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martedì 30 aprile 2019

Guerre dimenticate - Yemen. Il massacro senza fine: previsti 230mila morti entro la fine dell'anno

Avvenire
Otre 230.000 morti, fra vittime dirette del conflitto e per le sue conseguenze: fame, malattie e mancanza di cure. A tanto potrebbe arrivare il bilancio della guerra civile in Yemen entro la fine di quest'anno, secondo uno studio commissionato dall'Onu che delinea un quadro ben più tragico rispetto alle cifre circolate finora. "È peggio di quello che ci si aspettava", ha detto al sito


Middle East Eye Jonathan Moyer, tra i responsabili della ricerca, condotta dall'Università di Denver, secondo il quale la grande maggioranza delle vittime è composta di bambini sotto i cinque anni. Nella ricerca si sottolinea che ogni 12 minuti un bambino muore per la guerra o gli effetti collaterali. 

"E tutti usciranno perdenti da questa tragedia", dice il regista iraniano Mehdi Khorramdel, che in questi giorni ha presentato un suo documentario sul conflitto al festival cinematografico Fajr di Teheran. Proprio l'Iran è considerato il principale sponsor dei ribelli sciiti Houthi che, partendo dalla loro regione montagnosa d'origine nel nord, hanno preso il controllo di vaste aree del Paese, compresa la capitale Sanaa. Contro gli Houthi è intervenuta a partire dal marzo del 2015 una coalizione araba a guida saudita che compie frequenti bombardamenti con un gran numero di vittime civili. E i combattimenti non si sono fermati nemmeno dopo un accordo di tregua sottoscritto dalle parti nel dicembre scorso in Svezia.

Secondo lo studio commissionato dall'Onu, 102.000 persone potrebbero essere morte a causa del conflitto entro la fine del 2019, a cui si aggiungerebbero altre 131.000 per le sue conseguenze. Tra queste, un'epidemia di colera che dall'inizio del 2016 ha già provocato più di 3.000 morti e 1,3 milioni di contagi. Il costo stimato degli oltre quattro anni di guerra è di 89 miliardi di dollari. Tutto questo per niente, afferma Khorramdel, che per il suo documentario, "Yemen, a dubious war" (Yemen, una guerra sospetta), ha utilizzato centinaia di video realizzati da combattenti Houthi e da civili, oltre che immagini della coalizione a guida saudita. "L'idea che mi sono fatto - dice il regista iraniano - è che nessuno potrà vincere questa guerra".

Quello che emerge dal suo documentario, infatti, è un braccio di ferro senza fine tra una coalizione araba che conta su una superiorità di mezzi militari, in particolare l'aviazione, e dall'altra parte milizie Houthi che possono contare su una conoscenza secolare del terreno, in particolare delle montagne del nord. Ma quello che emerge dalle immagini è una guerra che è solo l'ultima di lunghi secoli di conflitti tra diversi clan tribali o con potenze straniere. In una scena del documentario si vedono uomini impegnati in una danza tradizionale con in pugno coltelli e fucili. Poi uno di loro dice: "Basta ballare, adesso torniamo a combattere".

La Chiesa sale a bordo della Mare Jonio che salva i migranti. Don Matteo con l'avallo di due vescovi è dell'equipaggio della nave

La Repubblica
Sulla nave italiana si è imbarcato anche don Mattia Ferrari, parroco a Nonantola. Con il permesso di due arcivescovi. Dirà messa ogni giorno. "Sono il cappellano di bordo, il mio compito è rappresentare vicinanza ai ragazzi di Mediterranea che hanno un gran rispetto per Papa Francesco".


C’è anche la Chiesa cattolica a bordo della nave italiana che salva i migranti. E non è una metafora spirituale. Sulla Mare Jonio, infatti, si è imbarcato don Mattia Ferrari, giovane vicario parrocchiale di Nonantola, nella diocesi di Modena. Venticinque anni, il seminario iniziato subito dopo il diploma al liceo classico, la prima messa un anno fa: un prete tra mangiapreti, a voler sintetizzare. “In effetti qui sono tutti atei e agnostici”, dice don Mattia, sorridendo. “Ma c’è un bel clima di fratellanza, i ragazzi di Mediterranea hanno un gran rispetto per Papa Francesco. E un fatto è certo: il Vangelo, oggi, passa anche dal Mediterraneo”.


Siamo alla terza missione del 2019, la sesta da quando un gruppo di associazioni (Arci, Ya Basta Bologna), l’ong Sea-Watch, il magazine online I Diavoli e l’impresa sociale Moltivolti di Palermo hanno dato vita alla piattaforma Mediterranea. Il vecchio rimorchiatore noleggiato e riadattato per il salvataggio dei naufraghi è attraccato al molo di Marsala e sta aspettando condizioni di mare favorevoli per tornare nella zona Search and Rescue della Libia: un’area assai sguarnita già prima della guerra civile, ma che ora è praticamente deserta perché le motovedette della guardia costiera libica sono bloccate al porto di Tripoli.
Ora, la sua presenza sulla Mare Jonio non è una storia di “colore”, merita una riflessione più approfondita. Perché per essere lì rispettando le procedure canoniche, don Mattia ha chiesto e ottenuto il permesso di due arcivescovi (quello di Modena Elio Castellucci e quello di Palermo, Corrado Lorefice, noto per essere molto vicino a Bergoglio), nonché il benestare della Fondazione Migrantes della Conferenza episcopale italiana. Per dire che non siamo di fronte a una iniziativa personale di un parroco di provincia, ma a una scelta appoggiata da un pezzo rappresentativo delle gerarchie vaticane. Politicamente, non è un dettaglio.

Don Mattia Ferrari, inoltre, non lo si può nemmeno ascrivere alla categoria “prete barricadero”: è composto e ordinato nella sua camicia clergy, ben pettinato, porta occhiali da sole Rayban, gentile nel modo di fare. Ha fatto proprie le parole di Papa Francesco quando, durante l'ultima via Crucis, ha ringraziato “coloro che con ruoli diversi hanno rischiato la vita per salvare quella di tante famiglie in cerca di sicurezza e di opportunità”. Un motivo in più per meditare di fare qualcosa di concreto per i migranti che tentano la traversata.

Così racconta la sua scelta: “La richiesta di avere un prete a bordo è venuta dai ragazzi dell’equipaggio: lo aveva chiesto Luca Casarini (capo delle precedenti missioni di Mare Jonio, ndr) nell’incontro con l’arcivescovo di Palermo l’8 aprile scorso, e Lorefice aveva accolto molto positivamente l’idea. Con i ragazzi di Tpo e Labas di Bologna, che tramite l’associazione Ya Basta fanno parte di Mediterranea, siamo amici da tempo, perché due anni fa accolsero Yusupha, un ragazzo migrante che dormiva in stazione a Bologna e per il quale non riuscivamo a trovare posto, nonostante avessimo bussato a tantissime porte”. Un'amicizia nata grazie al comune sentimento di fratellanza con i migranti.

Fabio Tonacci

lunedì 29 aprile 2019

Cambiare in carcere si può - Recensione su Notizie/Italia/News del libro: "Liberi dentro - cambiare è possibile, anche in carcere" di Ezio Savasta - Infinito Edizioni

Notizie/Italia/News
Sono tanti i libri usciti negli ultimi anni che hanno sottolineato la “centralità” della questione carceraria, partendo dalla convinzione dello strettissimo rapporto che lega la condizione delle carceri alla qualità civile di una società. L’indifferenza (o l’ingiustizia) nelle carceri significa anche indifferenza (ingiustizia) della società verso la persona umana. 


Eppure la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato per ben due volte l’Italia a motivo delle violazioni presenti nelle carceri. È ormai noto a tutti quanto il sovraffollamento continui a provocare situazioni di profondo degrado della vita e della dignità dei detenuti. Malgrado l’adozione di alcuni provvedimenti, dopo tali condanne, per rimediare alle gravissime disfunzioni, restiamo lontani da una soluzione. Eppure già la Costituzione italiana avvertiva con estrema chiarezza che «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato» (art. 27).

