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venerdì 31 agosto 2018

Sud Sudan: Machar firma il trattato di pace per mettere fine alla guerra civile

Africa - Missione e cultura
Il leader dei ribelli sudsudanesi Riek Machar ha infine firmato l’accordo di pace con il governo di Juba. L’annuncio è stato dato ieri, giovedì 30 agosto, a Khartoum, capitale del Sudan, Paese che sta gestendo la mediazione tra le parti. 


L’accordo di pace era già stato approvato dalle autorità sudsudanesi. L’intesa dovrebbe porre fine alla guerra civile che ha insanguinato il paese dal 2013.

Martedì, Riek Machar si era rifiutato di firmare il documento. Il leader dei ribelli sudsudanesi e altri gruppi di opposizione avevano chiesto che le loro riserve fossero incluse nel testo finale. 

Una richiesta alla quale Riek Machar alla fine ha rinunciato, ha spiegato il ministro degli Esteri sudanese Al Dir Diri Ahmed. Secondo il ministro, la firma finale dell’accordo avverrà in un vertice Igad. La data di questo summit dovrebbe essere annunciata presto, dice.

Erdogan è pronto a reintrodurre la pena di morte in Turchia

Lettera 43
Secondo il quotidiano Cumhuriyet, è stato trovato l'accordo politico. La notizia, se confermata, allontanerebbe definitivamente l'Ue. Con cui Ankara dice di volere ricucire.
Una manifestazione a favore della pena di morte in Turchia, dopo il presunto golpe del 2016.
Torna ad alzarsi sulla Turchia lo spettro della pena di morte. Stando a quanto riportato il 28 agosto dal quotidiano turco di centrosinistra Cumhuriyet, il presidente Recep Tayyip Erdogan è arrivato a un accordo sulla reintroduzione della pena capitale con l'alleato Devlet Bahceli, leader del partito di estrema destra Partito del movimento nazionalista (Mhp). 

Abolita definitivamente nel 2004 nell'ambito dell'avvio del processo di adesione di Ankara all'Unione europea, la pena di morte sarebbe applicabile ai «casi di terrorismo» e a quelli di «omicidio di donne e bambini». 

Tra Erdogan e Bahceli, riporta la testata in circolazione più antica del Paese, i colloqui sul tema sono stati avviati alla fine di luglio. Se l'accordo si concretizzasse, pregiudicherebbe - una volta per tutte - l'ingresso di Ankara nell'Ue, già ora appeso a un filo a causa della deriva autoritaria del governo e di un'agenda definita dal presidente francese Emmanuel Macron «anti-Europea».

Il paradosso è che la notizia dell'intesa sulla pena di morte - incompatibile con l'adesione di un Paese alla Unione europea - arriva in un momento in cui la Turchia si dice intenzionata a riportare in carreggiata i colloqui con Bruxelles. 

Il 29 agosto, il ministro degli Esteri Mevlut Cavusoglu ha dichiarato che Ankara privilegerà le riforme utili ad accelerarne l'ingresso nell'Unione - come la liberalizzazione dei visti -, spiegando di aspettarsi «di vedere i risultati di tali sforzi». Cavusoglu ha annunciato la re-istituzione del comitato ad hoc Reform Action Group, "congelato" nel 2015, composto dai ministri di Interno e Giustizia e deputato a sorvegliare sul rispetto della road map. Il ministro degli Esteri ha anche citato, a dimostrazione delle buone intenzioni della Turchia, la cessazione annunciata nel luglio scorso dello stato di emergenza, attivato in seguito al presunto golpe del 2016 e, a dire il vero, diventato superfluo dopo che un decreto presidenziale dello scorso luglio ha stralciato 74 articoli della Carta e consegnato a Erdogan il potere di bypassare il parlamento.
La posizione ondivaga di erdogan sulla pena di morte
Il decreto presidenziale di luglio ha completato il percorso avviato con il referendum costituzionale dell'aprile del 2017, che ha ampliato i poteri di Erdogan ed è stato indetto e approvato grazie ai voti decisivi del partito di Bahceli. L'ex vicepremier, a capo dell'Mhp dal 1997, ha sempre fondato il proprio programma elettorale sulla legittimità dello strumento della pena di morte e potrebbe rivendicare come successo personale una sua reintroduzione. 

Erdogan, viceversa, all'inizio della propria carriera politica si schierò fermamente contro la pena capitale, salvo poi cambiare idea in tempi più recenti. Soprattutto, in seguito al presunto colpo di Stato di due anni fa, il presidente turco ha invocato il ritorno - via referendum - delle esecuzioni, specie per gli uomini dietro il golpe. «È il popolo a chiederla e noi non possiamo ignorare questa richiesta», disse, provocando la reazione della cancelliera tedesca Angela Merkel: «Un Paese che ha la pena di morte non può essere membro dell'Ue».

Ancora il primo agosto scorso, partecipando a una cerimonia funebre per la moglie di un soldato turco e suo figlio di 11 mesi uccisi da un ordigno attribuito dai media di Stato ai militandi curdi del Pkk, Erdogan ha dichiarato: «Fratelli miei, voi sapete quanto io sia sensibile alla pena di morte. Una volta che verrà votata dal parlamento, per me non ci saranno ostacoli ad approvarla. Lo farò». 

Ora la notizia dell'accordo politico. Che, se confermato, rappresenterebbe l'ultimo - e probabilmente definitivo - strappo con Bruxelles.

Caos Libia: ospedale, 26 morti per scontri fra milizie. Ci sono anche 75 feriti, 15 i civili uccisi

ANSA
E' salito a 26 morti, tra cui 15 civili, e a 75 feriti il bilancio di sangue degli scontri fra milizie avvenuti a Tripoli da lunedì. Lo riferisce un tweet dell'emittente libica Al Ahrar citando l'Ospedale da campo della capitale.


Tra i feriti, 51 sono civili. Il sito dell'emittente ha riferito inoltre che da ieri sera alle 23 é stato concordato un nuovo cessate-il-fuoco anche oggi se la calma è "precaria" e si sentono colpi di arma da fuoco "intermittenti". L'annuncio della presunta tregua, precisa il sito dell'emittente, è stato letto da esponenti del Comitato di dignitari della zona ovest della capitale, del Consiglio di riconciliazione di Tripoli e dai sindaci di alcune municipalità dell'area metropolitana.

Gli scontri erano iniziati quando la "Settima Brigata", una milizia basata Tarhuna e formalmente dipendente dal ministero della Difesa del governo di Accordo nazionale, si é mossa contro formazioni al momento fedeli al premier Fayez Al Sarraj accusandole di essere corrotte. 

Un precario cessate il fuoco annunciato lunedì era stato violato in maniera conclamata ieri, quando forze fedeli al governo di Sarraj riconosciuto dall'Onu hanno lanciato una controffensiva nei sobborghi meridionali di cui aveva preso il controllo la 7ma Brigata, che a sua volta aveva cercato di avanzare verso l'aeroporto.

giovedì 30 agosto 2018

I racconti dei salvati della Diciotti. I profughi eritrei: venduti, abusati e torturati

Avvenire
Dopo la paura e il disorientamento per quanto accaduto nei giorni di fermo a Catania, gli eritrei ospiti a Rocca di Papa ricostruiscono il loro viaggio attraverso l’Africa in balia dei trafficanti.


Non sono donne, sono ragazzine, hanno da 19 a 24 anni. Non sono uomini, sono ragazzi. Hanno volti scavati. Pelle ancora troppo lucida e graffiata da sale e sole. Colpiscono i loro polsi, su tutto: esili, troppo. Nell’ultimo anno mangiavano ogni due giorni un piatto di 'pasta' – a volerla definire così – da dividere in otto e bevevano un quarto di litro d’acqua a testa. Un ragazzo ha i documenti e una foto insieme alla moglie, è grosso e piazzato, adesso invece a soffiargli addosso lo faresti cadere.

Merce per trafficanti. Le loro famiglie, in Eritrea, hanno pagato 9.800 euro per farli scappare. Il viaggio, per molti di loro, è durato un anno e mezzo, sono stati venduti anche sei volte da bande ad altre bande. Molti hanno i corpi segnati. Sono i cento sbarcati sabato a tarda sera dalla 'Diciotti' e adesso accolti al 'Mondo migliore', centro a Rocca di Papa (ben lontano dal paese) gestito dalla cooperativa Auxilium. Novantadue ragazzi e otto ragazze. Quando sono arrivati, l’altra notte, l’emozione è stata forte e non soltanto per loro. Hanno sorriso e non lo facevano da chissà quanto tempo. A qualcuno le lacrime sono scese sul sorriso.

