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martedì 30 giugno 2020

Colombia, strage di difensori dei diritti umani. 100 uccisi nel 2020, 28 durante la quarantena

Corriere della Sera
Dall’inizio del 2020 in Colombia sono stati uccisi 100 difensori dei diritti umani, 28 dei quali dopo il 25 marzo, quando il governo ha imposto la quarantena obbligatoria.


Nel paese sudamericano i difensori dei diritti umani sono obiettivi facili da colpire. La pandemia ha solo peggiorato la situazione. Chi vuole eliminarli sa dove trovarli.


Danelly Estupiñán è una delle attiviste più note dell’Associazione delle comunità nere del dipartimento di Buenaventura, in Colombia.

L’anno scorso ha trascorso un po’ di tempo è stata fuori dalla Colombia, quando era diventato pubblico il piano di ucciderla, poi è rientrata per difendere la sua comunità di discendenti africani, contrastare il progetto di ampliamento del porto di Buenaventura, che significherebbe altri sgomberi forzati.

Tornata a Buenaventura, Danelly è stata sorvegliata, minacciata, fotografata quando usciva da casa.

Così, poco prima dell’annuncio della quarantena, si è trasferita in un luogo in cui non conosce nessuno e spera non sia riconosciuta da nessuno.

E intanto si pone delle domande: come resistere in questo clima d’impunità? Come difendere i diritti collettivi? Come proteggere i frutti e i raccolti? Come far rispettare il diritto di partecipare alle decisioni riguardanti le tue terre, quando sei in esilio interno e hai paura di essere assassinata ogni volta che esce di casa?

(Questo articolo riprende un testo scritto da Danelly per la rivista colombiana Semana)

Mozambico - Il dramma dei profughi che fuggono dai violenti attacchi al nord del paese

www.santegidio.org
Continua il dramma dei profughi del Mozambico che fuggono dagli attacchi violenti al nord del paese. Negli ultimi giorni è stata colpita la città di Mocimboa da Praia. 


Gli abitanti che sono riusciti a sfuggire agli attacchi stanno cercando di mettersi in salvo anche via mare. Ogni mezzo è utilizzato per sfuggire alla violenza anche rischiando la vita su mezzi precari e affollati.


Sant'Egidio, insieme alla diocesi di Pemba, sta distribuendo aiuti agli sfollati che aumentano di giorno in giorno.


venerdì 26 giugno 2020

Unicef: in Yemen la peggiore crisi umanitaria del mondo. Milioni di bambini rischiano di morire

ANSAmed
Milioni di bambini yemeniti hanno un "disperato bisogno di aiuto umanitario". E' l'allarme lanciato oggi dall'agenzia dell'Onu per l'infanzia (Unicef), secondo cui quattro minori yemeniti su cinque rischiano di non superare l'esame per la sopravvivenza in quella che l'Onu definisce la peggiore crisi umanitaria del mondo.


Lo Yemen è da anni martoriato da una guerra intestina che ha poi assunto dimensione regionale col coinvolgimento di Arabia Saudita e Iran e che si inserisce in un contesto di endemica povertà e penuria di risorse alimentari.

Secondo Unicef, "decine di migliaia di bambini sono morti per cause dirette o indirette del conflitto, come malattie e malnutrizione". Degli oltre 12 milioni di minori yemeniti, circa due milioni hanno abbandonato le loro case e vivono come sfollati in condizioni più che precarie.

"Il numero dei bambini malnutriti può raggiungere i due milioni e 400mila entro la fine dell'anno, ovvero con un incremento del 20%", si legge nel documento dell'Unicef.
La crisi del coronavirus ha esasperato le già disperate condizioni dei servizi sanitari nel Paese, separato da più di 30 line di conflitto tra le diverse parti armate. (ANSAmed).

sabato 20 giugno 2020

Giornata mondiale rifugiati. Dal piccolo Alan agli hotspot, la crisi dell'accoglienza.

Avvenire
A 5 anni dall'esplosione della questione rifugiati in Europa, cosa è cambiato e cosa resta da fare. Un'inchiesta di "Avvenire", "La Croix" e "Nederlands Dagblad".


Sono passati cinque anni dal 2015, entrato nell’immaginario collettivo come l’anno della “crisi dei rifugiati”. In quell’anno lo Stato islamico avanzava in Iraq. In Siria la guerra civile aveva sradicato milioni di persone. Il 20 aprile 800 persone erano affondate nel Mediterraneo, in acque libiche ma non lontano dall’isola di Lampedusa. Un fatto purtroppo non nuovo, che riattualizzava la memoria del naufragio del 3 ottobre 2013, avvenuto a poche miglia dal porto di Lampedusa, con un bilancio di 368 morti accertati e circa 20 dispersi.

