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lunedì 27 marzo 2023

Italia - Il decreto Meloni ferma la nave ong di Banksy "Luise Michel": ha fatto troppi salvataggi.

Il Riformista
Fermata la nave Luise Michel, dell’omonima ong, finanziata dall’artista di fama internazionale Banksy. Il fermo è stato eseguito dall’autorità marittima di Lampedusa. La nave è accsusata di aver violato il nuovo decreto ong del governo Meloni. Le autorità “ci impediscono di lasciare il porto e prestare soccorsi in mare” lamentano gli attivisti. 


Ieri pomeriggio la Guardia Costiera ha diffuso le ragioni del fermo. Soltanto ieri la nave aveva soccorso complessivamente cinque imbarcazioni. Alla nave era stato assegnato Trapani come porto di sbarco ma a causa delle gravi condizioni in cui si trovavano i naufraghi soccorsi la nave era stata autorizzata a raggiungere Lampedusa, dove si trova tutt’ora.

Dopo l’ultimo arrivo al molo l’equipaggio aveva scritto: “Durante lo sbarco a Lampedusa in prima mattinata, eravamo già stati informati che la nostra nave è in stato di fermo per violazione del nuovo decreto italiano”. “24 ore dopo che ci è stato detto che la nostra nave è stata fermata, non abbiamo ancora una giustificazione scritta ufficiale per la detenzione. Sappiamo di dozzine di barche in pericolo proprio di fronte all’isola in questo preciso momento, eppure ci viene impedito di prestare assistenza. Questo è inaccettabile!“, ha scritto in una nota l’equipaggio della Louise Michel. La Guardia Costiera ha diffuso nel pomeriggio una nota sui fatti.

Cinque gli interventi compiuti dalla nave ieri. Alle 2:10 il primo nei confronti di due gruppi di 38 migranti ciascuno, trasbordati successivamente sulla motovedetta Cp273 della Guardia Costiera. Alle 6,30 la nave ha sbarcato sul molo commerciale altre 78 persone che erano su un gommone, ma anche altri 39 (9 donne) che viaggiavano su un’imbarcazione in ferro di circa 7 metri, ed ancora altri 39 (6 donne e 1 minore) e poi 24 (sei donne e un minore). La Louise Michel è stata fermata per violazione del nuovo codice di condotta delle navi ong, entrato in vigore lo scorso gennaio, secondo quanto riporta una nota della Guardia Costiera. “Con la situazione che c’è in mare, trattenere una nave di soccorso in porto mentre donne, uomini e bambini rischiano di morire, è una cosa assurda”, ha detto Luca Casarini, capomissione di Mediterranea Saving Humans.
[...]
Proseguono intanto gli sbarchi. L’hotspot è al collasso, oltre duemila persone, la capacità sarebbe di 400. La Louise Michel era arrivata ieri a Lampedusa con a bordo 178 migranti, soccorsi su quattro diverse imbarcazioni.

Antonio Lamorte

domenica 26 marzo 2023

Afghanistan. Chiudono le poche scuole ancora aperte alle donne, niente scuola per le ragazze adolescenti

Il Manifesto
Dopo la pausa invernale, il diktat talebano è diventato assoluto. Le pressioni internazionali cadono nel vuoto. Ma l’Emirato resta spaccato in due. In Afghanistan ieri sono state riaperte le scuole dopo la pausa invernale. Per gli studenti, di ogni ordine e grado, porte aperte. Per le studentesse, solo fino alla scuola primaria. Per le ragazze più grandi infatti vige ancora il bando informale del marzo 2022.