Una tonsillite. Li hanno visitati tutti, c’è voluto da mezzanotte alle nove e mezza di ieri mattina, la malattia più... grave trovata è una tonsillite con qualche placca. Nessuno ha malattie infettive, né croniche. A proposito, neppure alcuna scabbia. Piuttosto, tante pelli seccate dall’acqua salina e dal vento. E tutti molto provati, denutriti. Anemici. Un ragazzo è tornato ieri sera in infermeria, aveva tenuto nascosto un problema al ginocchio che ha da giorni, poi il dolore è cresciuto troppo e ha chiesto di nuovo del medico. Dovrebbe avere liquido nell’articolazione, forse deve aver sbattuto. O forse altro. Molti, fra loro, raccontano di torture.

Come sfingi. Sono nati tutti in Eritrea e tutti vengono dalla Libia, hanno vissuto con la violenza fuori e dentro. Le ragazze sono state stuprate e per sopravvivere si sono create una corazza. Sono diventate dure. Durissime. I loro volti sono quelli di sfingi, non mostrano emozioni, quasi non sorridono, quasi non guardano neppure negli occhi. Ciò che le ha sbranate l’hanno chiuso nell’angolo più intimo di se stesse, lo costringono a restar lì, muto. Si raggomitolano sulla sedia, le gambe tirate su, ginocchia strette al petto con le braccia intorno, dentro i pantaloni e le magliette finalmente puliti, finalmente dignitosi, che hanno distribuito la scorsa notte. A loro anche solamente tutto questo sembra vero a tratti.

L’applauso. Hanno anche finalmente riposato. In un letto. In una stanza. I fantasmi non li abbandonano ancora, lo confidano, la paura e l’ansia sono svanite. Sanno di essere in un Paese libero. Sanno di essere protetti. Hanno voluto fare un applauso, lungo, forte, agli italiani, all’Italia, al Papa, alla Chiesa, l’altra notte, poco dopo essere arrivati. Gli operatori di Auxilium li hanno abbracciati. Uno a uno. E ieri, quegli stessi operatori, avevano scritto sulle facce di non avere dormito, ma anche soddisfatta fierezza. Non è un caso se qui vengono più di duecento persone da Rocca di Papa a fare regolarmente volontariato con i migranti.

Psicologia e amici. Il tempo, qui, in questi giorni, sembra essere concetto in qualche modo relativo, elastico, amico. I cento della 'Diciotti' hanno fatto colazione, ieri mattina. Più tardi hanno pranzato. Spaesati, ancora quasi increduli, felici. Nel pomeriggio hanno iniziato i colloqui, singoli, con gli psicologi. Chiedono loro anche se hanno parenti o amici in Italia e dove, così da indirizzarli nella struttura diocesana più vicina che ha dato disponibilità all’accoglienza e sono tante, più dei posti necessari, da Sud a Nord, da una trentina di diocesi. Che i ragazzi raggiungeranno entro qualche giorno. Ogni spesa sarà coperta dalla Chiesa italiana, che già ha accolto nell’ultimo triennio oltre 26mila migranti e spesso in famiglie e parrocchie. Nel pomeriggio gli altri ospiti del centro, soprattutto nigeriani, malesi, ivoriani ed eritrei, hanno organizzato una partita di calcetto come benvenuto ai cento, che hanno apprezzato, ma non hanno giocato. Troppo stanchi, non ce l’avrebbero fatta.

Contrapposizione blanda. Nel frattempo, fuori dal centro 'Mondo Migliore', sulla via dei Laghi, andava in scena per un paio d’ore più una blanda contrapposizione, che vera e propria contestazione. Da una parte, sulla destra di fronte al cancello d’ingresso, una trentina di militanti di Casapound, sventolanti tricolori e bandiere con la tartaruga, arrivati dalla Capitale. Dall’altra, una quarantina di «antifascisti» dell’area di sinistra dalla stessa Rocca di Papa e altri paesini dei Castelli. Separati da un cordone di Polizia e Carabinieri in assetto antisommossa e da un paio di blindati. All’inizio le due 'parti' si sono mandate in coro a quel paese (eufemismo, ndr), poi se ne sono state più o meno tranquille a battibeccare di tanto in tanto. Risultato finale, nelle parole della Questura? «Nessuna tensione e criticità registrate nel corso della manifestazione. Le forze di polizia hanno garantito l’ordine ed il diritto di manifestare di entrambe le parti, benché l’iniziativa non fosse stata regolarmente preavvisata». Perciò i partecipanti «saranno segnalati alla competente autorità giudiziaria».

30agosto - Giornata mondiale delle persone scomparse: la storia di Laura che ritrova la nonna e la sorella grazie alla Croce Rossa

TPI News
Arrivata su un barcone insieme alla mamma Neima, che incinta di lei e con evidenti segni di tortura sul corpo tocca il suolo di Crotone e muore. Accolta da una famiglia di volontari della Croce Rossa Italiana. E ora tra le braccia della nonna e della sorella.



È la storia di Laura – un anno e poco più di vita – che non solo ce l’ha fatta a sopravvivere, grazie soprattutto a Domenica e Sergio Monteleone che le hanno spalancato le porte di casa, ma che ora ha potuto anche riabbracciare nonna Halima e la sorellina Sabrine, rintracciate grazie al servizio Restoring Family Links della CRI, scappate insieme dalla Somalia al Kenya a causa del conflitto in corso.

Nelle prossime settimane tutte e tre proseguiranno il viaggio verso la Svezia dove una zia ha offerto ospitalità e supporto.

Qui il video diffuso oggi dalla Croce Rossa, in occasione della Giornata mondiale delle persone scomparse che si celebra il 30 agosto di ogni anno.


Questa è solo una delle tante storie di cui ogni giorno si occupa la Croce Rossa Italiana, insieme con il Comitato internazionale e le altre Società Nazionali di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa.

Ogni anno infatti migliaia di famiglie vengono separate a causa di conflitti, disastri o migrazioni. Rintracciare queste persone e metterle in contatto con i propri familiari è l’obiettivo del Servizio Restoring Family Links: un lavoro possibile grazie alla rete internazionale della Croce Rossa e Mezzaluna Rossa che opera in tutto il mondo.

Grecia - L’allerta di Msf: «Minori tentano il suicidio nel campo di Moria»

Corriere della Sera
Tentare il suicidio a dieci anni. L’allerta, lanciata dagli operatori di Medici Senza Frontiere, arriva dal campo profughi di Moria, sull’isola di Lesvos, in Grecia, dove si trovano stipate almeno 8000 persone. 


A provocare l’aumento di casi di depressione, secondo quanto riporta la Bbc, oltre alle condizioni di vita terribili anche l’aumento delle violenze tra gruppi di rifugiati presenti nel campo, scontri con la polizia greca e violenze sessuali sulle donne. 

Nell’area principale del campo di Moria e Olive Grove c’è un servizio igienico funzionante ogni 72 persone, una doccia ogni 84. Numeri ben al di sotto degli standard umanitari raccomandati in situazioni di emergenza.

Già il mese scorso la ong avvertiva dell’ulteriore peggioramento delle condizioni del campo, considerato uno dei peggiori del mondo. «Il motivo per cui le condizioni psicologiche peggiorano così drasticamente a Lesbo è che queste persone provengono da esperienze traumatiche, raggiungono l’Europa sperando di trovare sicurezza e dignità, ma incontrano esattamente il contrario, ancora violenza e ancora condizioni inumane», dichiara Giovanna Bonvini, responsabile delle attività di salute mentale MSF nella clinica di Mitilene. 

«L’altro giorno un giovane uomo, vittima di violenza sessuale, è stato accompagnato alla nostra clinica da un amico nel pieno di un crollo psicotico. Presentava gravi disturbi da stress post-traumatico, aveva allucinazioni e flashback, sentiva rumori intorno a sé e non è riuscito a smettere di piangere nelle due ore di sessione con i nostri psicologi» aggiunge Bonvini di Msf. «Ha paura del buio e vive nel terrore di essere attaccato a Moria. All’inizio le équipe di MSF lo hanno curato con dei farmaci, ora dopo sessioni psicologiche intensive le sue condizioni sono stabili. Ma non farà molti progressi perché finché vivrà a Moria sarà bloccato in un ciclo di disperazione e angoscia».

A preoccupare anche le condizioni dei bambini e dei minori non accompagnati, ri-traumatizzati dalla loro esperienza di vita a Moria, come è emerso durante le terapie di gruppo di MSF rivolte a più piccoli residenti del campo. «Nelle ultime quattro settimane abbiamo registrato un aumento del numero di minori affetti da intensi attacchi di panico, pensieri suicidi e tentativi di togliersi la vita. Le terribili condizioni di vita e le violenze quotidiane nel campo di Moria hanno un impatto fortemente negativo sulla tenuta psicologica dei nostri pazienti», ha spiegato Alessandro Barberio di Msf.