A fine anno le vittime accertate sarebbero state 3.328, più del doppio del 2014 (1.456) e meno che nel 2016 (4.481). Cominceranno a calare nel 2017 (3.552), poi ancora nel 2018 (2.275) e nel 2019 (1.283), a fronte però di una drastica contrazione degli arrivi, a seguito degli accordi con i paesi di transito: Turchia, Niger, Libia. La pericolosità delle traversate infatti è aumentata: la stima è di una vita persa ogni 60 arrivi riusciti, secondo il Dossier Idos 2019.
Le parole di Merkel
Le tragedie delle migrazioni non avvenivano però soltanto in mare. Il 28 agosto 2015 le autorità austriache scoprirono i corpi di 71 persone in un camion frigorifero abbandonato in prossimità del confine ungherese. Si trattava del drammatico epilogo di un ramo del flusso di centinaia di migliaia di persone, che soprattutto dalla Siria cercavano di raggiungere il territorio dell’Unione Europea via terra, attraverso la cosiddetta “rotta balcanica”, passando attraverso Turchia e Grecia. L’Ungheria era il primo Paese dell’Ue che incontravano sul loro cammino, e lì venivano ammassati in campi di detenzione e sostanzialmente abbandonati, per effetto del regolamento di Dublino III.
Il 29 agosto i richiedenti asilo accampati alla stazione Keleti di Budapest decisero di intraprendere una “marcia della speranza” verso il confine austriaco, nel tentativo di raggiungere la Germania. Il 31 agosto la cancelliera Angela Merkel, durante la visita a un centro di accoglienza per rifugiati a Dresda, pronunciò le famose parole «Abbiamo gestito così tanti problemi, gestiremo anche questa situazione»: una dichiarazione che segnò l’inizio di una svolta nella politica tedesca in materia.
Il dramma di Alan
Pochi giorni dopo, il 2 settembre, la foto del piccolo Alan Kurdi annegato durante la traversata dell’Egeo, scosse per un attimo la coscienza dell’opinione pubblica europea. Sull’onda di quel sentimento, il 5 settembre Angela Merkel decise di sospendere l’applicazione del regolamento di Dublino III. Bus e treni furono mandati a raccogliere i profughi in Ungheria, per trasferirli in Germania attraverso l’Austria. Nelle stazioni che attraversavano, i rifugiati erano accolti con applausi, fiori, musica, doni di varia natura. Per la prima volta dal 1989 i confini dell’Ue venivano aperti a masse di non-cittadini, anche se in maniera selettiva: ai siriani arrivati via terra in cerca di asilo. Si formò in quella circostanza un movimento spontaneo di accoglienza che si stima abbia mobilitato tra il 10 e il 20% della popolazione adulta tedesca, per la maggioranza mai prima coinvolta in iniziative analoghe ed estranea ai circuiti della solidarietà organizzata.
L’invasione che non c’è
Secondo i dati Eurostat, i paesi dell’Ue hanno ricevuto complessivamente 1,3 milioni di domande di asilo nel 2015 e 1,2 milioni nel 2016. La Germania ne ha catalizzato la maggior parte. L’incremento rispetto agli anni precedenti è stato sostanzioso, ma anche in quegli anni oltre l’80% dei richiedenti asilo ha continuato ad essere accolto in Paesi in via di sviluppo, principalmente quelli confinanti con le aree di crisi. Solo un’ottica eurocentrica ha potuto alimentare la leggenda di un’Europa invasa dai rifugiati: di una “crisi dei rifugiati”. L’unico Paese dell’Ue che compare tra i primi dieci del mondo per numero di rifugiati registrati è appunto la Germania: 1,1 milioni di persone accolte e 370.000 domande pendenti (fine 2018). L’apertura tedesca tuttavia rivelò le profonde spaccature politiche all’interno dell’Ue sull’argomento. Alcuni governi cominciarono ad adottare posizioni di rifiuto e ostilità nei confronti dei rifugiati che premevano ai confini. Il 15 settembre 2015 il primo ministro ungherese Viktor Orban decise di chiudere il confine con la Serbia. In ottobre le autorità ungheresi completarono la costruzione di una barriera al confine con la Croazia. A novembre fu la volta del governo austriaco, che intraprese la costruzione di un muro lungo il confine con la Slovenia, mentre il governo sloveno fortificava con filo spinato il confine con la Croazia.
La nascita degli hotspot
La svolta nei sentimenti di molta parte dell’opinione pubblica dei paesi dell’Ue si verificò bruscamente nel mese di novembre, a seguito degli attacchi terroristici di Parigi. Un altro scossone per la cultura dell’accoglienza derivò dai fatti di Colonia nella notte di Capodanno: aggressioni e molestie sessuali attribuite a uomini di origine araba. Il collegamento tra musulmani, terrorismo e stupri alimentò un’ondata di paura e rifiuto nei confronti dei profughi.
Nel frattempo era però maturata a Bruxelles una decisione politica carica di conseguenze: l’istituzione degli hotspot nei punti d’ingresso, sostanzialmente Italia e Grecia, con l’obbligo di identificazione dei nuovi arrivati anche mediante il prelievo forzoso delle impronte digitali. In cambio, la commissione Ue presieduta da Juncker proponeva una ripartizione dei richiedenti asilo tra i Paesi membri. Mentre tuttavia gli hotspot sono entrati rapidamente a regime, la successiva redistribuzione è andata a rilento, o non è avvenuta affatto. Il gruppo di Visegrad (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia) la respingeva sdegnosamente, altri con toni più felpati (Danimarca, Regno Unito, Irlanda), altri ancora facevano mostra di accettarla ma non l’attuavano, o in minima parte. Quando infine la misura è stata ingloriosamente archiviata, soltanto 13.000 richiedenti asilo erano stati trasferiti dall’Italia e poco più di 20.000 dalla Grecia.
Tensioni xenofobe
La politica dell’asilo non scritta da parte italiana e greca consisteva nell’agevolare il transito verso l’interno dell’Ue dei profughi, che perlopiù non chiedevano di meglio. Gli hotspot, rafforzati dai controlli di frontiera introdotti dagli Stati confinanti, hanno fatto impennare le richieste di asilo nei Paesi di primo ingresso. Sul numero delle persone sbarcate dal mare, nel 2014 solo il 37% avevano presentato domanda di asilo in Italia (66.066); nel 2015 il dato sale al 56% (103.792), poi al 68% nel 2016 (176.554), finendo per superare il 100% nel 2017, pur calando in valore assoluto (119.310), a causa dei respingimenti da altri Paesi Ue e degli ingressi via terra dal confine orientale. L’accresciuto impegno nell’accoglienza e la visibilità dei nuovi arrivati contribuisce ad alimentare nel Paese un’ondata xenofoba: mentre complessivamente l’immigrazione è stazionaria, l’insediamento dei rifugiati (circa 300.000 a fine 2018, su circa 6 milioni d’immigrati: dati Unhcr) viene presentato come un’invasione. Mentre l’immigrazione, in Italia come nel resto dell’Europa occidentale, è prevalentemente femminile ed europea, un diffuso senso comune gonfiato da una propaganda ostile identifica gli immigrati con i giovani maschi africani arrivati dal mare.
I decreti «sicurezza»

