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venerdì 31 dicembre 2021

Migranti nel 2021: ignorate e dimenticate le vittime in mare e gli attacchi al diritto d’asilo in diversi paesi europei.

 Redattore Sociale

Complice la pandemia da Covid19 che ha monopolizzato il dibattito pubblico e politico le notizie su migranti e richiedenti asilo sono relegate ai margini. Ma nel Mediterraneo si continua a morire (due i naufragi a Natale) e in tutta l’Ue si stanno rimettendo in discussione alcuni principi che regolano la protezione internazionale


Makbyel aveva appena 17 giorni quando è stato salvato in mare, a fine dicembre, dalla Ocean Viking, la nave umanitaria di Sos Méditerranée. Appena nato, metà della sua breve vita l’ha passata su un barchino in mare con altre 113 persone in attesa di un soccorso. Per questo, una volta al sicuro sul ponte della nave, la madre ha deciso di dargli come secondo nome “Sos”. Makbyel Sos e gli altri naufraghi hanno saputo che avrebbero sbarcato in un porto sicuro, a Trapani, la notte di Natale. Nelle stesse ore nel Mar Egeo si consumavano due terribili naufragi: il bilancio provvisorio è di 27 vittime e 25 dispersi. Scomparsi in fondo al mare e nel silenzio generale nell’anno in cui l’immigrazione non è più il tema caldo, al centro del dibattito pubblico e politico. Così neanche le vittime del mare hanno dignità di notizia. Ma i numeri sono tutt’altro che irrisori e parlano di almeno 1600 morti nel 2021, sulla rotta più pericolosa al mondo, quella del Mediterraneo.

Complice la pandemia da coronavirus che ha monopolizzato il mondo dell’ informazione, secondo l’ultimo rapporto dell’associazione Carta di Roma “Notizie ai margini”, nel 2021 sono 660 gli articoli in prima pagina dedicati al tema, il 21 per cento in meno rispetto al 2020, anno in cui già si registrava già una flessione dell’attenzione nell’agenda dei media. 

Il mese con maggiori notizie dedicate è stato agosto con la presa del potere da parte dei talebani in Afghanistan e la ripresa degli sbarchi verso l’Italia, che a fine 2021 si attestano a quota 64mila. “Le notizie che in questi anni hanno catalizzato l’attenzione, ispirato campagne elettorali, condizionato le politiche europee, nutrito l‘odio di molti, portato la paura nelle nostre case, nel 2021 sono rimaste prevalentemente lì, in quello spazio un po’ indefinito a due passi dall’indifferenza. Eppure quelle notizie ci sarebbero ancora ma invece restano ai margini e suona davvero strano - sottolinea Valerio Cataldi, presidente di Carta di Roma.

In questo contesto di marginalità sono passati sotto silenzio anche alcuni attacchi al diritto d’asilo all’interno degli Stati europei per gestire i flussi alle frontiere. Il caso più raccontato mediaticamente è stato quello della crisi diplomatica al confine tra Polonia e Bielorussia. Il governo Lukashenko, dopo aver fatto arrivare in aereo migliaia di profughi (per lo più curdi e afgani) li ha spinti verso il confine polacco. 

Per settimane i due stati hanno dato vita a un vero e proprio braccio di ferro sulla pelle delle persone. Intanto ai profughi era impedito di chiedere protezione nei paesi europei. La commissione Ue per risolvere la situazione ha elaborato una proposta straordinaria di sei mesi che prevede la sospensione di alcune regole su asilo per i tre paesi di confine: Polonia, Lettonia e Lituania. La proposta prevede una semplificazione dei rimpatri e un limite di tempo più lungo per registrare le domande di asilo (da dieci giorni a 4 settimane). Non solo, ma la proposta apre anche alla possibilità di trattenere temporaneamente i richiedenti asilo. Una deroga ai principi che regolano il diritto d’asilo che è stata ampiamente criticata dai giuristi italiani e internazionali. Ma non è l’unica violazione.

Secondo il report “Human dignity lost at the EU’s borders”, elaborato dal Danish refugees Council e alcune agenzie partner (comprese in Italia Asgi e Diaconia Valdese) per tutto il 2021 le regole internazionali sulla protezione sono state sistematicamente violate in diverse aree dell’Ue. In particolare, da gennaio 2021, le organizzazioni hanno incontrato 11.901 persone che hanno denunciato respingimenti alle frontiere interne e esterne dell’Unione Europea. Il 32% dei respingimenti riguarda persone provenienti dall’Afghanistan, molte delle quali hanno visto negato il diritto di chiedere asilo (oltre il 60%). Le temperature invernali hanno contribuito al deterioramento delle condizioni umanitarie : oltre a veder negato il diritto d’asilo, le persone non hanno accesso a un riparo per la notte, vestiti caldi, cibo a sufficienza.