Quando, con un testacoda indicativo delle divisioni all’interno dei Talebani, il ministero prima ha annunciato la riapertura delle scuole, per poi lasciare a casa le studentesse adolescenti. Da allora, sempre a casa, tranne rari casi. L’Afghanistan rimane dunque l’unico Paese al mondo in cui il diritto all’istruzione è negato alle adolescenti. “Con l’inizio del nuovo anno scolastico in Afghanistan, ci rallegriamo per il ritorno di milioni di bambini e bambine nelle aule della scuola primaria. Tuttavia, siamo profondamente delusi di non vedere anche le ragazze adolescenti tornare nelle loro aule”, ha dichiarato Fran Equiza, rappresentante dell’Unicef in Afghanistan, l’agenzia dell’Onu che, come molte altre organizzazioni, fatica a trovare i modi per convincere i Talebani a cambiare rotta.

La decisione, parte di un più ampio pacchetto normativo che consolida l’apartheid di genere, non è stata presa a Kabul, sede dei ministeri, ma a Kandahar, sede dell’Amir al-muminin, la guida dei fedeli Haibatullah Akhundzada. Che con il suo entourage detta la rotta, diversa da quella di altri Talebani più pragmatici. Consapevoli che, intorno ai diritti delle donne, si gioca non solo una partita interna, con una società insofferente alle discriminazioni, ma anche internazionale, con quella comunità diplomatica da cui dipendono aiuti umanitari, aiuto allo sviluppo, la tenuta del sistema-Paese. A Kandahar sono convinti, sbagliando, che “l’autarchia è la via maestra, il popolo è con noi”. A Kabul l’ala più pragmatica cerca di rassicurare gli stranieri. Ormai senza pazienza. Come le studentesse afghane.

Le uniche novità sono negative: ora le scuole sono chiuse anche nelle poche aree in cui, grazie alla capacità di negoziazione delle comunità locali, erano rimaste aperte prima della pausa invernale, come nelle province settentrionali di Kunduz e Balkh. “Quest’anno le scuole sono aperte alle ragazze fino alla sesta classe, stiamo aspettando altre notifiche sulle classi superiori”, ha dichiarato all’agenzia Reuters Mohammed Ismail Abu Ahmad, a capo del dipartimento dell’educazione di Kunduz.

Che le scuole sarebbero rimaste chiuse era chiaro già nei giorni scorsi, a dispetto delle pressioni crescenti per rivedere le norme discriminatorie, inclusa quella del dicembre 2022 con cui si nega alle studentesse anche l’accesso all’università. Le pressioni provengono anche dai governi islamici, oltre che dall’Organizzazione della cooperazione islamica, il cui segretario Hissein Brahim Taha di recente ha ribadito che la questione non è chiusa. Pochi giorni fa, a margine di un incontro con una delegazione di religiosi provenienti dagli Emirati arabi, il ministro di fatto degli Esteri dell’Emirato, Amir Khan Muttaqi ha dichiarato: “La scuola per le ragazze non è haram, non è proibita dall’Islam, bloccarne l’accesso non è una questione religiosa, ma nazionale. Il governo ci lavorerà, ma ci vuole tempo”.

Il tempo trascorso è già troppo, secondo i membri dello Special Procedures, il più significativo gruppo di esperti del Consiglio per i Diritti umani Onu. In un comunicato scrivono che “le autorità di fatto Talebane non hanno alcuna giustificazione per negare il diritto all’educazione, né in termini religiosi, né tradizionali”. Da qui l’appello a “riaprire immediatamente tutte le scuole superiori e gli istituti educativi per le ragazze e le giovani donne”.

Per Catherine Russell, direttrice esecutiva dell’Unicef, “questa decisione ingiustificata e miope ha stroncato le speranze e i sogni di oltre un milione di ragazze e rappresenta un’altra triste pietra miliare nella costante erosione dei diritti delle ragazze e delle donne a livello nazionale”. Dall’Italia Daniela Fatarella, direttrice generale di Save the Children Italia, chiede che “il divieto di accesso all’istruzione per le ragazze venga revocato immediatamente, per il loro futuro e quello di tutto il Paese”.