Sull’umanità dolente del carcere, si sofferma il bel libro di Ezio Savasta Liberi dentro. Cambiare è possibile, anche in carcere (Infinito Edizioni, 2019, pagine 192, euro 14). Savasta descrive le grandi e piccole contraddizioni delle giornate nelle nostre carceri, smontando gli innumerevoli luoghi comuni che gravitano sul mondo dei detenuti. Attraverso il racconto di numerose vicende che spesso hanno dell’incredibile, l’autore conduce il lettore ad appassionarsi con le tante storie con le quali si imbattuto dopo una frequentazione ultradecennale nelle carceri, soprattutto quelle romane “Regina Coeli” e “Rebibbia”, realtà tutte inserite nel tessuto urbano della Capitale, seppur, come sempre accade con gli istituti penitenziari, mondi isolati, di cui tutti cercano di dimenticarsi. Non potevo non leggere il libro di Ezio con il quale, insieme ad altri amici della Comunità di Sant’Egidio, abbiamo condiviso tante storie e vicissitudini penitenziarie, a partire dagli inizi degli anni novanta. 

Ma Liberi dentro non è solo il volume di un amico. Potremmo dire che è un libro sull’amicizia, sulle amicizie di alcune delle persone detenute, quasi tutte straniere, vissute con l’autore che viene “dalla libertà”. Amicizie che attestano che, dentro le mura del carcere, c’è un enorme potenzialità umana, con una sua dignità, che aspetta di essere compresa, voluta bene, per rimettersi in gioco, per tirare fuori il meglio di sé (emblematici gli esempi di detenuti che desiderano contribuire ai progetti di solidarietà di Sant’Egidio all’esterno del carcere). In tal senso, il libro di Savasta non è un libro “tecnico”, per addetti ai lavori, anzi. E’ veramente un libro per tutti, anche per coloro che non hanno mai avuto nessun contatto con il carcere.

Certo, è il libro di un cristiano che ha fatto propria la nota affermazione evangelica: «Ero carcerato e siete venuti a visitarmi» (Matteo 25,36). Sono poche parole – come quelle delle altre opere di misericordia –, che hanno segnato in profondità milioni di credenti, di carcerati ed anche la stessa storia civile. Tuttavia, l’autore utilizza un linguaggio decisamente semplice e parla laicamente a tutti, riuscendo a rappresentare una umanissima complessità, quella del carcere, in cui spesso volontà di riscatto ed incapacità di tener fede ai propositi, sono compresenti e non consentono al lettore di prendere una posizione netta. 

E’ evidente, comunque, che il libro s’inscrive nella tradizione cristiana ininterrotta della pratica della visita ai carcerati, tra le più pervase di misericordia. E spesso è stata all’origine di una nuova e più umana condizione dei carcerati e degli stessi edifici nella loro struttura architettonica sino al cambiamento del termine, da carceri a penitenziari, ossia luoghi di penitenza in analogia ai conventi. E la penitenza era tesa alla redenzione, al cambiamento del colpevole, perché potesse reinserirsi nella società. 

Tale amore per i carcerati – di cui ha tanto scritto Vincenzo Paglia - ha spinto molti credenti lungo i secoli a frequentare i luoghi di reclusione e a sviluppare una preziosa e molteplice azione tesa comunque ad umanizzare le carceri. Basti pensare al patrocinio gratuito, alla visita giornaliera, all’aiuto culturale con libri consegnati alle diverse stanze, al privilegio di poter liberare un condannato a morte, e così oltre. Le amministrazioni cittadine, vista la capacità di tale intervento, soprattutto nei secoli XVI-XVIII, a volte appaltavano ad apposite confraternite dedicate all’assistenza ai detenuti la gestione stessa delle carceri.

Se ne sentiva il bisogno di questo libro. Servono narrazioni dense di humana pietas. E’ un libro da diffondere, specialmente nelle scuole. Soprattutto in un tempo in cui prevale una mentalità vendicatrice verso i colpevoli. La conseguenza logica di questo atteggiamento porta a rendere le carceri una “discarica sociale” di coloro che sono già ai margini della società (come attestano i numeri di tossicodipendenti e di migranti nelle carceri). 

Un tempo in cui si dirada il dibattito sulle pene alternative al carcere, come la detenzione domiciliare, l’affidamento ai servizi sociali, la semilibertà ed anche la liberazione anticipata, quando ci sono ovviamente le condizioni previste. Peraltro, le statistiche sono a favore di tale prospettiva. Eppure gli studiosi di diritto penale unanimemente considerano il carcere come l’extrema ratio e non come strumento per tranquillizzare la società o peggio per guadagnare consenso.

Don Mazzolari, grande credente del secolo scorso, scrisse che Gesù entrava in paradiso assieme al buon ladrone, al cattivo ladrone e anche a Giuda. E, con qualche compiacimento, commentava: «Che corteo!».

Antonio Salvati

In Libia c'è la guerra! Onu, 41.100 gli sfollati a Tripoli da inizio scontri. Gravi difficoltà per accedere al cibo. 3.300 rifugiati intrappolati nei centri di detenzione.

ANSAmed
Tunisi - E' salito a 41.100 il numero degli sfollati dall'inizio degli scontri armati a Tripoli e dintorni. Lo scrive l'Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari umanitari (Ocha) in un aggiornamento sulla situazione, precisando che proseguono in violazione del diritto internazionale umanitario i bombardamenti indiscriminati, anche aerei sulle aree residenziali con segnalazioni, non confermate, di vittime civili e danni materiali nell'area di Al Hadhba del comune di Abu Slim nella notte tra il 25 e il 26 aprile e nelle zone di Ain Zara e Al Tuaisha di Tripoli nella notte tra il 27 e il 28 aprile.



"Per i civili intrappolati dagli scontri in prima linea, compresi rifugiati urbani e migranti, l'accesso al cibo sta diventando un problema grave" si legge ancora nella nota. "In molte aree, i mercati sono chiusi a causa dei combattimenti e i civili non sono in grado di spostarsi in sicurezza per acquistare cibo.

E nelle aree in cui i mercati rimangono aperti, anche i prezzi delle verdure fresche e dell'olio da cucina sono aumentati, così come il costo del gas per cucinare". "I partner umanitari chiedono il rapido monitoraggio delle spedizioni umanitarie in Libia, per soddisfare le urgenti esigenze delle popolazioni colpite dal conflitto".

Circa 3.300 rifugiati e migranti restano intrappolati in centri di detenzione situati in aree colpite dai combattimenti o in aree a rischio di conflitto armato.

Sutera, nel borgo siciliano dell’accoglienza, bruciato il pulmino simbolo dell’accoglienza dei migranti

Vita
Il paese della Sicilia è un simbolo dell’accoglienza: svuotato negli anni dalla popolazione locale a rigenerarlo sono state in parte famiglie di immigrati destinatarie di un progetto di Sprar diffuso. Il mezzo era impiegato in diverse attività, tra cui il servizio per raggiungere la scuola.


Chiunque abbia visto passare quel pulmino tra le strade e i vicoli di Sutera, in provincia di Caltanissetta, sapeva che quello era più di un semplice mezzo di trasporto.

Perché qui, in questo borgo di poco più di 1400 anime, nell’entroterra della Sicilia, le case erano rimaste disabitate a causa di una massiccia immigrazione da parte della popolazione locale. Un paese che rischiava di diventare un paese fantasma fino a quando nel 2014 il comune di Sutera con l’associazione I Girasoli hanno ideato un progetto di Sprar diffuso affidando le case inabitate a una ventina di famiglie di immigrati che di fatto hanno rigenerato il borgo, donandogli una nuova vita.

Quel pulmino che la notte di Pasqua è stato completamente bruciato serviva ai migranti che tutti i giorni con quel mezzo raggiungevano la scuola che loro stessi hanno salvato perché altrimenti l’edificio sarebbe stato costretto a chiudere per “carenza di studenti”. E serviva anche per altre attività, come andare in piscina o al mare. 

Quel pulmino nove posti con i suoi seggioloni per i più piccoli, simbolo dell’accoglienza, è ora uno scheletro: «Accanto è stata trovata una grossa pietra, chi ha bruciato il nostro mezzo ha spaccato prima il parabrezza. Siamo sgomenti, è stato come un fulmine a ciel sereno, nessuno di noi se lo aspettava», racconta Calogero Santoro, presidente dell’associazione I Girasoli che sin dalla strage di Lampedusa dell’ottobre 2013 è impegnata in progetti di accoglienza a Sutera, ma anche nei paesi limitrofi

«Dai primi accertamenti da parte delle forze dell’ordine si è capito subito che si è trattato di un incendio doloso, ma è ancora troppo presto per sapere chi è stato. Se sia stato un gesto di stampo mafioso o di matrice razzista è difficile dirlo, ma sicuramente è stato un atto grave per ciò che il pulmino rappresentava e il clima di divisione verso i migranti che oggi c’è in Italia è diventato purtroppo un dato di fatto. Noi non vogliamo che a vincere sia la paura, anzi questo gesto ci dà maggiore forza per andare avanti», continua Santoro.