Tra i principi rimessi in discussione nel corso del 2021 anche quelli previsti dal trattato di Schengen. Alcuni paesi del nord Europa (tra cui Francia e Germania) hanno chiesto di poter reintrodurre i controlli alle frontiere interne dell’Unione europea per contrastare i cosiddetti “movimenti secondari” (gli spostamenti dei migranti da uno stato all’altro dell’Unione). La Commissione Ue, anche in questo caso ha approvato una proposta che lo prevede in alcuni casi eccezionali. Il Paese membro dovrà "giustificare la proporzionalità e necessità della sua azione tenendo in considerazione l'impatto sulla libertà di circolazione" delle persone. 

Intanto guardando all’andamento della mobilità internazionale i numeri dicono che seppure siano in aumento le persone in fuga nel mondo, in Europa diminuiscono sia gli arrivi irregolari (-12 per cento) che i richiedenti asilo (crollati di ben un terzo). 

Il dato è contenuto nel Rapporto asilo 2021 della Fondazione Migrantes. “La pandemia di Covid-19 ha reso ancora più gravoso qualsiasi motivo, qualsiasi spinta a lasciare la propria casa, la propria terra. Dai conflitti alle persecuzioni, alla fame, all’accesso alle cure mediche fino alla possibilità di frequentare una scuola, il Covid-19 ha inasprito il divario fra una parte di mondo che vive in pace, si sta curando, tutelando e sopravvivendo e un’altra che soccombe, schiacciata da una disparità crudele - si legge nel testo -. Ma almeno in tutto il 2020, l’Italia e l’Europa hanno rappresentato un’eccezione in controtendenza rispetto alla situazione globale: mentre nel mondo il numero delle persone in fuga continuava ad aumentare, fino a una stima di 82,4 milioni, nel nostro continente si sono registrati meno arrivi “irregolari” di rifugiati e migranti e meno richiedenti asilo”. 

In particolare, in Italia (dati Istat) a inizio 2021, con poco più di 5 milioni di residenti, la popolazione straniera dopo vent'anni di crescita ininterrotta si è ridimensionata e non riesce più a compensare “l’inesorabile inverno demografico italiano” come lo definisce il Rapporto italiani nel mondo 2021 della Fondazione Migrantes. 

Ormai il saldo tra entrate e uscite dal nostro paese è negativo: sono più i cittadini italiani che decidono di andare all’estero a vivere e lavorare che i migranti che arrivano nel nostro paese per stabilirsi. “L’Italia - spiega Fondazione Migrantes- è oggi uno Stato in cui la popolazione autoctona tramonta inesorabilmente e la popolazione immigrata, complice la crisi economica, la pandemia, i divari territoriali e l’impossibilità di entrare legalmente, non cresce più”. Tuttavia c’è un’Italia che cresce ed è “quella che risiede strutturalmente all’estero”. 

Nell’ultimo anno l’aumento della popolazione iscritta all’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero (Aire) è stato del 3% (il 6,9% dal 2019, il 13,6% negli ultimi cinque anni e ben l’82% dal 2006, anno della prima edizione del rapporto).

Eleonora Camilli

martedì 28 dicembre 2021

Il Senato del Kazakistan approva il disegno di legge per l'abolizione della pena di morte, un ulteriore passo verso la completa eliminazione della pena capitale nel paese

Blog Diritti Umani - Human Rights

Il parlamento del Kazakistan ha approvato un disegno di legge che abolirebbe la pena di morte, una misura che, se firmata dal presidente del Paese, segnerebbe un significativo cambiamento di politica per il più grande Paese dell'Asia centrale.

Il Senato del Kazakistan

Il disegno di legge, approvato dal Senato, la camera alta del suo parlamento bicamerale, escluderà completamente la pena di morte dal codice penale.

"La completa abolizione della pena di morte nella Repubblica del Kazakistan contribuirà all'armonizzazione della legislazione nazionale rispetto agli obblighi giuridici internazionali e alla fornitura di diritti umani e garanzie del più alto valore costituzionale - il diritto alla vita", si legge nel documento adottato dal Giovedì il Senato in sessione plenaria.