Giuliano Battiston

venerdì 24 marzo 2023

USA - Idaho - Pena di morte - Ok del parlamento reinserire la fucilazione. Impossibile praticare l'iniezione letale per l'embargo dei "farmaci"

Ansa
In Idaho rischia di tornare il plotone d'esecuzione per i detenuti nel braccio della morte. 
Manca firma del governatore. Ultima fucilazione nel 2010 in Utah.

Camera della morte in Idaho per l'esecuzione tramite fucilazione

Il Senato statale ha approvato ieri un disegno di legge volto a rilanciare l'uso del plotone di esecuzione a causa della carenza di farmaci per l'iniezione letale. 

La misura, gia' approvata dalla Camera dell'Idaho a inizio mese, offre alle autorità la possibilità di ordinare la morte mediante fucilazione se i farmaci per l'iniezione letale non sono disponibili entro cinque giorni dall'emissione della condanna alla pena capitale.

Ora il disegno di legge arrivera' sulla scrivania del governatore repubblicano Brad Little, che non ha commentato.

Negli Usa per ora solo quattro stati consentono l'uso del plotone di esecuzione - Mississippi, Oklahoma, South Carolina e Utah - ma ne fanno ricorso molto raramente. In tutto hanno ucciso in questo modo solo tre prigionieri dal 1976. 

mercoledì 22 marzo 2023

La Tunisia sta diventando la "Nuova Libia - Stato vicino al default - Paese che non offre futuro ai giovani. Politiche xenofobe verso gli "africani" subsahariani.

Globalist
La “nuova Libia” si chiama Tunisia. Uno Stato in default. Una rivoluzione tradita. Un Paese giovane che non offre futuro ai suoi giovani. Globalist lo ha documentato in più articoli. Denunciando la miopia di una Europa, e dell’Italia, la cui politica ha un punto fermo, una vera, sciagurata ossessione: l’esternalizzazione delle frontiere. E la ricerca sulla sponda sud del Mediterraneo, di “gendarmi” da armare e finanziare perché facciano il lavoro sporco – i respingimenti – al posto nostro.

Migranti subsahariani in Tunisia
La “nuova Libia”
Di grande interesse sono le analisi di due giornalisti che del Mediterraneo sanno molto.
Annota Dario Prestigiacomo su EuropaToday: “Anche grazie ai finanziamenti di Ue e Italia, le partenze dalle sue coste sono state per lo più bloccate. Ma adesso, il “tappo” della Tunisia potrebbe saltare, inasprendo la pressione migratoria nel Mediterraneo in direzione dell’Europa. Non è certo solo questo aspetto a preoccupare Bruxelles, ma di sicuro è tra i fattori principali che hanno spinto finalmente Bruxelles ad affrontare il dossier tunisino e a inserirlo nell’agenda della riunione dei ministri degli Esteri in corso oggi nella capitale europea. Il Paese nordafricano si trova da tempo in una grave situazione di crisi economica e instabilità politica, e per molti analisti potrebbe essere una “nuova Libia”, non solo per quel che riguarda le rotte migratorie.
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La crisi economica
Alle tensioni politiche si sono presto aggiunte quelle sociali. In Tunisia scarseggiano da mesi beni di prima necessità come il petrolio, lo zucchero, il latte e il burro. I carichi di grano e altri alimenti sono stati spesso rispediti indietro per mancanza di risorse. Il tasso di inflazione viaggia ormai sulla doppia cifra e la disoccupazione giovanile è in sensibile crescita. 
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I migranti
Il peggio, però, è arrivato sul fronte dei migranti. Tutto il mondo è Paese, e così capita che anche in un Paese africano i migranti (africani) diventino un buon capro espiatorio. Il 21 febbraio il presidente Saied si è infatti lanciato in un discorso xenofobo in cui ha parlato di “orde di migranti irregolari provenienti dall’Africa subsahariana” arrivati in Tunisia, portando “la violenza, i crimini e i comportamenti inaccettabili che ne sono derivati”. Il capo di Stato l’ha definita una situazione “innaturale”, parte di un disegno criminale per “cambiare la composizione demografica” e fare della Tunisia “un altro Stato africano che non appartiene più al mondo arabo e islamico”, dato che tali migranti sono spesso di religione cristiana. Parole che hanno innescato un’ondata di violenze contro i migranti subsahariani e spinto diversi Paesi dell’Africa occidentale a organizzare voli di rimpatrio per i cittadini timorosi. Molti dei circa 21 mila migranti dell’Africa subsahariana che vivono in Tunisia si sono ritrovati senza lavoro e senza casa.
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La tensione cova invece sotto la cenere nei quartieri periferici della capitale e dei principali centri urbani, dove non si arriva a fine mese né si trovano generi alimentari di base nei supermercati come caffè, farina e latte. I migranti subsahariani vivono nascosti dopo pogrom e aggressioni degli ultimi giorni di febbraio. E fuggono. Come riporta l’agenzia Nova, che ha avuto accesso ai dati del Viminale, sono almeno 12mila le persone partite dalle coste tunisine dal primo gennaio al 13 marzo, più di 170 sbarchi al giorno, con un aumento del 788% rispetto ai 1.360 arrivi dello stesso periodo del 2022. La Libia è stata superata. E da queste parti i mercenari russi della Wagner non c’entrano, non si sono mai visti.