Davanti al vile attacco allo Sprar di Sutera, la solidarietà di una parte dell’associazionismo e degli abitanti di Sutera non si è fatta attendere: «In tre giorni abbiamo già raggiunto un centinaio di donazioni, ma la cifra che riusciremo a raggiungere non è importante. Tra i gesti di vicinanza che più ci hanno colpito c’è quello di una famiglia pakistana, tra i destinatari del progetto, che ha messo 50 euro per poter ricomprare il pulmino e grande vicinanza è stata dimostrata dai ragazzi dell’Emmaus di Palermo con cui condividiamo alcuni progetti».

L’associazione I Girasoli ha lanciato una raccolta fondi su Gofundme: "Noi siamo di più, un nuovo pulmino per Sutera".

Nonostante il pulmino sia stato dato interamente alle fiamme gli operatori si sono organizzati con altri mezzi per garantire i servizi alle famiglie di migranti. «Nell’emergenza ci siamo attrezzati con un altro pulmino che era destinato a un altro progetto, noi non ci fermiamo» conclude il presidente dell’associazione I Girasoli, mentre le famiglie del progetto Sprar aspetteranno come sempre il loro amato pulmino.

Alessandro Puglia

domenica 28 aprile 2019

Al collasso le strutture di detenzione in Messico - Fuggono in 1.300 da un centro per migranti. In 6.000 bloccati alla frontiera con gli USA

Osservatore Romano
Almeno 1.300 migranti, principalmente cubani, sono fuggiti ieri sera da un centro di accoglienza a Tapachula, al confine meridionale del Messico. Lo hanno riferito le autorità. 


«C’è stata un’uscita non autorizzata su larga scala di persone che soggiornano presso la stazione di migrazione», ha dichiarato l’Istituto nazionale per l’immigrazione, specificando che 700 di loro sono poi rientrati volontariamente, mentre gli altri 600 non sono stati ancora localizzati. Il complesso di Tapachula ha una capacità per ospitare fino a 900 persone, mentre erano presenti circa 3.200 migranti, la maggior parte cubani.

Il portavoce del centro di detenzione ha spiegato inoltre che gli agenti all’interno del complesso non erano armati e che, pertanto, «non c’è stato alcun confronto» né impedimento alla partenza in massa dei migranti, nonostante questi avessero minacciato di dar fuoco alla struttura. 

La polizia federale invece con scudi antisommossa si è riversata poi nell’istituto per controllare la situazione, mentre all’esterno una folla di cubani, famigliari dei detenuti presso la struttura, si è radunata per protestare contro il sovraffollamento e le precarie condizioni igieniche in cui versano i migranti.

La mobilitazione sarebbe «stata promossa soprattutto dai cittadini cubani», ha specificato il centro. Già il 18 aprile scorso, le autorità messicane avevano sventato il tentativo di trecento cubani di raggiungere Città del Messico, bloccando l’autobus sul quale viaggiavano nei pressi della città di Huixtla, nello stato del Chiapas, costringendo i migranti a ritornare nel centro di detenzione di Tapachula. Questo episodio avrebbe fatto scatenare ulteriormente le tensioni tra i migranti e le autorità messicane.

Un gruppo di cubani, circa 2.000 — secondo le fonti ufficiali — starebbero da settimane bloccati al confine meridionale del Messico dopo aver attraversato Panamá, Costa Rica, Nicaragua, Honduras e Guatemala. Nei giorni scorsi 148 cubani che avevano un soggiorno irregolare nel paese sono stati rimpatriati.

Il flusso di migranti organizzati in diverse "carovane" che si dirigono verso nord si è moltiplicato negli ultimi mesi. Le autorità hanno stimano, a metà aprile, che almeno 5.874 migranti di varie nazionalità, in gran parte provenienti dall’America centrale, sono bloccati nello stato del Chiapas o in attesa al confine per entrare nel paese.

Manduria. Violenza per gioco e noia di giovani portano alla morte di un pensionato psichico. La violenza colpisce i più fragili non solo gli stranieri

Messaggero
Violenti per gioco o per noia. Avevano preso di mira un pensionato che aveva problemi psichici, viveva da solo, appariva indifeso, succube, e non reagiva alle provocazioni. Per loro era diventato uno zimbello da deridere. 
Solo due dei 14 giovani indagati per la morte del 66enne di Manduria (Taranto) che ha subito per anni violenze in stile «Arancia meccanica» hanno precedenti. Gli altri vivono in contesti familiari definiti «normali», quasi tutti frequentano ancora la scuola, e, stando alle dichiarazioni dei loro legali, ora si dicono pentiti di quello che hanno fatto.

Dodici minorenni tra i 16 e i 17 anni e due maggiorenni di 19 e 22 anni sono indagati dalla procura dei minori e della procura ordinaria per i reati di di omicidio preterintenzionale, stalking, lesioni personali, rapina, violazione di domicilio e danneggiamento. L’inchiesta che ha sconvolto la comunità di Manduria, comune del versante orientale tra i più grandi della provincia di Taranto, riguarda la morte di Antonio Cosimo Stano, ex dipendente dell’Arsenale militare deceduto il 23 aprile scorso a distanza di 18 giorni dal suo ricovero nell’ospedale cittadino, dopo essere stato sottoposto a due interventi chirurgici. 

I giovani, secondo gli inquirenti, durante gli assalti nell’abitazione dell’uomo e per strada si sarebbero ripresi con i telefonini mentre sottoponevano la vittima a violenze con calci, pugni e persino bastoni, per poi diffondere i video nelle chat di Whatsapp.

Il medico di Lampedusa Pietro Bartolo: "in 30 anni ho visto cose terribili, la gente deve saperle"

Globalist
Pietro Bartolo, che questa mattina ha presentato la sua candidatura indipendente nelle liste del Pd in vista delle prossime elezioni europee, è stato presentato dal segretario dem Davide Faraone come "la nostra sfida per rappresentare la vera alternativa a Salvini".



"Accoglienza, fratellanza, integrazione. Ma soprattutto rispetto, la più bella delle parole della nostra lingua. Sono questi i valori che con la mia esperienza mi auguro di poter portare in Europa" ha detto Bartolo, che ha poi raccontato la sua esperienza trentennale e volontaria, da medico di frontiera a Lampedusa, "quando la mia isola è stata l'unica porta d'Europa. 

VIDEO - Pietro Bartolo racconta la sua esperienza 
con i migranti a Lampedusa porta dell'Europa


E tutta la comunità Europea ha riconosciuto all'Italia, proprio grazie a Lampedusa, il grande valore della nostra capacità d'accoglienza".
"Ho visto cose terribili - ha aggiunto - che nessuno dovrebbe vedere e che nessuno vorrebbe sapere. Ma che andavano raccontate. L'ho fatto con un film, poi con un libro e un altro ancora. Non è bastato. Da tre anni dedico tutti i miei fine settimana, esclusa l'attività medica che continuo a svolgere a Lampedusa dal lunedì al venerdì, per andare nelle scuole, nei teatri, nei circoli, per portare la mia testimonianza in giro per l'Italia e per l'Europa. Adesso è arrivato il momento di entrare in politica, perché credo nella buona politica. Perché questi accordi fatti con la Libia non fanno parte della nostra cultura italiana. Perché non è più accettabile rifiutare queste persone in un momento in cui in Libia c'è la guerra".

sabato 27 aprile 2019

Cassazione: “Accogliere migranti gay non protetti in patria”

La Stampa
Prima di negare lo status di rifugiati ai migranti che dichiarano di essere omosessuali e di rischiare la vita se rimpatriati a causa del loro orientamento sessuale, si deve accertare se nei Paesi d’origine non solo non ci siano leggi discriminatorie e omofobe ma anche verificare che le autorità del luogo apprestino «adeguata tutela» per i gay, ad esempio se colpiti da «persecuzioni» di tipo familiare. Lo sottolinea la Cassazione che ha accolto il ricorso di un cittadino gay della Costa d’Avorio, minacciato dai parenti.


Al protagonista di questa vicenda giudiziaria arrivata fino alla Suprema Corte, la Commissione territoriale di Crotone non aveva concesso il diritto di rimanere in Italia sottolineando che «in Costa d’Avorio al contrario di altri stati africani, l’omosessualità non è considerata un reato, né lo Stato presenta una condizione di conflitto armato o violenza diffusa». Per gli `ermellini´ questo non basta: serve accertare l’adeguata protezione statale per minacce provenienti da soggetti privati.