L'approvazione del disegno di legge da parte del Senato è arrivata quasi un anno dopo che il presidente Kassym-Jomart Tokayev ha firmato un decreto che ratifica il secondo protocollo opzionale delle Nazioni Unite al Patto internazionale sui diritti civili e politici.Questo documento impegna i firmatari ad abolire la pena capitale. La ratifica del Secondo Protocollo Opzionale nel gennaio 2021 è in linea con gli sforzi del Paese per umanizzare la legislazione penale. Oltre al Kazakistan, altre 88 nazioni sono membri dell'accordo.

La pena di morte è stata oggetto di moratoria in Kazakistan dal 2003. L'ergastolo è stato introdotto in Kazakistan nel 2004 come punizione alternativa. 

Russia, Bielorussia e Tagikistan sono ora gli unici tre paesi in Europa e in Asia centrale che non hanno firmato o ratificato il Secondo Protocollo Opzionale al Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici. Russia e Tagikistan continuano a osservare moratorie sulle esecuzioni.

ES

giovedì 23 dicembre 2021

Archiviate definitivamente le accuse a Carola Rackete. "Ha adempiuto al dovere del salvataggio". Minate le basi del "Decreto Sicurezza" di Salvini

Huffington Post
“Carola Rackete ha agito nell’adempimento del dovere di salvataggio previsto dal diritto nazionale e internazionale del mare”. Con queste motivazioni il gip del tribunale di Agrigento, Micaela Raimondo, ha archiviato l’inchiesta a carico della comandante di Sea Watch3 che, ad aprile, era stata già definitivamente prosciolta dall’accusa di resistenza a pubblico ufficiale e violenza a nave da guerra.


Accuse scaturite dal presunto speronamento della motovedetta della Guardia di finanza il 29 giugno del 2019, giorno dell’arresto. Il nuovo procedimento, adesso archiviato su richiesta del procuratore aggiunto Salvatore Vella e del pm Cecilia Baravelli, riguardava un episodio di tre giorni prima quando la trentatreenne tedesca, difesa dagli avvocati Leonardo Marino e Alessandro Gamberini, decise di entrare senza autorizzazione con la nave, che stazionava davanti Lampedusa ma in acque internazionali, nelle acque territoriali italiane. All’accusa di rifiuto di obbedienza a nave da guerra si era aggiunta quella di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina per avere fatto entrare sul territorio italiano 53 immigrati.

“Ha agito - scrive il gip - nell’adempimento del dovere perché non si poteva considerare luogo sicuro il porto di Tripoli”. Il giudice cita un rapporto dell’Alto commissario per le Nazioni unite nel quale si sottolinea “che migliaia di richiedenti asilo, rifugiati e migranti in Libia versano in condizione di detenzione arbitraria e sono sottoposti a torture”. Quanto all’averli condotti in Italia, nonostante il divieto, il gip aggiunge: “La condotta risulta scriminata dalla causa di giustificazione”.

“Non può essere considerata come luogo sicuro una nave in mare che oltre a essere in balia degli eventi meteorologici avversi non consente il rispetto dei diritti fondamentali delle persone soccorse”, si legge nel decreto del giudice, che riporta quando già statuito dalla Corte di Cassazione nel confermare l’ordinanza di non convalida dell’arresto di Rackete emesso dallo stesso ufficio del Gip di Agrigento. Nel 2020 la Cassazione, infatti, aveva sancito l’illegittimità dell’arresto di Carola Rackete. Lo scorso maggio un primo provvedimento di archiviazione fece, invece, cadere le accuse di resistenza a pubblico ufficiale e violenza a nave da guerra contro l’ex comandante. Di fatto oggi si chiudono tutte le indagini penali nei confronti dei membri della Sea-Watch.

Lo sbarco degli oltre 50 naufraghi a bordo della nave, nel giugno del 2019, a Lampedusa, dunque, “non era pericoloso”. “Rilevato che il provvedimento interministeriale adottato il 15 giugno 2019″, cioè il decreto di sicurezza a firma di Matteo Salvini, “nel vietare l’ingresso, il transito o la sosta dell’imbarcazione nel mare territoriale italiano - scrive la gip - non faceva riferimento a specifiche situazioni di ordine e sicurezza pubblica che avrebbero potuto fare ritenere pericoloso lo sbarco in Italia dei naufraghi”, Dunque, per il Tribunale “non sussistono elementi sufficienti per ritenere che il passaggio della imbarcazione possa definirsi ‘non inoffensivo’”.