Marta Serafini

mercoledì 29 agosto 2018

Australia, primo sbarco dal 2014: migranti dispersi in una zona invasa da coccodrilli

TPI News
Erano quattro anni che non si verificano sbarchi di profughi nel Paese.


In Australia è avvenuto il primo sbarco di migranti dal 2014. L’imbarcazione con a bordo i profughi proveniva dal Vietnam ed è riuscita a raggiungere le coste australiane.

I migranti sbarcati sono 15 e sono stati subito arrestati, ma la polizia sta cercando eventuali dispersi in una zona infestata dai coccodrilli. La protezione civile ha infatti diramato immediatamente l’allarme perché la foresta tropicale, vicino al fiume Daintree, è infestata dai coccodrilli.

Erano quattro anni che non si verificano sbarchi di migranti in Australia. Il modello “no way” che aveva azzerato gli arrivi nel Paese ha fallito.

L’Australia infatti, attraverso questa dura linea politica, intercetta navi cariche di migranti e di rifugiati, e poi li costringe a vivere in condizioni di prigionia nelle due isole del Pacifico, Nauru e di Manus.

Il modello australiano per la gestione dei migranti è stato più volte definito esempio virtuoso dal ministro dell’Interno italiano Matteo Salvini.

Nell’ultima diretta Facebook di Salvini del 22 agosto 2018, in merito al caso della nave militare Diciotti, il ministro dell’Interno ha ribadito questo suo apprezzamento.

Peter Dutton, ministro dell’Interno australiano, ha spiegato che i migranti sono approdati con un peschereccio a Port Douglas, nello stato del Queensland, nell’Australia nord orientale.

"In Romania prigioni-lager". E il detenuto resta a Torino, la Cassazione nega l'estradizione.

Corriere della Sera
La Cassazione nega l'estradizione di un 36enne condannato: a Bucarest c'è il "rischio di trattamenti inumani. La Corte d'Appello di Torino avrebbe dovuto verificare".


"Le condizioni carcerarie della Romania" sono caratterizzate da "gravi carenze sistemiche". E per i detenuti è "concreto" il rischio di un "trattamento inumano e degradante". Ecco perché, secondo la Cassazione, la Corte d'Appello di Torino non avrebbe dovuto "disporre la custodia di un cittadino romeno all'autorità giudiziaria di Bucarest" senza aver prima chiesto e ottenuto informazioni sulla situazione delle prigioni di quel Paese.

A rivolgersi ai giudici di Roma, proponendo ricorso contro una sentenza pronunciata a Torino il 22 maggio scorso, è stato un 36enne romeno detenuto alle Vallette e destinatario di un mandato di arresto europeo in seguito a una condanna a un anno di reclusione, subita in patria, per percosse, lesioni personali e violazione di domicilio. Ma il 36enne a Bucarest non vuol tornare. E la Cassazione gli ha dato ragione. I giudici piemontesi non avrebbero infatti "adeguatamente verificato le condizioni carcerarie alle quali l'uomo sarebbe stato sottoposto" nel proprio Paese.

"La Corte d'Appello di Torino - scrivono gli "ermellini" - non ha fatto corretta applicazione dei principi non avendo richiesto informazioni" specifiche, ma essendosi limitata a fare riferimento alle notizie "fornite dall'amministrazione penitenziaria romena per altri procedimenti riguardanti altri soggetti".

Le risposte giunte da Bucarest, in effetti, non chiariscono quale sia il numero di detenuti all'interno della struttura "ospitante", quali le condizioni igieniche di bagni e docce, nulla dicono sulla presenza di acqua calda e riscaldamento e sulle dimensioni e la pulizia delle celle. E neppure un accenno viene fatto alle modalità di somministrazione dei pasti.

Non è un mistero, infatti, che in alcune prigioni romene ci siano celle di 30 metri quadrati che ospitano fino a 20 detenuti, che per tutti loro ci sia solo un lavandino a disposizione, che agli ospiti della struttura siano concesse appena tre docce a settimane e per non più di cinque minuti. Insomma, un autentico inferno. 

E così, ai giudici torinesi spetterà adesso il compito di "assumere le informazioni sulle condizioni di detenzione" e poi "formulare un nuovo giudizio" relativamente alla richiesta giunta da Bucarest. Nel frattempo, del 36enne romeno si prenderà cura la nostra amministrazione penitenziaria.

Giovanni Falconieri

Migliaia in piazza a Milano, per un'#EuropaSenzaMuri. Insieme per contrastare il nuovo fascismo.

La Repubblica
Migliaia di persone al presidio contro il vertice in Prefettura. Alla manifestazione associazioni, movimenti e partiti politici: tra gli altri, Cgil, Anpi, Pd e Leu.

Tra la folla c’è anche una squadra di calcio, la «St Ambroeus Fc», è la prima formazione composta da rifugiati iscritta alla Figc. In 15 mila, secondo gli organizzatori, le persone che hanno risposto all’appello di ritrovarsi in piazza San Babila contro il summit tra il vicepremier e ministro dell’Interno, Matteo Salvini, e il premier ungherese Viktor Orbán. 

Alla manifestazione «Europa senza muri», organizzata dalle stesse realtà che a Milano hanno promosso la grande tavolata per l’integrazione che si è tenuta in città lo scorso giugno, hanno aderito anche partiti politici, come il Pd, Leu e Possibile, l’Anpi, i sindacati, a partire dalla Cgil, centri sociali, collettivi studenteschi, oltre ai Sentinelli di Milano. Piazza presidiata dalle forze dell’ordine, bloccato l’accesso a corso Monforte, dove si trova la sede della prefettura, da camionette della polizia e da agenti in tenuta antisommossa.

«No al Medioevo di Salvini»
«Siamo al fianco di chi in questi anni ha tenuto fede al progetto umanitario, alle Ong in mare. Ho letto quello che ha detto Salvini su di noi, dicendo che ci dovremmo vergognare. Secondo me è lui che si dovrebbe vergognare degli insulti che fa sulla storia di questo paese», ha detto l’assessore al Welafare del Comune di Milano, Pierfrancesco Majorino, dal palco della manifestazione di piazza San Babila. 
«Salvini usa l’immigrazione come arma di distrazione di massa. Noi l’Europa la vogliamo cambiare. Non ci faremo portare nel suo medioevo dei diritti», ha concluso Majorino.
«L’Ue cambi, ma no al nazionalismo»

martedì 28 agosto 2018

Arabia Saudita, per la prima volta un’attivista donna, Israa al-Ghomgham, rischia la pena di morte

TPI News
Israa al-Ghomgham si è battuta per i diritti umani della minoranza sciita. Ora un procuratore saudita ha chiesto la pena capitale per lei e per altri quattro attivisti.

Israa al-Ghomgham
L’attivista donna saudita Israa al-Ghomgham rischia la pena di morte – insieme a quattro uomini – per le sue battaglie in favore dei diritti umani, secondo quanto denunciato dall’ong Human rights watch (HRW). Si tratta della prima donna saudita a rischiare la pena capitale per questioni legate alla battaglia per i diritti.

Israa al-Ghomgham è sotto processo dinanzi a un tribunale speciale per il terrorismo, con accuse che includono “incitamento alla protesta”, “sostegno morale ai rivoltosi”, “ripresa e pubblicazione di filmati delle proteste sui social media” e “partecipazione alle proteste” nella regione di Qatif, dove si sono svolte delle manifestazioni da parte della minoranza sciita del paese.

HRW ha avvertito che ha questo potrebbe diventare “un pericoloso precedente per le altre donne attiviste attualmente in carcere” nel regno saudita.

Almeno 13 attivisti per i diritti umani e per i diritti delle donne sono stati arrestati dalla metà di maggio. Sono accusati di aver messo a rischio la sicurezza nazionale. Alcuni di loro sono stati rilasciati, ma altri sono ancora detenuti in assenta di accuse formali, come sottolinea la Bbc.

Al-Ghomgham è un’attivista donna saudita appartenente alla minoranza sciita. È nota per aver partecipato e documentato le proteste di massa iniziate nel 2011 per chiedere la fine della discriminazione sistematica che i cittadini sauditi affrontano nel paese a maggioranza sunnita.

La minoranza sciita, nel paese dominato dai sunniti, sostiene di subire discriminazioni nel campo dell’istruzione e dell’occupazione e ha accusato le autorità di bandire o interferire con le loro cerimonie religiose, accuse sempre respinte da Riad.

Le autorità hanno arrestato al-Ghomgham e suo marito in un raid notturno nella loro casa il 6 dicembre 2015 e da quel momento li hanno trattenuti nella prigione di al-Mabahith di Dammam.

Myanmar. L’Onu chiede di incriminare i generali birmani per il genocidio dei Rohingya

La Repubblica
Il rapporto della commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite i leader dell’esercito sono responsabili delle stragi e per questo andrebbero processati. 


