Commissione europea dovrà accelerare il dialogo tra gli stati per eliminarne le contrapposizioni, e trovare una sintesi per forgiare un consenso politico sulle misure necessarie ad affrontare il fenomeno migratorio, in primo luogo la riforma del Sistema europeo comune di asilo. Nel 2016, anno in cui sono stato presentato il maggior numero di richieste d'asilo nell'UE, tali domande sono state 1,3 milioni vale a dire circa lo 0,26% della popolazione europea. Non si tratta certo di un'invasione. Non si tratta di un problema di numeri o di mancanza di risorse, ma di assenza di coraggio e volontà politica.

Trovare soluzioni durature è una sfida, ma è anche un dovere morale che deve essere affrontato non da un solo paese, ma da tutti i paesi. Per vincere è necessario porre in essere un partenariato globale e inclusivo in cui solidarietà e responsabilità siano condivise da tutta la comunità internazionale, e non solo da alcuni paesi e donatori ospitanti. Il Patto Globale sulla Migrazione ci fornisce una possibilità in tal senso. Il dibattito europeo, alimentato da dati falsi e stereotipi, è frutto di un'impostazione distorta della realtà, che non amplifica e condivide i numerosi vantaggi dell'immigrazione sia in termini di sviluppo economico che sociale. Per contrastare tale narrativa negativa, spesso intollerante e xenofoba, è necessario dissipare pregiudizi e false paure, abbandonando la cultura dello "scarto e del rifiuto", come Papa Francesco ha ripetutamente richiesto.

Le persone che sbarcano sulle nostre coste animate dalla ricerca di un futuro migliore non rappresentano una minaccia, ma un'opportunità per il modello economico e sociale europeo. A tal fine, dovrebbero essere attuate politiche d'integrazione sostenibili di lungo periodo, che prevedano il vaglio e il riconoscimento delle competenze, istruzione e formazione, allo scopo di stimolare l'economia. 

Una società fiorente senza una politica migratoria sicura e ordinata, sostenuta da tutti gli Stati Membri, è impensabile. L'unanimità tuttavia non può continuare ad essere l'alibi per l'immobilismo, come è stato sottolineato da Enrico Letta nei giorni scorsi. Ecco perché non bisogna più rimandare la ricerca di soluzioni.

Abbiamo bisogno di canali di ingresso legali, corridoi umanitari e una gestione ordinata e condivisa, nonché il consolidamento delle frontiere comuni. Occorrono vere politiche di investimento nei paesi terzi, non solo in quelli alle frontiere dell'Europa, per affrontare le situazioni di conflitto, di cambiamento climatico e povertà. Il cambiamento strutturale nella natura delle relazioni UE-Africa è già in atto, da una relazione donatore-destinatario a un dialogo tra pari basato sulla complementarità di reciproci interessi. 

Questo processo sarà sicuramente facilitato dalla creazione dell'area di libero scambio continentale (Afcfta), che sarà la più grande del mondo. Questo deve essere il momento del coraggio, il momento in cui si decide del futuro del progetto europeo, è il momento di dimostrare se siamo all'altezza della nostra storia e delle responsabilità che abbiamo verso le nuove generazioni. Dobbiamo fermare questa logica irrazionale, abbracciare un pragmatismo ambizioso, identificando le soluzioni che sono già a portata di mano. Basta slogan e tweet, è ora di agire insieme.

Luca Jahier, Presidente del Comitato Economico e Sociale Europeo

Pietro Bartolo, Parlamentare europeo