“Quest’ennesima archiviazione abbatte il pretestuoso muro legislativo eretto da Salvini e, nelle sue motivazioni, conferma quanto già stabilito dalla Corte di Cassazione: soccorrere chi si trova in pericolo in mare e condurlo in un luogo sicuro è un dovere sancito dal diritto internazionale”. Così Sea Watch commenta l’archiviazione dell’indagine.

martedì 21 dicembre 2021

Giappone - Eseguite 3 condanne a morte, il boia era fermo dal 2019. Le esecuzioni sono le prime sotto il primo ministro Fumio Kishida

Blog Diritti Umani - Human Rights 

Il Giappone ha impiccato tre prigionieri martedì, sono le sue prime esecuzioni negli ultimi due anni.

La camera ella morte dove vengono impiccati e condannati in Giappone

Il governo che ha affermato che era necessario mantenere la pena capitale di fronte ai continui "crimini atroci".

Il Giappone è uno dei pochi paesi sviluppati a mantenere la pena di morte e il sostegno pubblico alla pena capitale rimane alto nonostante le critiche internazionali, specialmente da parte di gruppi per i diritti umani.

Più di 100 persone sono attualmente nel braccio della morte, la maggior parte per casi di omicidio plurimi. L'esecuzioni avviene per impiccagione, di solito molto tempo dopo la sentenza.

Le persone messe a morte son: Yasutaka Fujishiro, 65 anni,  Tomoaki Takanezawa, 54 anni e Mitsunori Onogawa, 44 anni.

Le esecuzioni sono state le prime sotto il primo ministro Fumio Kishida, entrato in carica a ottobre.

ES

sabato 18 dicembre 2021

Congo: quell’umanità miserabile nel fango, per la guerra del cobalto.

Corriere della Sera
Il Paese, vasto dieci volte l’Italia, possiede il prezioso minerale (batterie elettriche) ma è una delle nazioni più povere del mondo: dove finisce questa ricchezza? In Cina
Sfruttamento del lavoro minorile nelle miniere di Cobalto in Congo

Un’ordinata schiera di camion gialli affacciati sulla voragine di una miniera di cobalto: l’immagine sembra avere poco a che fare con il Congo brulicante e sgarrupato che ci rimane più impresso nella memoria, quello che colpisce i lettori e (non sempre) i photoeditor: facce e storie diragazzini che scavano cunicoli con le mani nella terra rossastra, umanità seminuda con gli occhi spalancati che si spacca la schiena dall’alba al tramonto per rubare al sottosuolo briciole di preziosi metalli africani e piazzarle nelle tasche di feroci caporali e intermediari sanguisughe. Certo, ci sono anche loro (anzi sono la maggioranza) nel ritratto collettivo dei minatori della Repubblica (sedicente) Democratica del Congo, nazione disastrata e ricchissima di materie prime (vasta quasi dieci volte l’Italia) da cui si estrae il 60-70% di un minerale oggi molto molto ricercato: il cobalto.
 

Il secondo Paese più povero del mondo
I minatori cosiddetti “artigianali”, che scavano ai margini (o di straforo all’interno dei recinti) delle grandi miniere, rappresentano numericamente il grosso della categoria. Eppure quei camion in bella fila sul ciglio dello scavo rappresentano la ricchezza vera e principale, quella che potrebbe contribuire al progresso dei 90 milioni di abitanti del secondo Paese più povero del mondo, e che invece continua a finire altrove. Sulle 100 mila tonnellate di cobalto estratte nell’ultimo anno dalle viscere del Congo, 93 mila (secondo i dati di Benchmark Mineral Intelligence ) provengono dalle miniere che operano su grande scala. Macchinari di precisione, camion per il trasporto, padroni in cravatta all’estero. Un mercato in espansione: la Banca Mondiale stima che la domanda di cobalto crescerà del 585%da qui al 2050. Il motivo principale di questa fame di “oro blu” (che già gli antichi egizi usavano per colorare manufatti) sta nel settore dell’automotive. Il resistentissimo cobalto è componente essenziale per i catodi delle batterie al litio che fanno muovere i veicoli elettrici (EV), la cui produzione (ibridi esclusi) dovrebbe balzare dai 3,3 milioni di unità vendute nel mondo nel 2021 ai 66 milioni del 2040.