Già nel 2016, nel frattempo, il problema degli ingressi di profughi principalmente siriani attraverso la Turchia veniva risolto con l’accordo del 18 marzo con Ankara. In cambio di ingenti aiuti economici e concessioni politiche, tra cui la tolleranza non scritta per la svolta autoritaria di Erdogan, la Turchia assumeva il ruolo di gendarme esterno delle frontiere europee. Nel 2017 anche il corridoio del Mediterraneo centrale veniva chiuso grazie agli accordi di Marco Minniti, allora ministro degli Interni italiano, con il governo e con le milizie locali libiche. In questo caso, anche personaggi ambigui e coinvolti nel traffico di esseri umani erano ingaggiati nel controllo dei transiti. I decreti sicurezza di Matteo Salvini, nel 2018-2019, hanno completato il quadro, spingendo più avanti una scelta di contrasto ai salvataggi in mare che ha condotto a criminalizzare le Ong e a scaccciarle dal Mediterraneo. Già nel 2017 il numero delle richieste di asilo nell’Ue scendeva a 700.000, per poi continuare a calare negli anni successivi: 646.000 nel 2018, di cui circa 60.000 in Italia; 613.000 nel 2019: 142.000 in Germania, 35.000 in Italia.
L’identità tradita
Soprattutto, le politiche europee sono riuscite a schiacciare gli ingressi dal mare: erano stati 1.015.000 nel 2015, si sono ridotti a 114.000 nel 2018. Quasi il 90% in meno. Per l’Italia il dato è sceso a 23.000. Il fantasma dell’invasione si dissocia sempre più dai dati effettivi, a cui la svolta sovranista del nostro Paese ha solo impresso un supplemento di disumanità. Più che di “crisi dei rifugiati” occorre dunque parlare di “crisi dell’accoglienza dei rifugiati”. Nel 1999-2000 un’Ue più piccola dell’attuale accolse un numero di richiedenti asilo dal Kossovo pari a quello del 2015. Ma 15 anni dopo opinioni pubbliche impaurite e governi incerti, pressati dal nazional-populismo in crescita, hanno scelto di disattendere progressivamente i propri impegni umanitari. Come hanno mostrato i violenti respingimenti di inizio marzo al confine greco-turco, hanno deciso di trincerarsi in una fortezza Europa sempre più lontana dai propri principi fondativi.