Un rapporto della commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite mette alla gogna i generali birmani e chiede alla comunità internazionale di incriminare i leader dell’esercito per genocidio del popolo Rohingya, crimini contro l’umanità e crimini di guerra. 

Un’accusa formulata oggi dal consiglio Onu per i diritti umani dopo l’inchiesta disposta nel marzo 2017 proprio per indagare sulle stragi perpetrate contro la minoranza musulmana. 

Il principale responsabile, indica il rapporto, è il comandante in capo dell’esercito birmano Min Aung Hlaing insieme a cinque alti ufficiali: colpevoli di aver ordito l’offensiva in Myanmar che l’anno scorso prese di mira le comunità Rohingya uccidendo almeno 10 mila persone nelle stragi commesse negli stati di Rakhine, Kachin e Shan. 

“I principali generali birmani, tra cui il comandante in capo Min Aung Hlaing, devono essere indagati e perseguiti per genocidio, come pure per crimini contro l’umanità e crimini di guerra negli Stati di Rakhine, Kachin e Shan”, si legge nel rapporto della Missione del Consiglio per i diritti umani dell’Onu, istituito proprio per accertare i fatti accaduti in Myanmar l’anno scorso. Iniziati esattamente un anno fa, il 25 agosto 2017, dopo alcuni attacchi contro la polizia birmana causando le rappresaglie iniziate con la sanguinosa repressione nello Stato di Rakhine. 

Da allora migliaia di profughi sono scappati in Bangladesh a piedi o su imbarcazioni di fortuna. Molti hanno raccontato storie raccapriccianti di torture, violenze sessuali, villaggi incendiati. 

Le autorità birmane hanno sempre sostenuto che l’esercito ha colpito solo gli insorti e hanno fatto anche un accordo con il Bangladesh per rimpatriare i profughi: ma pochi si sono fidati tornando indietro dicendo che non lo faranno finché la loro sicurezza non sarà garantita. 

Eventi che hanno portato a dure critiche del premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi, che non ha condannato con abbastanza forza le violenze contro la minoranza musulmana

India. In Orissa i cristiani perseguitati da 10 anni.

Avvenire
Il 25 agosto del 2008 fu l’inizio di una campagna contro i cattolici: un centinaio i morti, 6.500 case devastate, 393 luoghi di culto distrutti, 56mila profughi.

La casa di una famiglia cattolica in Orissa devastata (Lapresse)
A dieci anni dalla persecuzione, l’India cristiana fatica ancora a comprendere fino in fondo ragioni e conseguenze degli eventi che, a partire dal 25 agosto 2008, hanno segnato profondamente i rapporti con la maggioranza induista. 

Vi erano stati, esatta un decennio fa, dei segnali come la serrata nel dicembre precedente dei commercianti indù per protesta contro le celebrazioni di fine anno che avevano costretto i cristiani a un Natale senza luci e senza canti per evitare provocazioni. Ma l’uccisione il 23 agosto del 2008 di Laxmanananda Saraswati, fautore di una campagna di conversione dei gruppi minoritari all’induismo, fu il pretesto per un’ondata di violenze senza precedenti che dal distretto di Kandhamal si estese a altre regioni dello Stato orientale di Orissa.

Quella di dieci anni fa non fu una violenza accesa da una rabbia improvvisa per la morte di Saraswati, ma – e a dimostrarlo sono la sua evoluzione, le testimonianze e anche buona parte delle inchieste ufficiali – una campagna pianificata con il proposito di rimuovere dal Kandhamal la presenza cristiana. Un esperimento, insomma, da replicare su scala più ampia e a tempo opportuno, ma in parte fallito per la reazione che non è stata solo delle istituzioni cristiane e della Chiesa cattolica, ma di molte forze che temono la deriva induista dell’intero Paese

Resta e pesa il ricordo del centinaio di morti, del terrore e delle devastazioni di 6.500 abitazioni e di 393 chiese e luoghi di preghiera, della fuga di 56mila persone in molti casi definitiva.

A dieci anni da quegli eventi, da quelle morti e da una frattura che fatica a ricomporsi tra la popolazione cristiana – e per estensione a tutta quella originaria e tribale – e gli indù che li assediano da lungo tempo anche sotto forma di pressione sulle terre e sulle risorse, il Kandhamal vive nel clima di due «cospirazioni» contrapposte.

Stefano Vecchia

lunedì 27 agosto 2018

Ricerca Ist. Cattaneo: In Italia la paura dello straniero fa sovrastimare di quattro volte la presenza degli immigrati

Globalist
L'errore di percezione è quello più alto tra tutti in Europa, caratterizzato dal maggior livello di ostilità verso l'immigrazione e le minoranze religiose. Lo dice una ricerca dell'Istituto Cattaneo.



In Europa gli italiani sono il popolo che sovrastima maggiormente la presenza di migranti extra-Ue sul proprio territorio. E l'Italia è anche il Paese collocato nella posizione più "estrema", caratterizzata dal maggior livello di ostilità verso l'immigrazione e le minoranze religiose.

Sono alcuni dei dati che emergono dallo studio "Immigrazione in Italia: tra realtà e percezione" condotto dall'Istituto Cattaneo. Secondo la ricerca a fronte di una percentuale del 7% di immigrati rispetto alla popolazione, gli italiani credono invece che i migranti siano ormai quasi il 25%, con uno scarto del 17,4% sul dato reale.

L'errore di percezione commesso dagli italiani, sottolinea lo studio, è quello più alto tra tutti i paesi dell'Unione europea e si manterrebbe ugualmente elevato anche se considerassimo la percentuale di tutti gli immigrati presenti in Italia che, secondo i dati delle Nazioni Unite, corrispondono attualmente al 10% della popolazione (cresciuti di oltre 6 punti percentuali rispetto al 2007).

Gli altri paesi che mostrano un "errore percettivo" di poco inferiore a quello italiano sono il Portogallo (+14,6 punti percentuali), la Spagna (+14,4) e il Regno Unito (+12,8). 

Al contrario, la differenza tra la percentuale di immigrati "reali" e "percepiti" è minima nei paesi nordici (Svezia +0,3; Danimarca +2,2; Finlandia +2,6) e in alcuni paesi dell'Europa centro-orientale (Estonia -1,1; Croazia +0,1). 

Gli errori di percezione sull'immigrazione in Europa, secondo l'Istituto Cattaneo, segnalano l'esistenza di una scarsa informazione dell'opinione pubblica su questa tematica. 

Però, aggiunge l'Istituto, l'errata stima sulla presenza di immigrati potrebbe derivare anche da pregiudizi - radicati negli elettori - che ne condizionano ex ante ogni valutazione. 

E così secondo la ricerca, chi per principio ha una posizione sfavorevole verso gli immigrati potrebbe essere indotto a ingigantire la portata del fenomeno oppure a giustificare il proprio atteggiamento in virtù di una percezione distorta della questione. 

Per analizzare nel dettaglio questa relazione è stato preso in considerazione l'indice NIM elaborato dal Pew Research Center, che misura il grado di sentimento nazionalista, anti-immigrati e contrario alle minoranze religiose in 15 nazioni europee. 

Questo indice ha un intervallo che va da 0 a 10, dove 0 corrisponde a un atteggiamento di estrema apertura verso le minoranze religiose e l'immigrazione in generale, mentre 10 indica il massimo livello di chiusura e ostilità verso immigrati o cittadini appartenenti ad altre religioni.
Anche in questo caso l'Italia si conferma - su entrambi i fronti - il paese collocato nella posizione più "estrema", caratterizzata dal maggior livello di ostilità verso l'immigrazione e le minoranze religiose. 

Naturalmente l'atteggiamento fortemente negativo verso l'immigrazione potrebbe essere la causa di una sovrastima degli immigrati presenti nella società, così come potrebbe esserne la conseguenza (chi ritiene che gli immigrati siano "troppi" potrebbe essere indotto a maturare un sentimento di ostilità verso gli stessi immigrati).

Reporter senza frontiere: liberare Nabil Rajab e 16 giornalisti detenuti in Bahrein

Reuters
L'organizzazione internazionale ha chiesto il rilascio dell'attivista per i diritti umani Nabil Rajab e di 16 giornalisti detenuti dal regime del Bahrein. 

Nabil Rajab
L'organizzazione internazionale "Reporters without borders" ha chiesto il rilascio dell'attivista per i diritti umani Nabil Rajab e di altri 16 giornalisti detenuti dal regime del Bahrein.

Reporter senza frontiere condannando l'arresto di Nabil Rajab,tramite un comunicato pubblicato sul proprio account Twitter,ha dichiarato: "Nabil Rajab è stato arrestato 6 mesi fa e condannato a cinque anni di prigione per il solo motivo di aver pubblicato dei post su Twitter,dopo che aveva appena finito di scontare un'altra pena di due anni".