domenica 19 marzo 2023

Eritrea - Rapporto ONU - Situazione dei diritti umani disastrosa: torture, detenzioni inumane, sparizioni. Nessuna collaborazione dei governanti.

Nigrizia
«La situazione dei diritti umani in Eritrea rimane disastrosa e non mostra nessun segno di miglioramento». Lo dice un rapporto presentato ieri dall’Alta commissaria aggiunta al Consiglio dei diritti umani dell’Onu, Nada Al-Nashif.


La commissaria ha spiegato che l’Onu ha raccolto «informazioni credibili» che danno conto di «torture, condizioni di detenzione inumane e sparizioni forzate». Il rapporto rileva che «è allarmante che tutte queste violazioni dei diritti umani siano compiute nella totale impunità». E sottolinea che le autorità di Asmara non hanno offerto nessuna collaborazione.

Il paese del Corno d’Africa, governato da Isaias Afwerki fin dall’indipendenza dall’Etiopia (1993), non da oggi si segnala per l’autoritarismo e il disprezzo di ogni forma di democrazia.

Una dittatura che ha stabilito la leva universale obbligatoria e di durata illimitata, provvedimento che è diventato ancora più stringente con il sostegno dell’esercito eritreo alla truppe etiopiche nella guerra del Tigray scoppiata nel novembre del 2020. Il coinvolgimento nella guerra civile etiopica è stato fortemente criticato dalla Chiesa cattolica.

E in territorio etiopico l’esercito di Asmara si è macchiato – sostengono numerose organizzazioni di difesa dei diritti umani – di atrocità, in particolare del massacro di centinaia di civili nella città di Aksum e nel villaggio di Dengolat.

Isaias Afwerki (che in sede Onu si è schierato con la Russia che ha aggredito l’Ucraìna) ha respinto le accuse a carico del suo esercito definendole «fantasie, frutto di disinformazione». Questo del resto è sempre stato l’atteggiamento del regime eritreo: chiudersi a riccio, negare tutto e farsi beffa della comunità internazionale.

domenica 12 marzo 2023

Nuovo naufragio al largo della Libia, 30 dispersi e 17 sono stati soccorsi. Alarm Phone: "L'Italia ha ritardato i soccorsi"

Il Gazzettino del Sud
Il barcone con 47 migranti per il quale era stato lanciato un allarme nelle ore scorse è naufragato: il bilancio è di 30 dispersi e 17 soccorsi . Il barchino si è capovolto durante il trasbordo delle persone sulla nave Froland, inviata tra i mercantili sul posto dalla centrale operativa della stessa Guardia costiera.
Il barchino con 47 migranti a bordo individuato 