Maurizio Ambrosini sabato 20 giugno 2020 

Questa analisi è pubblicata in contemporane da La Croix, Avvenire e Nederlands Dagblad

martedì 16 giugno 2020

Pakistan - Bambini schiavi. Zohra, bambina di 9 anni uccisa non è un caso isolato

Famiglia Cristiana
Zohra, la bimba pakistana di otto anni uccisa dai suoi padroni, non è un caso isolato. Sono milioni i minori ridotti in schiavitù, condizioni spaventose, come emerge nel racconto di alcuni piccoli profughi approdati in Italia: "Lavoravo tutto il giorno a 5 anni, il mio padrone mi picchiava con una spranga se sbagliavo qualcosa".


L’ omicidio della piccola Zohra Shah, la bambina pakistana di 8 anni uccisa dai suoi “padroni”nel Punjab
( a est del paese, ai confini con l’ India) perché “colpevole di aver fatto fuggire i pappagalli” accende i riflettori sul dramma dei piccoli schiavi invisibili. 

Un dramma immane che nel mondo colpisce circa 250 milioni di bambini tra i cinque e i 14 anni, impiegati nelle peggiori forme di sfruttamento, compreso quello sessuale. «In Europa, una vittima su quattro di tratta e di sfruttamento è minorenne e l’ obiettivo principale dei trafficanti di esseri umani è lo sfruttamento sessuale», si legge nel rapporto di Save the Children del luglio dello scorso anno, una rivelazione agghiacciante che si conferma nella testimonianza dei profughi sbarcati in Italia alla ricerca di più diritti e dignità. 

Alcuni li ho incontrati personalmente nel corso della mia attività di operatrice sociale. Erano piccoli e smarriti, anche se felici di essere scampati ad un incubo. Li guardavo con occhi di madre. Dopo averli ascoltati, spesso, la sera, raccoglievo le loro parole in un taccuino, cercando di fissare su carta quei ricordi che mi si erano conficcati nella memoria e un giorno sarebbero diventati testimonianze, grida di dolore, atti d’ accusa verso un’ umanità incapace di liberarsi dalla schiavitù infantile oltre le soglie del Duemila.

Katia Fitermann

domenica 14 giugno 2020

Appello Urgente per salvare dall'esecuzione Ruben Gutierrez, la sua esecuzione è prevista per il 16 giugno 2020 in Texas

www.santegidio.org
Dopo lo stato del Missouri anche il Texas intende ignorare la pausa imposta dall'emergenza Covid-19.


Ripartiamo con la mobilitazione per salvare Ruben insieme ai suoi tanti amici di penna

Anche il Texas, purtroppo, intende ignorare la pausa imposta dall’emergenza Covid-19 ed eseguire il prossimo 16 giugno la condanna a morte di Ruben Gutierrez, che da anni corrisponde regolarmente con amici di penna attraverso la Comunità di Sant’Egidio.

Non ci rassegniamo e vogliamo ripartire con una forte mobilitazione, condividendo un appello al governatore del Texas: non c’è giustizia togliendo la vita!


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venerdì 12 giugno 2020

Migranti - Tunisia nuova rotta della morte degli innocenti

Globalist
Il tragico naufragio al largo Sfax è il segno dell'esistenza di una rotta ai confini con la Libia. Tanti sono subsahariani ma tanti i tunisini che fuggono dalla crisi economica.
Chissà se qualcuno, in Parlamento, si inginocchierà anche per loro. In segno di rispetto, di dolore, ed anche di assunzione di responsabilità. Perché il drammatico naufragio di fronte alle coste tunisine, al largo della città di Sfax - nel quale decine di migranti risultano morti e dispersi, nell'affondamento di una precaria imbarcazione con cui volevano attraversare il Mediterraneo e arrivare in Europa, questa ennesima tragedia del mare, - racconta di una umanità che fugge non dal Coronavirus, o non solo da esso, ma da guerre dimenticate, da disastri ambientali, da una povertà assoluta.

È salito a 39 il numero dei cadaveri recuperati dalla Marina tunisina nell'area del mare situata tra El Louza (Jebeniana) e Kraten al largo delle isole Kerkennah, teatro del naufragio di un barcone con 53 migranti subsahariani a bordo, partito da Sfax nella notte tra il 4 ed il 5 giugno e diretto verso le coste italiane. Lo rende noto il sito informativo tunisie numerique precisando che i corpi rinvenuti appartengono a 22 donne, 9 uomini, 3 bambini, di vari paesi dell'Africa sub-sahariana e un tunisino originario di Sfax, che sarebbe stato al timone del peschereccio affondato. Ma il bilancio delle vittime potrebbe aumentare.