L'ente internazionale ricordando anche la condanna da parte dell'Onu circa l'arresto di Rajab, ha chiesto l'immediato rilascio dell'attivista per i diritti umani. Nabil Rajab è stato condannato quest'estate a cinque anni di prigionia con l'accusa di aver criticato l'atteggiamento delle autorità del Bahrein circa la guerra in Yemen e la situazione dei diritti umani nel paese. Nel 2016 Rajab aveva subito un'altra condanna di due anni.

Migranti - Fuga in massa dal Venezuela: "è come nel Mediterraneo". Un milione in Colombia negli ultimi mesi

Corriere della Sera
A piedi verso Sud per migliaia di chilometri. Il Perù blinda la frontiera Allarme dell'Onu. Negli ultimi 15 mesi, oltre un milione di migranti in Colombia.


Fuggono con un borsone sottobraccio, un paio di felpe indossate una sopra l'altra, a volte un trolley per portar via un pezzo della propria casa, un pezzo di sé. Il resto rimane indietro, in Venezuela. A volte anche i figli. 


L'Onu stima che 2,3 milioni di venezuelani abbiano lasciato il Paese per sfuggire alla miseria. E l'esodo è sempre più impetuoso: negli ultimi 15 mesi in Colombia sono entrati oltre un milione di migranti, ogni giorno ne arrivano più di quattromila al confine con l'Ecuador e poi, dopo viaggi di settimane a piedi o in autostop, fino al Perù, il cui governo attende nelle prossime settimane l'afflusso di oltre 100.000 rifugiati, che porterebbe il numero complessivo nel Paese ad oltre mezzo milione.

Il Venezuela un tempo attirava con le sue ricchezze minerarie uomini e donne dei Paesi vicini, ora la storia s'è capovolta. Centinaia di migliaia di venezuelani, impoveriti dal crollo del prezzo del petrolio che il regime di Nicolás Maduro non ha saputo governare, bussano ai confini, disposti a lavorare per salari da fame. 

I valichi del Sudamerica cominciano però a chiudersi. Il Brasile ha schierato l'esercito nello stato di Roraima, l'Ecuador ha iniziato a respingere chi si presentava solo con la carta d'identità, subito seguito dal Perù. Da ieri frontiere blindate salvo a chi è in possesso del passaporto, che in Venezuela è una sorta di chimera. Per ottenerlo ci vogliono mesi e, soprattutto, 280 dollari: cifra insostenibile per gran parte dei venezuelani, benché quasi la metà dei fuggiaschi sia diplomato o laureato, fra di loro anche tanti medici e professori.

Sul ponte Simón Bolívar, porta d'ingresso alla Colombia, si registrano oltre 100.000 passaggi al giorno, quasi tutti in uscita dallo Stato-caserma di Maduro. La maggioranza si ferma, molti proseguono il viaggio verso gli altopiani andini, sfidando il freddo delle notti invernali. Le mete più ambite sono il Perù, l'economia più dinamica della regione con una crescita che supera il 4%, l'Argentina o il Cile.

Alla frontiera di Tulcán, tra Colombia e Ecuador, arrivano quasi tutti a piedi, dopo aver marciato per migliaia di chilometri. Pochissimi hanno i soldi per un autobus. Qualcuno si fa dare uno strappo da un autista. Come Francisco che ha visto quella bambina addormentata sul marciapiede e l'ha accompagnata, assieme ai genitori, fino al confine, prima che entrasse in vigore la legge del passaporto. Poi è tornato indietro: in una mattinata, ha fatto undici viaggi.

Per facilitare il passaggio verso sud, venerdì l'Ecuador ha sospeso l'obbligo del passaporto e ha organizzato decine di bus-navetta fino al valico di Tumbes, suscitando qualche malumore nel governo di Lima. Martedì prossimo i tre Paesi più coinvolti terranno un vertice di emergenza. "Abbiamo la necessità di coordinare le nostre politiche per affrontare insieme questo fenomeno senza precedenti", ha dichiarato Christian Kruger, responsabile dell'Agenzia per le migrazioni in Colombia. Il 17 e 18 settembre, invece, su invito dell'Ecuador, si riuniranno i ministri degli Esteri di quattordici Paesi latinoamericani, assieme ai rappresentanti dell'Unhcr, l'agenzia dell'Onu per i rifugiati, e dell'Organizzazione mondiale per le migrazioni, il cui rappresentante, Joel Millman, ha dichiarato: "È una crisi che abbiamo già visto in altre parti del mondo, in particolare nel Mediterraneo".

Come in Mediterraneo, l'esodo non si fermerà facilmente. Le riforme di Maduro non risolleveranno un'economia in agonia da cinque anni: dal 2013 ad oggi l'economia venezuelana — il Paese con le maggiori risorse petrolifere del mondo — si è contratta del 40 per cento e nel 2018, secondo la Cepal (Commissione economica dell'Onu), il Pil crollerà ancora del 12 per cento, nonostante il prezzo del petrolio greggio venezuelano (che fornisce il 96 per cento delle entrate nazionali) abbia registrato una lieve crescita. 

L'industria ormai opera al 30 per cento, l'inflazione secondo il Fondo monetario internazionale raggiungerà il milione per cento a fine anno. In un ristorante di Rumichaca, paesino di frontiera fra Colombia e Ecuador, ormai assediato dai migranti, s'incollano sui muri le banconote bolivares che ormai valgono niente, con varie scritte contro Maduro, "el huevòn" (la traduzione meno volgare è "idiota").

Sara Gandolfi

domenica 26 agosto 2018

Rotta balcanica: migranti derubati e picchiati dalla polizia croata e respinti in Bosnia

Blog Diritti Umani - Human Rights
Rifugiati che attraversano la Bosnia "picchiati e derubati dalla polizia croata"
I migranti parlano anche di telefoni danneggiati di essere stati umiliati,  ma le autorità croate negano le accuse.

Foto: Brigitta Mayer
I fortunati sono riusciti a fuggire con solo i loro telefoni cellulari distrutti. Quelli meno fortunati dicono di essere stati picchiati con bastoni, umiliati o attaccati con i cani non risparmiando neanche i bambini. Molti sostengono di essere stati derubati di ingenti somme di denaro.

Secondo la testimonianza dei migranti e dei gruppi di monitoraggio, le forze di polizia croate si stanno svolgendo in una sistematica campagna di violenza e di saccheggio contro migranti e rifugiati che tentano di trovare una strada verso l'Europa occidentale attraverso il paese.

Il Guardian ha parlato con dozzine di uomini nelle città di frontiera bosniache di Velika Kladuša e Bihać, che hanno dichiarato di essere stati vittime di violenze per mano della polizia croata dopo l'ingresso nel paese. 

La maggior parte delle donne intervistate ha dichiarato di non essere state prese di mira, ma di aver assistito ad attacchi nei confronti di uomini nei loro gruppi, anche se una minoranza di donne ha dichiarato di essere stata picchiata o perquisita.

ES

Fonte: 
The Guardian - Refugees crossing from Bosnia 'beaten and robbed by Croatian police'

Yemen - Continua la strage di bambini. Altri 22 uccisi dal raid della coalizione saudita

Corriere della Sera
I bambini stavano cercando i fuggire da una zona di combattimento: è il secondo raid in due settimane, nel primo ne erano morti 40


Almeno 22 bambini sono stati uccisi da un raid aereo della coalizione a guida saudita in Yemen, mentre cercavano di fuggire da una zona di combattimento. Lo ha fatto sapere Mark Lowcock, sottosegretario generale per gli affari umanitari delle Nazioni unite, condannando gli attacchi contro i civili. 


Anche quattro donne sono stati uccise dai raid. Il segretario generale delle Nazioni Uniti, Antonio Guterres, chiede un’indagine indipendente sull’accaduto: serve «un’indagine imparziale, indipendente e rapida».

Questa è la seconda volta in due settimane che un raid aereo della coalizione guidata dai sauditi causa decine di vittime civili», ha sottolineato il rappresentante Onu. Il 9 agosto un attacco della coalizione araba contro la roccaforte dei ribelli sciiti Houthi di Saada, nello Yemen settentrionale, ha provocato la morte di 40 bambini, sollevando un’ondata di critiche e la richiesta di un’indagine indipendente.

Decine di arresti al raduno delle madri dei desaparecidos turchi scomparsi negli anni '90

Il Manifesto
Turchia. Lacrimogeni e proiettili di gomma contro l'iniziativa, giunta al 700° appuntamento. Quasi 800 i civili scomparsi tra il 1992 e il 1996, nelle mani di esercito e polizia.



La polizia turca ha brutalmente attaccato con gas lacrimogeni e proiettili di plastica i manifestanti dell’iniziativa Madri del Sabato, riuniti per la 700° volta ieri a Galatasaray, nel cuore storico di Istanbul.