Bakayoko Aboubakar S. aveva raccontato che era di religione musulmana, coniugato con due figli, e diventato oggetto «di disprezzo e accuse da parte di sua moglie e di suo padre» che era imam del villaggio, «dopo aver intrattenuto una relazione omosessuale». 

Aveva deciso di fuggire quando il suo partner era stato «ucciso in circostanze non note, a suo dire ad opera di suo padre», l’imam. Secondo la Cassazione «non è conforme a diritto» - quanto deciso oltre che dalla Commissione prefettizia anche dal Tribunale di Catanzaro nel 2014, e dalla Corte di Appello di Catanzaro nel 2016 - aver negato la protezione a Bakayoko senza accertare se nel suo Paese sarebbe difeso dalle minacce dei parenti. Il caso adesso si riapre e sarà riesaminato da altri giudici nell’appello bis ordinato dagli “ermellini”.

Nel verdetto, i supremi giudici scrivono che pur in mancanza di «riserve sulla credibilità» del profugo ivoriano - non messa in discussione nelle fasi di merito - «non risulta che sia stata considerata la sua specifica situazione» e siano stati «adeguatamente valutati» i rischi «effettivi» per la sua incolumità «in caso di rientro nel paese di origine, a causa dell’atteggiamento persecutorio nei suoi confronti, senza la presenza di una adeguata tutela da parte dell’autorità statale». 

«A tal uopo - prosegue la Cassazione - non appare sufficiente l’accertamento che nello stato di provenienza, la Costa d’Avorio, l’omosessualità non è considerata alla stregua di reato, dovendosi accertare in tale paese la sussistenza di adeguata protezione da parte dello Stato, a fronte delle gravissime minacce provenienti da soggetti privati».

La Cassazione ridimensiona il "Decreto sicurezza": per negare l'asilo l'assenza di rischi per chi fugge va provata

Globalist
La Suprema Corte ha dato ragione ad un pakistano: per respingere bisogna evitare formule stereotipate e specificare sulla scorta di quali fonti siano state acquisite informazioni.


Come accade negli Stati Uniti con Trump, in attesa di diventare una dittatura o mettere i magistrati sotto il controllo del potere politico (come fanno i sovranisti) a volte la legge e la Costituzione prevalgono sulle strette autoritarie.
 Così in parte le direttive di Salvini hanno visto una grosso ridimensionata. 

Basta con la stretta sulle richieste di asilo motivata, dai giudici di merito, sulla base di generiche "fonti internazionali" che attesterebbero l'assenza di conflitti nei paesi di provenienza dei migranti che chiedono di rimanere in Italia perché in patria la loro vita è a rischio.

Lo chiede la Cassazione che esorta i magistrati a evitare "formule stereotipate" e a "specificare sulla scorta di quali fonti" abbiano acquisito "informazioni aggiornate sul Paese di origine" dei richiedenti asilo. Accolto ricorso di un pakistano.

Sulla base di questi principi - inviati al Massimario - la Suprema Corte ha dichiarato "fondato" il reclamo di Alì' S., cittadino pakistano al quale la Commissione prefettizia di Lecce e poi il Tribunale della stessa città, nel 2017, avevano negato di rimanere nel nostro Paese con la protezione internazionale.

Alì - difeso dall'avvocato Nicola Lonoce - ha fatto presente che la decisione era stata presa "in base a generiche informazioni sulla situazione interna del Pakistan, senza considerazione completa delle prove disponibili" e senza che il giudice avesse usato il suo potere di indagine. Il reclamo ha fatto 'centro', e la Cassazione ha sottolineato che il giudice "è tenuto a un dovere di cooperazione che gli impone di accertare la situazione reale del Paese di provenienza mediante l'esercizio di poteri-doveri officiosi di indagine e di acquisizione documentale, in modo che ciascuna domanda venga esaminata alla luce di informazioni aggiornate", e non di "formule generiche" come il richiamo a non specificate "fonti internazionali". Il caso sarà riesaminato a Lecce.

venerdì 26 aprile 2019

Libia, spari sui migranti in un centro di detenzione: il video dell'attacco

La Repubblica
Colpi di arma da fuoco, poi le urla e le immagini dei feriti. Il video, diffuso da Medici Senza Frontiere, è stato girato nel centro di detenzione di Qasr Bin Gashir, a Tripoli. All'interno c'erano oltre 700 persone, tra cui anche donne e bambini. Almeno 2 le vittime e 20 i feriti.
 

Giulia Tranchina, legale che vive a Londra e specializzata in diritto d’asilo, è in contatto con i prigionieri del centro. Secondo quanto raccontato al Guardian, uno di loro è riuscito a fuggire prima che cominciassero a sparare: ''Stavamo pregando tutti insieme, i miliziani sono entrati chiedendo i nostri telefoni. Noi abbiamo rifiutato e hanno iniziato a sparare''.
 
''Molte di queste persone hanno già subito la violenza dei centri, alcune diverse volte dopo essere state intercettate in mare e riportate in Libia. Questo attacco senza senso poteva essere evitato se gli appelli lanciati due settimane fa per evacuare i migranti dalla Libia fossero stati ascoltati'', ha dichiarato Hassiba Hadj-Sahraoui, consulente umanitaria di MSF per la Libia e il Mediterraneo.
 
 video Msf / Twitter

Puglia - Nuovo incendio a Borgo Mezzanone, muore un giovane del Gambia mandato via da un Centro Richiedenti Asilo

Messaggero
Rogo la scorsa notte in una baracca del ghetto di Borgo Mezzanone, agglomerato abusivo l'agglomerato abusivo sorto a pochi chilometri da Foggia. Un cittadino straniero è morto. 



Le cause del rogo non sono ancora accertate. La baracca si trova nella zona interessata dagli abbattimenti delle scorse settimane. A quanto si è appreso, il corpo completamente carbonizzato della vittima, che non è stata ancora identificata, è stato scoperto solo dopo la conclusione delle operazioni di spegnimento dell'incendio. ​

La vittima è un giovane gambiano di 26 anni, il quale era fino a poco tempo fa ospite del Cara - Centro Richiedenti Asilo che si trova esattamente accanto alla baraccopoli abusiva. Il giovane era da qualche mese irregolare in quanto non era stata accolta la sua richiesta di asilo. 

Ora gli inquirenti dovranno accertare se il giovane sia morto nel sonno per i fumi sprigionati nell'incendio o per altre cause. Il gambiano è stato ritrovato steso a terra quasi completamente carbonizzato. La baracca era costituita prevalentemente da lamiere e legno. È probabile che nei prossimi giorni venga disposta un'autopsia per accertare le cause del decesso.

giovedì 25 aprile 2019

Diritti umani. L'Iran non arretra su Nasrin Sotoudeh: condannata a 33 anni e 148 frustate

Avvenire
A Nasrin Sotoudeh, nel 2012, è stato assegnato dal Parlamento Europeo il Premio Sakharov per la libertà di pensiero.


Né la pressione delle maggiori organizzazioni per la difesa dei diritti umani né quella politica di numerosi governi stranieri hanno modificato l’iter processuale dell’avvocata iraniana Nasrin Sotoudeh, condannata in via definitiva a 33 anni di carcere.
 

L’attivista non farà appello contro la sentenza, ha riferito all’agenzia ufficiale Irna il marito, Reza Khandan, precisando che la pena da scontare sarà solo quella per il reato ritenuto più grave, pari cioè a 12 anni. L’avvocatessa, nota per il suo impegno a favore dei diritti delle donne, era stata condannata anche a 148 frustate per svariati capi d’accusa, tra cui «aver complottato contro la sicurezza nazionale», «minacce contro il sistema», «istigazione alla corruzione e alla prostituzione» e per essere «comparsa senza velo in un’aula di tribunale».

Si tratta di accuse legate all’attività della Sotoudeh a difesa di concittadine iraniane che avevano protestato contro l’obbligo di portare l’hijab, il velo islamico, oltre alla sua aperta opposizione alla pena di morte. 

La condanna in primo grado è stata resa nota il mese scorso, ma in realtà Nasrin Sotoudeh è detenuta dal giugno del 2018 per altre accuse e sta già scontando una condanna a 5 anni, inflittale dal tribunale rivoluzionario di Teheran per spionaggio. 