Un filmato di Sea-Watch, pubblicato dal giornalista Sergio Scandura di Radio Radicale, inquadra il barcone in fortissime difficoltà, e i mercantili che tentano di fargli scudo dalle onde ma non in grado di intervenire. «Dopo aver chiamato il centro di soccorso di Tripoli - afferma Sea-Watch, che ha monitorato il barcone attraverso il velivolo Seabird - abbiamo richiamato il Centro di soccorso di Roma e chiesto chi, a quel punto, coordinerà i soccorsi, il funzionario ha riattaccato il telefono».

Poi è partita l’operazione Sar. Troppo tardi: l’allarme era stato lanciato già ieri, quando l’imbarcazion e si trovava, secondo Scandura, a 113 miglia a nord ovest da Bengasi, alla deriva e con il motore in avaria. L’area è la stessa dell’operazione Irini, in cui sono impegnate anche navi italiane.

martedì 7 marzo 2023

Gran Bretagna - Migranti - Violazione norme internazionali - Chi arriva in modo illegale sarà arrestato e deportato in Ruanda. Anche richiedenti asilo e minori

Il Riformista
Chi arriverà attraversando la Manica sarà detenuto e portato in Paesi “sicuri”, sarà bandito a vita dalla Gran Bretagna e non potrà mai ottenere la cittadinanza britannica. Questa è la linea dura del primo ministro Rishi Sunak contro gli sbarchi illegali che risponde a un’emergenza che ha visto nel 2022 l’arrivo sulle coste britanniche di oltre 45 mila persone a bordo di imbarcazioni di fortuna: una questione diventata rapidamente una priorità per l’opinione pubblica e una spina nel fianco per i governi conservatori.


Martedì 7 marzo il governo presenterà una legislazione che ha già scatenato le critiche dei gruppi per i diritti umani e che funzionari governativi ammettono essere “al limite della legalità internazionale”. 

Così decine di migliaia di persone potrebbero essere detenute in siti militari e il ministero dell’Interno avrà l’obbligo legale di deportarle “appena è ragionevolmente fattibile”. Norme che si applicheranno anche alle famiglie e perfino ai minori non accompagnati. Non solo, tutti gli immigrati illegali si vedranno inoltre comminare un bando a vita a tornare in Gran Bretagna e non potranno mai più ottenere la cittadinanza britannica.

Il magnanimo governo d’oltremanica ha promesso di aprire rotte “legali e sicure” per i richiedenti asilo, anche se non ha specificato in che modo: “La possibilità di insediarsi in questo Paese e di diventare cittadini britannici non è un diritto umano, è un privilegio – ha dichiarato una fonte governativa –. Questo è perché bandiremo gli immigrati illegali”. Poi il premier Sunak ha aggiunto che “l’immigrazione illegale è ingiusta per i contribuenti, è ingiusta per quelli che vengono qui legalmente ed è sbagliato che le gang criminali siano autorizzate a continuare il loro commercio immorale. Dunque capiamoci bene: se vieni qui illegalmente, non potrai rimanere”.

Dura la replica del Consiglio per i Rifugiati: “In questo modo decine di migliaia di profughi che avrebbero diritti all’asilo finiranno ingabbiati come criminali – e aggiunge – che il piano del governo rappresenta una violazione della Convenzione delle Nazioni Unite sui rifugiati”. Secondo il Consiglio, due terzi dei migranti sbarcati lo scorso anno avrebbero diritto all’asilo.

Una notizia che può non sembrare nuova, infatti già l’anno scorso il governo britannico aveva provato a deportare gli immigrati illegali in Ruanda, Paese col quale ha stretto un accordo in merito, ma i voli erano stati bloccati da un intervento all’ultimo minuto della Corte europea per i diritti umani. Adesso Sunak intende inserire nella nuova legge un “freno” alla giurisdizione della Corte (e l’ala destra del suo partito sta facendo pressione perché Londra si ritiri del tutto dalla Convenzione europea sui diritti umani).