L’iniziativa prende il nome dalla presenza di numerose madri di persone scomparse nei durissimi anni ’90, epoca di repressione in Turchia, in particolare nel sud-est curdo sottoposto a perenne stato di emergenza e teatro di operazioni militari su larga scala.

Gli attivisti si ritrovano ogni sabato in piazza Galatasaray e siedono a terra, reggendo in mano cartelli con le foto di tutti quei parenti e amici svaniti nel nulla mentre erano in custodia delle forze dell’ordine.

Chiedono alle autorità che venga fatta chiarezza e giustizia sulla sorte dei loro cari, talvolta semplicemente che sia restituito il corpo del loro caro. Ma ieri la polizia ha arrestato decine di manifestanti, anche di età veneranda, inclusi numerosi giornalisti.

Tra questi Faruk Eren, presidente del sindacato dei giornalisti Disk: manette alle mani, Eren ha dichiarato alla polizia di «cercare suo fratello», Hayrettin Eren, scomparso il 21 novembre 1980 dopo essere stato fermato dalla polizia. Presenti tra i manifestanti anche i deputati Hdp Garo Paylan, Huda Kaya e Ahmet Sik, che ha affrontato gli ufficiali di polizia e cercato di impedire gli arresti.

Le persone arrestate sono state prima trasferite in ospedale per gli esami di rito e poi interrogati dagli ufficiali di polizia, prima di essere rilasciati nelle tarde ore della giornata.

Il primo raduno delle Madri del Sabato fu tenuto il 27 maggio 1995. Proseguì ogni settimana fino al 1999, quando la violenza della polizia e gli arresti continui dei partecipanti imposero un’interruzione lunga dieci anni, fino al 31 gennaio 2009, anno in cui i sit-in poterono riprendere.

Centinaia di persone (792 secondo l’Associazione turca per i diritti umani Ihd) furono arrestate tra il 1992 e il 1996, fagocitate dalla macchina repressiva dello Stato, spesso senza lasciare più traccia. Ieri le autorità sono tornate ai metodi di 20 anni fa.

Il governatore di Istanbul aveva disposto il bando della manifestazione, adducendo i soliti motivi di sicurezza pubblica, ormai una costante dal 2015. Gli organizzatori non si erano lasciati intimidire e avevano risposto attraverso il proprio profilo Twitter: «Ci siamo seduti in questa piazza, in ogni contesto, per 699 volte. Ci siederemo anche questa settimana».

L’iniziativa aveva avuto particolare risonanza anche grazie alla campagna Twitter lanciata attraverso l’hashtag #BeniBulAnne (TrovamiMamma), con grande partecipazione nella rete e sui circuiti dell’informazione alternativa turca. Per l’occasione, il regista turco Alper Kizilboga aveva sbloccato sulla piattaforma Vimeo la visione del suo cortometraggio Cumartesi Dusu, dedicato alla storia di una delle Madri del Sabato.

Tra gli obiettivi dell’organizzazione non ci sono soltanto ricordare i propri cari e rivendicare giustizia in loro nome: l’obiettivo è diffondere nella società la consapevolezza delle conseguenze del militarismo e della violenza di Stato in Turchia.

Si chiede l’apertura al pubblico degli archivi di Stato, per far luce sulle centinaia di sparizioni attribuite alle forze militari e di polizia. Si fa pressione per favorire l’introduzione di cambiamenti alla legislazione penale turca in tema di omicidi e sequestri politici. Si chiede infine che il paese ratifichi la Convenzione internazionale per la protezione di tutte le persone dalla sparizione forzata.

Dimitri Bettoni

sabato 25 agosto 2018

La fine delle ostilità. Etiopia ed Eritrea, una pace che può cambiare l'Africa

Avvenire
All’inizio dell’anno nessuno avrebbe immaginato che il 2018 sarebbe stato un tempo di cambiamenti così radicali nelle relazioni tra Etiopia ed Eritrea e più in generale nella cornice geopolitica del Corno d’Africa. 

Infatti, lo scorso 8 luglio, è stata firmata una dichiarazione che pone fine allo 'stato di guerra' tra i due Paesi. A siglarla sono stati Abiy Ahmed, nuovo primo ministro etiope e il presidente eritreo, Isaias Afwerki. 

Il disgelo nelle relazioni diplomatiche era iniziato lo scorso aprile con l’insediamento, ad Addis Abeba, del nuovo premier Abiy che ha subito espresso un indirizzo politico all’insegna del dialogo, non solo con le opposizioni interne, ma anche con la vicina Eritrea. 

La sorpresa è comunque stata ufficializzata a giugno quando Abiy ha dichiarato che il suo esecutivo avrebbe rinunciato alle rivendicazioni territoriali in Eritrea, quelle che hanno rappresentato l’oggetto del contenzioso sfociato, il 1 maggio del 1998, nella sanguinosa guerra fratricida tra i due Paesi. 

La riapertura della rotta aerea diretta tra le due capitali, Addis Abeba e Asmara, del commercio bilaterale e delle rispettive ambasciate, sono segnali incoraggianti.


Giulio Albanese

Il "Tavolo Asilo Nazionale" - Diciotti, c'è un'Italia che s'indigna.

Famiglia Cristiana
Una lettera aperta di 19 associazioni aderenti al "Tavolo Asilo Nazionale" chiede al governo italiano di autorizzare subito lo sbarco dei 150 migranti, "trattenuti illegalmente" sulla nave.


Montano la protesta e l’indignazione contro la volontà del governo italiano di trattenere ancora i 150 migranti a bordo della nave Diociotti, attraccata al porto di Catania da quattro giorni. “Le associazioni del Tavolo Asilo Nazionale (A Buon Diritto, ACLI, ActionAid, Amnesty International Italia, ARCI, ASGI, Casa dei Diritti Sociali, Caritas Italiana, Centro Astalli, CIR, Comunità di S.Egidio, CNCA, Emergency, Médecins du Monde Missione Italia, Mediterranean Hope (FCEI), MEDU, Save The Children Italia, Senza Confine, Oxfam Italia) hanno firmato una lettera aperta in cui “chiedono con urgenza al Governo italiano di autorizzare lo sbarco delle 150 persone ancora a bordo della nave Diciotti”. 

Così recita il documento, che continua: 
“I migranti soccorsi dalla nave italiana senza ulteriori indugi devono essere messi in condizione di ricevere assistenza adeguata e di beneficiare di tutte le garanzie definite dalla nostra Costituzione, dalla normativa nazionale, comunitaria e dalle convenzioni internazionali, a prescindere dai tempi e dagli esiti della contrattazione politica tra gli Stati Europei.Le risposte dell’Unione europea alla gestione dei flussi migratori, compresi quelli dei minorenni, nel Mediterraneo devono essere richieste nelle opportune sedi e non attraverso il trattenimento illegale di persone a bordo di una nave”.
Evidentemente la “linea dura” sui migranti scelta del vicepremier Salvini, confermata da Di Maio e dal presidente del consiglio Conte, che secondo alcuni commentatori politici piacerebbe agli italiani, non è invece condivisa da molti. 

Si può pensare in buona fede che il "caso Diciotti" possa essere usato dal governo per far la voce grossa in Europa per ottenere la redistribuzione dei migranti; e si può anche essere liberi di pubblicare sondaggi filogovernativi riguardo a questa scelta (come quello del quotidiano "Libero", diretto da Vittorio Feltri, che attribuisce a Salvini preferenze bulgare tra i cattolci) ; mai però dimenticare di ancorarsi alla realtà dei fatti. 

E la realtà dei fatti dice che c’è un’Italia che si addolora e s’indigna nel vedere usati esseri umani, ridotti allo stremo delle forze da un lungo, travagliato calvario, come merce di patteggiamento politico. Qualunque buon fine possa esserci.

venerdì 24 agosto 2018

Una volontaria racconta i soccorsi ai minori della Diciotti: “Abbiamo accolto 27 scheletrini”

Terres des Hommes
Riceviamo da una nostra operatrice presente allo sbarco dei minori ieri sera al porto di Catania questa nota, che volentieri pubblichiamo:


“Ho trascorso nei centri di accoglienza per minori stranieri un po’ meno di 1000 giorni della mia vita negli ultimi quattro anni. Amo il mio lavoro e sono felice perché mi permette di avviare uno scambio, di entrare in relazione, di creare uno spazio di cura, di scoprire cose di sé e dell’altro.

Ieri però non sono stata così felice di presenziare a questo sbarco autorizzato su Facebook alle ore 18 circa. Vedendo quel video ho allertato i colleghi e mi sono messa la t-shirt bianca d’ordinanza, quella di Terre des Hommes, ancor prima di essere allertata.