Come il petrolio
Per il Congo il cobalto è sulla carta come il petrolio per l’Arabia Saudita. A estrarre la fetta maggiore del tesoro blu nazionale sono marchi esteri, dall’anglo-svizzera Glencore alle varie imprese che fanno capo a China Molybdenum (CMOC), gigante (naturalmente) statale con quartier generale a Pechino. Come lavorano queste aziende? Come trattano i lavoratori e le comunità locali? Un mese fa, mentre nell’affollatissima Glasgow il mondo cercava una via per disinnescare la mina del cambiamento climatico, alla chetichella è uscito un dettagliato rapporto di 87 pagine redatto dall’associazione britannica Raid (Rights and Accountability in Development), che in cinque miniere industriali del Congo ha condotto un’indagine durata 28 mesi con oltre 130 interviste sul campo. Il progetto è stato realizzato con la collaborazione del Centre d’Aide Juridico-Judiciaire , un centro congolese specializzato in diritti del lavoro. Il risultato dell’inchiesta è una fotografia da abbinare a quella dei camion gialli sul bordo della miniera: sfruttamento, maltrattamenti, paghe avare, razzismo.

I nuovi colonizzatori
«Da quando sono arrivati i cinesi» ha raccontato un lavoratore «stiamo peggio di prima». Calci, insulti, botte: «Sono i nuovi colonizzatori». Anneke Van Woudenberg, direttrice esecutiva di Raid , ha allargato il tiro: «L’industria mineraria sostiene di operare in maniera pulita e sostenibile senza abusi dei diritti umani. Ma questa lettura non corrisponde alla realtà. La transizione verde non deve avvenire grazie allo sfruttamento dei minatori congolesi». Pierre mostra al fotografo di Raid due piccoli paninetti: sono l’unica razione di cibo quotidiano fornita ai lavoratori alla Tenke Fungurume Mine , all’80% di proprietà della cinese CMOC. Lo stipendio base di Pierre è di 3,5 euro al giorno. Se si ammala per più di due giorni, niente paga. «E devi stare zitto altrimenti sei licenziato. Il rapporto di lavoro è quello tra schiavi e padroni», ha raccontato a Pete Pattisson del quotidiano The Guardian.

Telefonini insanguinati
Il coltan dei nostri telefonini viene (anche) dal Kivu insanguinato da mille conflitti. Il regno del cobalto è nel Sud del Congo, lontano dalla zona dell’eterna guerra nel Nord-Est del Paese con epicentro Goma (dove il 22 febbraio di quest’anno è stato assassinato il nostro ambasciatore Luca Attanasio). Kolwezi è la sua polverosa capitale. La grande città più vicina è Lumumbashi, che porta il nome del grande premier riformatore Patrice Lubumba (fatto fuori nel 1961 da mercenari belgi per conto dell’ex amico e futuro dittatore Mobutu con il beneplacito dell’Occidente). Cosa direbbe Lumumba visitando le miniere a cielo aperto di Kolvezi? Guarderebbe ai camion in bella fila o ascolterebbe le parole di Pierre accettando uno dei suoi due panini quotidiani? Cosa direbbe ai rappresentanti delle grandi case automobilistiche quando sostengono che la loro filiera del cobalto è sostanzialmente pulita? Il cobalto estratto nella miniera dove lavora Pierre secondo il Guardian termina alla fin della filiera nelle batterie al litio che vanno a caricare i mezzi dei principali produttori di auto elettriche (comprese Tesla, VW, Volvo, Renault e Mercedes-Benz).

Le ditte intermediarie
Vero che negli ultimi tempi da parte di queste aziende si è registrato uno sforzo per migliorare la situazione (e togliere le mani dei bambini dall’attività estrattiva). Ma il nodo più problematico (o se volete la foglia di fico) sta nel fatto che almeno il 57% dei lavoratori in questione (secondo il rapporto di Raid) viene assunto da ditte intermediarie, subcontractor. Da qui la linea di difesa dei Big: sono loro i responsabili, cosa c’entriamo noi se le condizioni di lavoro per estrarre il nostro “cobalto certificato” sono inaccettabili? E pensare che Pierre e i suoi colleghi di lavoro la certezza di un reddito ce l’hanno comunque assicurata. I minatori artigianali lavorano in un Far West dove possono guadagnare anche di più oppure morire nel crollo di una galleria. E sono ancora la grande maggioranza. Nelle sue due miniere, il gigante Glencore ha in tutto 15 mila dipendenti. Gli artigianali, secondo una stima di un inviato dell’ Economist a Kolwezi, potrebbero essere 200 mila. Gente come Claude Mwansa, che al mese riesce a guadagnare l’equivalente di 50 dollari (in Congo il 70% degli abitanti vive con 2 dollari) scavando abusivamente nei siti delle grandi imprese. Al mattino quelli come lui controllano il prezzo del cobalto al telefonino sulla ruota del London Metal Exchange . Poi via sui motorini, con picconi e arnesi di fortuna. E alla sera il suo raccolto (come quello dei minatori bambini) finirà nei sacchi degli intermediari sulla via principale di Kolwezi. Mercanti cinesi, naturalmente.