Unità della Marina militare e della Guardia costiera con l'ausilio dei sommozzatori delle forze armate e della protezione civile sono ancora al lavoro nel tratto di mare interessato dal naufragio alla ricerca di altri dispersi.

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Martedì la Guardia costiera di Tunisi aveva recuperato 20 corpi, ma circolava già la notizia, riportata da media tunisini, che lo scorso fine settimana 53 persone avevano preso il largo nel tentativo di raggiungere l'Italia.

giovedì 11 giugno 2020

Migranti - La nave Mare Jonio, sequestrata per il "Decreti Sicurezza", restituita ai volontari, torna in mare per i soccorsi nel Mediterraneo

Avvenire
Dopo i mesi di stop a causa dei decreti sicurezza riparte la missione umanitaria con bandiera italiana.
Il vescovo di Mazara del Vallo, Domenico Mogavero, prima della partenza della Mare Jonio (Foto Avvenire)
È salpata nella notte da Trapani la nave Mare Jonio in direzione dell'area di ricerca e soccorso libiche. Torna così in mare l'unico vascello umanitario a bandiera italiana per l'ottava missione. 

Dopo aver soccorso centinaia di persone, dopo tanti mesi di ingiusto sequestro prima e di stop forzato dovuto all’emergenza Covid-19. Mediterranea torna in mare per monitorare e denunciare le violazioni dei diritti umani che continuamente avvengono nel Mediterraneo centrale", si legge in una nota dell'organizzazione umanitaria.

"Profughi di guerra e vittime di torture vengono lasciati morire nel silenzio o vengono catturati con il coordinamento dei governi europei e riportati alle torture dei campi di detenzione libici. Mare Jonio sta tornando dove deve essere, dove c’è bisogno di aiuto e di umanità", spiega Alessandra Sciurba, presidente di Mediterranea.

Negli ultimi mesi si sono moltiplicate le partenze proprio quando in mare non c'era alcuna nave di salvataggio. La riprova che i trafficanti non tengono conto delle Ong e che il "pull factor", il cosiddetto effetto di attrazione delle navi di soccorso, semplicemente è stato un'invenzione per colpire le attività umanitarie.

Nello scorso autunno, dopo avere salvato un centinaio di persone in quella che è passata alle cronache come " la nave dei bambini", Mare Jonio era stata sequestrata e multata per effetto dei decreti sicurezza dell'ex ministro Salvini e che restano ancora in vigore. Successivamente la nave è stata restituita ai volontari che grazie alla raccolta fondi hanno potuto svolgere importanti interventi di aggiornamento. La nave ha infatti ottenuto dal Registro navale Italiano (Rina) la certificazione Sar (Search and rescue) che riconosce la capacità operativa per la ricerca e il soccorso in mare.

"L’equipaggio di mare sa di poter contare sul sostegno dei tanti equipaggi di terra che, in Italia e nel mondo, sostengono la sua missione", dicono da Mediterranea.

Da aprile vi sono state almeno due stragi di migranti, lasciati alla deriva e senza alcun soccorso nonostante fossero stati segnalati da Alarm Phone e individuati da aerei europei di Frontex. Altri naufragi sarebbero avvenuti di fronte alla Libia ma senza alcuna comunicazione da parte delle autorità di Tripoli.

Il capomissione a bordo è Luca Casarini. A causa delle norme sul distanziamento previsto dall'emergenza Covid l'equipaggio è stato ridotto e la nave attrezzata per affrontare anche l'eventuale quarantena che verrebbe imposta ai naufraghi e ai volontari di Mediterranea.

Nello Scavo

Migranti - Drammatico naufragio al largo della Tunisia. 32 morti recuperati, molte donne, 2 bambini, 20 dispersi

Corriere della Sera
Migranti, naufragio al largo delle coste tunisine: oltre trenta vittime, anche due bambini
A bordo 52 persone di cui 7 tunisini, più di venti ivoriani e altri cittadini africani. Tra le vittime anche due bambini di età inferiore ai tre anni e una donna incinta.


Drammatico naufragio di fronte alle coste tunisine, al largo della città di Sfax: decine di migranti risultano morti e dispersi, nell’affondamento di una precaria imbarcazione a bordo della quale viaggiavano oltre cinquanta persone. Il mezzo di fortuna era partito la notte tra lunedì e martedì per raggiungere l’Italia. 