Dopo il successo ottenuto con l’accordo sull’Irlanda del Nord, Sunak intende scavare un solco con l’opposizione laburista, che resta saldamente in testa nei sondaggi. Una mossa che va letta soprattutto in chiave elettorale.

L’immigrazione illegale infatti è tornata in cima alle priorità dell’opinione pubblica dei sudditi della Corona, subito dopo l’economia e la sanità: e l’87% del pubblico ritiene che il governo stia gestendo male la questione. Dunque il premier ha fatto dello stop agli sbarchi una delle sue priorità per quest’anno. L’atteggiamento dei britannici verso l’immigrazione è però ambivalente: dopo la Brexit, contrariamente a quello che si poteva pensare, c’è stato un boom di arrivi dall’estero, più di un milione solo nell’anno scorso.

Questi però sono tutti immigrati legali, per lo più studenti o personale qualificato, rispetto ai quali l’opinione pubblica è abbastanza rilassata: l’inquietudine si manifesta invece nei confronti degli sbarchi illegali, di fronte ai quali c’è la sensazione di una situazione fuori controllo. È contro la mancanza di regole e il rischio di un afflusso indiscriminato che si concentra, quindi, l’ostilità degli inglesi. Almeno per ora.

Riccardo Annibali

Bangladesh - Enorme incendio nel campo profughi Rohingya, Cox’s Bazar. 12mila restano senza rifugio

Huffpost
Enorme incendio nel campo profughi Rohingya in Bangladesh, 12mila restano senza rifugio
Selim Ullah: “Quando eravamo in Myanmar abbiamo dovuto affrontare numerosi problemi. Le nostre case sono state bruciate. Ora è successo di nuovo"


Un enorme incendio ha colpito il campo profughi per persone di etnia rohingya di Balukhali, vicino alla città di Cox’s Bazar, nel sudest del Bangladesh. Nessun ferito è stato segnalato, ma le fiamme che sono divampate nel Campo 11 di Cox's Bazar hanno rapidamente inghiottito i rifugi di bambù e tela cerata, lasciando 12mila persone senza la loro abitazione.

"Circa 2.000 rifugi sono stati bruciati e 12.000 cittadini birmani sfollati con la forza sono rimasti senza riparo", ha dichiarato all'AFPil Commissario per i rifugiati del Bangladesh, Mijanur Rahman.

Secondo un portavoce della Croce Rossa Internazionale i danni sono “enormi”. L’incendio, oltre ad aver distrutto 35 moschee e 21 aree destinate all’insegnamento, ha danneggiato gli impianti idrici del campo.

Il rifugiato Selim Ullah, padre di sei figli, ha riferito di non aver "potuto salvare nulla”. “Tutto è andato in cenere. Molti sono senza casa. Non so cosa ci succederà", ha detto il quarantenne, aggiungendo: “Quando eravamo in Myanmar abbiamo dovuto affrontare numerosi problemi. Le nostre case sono state bruciate. Ora è successo di nuovo."

I rohingya sono un grande gruppo etnico di religione musulmana, le cui comunità si trovano per lo più in Bangladesh e in Myanmar. La maggior parte dei profughi che vivono nel campo di Balukhali è scappata dal Myanmar a partire dal 2017, quando l’esercito birmano aveva compiuto una serie di brutali operazioni militari, con stupri sistematici e uccisioni indiscriminate. 