Vincitrice del Premio Sakharov per la libertà di pensiero – assegnato dal Parlamento Europeo – nel 2012, l’avvocata detiene ora un amaro primato, secondo l’organizzazione per la difesa dei diritti umani Amnesty International, che denuncia «la pena più severa comminata a un difensore dei diritti umani in Iran negli anni più recenti»

L’avvocata, prima del suo arresto, si era espressa anche contro un nuovo codice penale che consente solamente a un ristretto numero di avvocati di rappresentare imputati di crimini contro la sicurezza nazionale.

In pratica, la lista degli avvocati disponibili è approvata dal Capo del potere giudiziario; gli imputati non possono rivolgersi a nessun altro. Per la provincia di Teheran, per citare l’esempio più clamoroso, gli avvocati approvati sono solo venti. La vicenda di Nasrine Sotoudeh rappresenta la punta di un iceberg imponente, poco noto all’opinione pubblica internazionale, fatto di continue e istituzionalizzate violazioni dei diritti da parte di Teheran.

Solo per citare il caso delle iraniane che rivendicano il loro diritto di indossare oppure no l’hijab, sono decine le attiviste arrestate e processate negli ultimi due anni. Fra di loro, Vida Mohavedi, che si tolse in pubblico il velo in segno di protesta nel dicembre 2017 ed è stata condannata, all’inizio di aprile, a un anno di prigione. Una settimana fa, poi, è stata arrestata Yasaman Ariyani, attivista 23enne di Karaj prelevata da casa sua di notte. Fermata anche la madre della giovane, “colpevole” di aver chiesto notizie recandosi nell’ufficio della procura a Teheran. È dalla fine del 2017 che la protesta contro un codice di abbigliamento penalizzante per le donne ha preso piede in Iran: le “Ragazze della strada della rivoluzione”, come sono conosciute le attiviste, non sono finora riuscite a convincere le autorità al dialogo. 

I Guardiani della rivoluzione iraniana accusano il movimento di spionaggio poiché si coordina con cittadine residenti all’estero, quali Masih Alinejad, attivista di Brooklin promotrice della campagna online dei “mercoledì bianchi”. Alcune delle donne arrestate, inoltre, si sono esposte in prima persona anche nelle manifestazioni anti-governative contro le difficili condizioni economiche in cui versa il Paese degli ayatollah.

25 Aprile - Festa della liberazione - Non una memoria vuota ma l'impegno per rinnovare ogni giorno la vigilanza e la lotta contro fascismo, violenza, ingiustizia.

Blog Diritti Umani - Human Rights
25 Aprile - Festa della liberazione
Non una memoria vuota ma l'impegno per rinnovare ogni giorno 
la vigilanza e la lotta contro ogni fascismo, violenza, ingiustizia.


La festività, istituita per decreto nel 1946, ricorda l'insurrezione di Milano che aprì la strada alla fine del regime nazifascista e all'occupazione militare.

Così come Olanda, Danimarca e Romania, anche l’Italia festeggia ogni anno la liberazione dal nazifascismo, avvenuta nel 1945. La data scelta per ricordare l’evento è quella del 25 aprile: un giorno che non coincide con la sconfitta delle truppe mussoliniane e hitleriane (formalizzata solo il 29 aprile con la resa di Caserta), ma che, quell’anno, diede vita a una transizionedecisiva che portò alla liberazione di Milano e alla ripresa del Nord del paese (il Sud era già in mano agli Alleati).

Il 25 aprile 1945 il Comitato di liberazione nazionale Alta Italia (Clnai), che coordinava i diversi gruppi della Resistenza nel Nord, deliberò infatti un ordine di insurrezione generale nei territori ancora schiacciati dall’occupazione. Gli occupanti avevano solo una scelta: “Arrendersi o perire”, come da proclama lanciato alla radio. Il piano coordinato dei partigiani portò alla liberazione dei due maggiori capoluoghi del Nord, Milano e Torino, e alla fuga di Benito Mussolini.

Il duce, che si era nascosto proprio nel capoluogo lombardo, provò a raggiungere Como ma due giorni dopo venne trovato all’uscita di Musso, nei pressi di Dongo, dalla 52esima Brigata Garibaldi che lo processò e fucilò tre giorni dopo, il 28 aprile del 1945.

La festa della Liberazione venne istituita un anno dopo. Il 22 aprile del 1946 il governo provvisorio guidato dal democristiano Alcide De Gasperi stabilì con un decreto che il 25 aprile sarebbe stata festa nazionale. La scelta venne confermata con la legge ordinaria del maggio 1949 concernente le “Disposizioni in materia di ricorrenze festive”.


Fonte: [Wired]

mercoledì 24 aprile 2019

24 aprile "Medz yeghern" - Ricordo del genocidio degli armeni e di altri cristiani in Turchia nel 1915/16

Internazionale
I massacri della popolazione cristiana (armeni, siro cattolici, siro ortodossi, assiri, caldei e greci) avvenuti in Turchia tra il 1915 e il 1916 sono ricordati dagli armeni come il Medz yeghern, “il grande male”. 


Le uccisioni cominciarono nella notte tra il 23 e il 24 aprile 1915, quando furono eseguiti i primi arresti tra l’élite armena di Costantinopoli. L’operazione continuò nei giorni successivi. In un mese più di mille intellettuali armeni, tra cui giornalisti, scrittori, poeti e parlamentari furono deportati verso l’interno dell’Anatolia.

Lo sterminio e la deportazione di massa della popolazione cristiana dell’Armenia occidentale erano stati decisi dall’impero Ottomano a causa delle sconfitte subite all’inizio della prima guerra mondiale per opera dell’esercito russo, in cui militavano anche battaglioni di volontari armeni. Dall’inizio del 1915 gli armeni maschi in età da servizio militare erano stati concentrati in “battaglioni di lavoro” dell’esercito turco e poi uccisi, mentre il resto della popolazione era stato deportato verso la regione di Deir ez Zor in Siria con delle marce della morte, che coinvolsero più di un milione di persone: centinaia di migliaia morirono per fame, malattia, sfinimento o furono massacrati lungo la strada.

Secondo lo storico polacco Raphael Lemkin (che ha coniato il termine genocidio) si è trattato del primo episodio in cui uno stato ha pianificato ed eseguito sistematicamente lo sterminio di un popolo. La Turchia però non ha mai accettato la definizione di genocidio, sostenendo che le uccisioni compiute dall’impero Ottomano erano una risposta all’insurrezione degli armeni e alla necessità di difendere le sue frontiere, e sottolineando che anche migliaia di turchi erano morti nel conflitto.

Il numero degli armeni morti in questo secondo massacro (altre stragi erano state commesse nel 1890) è controverso. Fonti turche fermano il numero dei morti a duecentomila, mentre quelle armene arrivano a 2,5 milioni. Gli storici stimano che la cifra vari tra i 500mila e due milioni di morti, ma il bilancio di 1,2 milioni è il più diffuso.

I paesi che riconoscono ufficialmente il genocidio armeno sono 22, tra cui l’Italia, mentre in altri è riconosciuto solo da singoli enti o amministrazioni. Molti altri paesi, tra cui gli Stati Uniti e Israele, continuano a non usare il termine genocidio per timore di una crisi nei rapporti con la Turchia. Barack Obama si era espresso in favore del riconoscimento prima di diventare presidente degli Stati Uniti, ma da quando è stato eletto, pur promuovendo la pacificazione tra Turchia e Armenia, ha evitato di usare il termine.

Arabia Saudita - Pena di morte - 37 esecuzioni, uno crocefisso

La Repubblica
La maggior parte delle vittime, accusate di terrorismo, è stata decapitata, un uomo è stato crocefisso

Trentasette persone accusate di terrorismo sono state mandate a morte ieri in Arabia Saudita nella più grande esecuzione di massa avvenuta nel Paese dal gennaio 2016, quando l'esecuzione di 47 persone, per la maggior parte sciite, aveva provocato scontri nella parte orientale del Paese e violenze dall'Iran al Pakistan.
Uno degli uomini, secondo il comunicato dell'agenzia di stampa saudita, è stato crocefisso: una delle modalità di esecuzione usata in Arabia Saudita. Gli altri sono stati uccisi seguendo le regole islamiche, il che significa decapitati. In un caso, uno dei cadaveri è stato lasciato con il corpo da una parte e la testa mozzata da un'altra: un monito per la popolazione raramente usato in Arabia Saudita negli ultimi anni e che conferma la volontà, da parte della leadership, di mandare un messaggio di tolleranza zero. 

Le persone uccise erano in carcere da tempo: dalla lista letta in tv, si capisce che si tratta di esponenti della minoranza sciita ma anche di membri di importanti tribù sunnite conosciute per le loro visioni conservatrici. 