Lo riferisce la stampa locale. Sarebbero almeno 32 i cadaveri recuperati fino ad ora dagli uomini della Guardacoste tunisina. La maggior parte delle vittime erano donne, ha dichiarato Samir Maatoug, direttore di medicina legale presso l’ospedale universitario Habib Bourguiba. 

Tra i corpi recuperati anche quelli di una bambina e un bambino di età compresa tra 2 e 3 anni e di una donna incinta. A bordo 52 persone di cui 7 tunisini, più di venti ivoriani e altri cittadini africani, che si erano imbarcati su un mezzo di fortuna con una capacità massima di 20 posti nella notte tra lunedì e martedì diretti verso l’Italia.

mercoledì 10 giugno 2020

Immigrati respinti in Libia, carne da cannone nella guerra. Catturati dalla Guardia Costiera, fatti sparire e mandati a morire

Il Manifesto
Nel corso del 2020 sono scomparsi 1.715 rifugiati: catturati dalla Guardia costiera di Tripoli finanziata dall’Italia, vengono portati nel lager di Triq al Sikka dove diventano braccia per il conflitto per le milizie di al-Sarraj.


L’Onu ha segnalato la recente scomparsa di più di 1.700 rifugiati nel sistema dei lager libici. Ha eseguito un rapido calcolo: nei primi cinque mesi del 2020, 3.150 persone in fuga dalla Libia sono state catturate in mare. Sono state tutte sbarcate nel porto di Tripoli. Ma solo 1.400 si trovano nei lager libici sotto il controllo del Governo di accordo nazionale (Gna). 1.715 rifugiati respinti in Libia dal mare e presi in custodia nel 2020 dalla cosiddetta Guardia costiera libica risultano spariti nel nulla.
cv b
In questi mesi tutti i gruppi di attivisti che si occupano di Libia hanno ricevuto appelli e segnalazioni da parte dei parenti degli scomparsi. Molte più di quanto ne ricevono di solito.

In diversi casi c’è stata un’ultima chiamata dal mare, con il telefono satellitare, che avvisava dell’imminente arrivo di una motovedetta della Guardia costiera. Poi più nulla. Fin qui niente di anomalo: la prima cosa che i libici fanno quando intercettano un gommone è requisire il telefono satellitare. Ma poi nessuno dei passeggeri ha mai più contattato i parenti a casa. Questo no, non è normale. I rifugiati deportati in Libia riescono sempre a far pervenire un messaggio a casa.
[...]
È a Triq Al Sikka  che nel 2020 spariscono le persone. Non tutte, solo alcune. Viene fatta una selezione fisica: i più alti, i più forti vengono scelti per la guerra e separati dagli altri È il centro di reclutamento degli schiavi-soldato, ceduti dalle guardie alle terribili milizie che combattono per al-Sarraj (Gna).
[...]
Già nel gennaio 2020 l’Unhcr temeva che i migranti venissero utilizzati come schiavi-soldato.
[...]
Il sistema di Tajoura, come lo descrivono testimonianze del 2019, era semplice, rozzo: chi rifiutava di combattere veniva ucciso.

[...
Nel 2020, in Libia, gli schiavi-soldati sono persone che ufficialmente non esistono. Prima si fanno sparire, poi si fanno combattere. Carne da macello, spedita in prima linea, sfruttata finché si muove, seppellita e sostituita rapidamente quando muore. Nessun nome. Nessuna memoria.

martedì 9 giugno 2020

USA - Corte Suprema della Carolina del Nord: 100 detenuti nel braccio della morte possono dimostrare che la sentenza è influenzata da razzismo

Blog Diritti Umani - Human Rights
Nel clima delle proteste di massa negli Stati Uniti per l'omicidio di George Floyd a Minneapolis il 25 maggio arriva la sentenza della Corte Suprema del Carolina del Nord che ha stabilito che oltre 100 detenuti nel braccio della morte hanno l'opportunità di dimostrare che il razzismo ha influenzato le loro pene. 


Con un'ampia maggioranza la Corte suprema della Carolina del Nord ha stabilito che oltre 100 detenuti nel braccio della morte hanno l'opportunità di dimostrare che il razzismo ha influenzato le loro pene.  I detenuti avevano presentato un reclamo ai sensi dello Racial Justice Act (RJA) prima che la legge fosse abrogata nel 2013. Se gli imputati vinceranno la causa, le  pene di morte saranno condannate all'ergastolo senza condizionale.

La sentenza arriva dopo anni di procedimenti legislativi e legali contro la RJA. Approvata nel 2009, la legge consentiva ai detenuti nel braccio della morte della Carolina del Nord di essere condannati all'ergastolo senza condizionale se possono dimostrare che la razza ha giocato un ruolo significativo nella loro condanna a morte.