Tutt'oggi tantissimi rohingya decidono di attraversare il confine per rifugiarsi in Bangladesh, dal momento che nel Myanmar, paese a maggioranza buddista, il gruppo etnico musulamano è vittima di forti discriminazioni. Così molti cercano protezione nei vicini campi profughi che sono per lo più improvvisati, sovraffolati e con pessime condizioni sanitarie. Proprio in questi campi è piuttosto frequente che si verifichino incendi anche di natura dolosa: nel marzo del 2021, 15 profughi morirono e circa 50mila rimasero senza casa a causa di un enorme incendio che colpì sempre il campo di Balukhali. Ora le autorità del Bangladesh stanno indagando sull'origine di quest'ultimo disastro e non escludono un atto di sabotaggio alla sua base. Un uomo è stato infatti arrestato. Tuttavia, come dichara Faruque Ahmed, un funzionario della polizia locale, "le ragioni dell'incendio non sono ancora note".

lunedì 6 marzo 2023

Egitto - 15 anni di carcere a Ezzat Ghoniem fondatore di una ong per la difesa dei diritti umani - Pene per altri 14 attivisti

Focus on Africa
Il processo nei confronti di 14 attivisti e difensori dei diritti umani, tra i quali Ezzat Ghoniem, fondatore del Coordinamento egiziano per i diritti e le libertà, è finito come purtroppo si temeva.

Tra i vari imputati, Ezzat Ghoniem è stato condannato a 15 anni. Stessa pena per l’avvocato Muhammad Abu Horeira, dieci anni per la moglie Aishaa al-Shater e per Sumaya Nassef, cinque per l’avvocata Hoda Abdelmoneim.

Il verdetto corrisponde alle politiche criminalizzanti dell’era al-Sisi: chi si occupa di diritti umani è giudicato colpevole di reati quali adesione, finanziamento e sostegno al terrorismo nonché di diffusione di notizie false.

Le udienze del processo, celebrato da un tribunale di emergenza (dello stesso genere di quello che sta processando Patrick Zaki), si sono svolte a porte chiuse all’interno del complesso penitenziario di Badr. Gli avvocati, che non avevano potuto avere accesso agli atti giudiziari nel corso delle indagini, non hanno neanche avuto il permesso di interrogare i testimoni dell’accusa.

Nel processo non si è fatto minimamente cenno alle torture, compresa la violenza sessuale, e alle sparizioni forzate subite dagli imputati, in carcere sin dal 2018. Da quell’anno, nessuno di loro ha potuto vedere i familiari, con l’eccezione di Hoda Abdelmoniem, che li ha incontrati una sola volta.

Riccardo Noury

sabato 4 marzo 2023

Bielorussia - 10 anni ci carcere al Nobel per la pace e attivista Bialiatski. Il presidente Lukashenka manda l'opposizione nelle colonie penali di Putin

Il Foglio
Ieri un tribunale di Minsk ha condannato l’attivista bielorusso Ales Bialiatski a dieci anni di carcere in una colonia penale di massima sicurezza per “contrabbando e finanziamento di azioni che violano gravemente l’ordine pubblico”.
 
L’attivista per mi diritti umani bielorusso Ales Bialiatski

Sessant’anni, è stato uno dei tre vincitori del premio Nobel per la Pace 2022 ed è uno dei primi leader del movimento democratico in Bielorussia: ha fondato Viasna, primavera in bielorusso, il gruppo per i diritti umani nato 1996 dopo il referendum che ha consolidato l’autoritarismo del presidente e stretto alleato russo, Aljaksandr Lukashenka. 

Bialiatski era stato arrestato nel 2021, come migliaia di bielorussi, a seguito delle proteste – brutalmente represse – contro il dittatore di Minsk e ha già scontato una condanna di tre anni per evasione fiscale nel 2011: si è sempre professato innocente.

Insieme a lui ieri sono stati condannati altri tre attivisti democratici di Viasna, Valentin Stefanovich, condannato a nove anni di carcere, Vladimir Labkovich, a sette, e Dzmitry Salauyou, a otto anni in contumacia. Tutti e tre negano ogni accusa ed è evidente come questa condanna sia solo un ennesimo tentativo di Lukashenka di mettere a tacere l’opposizione del paese: il vero capo d’accusa di Bialiatski e dei suoi colleghi, secondo il regime, sono gli anni di lotta per i diritti, la dignità e la libertà del popolo bielorusso. 