Tutti sono accusati di aver attentato alla sicurezza dello Stato preparando attentati. Le esecuzioni arrivano a pochi giorni dalla scoperta di una cellula dell'Isis che, secondo il ministero dell'Interno, si preparava ad agire nel Paese. 

A firmare le condanne è stato re Salman ma per gli analisti l'operazione porta la firma di Mohammed bin Salman, il principe ereditario che guida il Paese, al centro delle critiche per il ruolo nell'omicidio del giornalista Jamal Khashoggi, ucciso a ottobre nel consolato saudita di Istanbul. "MbS manda un brutto messaggio: non c'è limite alla brutalità dello Stato e alla repressione", dice Madawi Al Rasheed, attivista e studiosa dell'Arabia Saudita alla London School of Economics.

Tunisia - Chamseddine Marzoug: l'uomo che seppellisce i migranti restituiti dal mare, un gesto di pietà per evitare le fosse comuni.

Avvenire
È tunisino e da 10 anni salva, raccoglie e dà dignità ai corpi rilasciati dal mare. "Un giorno ho recuperato un bimbo con una donna. Li ho sepolti vicini, come fossero madre e figlio". "Sono un cittadino, un volontario e un militante contro il razzismo. Con i vivi e soprattutto con i morti, che sotterro".


A parlare è Chamseddine Marzoug, tunisino. È lui l'uomo che salva, raccoglie e dà dignità ai migranti annegati nel Mediterraneo. A 56 anni, da almeno un decennio e con scarso aiuto istituzionale, il pescatore e volontario della Mezzaluna Rossa si incarica personalmente di dare sepoltura ai cadaveri che il Mare Nostrum restituisce alle spiagge tunisine.

Fino al 2000 i cadaveri sospinti dalla corrente verso le coste tunisine erano interrati in cimiteri musulmani. Poi, per mancanza di spazio, nel 2006 le autorità individuarono il terreno a Zarzis, località a sud di Tunisi, tra Djerba e la frontiera con la Libia. Qui i corpi finivano in fosse comuni.

Nel 2011, dopo la primavera araba tunisina, questo pescatore si fece carico del "cimitero degli ignoti" chiedendo allo Stato di poter dare sepoltura individuale alle vittime. Si tratta di quattrocento cumuli di terra scavati a mano sul promontorio della discarica: oggi è un santuario postmoderno, un luogo della memoria che interpella la coscienza d'Europa. 


Chamseddine seppellisce i tanti annegati con i propri sogni, i cui corpi non sono reclamati dai familiari. L'unica lapide con un nome è quella di Rose-Marie, una nigeriana di 28 anni, che salpò dalla Libia su una barcaccia con 126 persone a bordo, tutte sopravvissute al naufragio, tranne lei.

Il resto dei tumuli è anonimo, alcuni di essi sono semplicemente segnati con la data in cui è stato recuperato il corpo in mare. Su uno più piccolo, una macchinina giocattolo. "Aveva cinque anni - ricorda Chamseddine. Fu recuperato in mare con una donna e ho pensato fosse sua madre. Per questo li ho sepolti vicini, la testa l'una accanto all'altra...".

I cadaveri ritrovati al largo o sulla spiaggia sono lavati dal volontario, ricomposti come vuole la tradizione tunisina, e portati in ospedale, per individuarne sesso ed età, quando è possibile dalla dentatura. Poi, in sacche identificate da un numero e la data di ritrovamento, sono presi in carico da Marzoug per la sepoltura. Ma il cimitero, su due livelli, è ormai saturo.

Per ampliarlo, con il Comitato regionale della Mezzaluna Rossa guidata da Mongi Slim, Chamseddine ha lanciato un anno fa una petizione online, su www.cofundy.com, d'intesa con le autorità locali, per raccogliere 30mila euro e acquistare un terreno di 2.500 metri quadrati. È quello del vecchio stadio di calcio, a circa un chilometro di distanza, dove vorrebbe costruire la nuova necropoli dei senza nome.

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Paola Del Vecchio

martedì 23 aprile 2019

Guerra in Libia. Centri di detenzione sotto tiro: primi trasferimenti di migranti dell'UNHCR verso il Niger. Porte chiuse in Europa

Il Manifesto
Migranti in trappola. Con l'intensificarsi dei combattimenti intorno a Tripoli l'Agenzia per i rifugiati delle Nazioni unite (Unhcr) è riuscita a trasferire 163 rifugiati dalla Libia al Niger. Si tratta del primo volo di questo tipo da quando, due settimane fa, è iniziata la battaglia a sud della capitale libica. L'operazione è stata coordinato da Unhcr con il ministero degli Interni libico e le autorità del Niger.
Impresa non facile, che ha comportato prima il rilascio dei rifugiati dai centri di detenzione, poi il trasferimento nel punto di raccolta dell'Unhcr nel centro di Tripoli e quindi il trasferimento in Niger. 

Tutti gli sfollati, tra cui dozzine di donne e bambini risiedevano nei due centri di Abu Selim, sobborgo di Tripoli colpito nei giorni scorsi da missili Grad che hanno causato la morte di 7 civili e almeno 35 feriti, e Ain Zara, anch'esso sotto intensi bombardamenti e al centro del fronte. 

Data la situazione non c'è stata alternativa all'evacuazione, come ha spiegato l'Alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati, Filippo Grandi: "Le evacuazioni umanitarie rappresentano una linea di difesa della vita per i rifugiati la cui esistenza in Libia è in grave pericolo".

Apprezzata e positiva "la solidarietà del Niger nel ricevere i rifugiati, ma - prosegue Grandi - il Niger non può farlo da solo. Ci deve essere una responsabilità condivisa e abbiamo bisogno che altri Paesi si facciano avanti per dare una mano e aiutare a portare in salvo i rifugiati più vulnerabili". 

Prosegue nel contempo il trasferimento dai centri di detenzione più prossimi al fronte ad altri in zone della Libia più sicure, 539 persone sono state spostate negli ultimi dieci giorni. Tuttavia resta forte la preoccupazione per più di 3.000 rifugiati e migranti che restano intrappolati in centri prossimi alle zone di guerra, in particolare nei centri di detenzione di Qasr Bin Ghasheer, Al Sabaa e Tajoura. Ne consegue un misto di preoccupazione e un appello urgente ad altri Paesi della comunità internazionale perché seguano l'esempio del Niger.

Fabrizio Floris

Oltre 4.000 cristiani uccisi per fede in un anno. Perseguitati in 73 paesi

interris.it
Su 150 Paesi monitorati, 73 hanno evidenziato un livello di persecuzione da "alta" a "estrema". Sono molte migliaia i cristiani uccisi per ragioni legate alla loro fede ogni anno. Lo scorso anno, sono stati 4.305, in crescita rispetto ai 3.066 del 2017; il maggior numero di vittime si è contato in Nigeria per mano soprattutto degli allevatori islamici Fulani, oltre che dei terroristi Boko Haram. 

Si contano infatti 3.731 cristiani uccisi in questa nazione, con villaggi completamente abbandonati dai cristiani, che alimentano il fenomeno degli sfollati interni e dei profughi. Lo evidenziano gli ultimi dati della World Watch List, il Rapporto sulla persecuzione anti-cristiana nel mondo pubblicato dalla ong Porte Aperte, l'ultima volta a gennaio 2019. Nel 2018, si legge nel Rapporto, sono saliti a 245 milioni i cristiani perseguitati nel mondo.

"Cinque anni fa, solo la Corea del Nord raggiungeva un livello di persecuzione dei cristiani definibile estremo. Oggi sono ben 11 i paesi ad ottenere un punteggio sufficiente per rientrare in questa categoria. In termini assoluti si perseguita i cristiani di più e in più luoghi rispetto all'anno precedente, e difficilmente nella storia dell'umanità troverete un altro periodo storico così oscuro per i cristiani. Se la richiesta di aiuto di oltre 245 milioni di persone non scuote le coscienze, allora siamo ufficialmente entrati nell'era della sordità emotiva", ha commentato il report Cristian Nani, direttore di Porte Aperte/Open Doors.

Sui 150 Paesi monitorati, 73 hanno mostrato un livello di persecuzione definibile alta, molto alta o estrema, mentre l'anno scorso erano 58. Tra i Paesi che rivelano una persecuzione definibile estrema, lo Sri Lanka è in 46/ma posizione. Al primo posto c'è la Corea del Nord, dove si stimano tra 50 e 70mila cristiani detenuti nei campi di lavoro per motivi legati alla loro fede. Anche Afghanistan (secondo posto), Somalia (terzo), Libia (quarto) si confermano tra i Paesi dove la vita per i cristiani è più difficile. 