Andrew Ramseur, un uomo di colore di 31 anni, è l'attore nella causa della Corte Suprema dello stato di Venerdì, Nord Carolina contro Ramseur. È uno degli imputati nel braccio della morte che aveva presentato un reclamo RJA prima dell'abrogazione della legge del 2013, ma successivamente non è mai stato ascoltato. Venerdì, la Corte suprema ha stabilito che era incostituzionale che l'abrogazione della RJA avesse avuto conseguenze sui ricorsi già pendenti.

ES

Fonte: TIME

lunedì 8 giugno 2020

Malta resta la vergogna d'Europa - Migranti respinti in Libia o lasciati morire in mare e corruzione

L'Espresso
A quasi tre anni dalla morte della giornalista Daphne Caruana Galizia, le riforme promesse dal governo ancora non si vedono. E il premier Abela è già in difficoltà, tra nuovi scandali e le imbarazzanti rivelazioni sul mancato soccorso dei barconi provenienti dalla Libia.


I migranti respinti in Libia e quelli morti in mare. I rapporti ambigui con la Cina. Gli intrecci tra criminalità, politica e giustizia. Il nuovo che avanza a Malta appare sempre più simile a quel passato di malaffare e corruzione che il nuovo governo dell'isola, in carica dall'inizio dell'anno, afferma di voler cancellare.
 


Per capire se qualcosa sta davvero cambiando nello Stato più piccolo dell'Unione Europea, un Paese in posizione strategica di fonte alle coste africane, da sempre crocevia nei traffici di armi, denaro e uomini, conviene partire da una notizia di una ventina di giorni fa, passata inosservata in Italia. 

Charles Mercieca, un giovane avvocato in forze all'ufficio del procuratore generale di Malta, ha rassegnato le dimissioni per passare al pool di difesa di Yorgen Fenech, l'uomo d'affari sotto processo come mandante dell'omicidio della giornalista Daphne Caruana Galizia, uccisa da un'auto bomba il 16 ottobre del 2017.

Vittorio Malagutti

Filippine - Duterte vuole approvare con urgenza nuova legge antiterrorismo per colpire gli attivisti sociali - Carlito Badion l'ultimo leader ucciso

Notizie Geopolitiche
Nelle Filippine continuano le critiche al nuovo disegno di legge antiterrorismo che il presidente Rodrigo Duterte vorrebbe far approvare con urgenza dal Parlamento nei prossimi giorni, mentre nel Paese si moltiplicano le denunce di violenza e omicidi ai danni di attivisti sociali.




La commissioni per l’ordine pubblico e la difesa hanno già dato il via libera al provvedimento, che molto probabilmente riuscirà a passare senza difficolta’ alla Camera dei rappresentanti entro il 6 giugno, quando inizierà la pausa estiva di due mesi del Parlamento. 

La nuova misura stabilisce tempi più lunghi per le detenzioni in assenza di accuse formali e conferisce ancora più poteri all’esecutivo per legiferare in materia di sicurezza nazionale.
Numerose organizzazioni sociali hanno contestato la nuova legge, mentre nel Paese continuano a essere denunciati omicidi di leader di movimenti sociali. 

L’ultimo in ordine di tempo e’ quello di Carlito Badion, segretario dell’associazione Kadamay e riconosciuto leader tra i poveri delle grandi città filippine.

Secondo Cristina Palabay, la direttrice di Karapatan, un’organizzazione che riunisce 44 associazioni in difesa dei diritti umani, il “brutale” omicidio di Badion “è l’ultimo di una serie di attacchi violenti e senza vergogna ai poveri e ai senza tetto della città, soprattutto nel mezzo della pandemia di Covid-19”.
Palabay, che ha chiesto l’apertura di un’inchiesta da parte della commissione dei diritti umani del governo, ha aggiunto che la situazione sarebbe destinata a peggiorare con “la legge antiterrorismo, che ha il solo scopo di porre una minaccia ancora più grande ai diritti e le libertà civili delle persone”.

sabato 6 giugno 2020

APPELLO URGENTE - Aiutiamo Hanna Kostseva a salvare i suoi fratelli, Stanislav e Il'ja Kostsev, condannati a morte in Bielorussia

www.santegidio.org
Appello per salvare dalla pena di morte Stanislav e Il'ja Kostsev, 
sono due ragazzi di 19 e 21 anni

Due giovani di 19 e 21 anni sono stati condannati a morte e rischiano l'esecuzione in Bielorussia, l'unico paese del continente europeo che ancora conserva la pena capitale nel suo ordinamento.

Di fronte ad una notizia così grave, divulgata dalla sorella dei due ragazzi, Hanna, abbiamo sentito il dovere di sostenerla e abbiamo deciso di lanciare un appello per chiedere al Presidente della Repubblica di Bielorussia che la condanna non venga eseguita.