Abbiamo accolto 27 scheletrini, il più magro sarà stato un po’ più basso di me e sarà pesato una trentina di chili, la gamba con lo stesso diametro del mio polso. Abbiamo accolto 27 scheletrini, uno era tutto e solo orecchie. Abbiamo accolto 27 scheletrini, uno non riusciva a camminare perché era pieno di dolori. Abbiamo accolto 27 scheletrini, tre avevano delle bende lerce al polso, al piede e al braccio sparato. Abbiamo accolto 27 scheletrini, comprese due splendide fanciulle.

Mentre li guardavo, seduti a terra e delimitati da transenne, mi sentivo la ricca e bianca signora europea che si reca la domenica pomeriggio allo zoo umano, così, per vedere l’effetto che fa.

Il mio è un lavoro fatto di parole, come gli essere umani. Ieri sera eravamo in grosse difficoltà con la lingua, i fanciulli erano tutti eritrei tranne una ragazzina somala. Il mediatore non era potuto essere presente. A volte non restava che guardarci, domandarci con gli occhi “Ma quindi come va, come ti senti?”. “Ma tu chi sei? Perché mi guardi? Che vorresti dirmi?”.

E mentre ci scambiavamo questi sguardi io pensavo, a dispetto della incredibile magrezza, della scabbia, delle orecchie a sventola, dei capelli arruffati di salsedine, delle bende lerce, del braccio sparato… pensavo che erano proprio belli. Mi ripetevo questo, “Che belli che siete”, e posso solo immaginare la mia faccia inebetita di fronte a tanta resilienza e, soprattutto, al permanere della capacità di fidarsi dell’altro. E in quei frangenti mi sono chiesta perché così tante persone siano arrabbiate e di cosa abbiano paura. Di due occhi che ti sorridono? Di due orecchie a sventola enormi? Di quattro ricci arruffati? Forse, del fatto che loro hanno perso la capacità di fidarsi dell’altro, forse perché non ce l’hanno mai avuta?

Sono stati trasferiti tutti nel corso della nottata e mentre ero per strada e me ne tornavo a casa, orecchie a sventola mi ha riconosciuta dal pulmino su cui si trovava e mi ha salutato. L’ho salutato pure io.

Penso che i sorrisi degli occhi, i saluti, il riconoscersi, valgano come un’altra bella storia. Come pure il non avere paura. Quella è la storia più bella, è la storia delle possibilità. Dei momenti in cui ciò che sarà non c’è ancora, se non nella tua testa, e sei pronto a lasciarti perturbare. Del tempo in cui tutto può ancora accadere se gli dai il giusto spazio. Dei giorni in cui non ti fai prendere dalla paura e rimani aperto a ciò che arriva. Di piccoli attimi di felicità.

Ricordo di Jerry Essan Masslo morto 29 anni fa di razzismo in Italia. Allora ci fu profondo sdegno e una forte reazione nel paese.

Blog Diritti Umani - Human Rights
L'uccisione a Villa Literno di Jerry Essan Masslo, rifugiato sudafricano, divenne simbolo della violenza razziale nel nostro Paese, tanto da segnare il dibattito politico in corso negli anni '90
Jerry Essan Masslo
Arrivato in Italia nel 1988 dal Sudafrica dove esisteva ancora l'apartheid, Jerry Essan Masslo ebbe riconosciuto lo status di rifugiato solo dalle Nazioni Unite e non dall'Italia (all'epoca era previsto solo per i migranti dell’Europa dell’Est). Dopo essere stato accolto alla Tenda di Abramo, centro della Comunità di Sant'Egidio a Roma, dove frequentò la Scuola di lingua italiana, la mensa della Comunità e la Chiesa battista, Jerry Masllo nell'estate del 1989 andò a Villa Literno per la raccolta dei pomodori. Qui la sera tra il 24 e il 25 agosto, nella casupola abbandonata dove viveva con i suoi amici, si oppose all'aggressione di alcuni giovani che volevano derubarli, e per questo fu sparato e ucciso. 

Il funerale di Jerry Essan Masslo a Villa Literno
"La sua morte sconvolge l'Italia - ricorda Daniela Pompei della Comunità di Sant’Egidio - Per la prima volta i funerali di un nero sono trasmessi dalla Rai: alle esequie sono presenti il vicepresidente del Consiglio dei ministri Claudio Martelli e altre autorità. Le associazioni e i sindacati si mobilitano. Nell’ottobre del 1989 si svolge a Roma la prima grande manifestazione antirazzista con la partecipazione di oltre 150 mila persone". 

Oggi che l'Europa è meta di tanti uomini, donne e bambini che fuggono da guerra e persecuzioni da tanti angoli della terra, Jerry Masslo con la sua morte contribuì in modo rilevante a cambiare la legislazione italiana nel merito e iniziò a far capire all'opinione pubblica i problemi che si portavano con se i profughi che chiedono ospitalità in terre che vivono nella pace e nella sicurezza.

Dopo la morte di Jerry Masllo la legge Martelli, tra le altre cose, eliminò la clausola geografica e in Italia si poté chiedere asilo provenendo da qualsiasi Paese del mondo. Sabato sarà ricordato in una Villa Literno .

Ma oggi si cerca di rinnegare questi passi avanti della coscienza civile e della legislazione che l'Italia ha fatto in questi anni.
Questo anniversario si colloca nei giorni in cui in Italia è ancora aperta la vicenda della nave Diciotti: 150 rifugiati che sono già su una nave italiana, in un porto italiano non vengono fatti scendere, continuando ad aumentare le loro sofferenze, usati come ostaggi in una vicenda politica che non li riguarda. 
In tanti attoniti guardano e non riescono a reagire con un sobbalzo di coscienza civile per ridare all'Italia la legalità e la dignità di un paese che rispetta e difende i diritti di ogni uomo e donna a partire dai più fragili.

Ezio Savasta

giovedì 23 agosto 2018

Immigrazione - Il modello Australia a cui Salvini si ispira: 119 bambini migranti detenuti sull'isola di Nauru

Il Giornale
Le organizzazioni per i diritti umani hanno lanciato l'allarme. Da anni centinaia di bambini e minori richiedenti asilo sono costretti alla detenzione forzata sull'isola di Nauru, nel Pacifico. 


A far scattare le accuse di violazione dei diritti umani sarebbero le pessime condizioni di salute e gli squallidi trattamenti umanitari riservati ai 119 bambini costretti sull'isola oceanica. Per l'amministratore delegato di World Vision Australia, Claire Rogers, i bambini detenuti a Nauru sono senza speranza: "Molti di loro hanno vissuto per anni in tendopoli, sono stati separati da familiari stretti e non hanno un posto sicuro dove giocare o accedere a cure mediche accettabili".

Il centro di Nauru non é nuovo agli scandali. Giá in passato era stato perseguitato dalle accuse di abusi e traumi diffusi ai danni di donne e bambini. E anche le Nazioni Uniti avevano espresso preoccupazione e risentimento per i trattamenti riservati ai minori. 

La struttura sull'isola di Nauru é stata istituita nel 2001 per arginare il problema dell'immigrazione clandestina in Australia e ridurre il numero di profughi e richiedenti asilo. Le organizzazioni per i diritti umani hanno denunciato lo squallore diffuso e le pessime condizioni igienico-sanitarie in cui sarebbero costretti a vivere 240 richiedenti asilo in totale, di cui 119 bambini e minori.

Il malessere diffuso nel centro di detenzione sull'isola di Nauru avrebbero costretto un ragazzo iraniano di 12 anni ad avviare uno sciopero della fame. La protesta del giovane va avanti da circa venti giorni e ha attirato su di sé l'attenzione dei media di tutto il mondo, tanto da far scattare un movimento online: #KidsOffNauru ("Via i bambini da Nauru").

Il portavoce della Coalizione australiana per i Rifugiati, Ian Rintoul, ha ammesso che il dodicenne é in gravissime condizioni di salute avrebbe bisogno di cure mediche urgenti. La richiesta al governo australiano é che i centinaia di minorenni detenuti sull'isola di Nauru vengano trasferiti entro novembre in Australia o in luoghi più adatti.

Sara Giuliani

Chi sono i "prigionieri politici" nelle carceri russe

euronews.com
Da 100 giorni il regista ucraino Oleg Sentsov, 42 anni, critico dell'occupazione russa in Crimea, è in sciopero della fame e non ha intenzione di interromperlo finché non saranno liberati tutti i prigionieri politici ucraini. Sentsov era stato arrestato il 24 maggio scorso e condannato a 20 anni di prigione con accusa di terrorismo.


Ma chi sono questi prigionieri politici di cui chiede il rilascio? Lo stesso Sensov è uno di loro, considerato tale da numerose ong tra cui Amnesty e l'organizzazione russa per i diritti umani, Memorial. Secondo quest'ultima, ci sono almeno 183 persone dietro le sbarre nelle carceri russe per motivi politici e religiosi. Sergei Davidis, a capo del programma di supporto per i prigionieri politici, ha detto a euronews che il tipo di persecuzione più diffusa nella Federazione Russa è quella religiosa.