Il rapporto riporta una mappa/classifica dei primi 50 paesi dove più si perseguitano i cristiani. I metodi di ricerca e i risultati sono sottoposti a revisione indipendente da parte dell'Istituto Internazionale per la Libertà Religiosa. Nella mappa consultabile nel sito porteaperteitalia.org, la mappa interattiva è divisa in 3 colori diversi per segnalare i 3 gradi dipersecuzione (in base al punteggio): Alta (41-60), Molto Alta (61-80), Estrema (81-100).

I sette Paesi "estremi", sono - oltre ai primi 4 già citati - Pakistan; Sudan; Eritrea; Yemen; Iran; India e Siria. In Asia, incluso il Medio Oriente, un cristiano su 3 è definibile perseguitato. 

Ad accelerare questo processo è il peggioramento della situazione in Cina, risalita al 27° e al primo posto per incarceramenti di cristiani, e in India, la quale dall'ascesa al potere del Primo Ministro Modi è stata scenario di un costante aggravamento della condizione dei cristiani, fino ad entrare nella top 10 della WWL 2019. 

A proposito di incarceramenti, registriamo 3.150 cristiani arrestati, condannati e detenuti senza processo, poco meno del doppio del 2017. Ricordiamo che questi sono dati di partenza verificati, dunque il sommerso, sia nell'ambito degli assassini che degli incarceramenti, potrebbe aumentarli di molto. Sono invece 1.847 le chiese (ed edifici cristiani direttamente collegati ad esse) attaccati nello stesso periodo, si legge nel rapporto.

Milena Castigli

Turchia. Le condizioni di salute dei prigionieri in sciopero della fame peggiorano

retekurdistan.it
Il co-portavoce dell'associazione per il sostegno ai prigionieri Tuay-Der, Abdulmenaf Kur, dichiara: "Le condizioni di salute dei prigionieri in sciopero della fame peggiorano costantemente. Bisogna fare qualcosa prima che dalle carceri escano morti".

Attualmente in Turchia e in Kurdistan del nord diverse migliaia di prigionieri sono in sciopero della fame per la revoca dell'isolamento del rappresentante curdo Öcalan, nell'ambito della protesta iniziata dalla politica curda Leyla Güven il 7 novembre 2018, quando anche lei si trovava ancora in carcere. Molti prigionieri hanno superato da tempo i 100 giorni, alcuni sono in sciopero addirittura da oltre 127 giorni.


Le loro condizioni di salute peggiorano a vista d'occhio. Gli scioperanti hanno dichiarato alle loro famiglie di voler scioperare fino a quando sarà rimosso l'isolamento di Öcalan. ANF ha parlato con il co-portavoce dell'associazione per la solidarietà e il sostegno alle famiglie die priogionieri (Tuay-Der), Abdulmenaf Kur. Riferisce che in particolare le madri dopo le visite in carcere sono sempre più infuriate di prima per il fatto che non viene fatto niente per poter mettere fine allo sciopero della fame.

Impedite le visite dei famigliari - Rispetto al comportamento dell'amministrazione delle carceri nei confronti degli scioperanti, il rappresentante dell'associazione afferma: "Appena pochi giorni fa i guardiani nel carcere di Kirikkale hanno spaccato gli armadi dei prigionieri. Applicano isolamento nell'isolamento. Quando le famiglie visitano i loro figli, viene detto che sono in corso misure disciplinari e vengono mandate via. Noi come associazione facciamo il possibile per trovare soluzioni per questi problemi. In particolare i parenti di famiglie che vivono a Amed vengono reclusi nelle province occidentali. Quando qualcuno si rivolge a noi, cerchiamo di portare i problemi soprattutto alla stampa. Poi cerchiamo di fargli avere aiuto e sostegno.

Le condizioni di salute dei prigionieri - "Le condizioni di salute di Ilhami Çinar nel carcere di Sakran a Izmir sono pessime", dichiara Kur. "Soffre di perdita della vista e sputa sangue. Abbiamo saputo che un prigioniero soffre di sanguinamenti addominali. Le famiglie ci hanno riferito che altri prigionieri perdono sangue dalla bocca e dal naso.

I prigionieri a Rize-Kalkandere hanno problemi di salute simili. Con ogni giorno peggiorano le loro condizioni di salute. Non riescono più a recarsi da sé alle visite. Ma si sforzano lo stesso di dare alle famiglie un'impressione di forza. Deve immediatamente essere fatto qualcosa per la soluzione di questi problemi. Ogni istituzione e ogni individuo che parla di diritto e giustizia deve capire che qui è in atto una grave ingiustizia".

Tutti devono essere vigili - Kur conclude con le parole: "Le famiglie sono molto sensibili rispetto a questo argomento. In parte ormai volevano partecipare loro stesse allo sciopero della fame fino alla morte. Ci dicono di essere pronte a fare tutto il necessario. Può essere che nei prossimi giorni entrino insieme in sciopero della fame. Hanno comunque già fatto uno sciopero della fame di tre giorni nella sede dell'ordine degli avvocati di Amed. Chi si considera un essere umano deve fare qualcosa. Non vogliamo che dalle carceri arrivino notizie di altre morti".

lunedì 22 aprile 2019

Nigeria - La violenza di genere e la povertà, spingono le giovani ragazze verso l’Italia per poi divenire schiave

Globalist
Ricerca di Actionaid, svolta insieme alla cooperativa BeFree. La violenza di genere è il fattore principale alla base dell’espatrio verso l’Italia, seguito dalla povertà.



È la violenza di genere il fattore principale che spinge le donne nigeriane a lasciare il proprio Paese per raggiungere l’Italia, diventando vittime di tratta a scopo di sfruttamento sessuale. Un vero e proprio “fattore di espulsione” che relega la donna ai margini della società nigeriana fino a costringerla alla partenza.
 


È quanto emerge dal rapporto “Mondi connessi. La migrazione femminile dalla Nigeria all’Italia e la sorte delle donne rimpatriate”, realizzato da ActionAid insieme a BeFree, cooperativa contro tratta, violenze e discriminazioni, analizzando 60 verbali di audizioni di donne nigeriane segnalate come presunte vittime di tratta presso la Commissione territoriale di Roma, tra il 2016 e il 2017, per il riconoscimento della protezione internazionale.

Nel 61% dei casi analizzati nello studio, la ragione principale dell’espatrio è proprio la violenza di genere (tra cui violenza dentro e fuori le mura domestiche e tentativi di matrimonio forzato). Il 33,3% delle donne fugge da situazioni di estrema povertà. Nel 66% dei casi sono donne con un’età compresa tra i 19 e i 24 anni e il loro arrivo in Italia è molto recente (l’86,7%), tra il 2015 e il 2017. Nella quasi totalità provengono dallo Stato di Edo, dove la tratta è un fenomeno strutturale ed endemico dovuto alle condizioni economiche, politiche e socio-culturali.

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Libia. Tripoli interrompe i soccorsi in mare per i migranti e usa le navi italiane per la guerra

Avvenire
Aveva ragione l’Organizzazione marittima internazionale (Imo) a esprimere «preoccupazione per la situazione in Libia». Seppure da Tripoli si rifiutano di ufficializzarlo, l’area di ricerca e soccorso libica da giorni non è più interamente operativa. Non bastasse, si paventa il rischio di una violazione dell’embargo Onu sulle armi da guerra a causa delle motovedette fornite dall’Italia e «modificate» dai militari della Tripolitania.

Da ieri vengono fatte circolare immagini di mitragliatori pesanti, fissati sulle torrette delle navi. Prima della consegna, però, i cantieri navali della Penisola a cui era stato affidato il rinnovamento, avevano completamente eliminato ogni arma dagli scafi, conformemente all’embargo stabilito dall’Onu e prorogato nel luglio 2018 per altri dodici mesi. 

Gli scatti vengono fatti circolare da quanti, proprio a Tripoli, vogliono smentire che la Guardia costiera non sia operativa. Un boomerang, perché secondo gli accordi le navi di fabbricazione italiana avrebbero dovuto essere usate solo per il pattugliamento marittimo e non per operazioni militari.