Per saperne di più >>>

martedì 2 giugno 2020

Grecia: Il governo sfratta 11mila rifugiati ospitati con fondi europei, per strada donne, bambini, disabili persone vulnerabili

East Journal
Il ministero greco dell’immigrazione, guidato da Panagiotis Mitarachis, ha deciso che a partire da oggi, lunedì 1 giugno 2020, circa 11mila tra richiedenti asilo e rifugiati riconosciuti perderanno l’accesso allo schema di accoglienza ESTIA. Il programma, gestito dall’UNHCR e finanziato dalla Commissione europea, ha finora fornito alloggio temporaneo a migliaia di beneficiari di protezione internazionale sul territorio ellenico.

La controversa decisione del governo di accorciare l’accoglienza nelle strutture di ESTIA da sei a un mese dalla concessione dello status di rifugiato risponde all’obiettivo dichiarato di decongestionare le isole, in particolare Lesbo e Chios, i cui centri di accoglienza sono da mesi al collasso.
 

Gli appartamenti verranno dunque assegnati ai nuovi ospiti provenienti dai famigerati campi di Moria e Vial, che contano circa 35mila persone, un terzo dei quali minori.

La preoccupazione delle organizzazioni internazionali
Insieme alla privazione dell’alloggio, l’esclusione da ESTIA implica l’interruzione dell’erogazione di assistenza in denaro, unica fonte di reddito dei beneficiari del programma. 

Secondo quanto riportato da Euronews, la maggioranza delle persone interessate da questa misura sono soggetti vulnerabili, inclusi disabili e minori, che non parlano greco e che sono esclusi dal sistema produttivo del paese e dal sistema pubblico di welfare. 

Il rischio paventato dalle organizzazioni internazionali e non governative è che gli sfratti andranno ad alimentare il numero di indigenti ad Atene e nel resto del paese.

La misura rischia peraltro di avere effetti nefasti sulla condizione di centinaia di rifugiati beneficiari del programma ESTIA a Mitilini, sull’isola di Lesbo, dove le prospettive di indigenza e di esclusione sociale si sommano al travagliato rapporto di convivenza con le comunità locali e alle restrizioni alla mobilità imposte dall’emergenza sanitaria del Covid-19.

Sullo sfondo di questa vicenda si profila inoltre la gestione inefficiente del sistema di accoglienza da parte del ministero di Mitarachis, accusato, in un recente report confidenziale di un’organizzazione internazionale trapelato alla stampa greca, di aver sperperato fondi europei destinati alla gestione dell’accoglienza, di aver assegnato la gestione dei centri a funzionari pubblici non specializzati e di non aver preparato un piano credibile in previsione della nuova ondata migratoria prevista per quest’estate.

Giulio Gipsy Crespi

lunedì 1 giugno 2020

Libia. L'inferno del centro migranti di Zintan: nessuna protezione anti Covid mentre si muore di fame, stenti e tubercolosi

La Repubblica
La drammatica testimonianza di Kidane, uno dei 700 ospiti del campo a sud ovest di Tripoli. "Costretti a dormire in 24 in una cella di sei metri quadrati, è impossibile difenderci dal virus"

A 160 chilometri a sud-ovest di Tripoli c'è un non luogo dove Kidane (il nome è di fantasia ndr)e altri cinquecento eritrei ed etiopi sono rinchiusi da un anno e nove mesi. Sono richiedenti asilo con bisogno di protezione internazionale, registrati dall'Alto Commissariato Onu per i rifugiati come tali. Eppure, come tali, incredibilmente abbandonati. Sospesi nel niente. E stanno morendo uno dopo l'altro.



Non sanno quando usciranno, non sanno se usciranno, hanno già visto 25 persone crollare a terra e morire di fame, stenti e tubercolosi. 

Come se non bastasse, sono assediati dal Covid-19, che non ha risparmiato la Libia precipitata da mesi nella guerra civile. Ma in questo non luogo nel distretto di Al-Jabal al-Gharbi che risponde al nome di “Centro governativo di Zintan” non esiste possibilità di difesa dal virus. 

Non c'è acqua per lavarsi, non c'è sapone, non ci sono mascherine e il distanziamento sociale è impossibile anche solo da immaginare. 

“Dormiamo in ventiquattro in una cella due metri per tre”, racconta Kidane, eritreo di 30 anni, uno dei pochissimi detenuti che ha il cellulare. Due metri per tre, cioè sei metri quadrati. Ventiquattro persone. “Sì sì, hai capito bene...”, ripete. Kidane è anche riuscito a girare un breve filmato nel cortile del Centro di Zintan, dove l'unico riparo dal sole bollente è un coperchio di latta.

Fabio Tonacci