I testimoni di Geova - Nel maggio 2017 le autorità russe hanno arrestato Dennis Christensen, testimone di Geova e cittadino danese. Il 46enne emigrato è stato fermato nella città di Orel, nella Russia occidentale, mentre leggeva la Bibbia insieme ad altri credenti. Nell'aprile 2017 la Corte suprema russa ha bollato i Testimoni di Geova come "organizzazione estremista". La confessione cristiana è perseguitata nel paese e sono ben 22 "studenti biblici" sono ora in carcere per "aver compiuto attività estremiste". Agli arresti domiciliari si trovano altri 9 di loro. Christensen è in carcere da circa un anno e mezzo, ma l'Associazione Europea dei Testimoni di Geova ha detto a euronews che non si fa illusioni, crede che la vicenda non avrà un esito positivo. "Ciò che sta accadendo nella Federazione russa si chiama persecuzione religiosa", ha detto un rappresentante della comunità, Yaroslav Sivulsky. "Osserviamo il rifiuto totale della Federazione russa di rispettare i diritti umani, ovvero la libertà di coscienza e di religione", ha aggiunto Sivulsky. Dopo la decisione della Corte Suprema russa, sono stati chiusi circa 400 filiali regionali dell'organizzazione religiosa e il suo bureau principale a San Pietroburgo. Human Rights Watch ha lanciato un appello per il rilascio di Christensen.

Contattato da euronews, Paul Gillies, portavoce internazionale dei Testimoni di Geova presso la sede centrale di New York, ha così commentato: "Anche se per noi è impossibile prevedere se Dennis Christensen sarà rilasciato o meno, confidiamo nel fatto che non è colpevole di alcun reato legato alla sua attività di Testimone di Geova. Il fatto è che la sentenza della Corte Suprema ha liquidato solo le nostre entità giuridiche, le autorità russe hanno sostenuto che i singoli Testimoni di Geova sono liberi di praticare la loro fede".

I tartari della Crimea - Nell'inverno del 2016, sei persone, tra cui l'attivista per i diritti umani dei tartari di Crimea, Emir-Usain Kuku, sono state arrestate a causa della loro appartenenza all'organizzazione politico-religiosa Hizb ut-Tahrir, che dal 2003 è stata riconosciuta come organizzazione terroristica in Russia. Il gruppo è vietato in Russia ma è legale in Ucraina. Secondo l'accusa, il gruppo si sarebbe riunito per studiare a tenuto riunioni in cui hanno studiato la letteratura di Hizb ut-Tahrir, discusso le relazioni tra Russia e Ucraina e pianificato di rovesciare l'attuale governo.
Naira Davlashyan

Da fantasmi a cadaveri: le sparizioni forzate (desaparecidos) nella Siria di Assad

Corriere della Sera
"Ci vorranno anni, forse non succederà mai. Ma io devo combattere perché i responsabili di questo massacro paghino per i loro delitti". Anwar Al Bunni sa bene cosa significa essere un prigioniero di Assad. Nel maggio 2006 è stato in carcere per aver firmato un documento in cui si chiedeva al regime una riforma democratica.

Una manifestazione a Londra dell’associazione siriana Families for Freedom. (Bissan Fakih per Families for Freedom)
Una volta uscito di prigione nel 2011 la situazione era peggiorata ulteriormente. Era iniziata la primavera araba e il governo di Damasco stava per torturare e uccidere migliaia di persone, soprattutto giovani. Oggi che sono passati più di otto anni, Al Bunni non riesce a dimenticare. "Molti di loro non sono più tornati ma io ho ancora davanti agli occhi tutti i loro volti", dice al Corriere della Sera.

Al Bunni è un avvocato e con l'aiuto della ong tedesca European Center for Consitution and Human Right si batte per assicurare alla giustizia i colpevoli delle sparizioni forzate. Di recente il governo siriano ha notificato la morte di alcuni attivisti morti in stato di detenzione a Damasco. 


E ci si aspetta che a breve faccia lo stesso per Aleppo. Ma Al Bunni sa bene quanto questa sia solo la punta dell'iceberg e che il regime non ammetterà mai le sue colpe. Assad e i suoi uomini si sentono al sicuro da ogni tipo di condanna.

"La Siria non ha firmato il trattato di Roma che crea la Corte Penale Internazionale dell'Aja, dunque nessun siriano può essere processato di fronte a questo tribunale. Ma se un domani qualche gerarca di Assad o il presidente stesso dovessero lasciare la Siria, beh allora le cose potrebbero cambiare", spiega ancora il legale. Affinché però ci sia una possibilità di assicurare queste persone alla giustizia sono necessari dei mandati di cattura internazionali. Non tutti i Paesi permettono di spiccare mandati per persone che abbiamo compiuto crimini al di fuori della loro giurisdizioni. Ma ci sono delle eccezioni: la Germania è uno di questi. E proprio il giugno scorso la giustizia tedesca ha emesso un mandato per Jamil Hassan, capo dei servizi segreti di Damasco, accusato di "aver ucciso centinaia di persone tra il 2011 e il 2013".

Tra le denunce che Al Bunni ha presentato per arrivare a questo importante risultato c'è quella di Yazan Awad, 30 anni. Nel 2011 Awad era uno studente figlio di una ricca famiglia di Damasco. Lui e i suoi amici scendevano spesso a manifestare in piazza. Fino a quando viene arrestato. Le forze di sicurezza lo portano alla base di Al Mezzeh. Al Mezzeh è un nome che tutti i siriani conoscono e temono: già Assad padre la usava per rinchiuderci gli oppositori. Il carcere venne dismesso ma nell'adiacente base militare le torture sono continuate. "Mi hanno frustato, volevano sapere i nomi dei miei compagni poi mi hanno sbattuto in una cella con altre 180 persone", racconta al Corriere della Sera Awad. Il peggio doveva ancora venire. "Al 36esimo giorno mi hanno messo una pistola in bocca e mi hanno obbligato a recitare la shadada (la dichiarazione di fede musulmana)".

Awad rivede alcuni dei suoi amici in carcere, alcuni di loro oggi non ci sono più. "Io non ho mai incontrato Jamil Hassan ma alcuni di loro sì. Ed è stato terrificante". Grazie all'intervento della famiglia Awad viene liberato al 137esimo giorno e con l'aiuto di Al Bunni i suoi genitori riescono a farlo scappare in Germania. "Allora non lo capivo ma se fossi rimasto sarei morto".

In quegli stessi mesi, come dimostrerà nel 2015 un approfondito rapporto di Human Rights Watch basato sulle immagini fornite da Caesar, il disertore del regime che ha fornito al mondo le prove delle torture, migliaia di giovani sono scomparsi. Queste fotografie, in cui vengono mostrati i cadaveri identificati da un numero, rappresentano uno sforzo burocratico da parte del governo siriano di tenere il conto dei morti nelle prigioni. Caesar, il nome è di fantasia, era incaricato di documentare i decessi a partire dal 2011. Quando il disertore porta fuori le prove (oltre 55 mila fotografie e documenti), finalmente ciò che era un sospetto diventa una certezza. Le immagini dei corpi mostrano segni di sevizie terribili. È un pugno nello stomaco per l'opinione pubblica. Quelle foto, che vi mostriamo, fanno il giro del mondo.

È sulla base di queste prove che Al Bunni e i suoi assistenti riescono a imbastire i casi. E non a caso hanno deciso di lavorare in Germania. Qui a causa del conflitto ha trovato rifugio un milione di siriani. Oltre alla ong tedesca, sono tante le associazioni per i diritti umani che si sono messe al lavoro in questi anni per fornire le prove dei massacri. Tra queste la Commission for International Justice and Accountability (CIJA), in italiano "Commissione per la Giustizia e la Responsabilità Internazionale", che ha svelato la massiccia documentazione finora raccolta sulle torture e le esecuzioni di massa ordinate personalmente anche da Assad.

A riportarne i dettagli è un'accurata inchiesta di Ben Taub per il New Yorker, che ha avuto accesso agli archivi della Commissione. Il direttore e fondatore della CIJA è William Wiley, canadese che ha lavorato in diversi tribunali internazionali di alto profilo, mentre il Capo del team investigativo è l'avvocato Chris Engels.

La Commissione lavora da anni per raccogliere elementi e documenti sui crimini di guerra e contro l'umanità compiuti in Siria, avvalendosi della collaborazione di siriani che rischiano la vita per far uscire all'esterno migliaia di documenti dei vari servizi di sicurezza, d'intelligence e di polizia. Il risultato è un documento legale di 400 pagine in cui parla di "un record di torture sponsorizzate dallo Stato che è quasi inimmaginabile nel suo scopo e nella sua crudeltà".
Marta Serafini


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