Una conferma indiretta arriva da Roma. «La prosecuzione del conflitto potrebbe distogliere la Guardia costiera libica – spiega un portavoce del ministero delle Infrastrutture – dalle attività di pattugliamento e intervento nella loro area Sar, per orientarsi su un altro genere di operazioni». A cosa si riferiscano lo spiegano proprio i post pubblicati in rete attraverso profili vicini all’esercito del presidente Serraj: militari in tenuta da combattimento sul ponte delle navi che mostrano mitragliatori fissati sulle torrette. In passato i guardacoste libici avevano usato sistemi analoghi, il 26 maggio 2017 addirittura sparando «per errore» contro una motovedetta italiana. Subito dopo i cannoncini furono rimossi e mai più visti a bordo, dove di tanto in tanto apparivano militari con mitragliatori a spalla.

«Non abbiamo notizie ufficiali circa una riduzione delle capacità Sar della Guardia costiera libica», spiegano dal ministero guidato da Danilo Toninelli dopo avere approfondito la questione anche con il Coordinamento delle operazioni di ricerca e soccorso (Mrcc) di Roma. La Libia, dunque, non ha ufficializzato all’Italia alcun abbandono della propria Sar.
Farlo, del resto, avrebbe comportato l’immediata cancellazione della registrazione della competenza libica, costringendo l’Italia e l’Europa a decidere se tornare a coprire, come avveniva in passato, quel tratto di Mediterraneo. 
Oppure abbandonare nel nulla i migranti che continuano a partire. Le autorità italiane, però, sembrano non fidarsi affatto dei colleghi tripolini, la cui operatività «è quella che sappiamo tutti», aggiungono dalle Infrastrutture. Perciò «la nostra attenzione sulla Sar libica è alta». 

Nel corso di alcune interviste era stato anche il ministro dell’Interno libico a confermare che «la Guardia costiera è focalizzata sulla protezione della popolazione e della Tripolitania e ha dovuto interrompere le operazioni di intercettazione degli immigrati».

Ci sono però anche difficoltà tecniche. «Negli ultimi giorni – spiega un operatore umanitario di un’agenzia internazionale – scarseggia il carburante e le navi della Guardia costiera sono a secco». Testimonianza confermata anche da alcuni addetti alla sicurezza di aziende italiane presenti nel porto di Tripoli.

Nello Scavo

#PrayForSriLanka

Blog Diritti Umani - Human Rights

domenica 21 aprile 2019

Guerra in Libia - Onu, 32.100 gli sfollati a Tripoli - Oms, 227 morti e 1.128 feriti da inizio ostilità

ANSA
E' salito a 32.100 il numero degli sfollati dall'inizio degli scontri armati a Tripoli e dintorni.
Lo scrive l'Ufficio Onu per gli Affari umanitari (Ocha) in un 'aggiornamento flash', precisando che scontri armati e bombardamenti indiscriminati continuano ad interessare diverse zone della capitale, tra cui Abuselim, AlHadba, Khallet Ferjan a sud e Ain Zara, Souq al-Juma'a e Tajoura, a est di Tripoli. Il numero delle vittime a Tripoli, secondo l'Organizzazione mondiale della sanità in Libia, è salito a 227, 1.128 i feriti.



Buona Pasqua a tutti i lettori del Blog Diritti Umani

Blog Diritti Umani - Human Rights

Buona Pasqua 
a tutti i lettori del Blog Diritti Umani 
con nel cuore le persone e i bambini colpiti 
dal ciclone "dimenticato" IDAI a Beira in Mozambico

 

venerdì 19 aprile 2019

Nigeria - Attacco a Kajuru, nello stato del Southern Kaduna. L'aiuto di Sant'Egidio agli sfollati.

santegidio.org
L'impegno della Comunità nel fornire beni di prima necessità alle vittime




Dopo il recente attacco a Kajuru, nello stato del Southern Kaduna in Nigeria, da parte degli estremisti Fulani, la Comunità di Sant'Egidio si è fatta vicina ai 283 sfollati che hanno trovato riparo nella vicina città di Kachia, donando beni di prima necessità. 

Queste persone si aggiungono agli sfollati interni che nel paese sono quasi 2 milioni, in particolare nella regione a Nord Est, per via del terrorismo. Da febbraio ad oggi, solo in questa regione, sono morte 200 persone.

In Nigeria, da secoli, c'è una lotta tra i pastori fulani di origine musulmana e i contadini a maggioranza cristiana, per il controllo delle risorse economiche come la terra e l’acqua. In più recentemente si sono aggiunti la desertificazione, che spinge a cercare terre verso Sud, e l'uso spregiudicato di armi, che diventano strumento per violenze e rapine. 

I contadini sono spesso vittime di questi attacchi e da alcuni anni il conflitto si è inasprito nella logica della vendetta. Solo nel 2018, infatti, circa 1.700 persone sono state uccise, più di quelle colpite da Boko Haram.

Le preghiere, gli aiuti e le visite della Comunità sono state accolte come un segno di speranza e di pace.

Guerra in Libia continua a scorrere sangue, colpiti i civili, sale a 205 il numero dei morti

Globalist
Il Consiglio di Sicurezza dell'Onu non è riuscito intanto a trovare il compromesso su una bozza di risoluzione elaborata dalla Gran Bretagna.


Terrore, sgomento e rabbia a Tripoli dopo la pioggia di missili lanciati da Khalifa Haftar che in piena notte hanno centrato un'area densamente popolata diAbu Slim, a ridosso del cuore della capitale, e che sono esplosi non troppo distanti dall'ospedale del municipio.
 

Il leader del governo di unità nazionale Fayez al Sarraj ha bollato il maresciallo come un "criminale di guerra", mentre da Bengasi le forze ostili all'intesa nazionale mediata dall'Onu hanno puntato l'indice contro i "terroristi", riferendosi ai difensori di Tripoli.
Dura la condanna dell'inviato dell'Onu in Libia, Ghassan Salamè: "L'uso indiscriminato di armi esplosive in aree civili costituisce un crimine di guerra, l'uccisione di persone innocenti è un'eclatante violazione". 

L'alto diplomatico, che giorni fa ha etichettato l'offensiva di Haftar come un "colpo di Stato" non ha per ora addossato la responsabilità al maresciallo, ma è certo che il drammatico bombardamento notturno sarà al centro del dibattito aperto al Consiglio di sicurezza dell'Onu. 

 Il bilancio annunciato dagli ospedali dove sono stati portati i cadaveri e ricoverati i feriti parla di almeno 7 morti, tra i quali cinque donne, e 35 feriti, diversi ancora in gravic ondizioni. Il drammatico prezzo di sangue pagato dalla popolazione è di oltre 200 vittime. E cresce di migliaia al giorno il numero degli sfollati, arrivato a 25.000 persone.

"Bombardare le aree residenziali è un crimine contro l'umanità: dimostra che Haftar è un criminale di guerra e sarà ricercato dalla giustizia a tutti i livelli", ha tuonato Sarrajda Abu Slim, dove si è recato poco dopo la pioggia di missili. 

"Presenteremo alla Cpi la documentazione per classificarlo come tale. Il Consiglio di sicurezza dell'Onu ha una responsabilità legale e umanitaria" e deve "perseguire" Haftar.
Da Bengasi invece le forze fedeli al maresciallo accusano i nemici di Tripoli, che in questa ricostruzione si sarebbero bombardati da soli per guadagnare il consenso dell'opinione pubblica internazionale.

Sui social media libici, intanto, è scoppiata la guerra delle fake news, che sembrano arrivare soprattutto dagli avversari di Tripoli. Oltre a improbabili ricostruzioni tecniche o militari sul bombardamento di Abu Slim, circolano ad esempio insistenti i fotomontaggi in cui i soldati dei Katiba fedeli all'unico governo riconosciuto dall'Onu nel Paese sono abbinati alla bandiera nera dell'Isis. 

Dinamiche che a Tripoli non sembrano aver fatto breccia, soprattutto a piazza dei Martiri, dove le lacrime dei parenti hanno accompagnato la preghiera di diverse decine di persone rimaste in silenzio davanti alle bare di alcune delle vittime. Poi è scoppiata la rabbia, gli slogan urlati contro il "criminale Haftar" e i suoi alleati e sostenitori stranieri come anche verso il Ciad, da cui sono partite nel corso dei mesi scorsi le milizie che hanno messo a ferro e fuoco il sud del Paese e che ora sarebbero state reclutate da Haftar - accusano a Tripoli - nella guerra contro il governo.

Per tutto il giorno le armi hanno taciuto sui fronti alla periferia della capitale. Ma il tramonto segna l'inizio di un'altra notte di apprensione in tutto l'ovest libico.