I prigionieri politici in tutto il paese secondo Viasna sarebbero 1.458, mentre le autorità negano ogni numero. La sentenza di Bialiatski è stata definita dalla leader dell’opposizione bielorussa in esilio, Sviatlana Tsikhanouskaya, “spaventosa”, mentre la moglie dell’attivista, Natalya Pinchuk, che a ottobre davanti al comitato norvegese per il Nobel aveva dato voce alle parole del marito dal carcere, ha detto che il processo è stato “ovviamente contro i difensori dei diritti umani per il loro lavoro sui diritti umani”. 

Il ministro degli Esteri tedesco, Annalena Baerbock, ha definito il processo “una vergogna quotidiana tanto quanto il sostegno di Lukashenka alla guerra di Putin” in Ucraina.

giovedì 2 marzo 2023

Dopo la pandemia torna il Congresso dei ministri della giustizia del mondo di Sant’Egidio contro la pena di morte - "No Justice Without Life" - Continuare il cammino verso l'abolizione in un tempo di guerra

ANSA
"Il motivo della battaglia contro la pena di morte è ancora in quelle riflessioni di Cesare Beccaria nei Delitti e delle Pene, la pena di morte non ha senso perchè non ha una funzione sociale, l'Italia e la Comunità di Sant'Egidio sono sempre state in prima linea su questo fronte ma c'è ancora molto lavoro da fare". 


Con queste parole Anna Ascani, vicepresidente della Camera dei Deputati, ha aperto i lavori di "No justice without life. Congresso internazionale dei ministri della Giustizia a Roma", promosso dalla Comunità di S. Egidio nell'aula nuova del Palazzo dei Gruppi parlamentari-Camera dei deputati.


"Noi qui - ha detto prendendo la parola Mario Giro - vogliamo essere un grido per la vita, parlare di fine della pena di morte in tempo di guerra sembra un paradosso, la violenza delle battaglie e delle ritorsioni diviene quasi legittima, invece noi non crediamo che la guerra sia la soluzione a ogni controversia e che la pena di morte non sia la soluzione al crimine ma una condanna irreversibile e rispondere al male con il male apre a un circolo infinito". "Non dobbiamo pensare che il male è irriducbile - ha insistito - crediamo che la pena di morte debba essere fermata perchè comunica l'idea che la violenza sia compagna della vita dell'uomo" mentre "lo stato non chiede sangue in cambio, non rinuncia a punire ma si rinuncia all'irreversibilità, ci sono troppe morti, proviamo a dire basta e a difendere ciò che di ancora irriducibilmente umano c'è nell'uomo".

"Nel quadro di un vasto impegno contro la pena di morte - spiega anche una nota -, dal 2005 Sant'Egidio ha dato vita a incontri regolari di ministri della Giustizia di paesi sia abolizionisti e che retenzionisti, al fine di creare uno spazio di dialogo e di interlocuzione tra diversi sistemi di esercizio della giustizia, e favorire i processi di moratoria e di abolizione della pena capitale. 

Questo metodo di lavoro ha mostrato negli anni notevoli aspetti positivi, con il coinvolgimento di un sempre più largo numero di paesi, di autorità dell'Unione Europea, delle Nazioni Unite e di papa Francesco, che non ha mai fatto mancare il suo sostegno a questo processo. 

E' inoltre possibile ascrivere ai Congressi dei Ministri della Giustizia una serie di eventi di successo che hanno portato avanti la campagna abolizionista: la firma del Protocollo Opzionale della Mongolia e la sua successiva abolizione de jure della pena di morte (2015); l'eliminazione della pena di morte dal codice penale della Guinea (2016); la firma del Protocollo Onu sulla pena di morte della Costa d'Avorio (2013); abolizione da parte del Burundi (2009), del Togo (2009), del Gabon (2010), della Repubblica Centrafricana (2022) e Zambia (2022)".