di Michele Farina

lunedì 13 dicembre 2021

Non fa notizia! Migranti confine Croazia-Slovenia - Bambina di 10 anni trascinata via dalla corrente del fiume dalle braccia della madre. Ritrovato il corpo

Avvenire
La bambina, 10 anni, era sulle spalle della mamma mentre cercava di attraversare il fiume di confine ed è stata trascinata via dalla corrente. In salvo altri tre figli.
Le operazioni di salvataggio della donna turca che guadava il fiume tra Croazia e Slovenia
Foto polizia slovena, fotogramma di un video

È stato ritrovato il corpo senza vita della bambina di 10 anni travolta ieri dalla corrente del fiume Dragogna, al confine tra Slovenia e Croazia, che cercava di attraversare con la madre e i tre fratelli. Ne ha dato notizia la polizia croata, come riferito dall'agenzia Hina.

Il ritrovamento del corpo della bambina di nazionalità turca, ha riferito la polizia istriana, è avvenuto intorno alle 12.30 di oggi a circa 400 metri dal luogo della scomparsa. Le ricerche da parte di poliziotti sloveni e croati e di squadre di sommozzatori erano iniziate ieri immediatamente dopo che la piccola era stata strappata alle braccia della madre dalla corrente del fiume in piena.

La tragica scomparsa nel fiume di confine
Una madre e i suoi figli sfidano la piena del fiume Dragogna, al confine tra Croazia e Slovenia, nell'ultima tappa del loro disperato percorso migratorio dalla Turchia verso il cuore dell'Europa. I primi due, il maggiore di 18 anni e il più piccolo di 5, riescono ad attraversare il confine naturale tra i due Paesi. Un nipote di 13 anni aspetta ancora sul versante croato, quando la donna 47enne e la bambina di 10 anni vengono travolte dalla corrente troppo forte. Mentre la madre resta aggrappata come può al tronco di un albero nel letto del fiume, la bimba, che secondo le prime ricostruzioni era aggrappata alle sue spalle, viene trascinata via.

L'intervento dei primi soccorritori - un poliziotto croato e uno sloveno, insieme a un abitante del posto - riescono a mettere in salvo la donna, portata poi in ospedale in "cattive condizioni fisiche" con rischio di ipotermia e in stato di choc; ma della piccola, che secondo le autorità era disabile, non c'erano più tracce.

Le operazioni di ricerca, iniziate nella notte, sono proseguite stamani con la mobilitazione di una quarantina di membri delle forze di polizia locali e di squadre di sommozzatori croati e sloveni. Per pattugliare la zona, hanno spiegato le autorità locali, sono stati impiegati anche droni. A fine mattinata il tragico ritrovamento.

Migliaia di migranti sono bloccati da mesi lungo la rotta balcanica, raggiunta dal Mediterraneo orientale, e spesso rimangono accampati in tende di fortuna e case abbandonate, in una regione dove le condizioni meteo sono particolarmente rigide.

venerdì 10 dicembre 2021

Roma, morto di freddo un senza fissa dimora, in strada a 30 anni: il corpo trovato in zona Stazione Termini

La Repubblica
Un passante ha notato il cadavere giovedì sera alle 22 in strada a piazza dei Cinquecento


Il cadavere di un uomo, apparentemente un nordafricano di circa 30 anni, è stato trovato ieri alle 22 in strada a piazza dei Cinquecento, a pochi passi dalla stazione Termini di Roma. A segnalare il corpo senza vita un passante.

Sul posto i carabinieri della stazione Roma Macao e i colleghi di Roma Centro. L'uomo non aveva segni di violenza sul corpo. Si ipotizza una morte per ipotermia a causa del freddo che ha colpito negli ultimi giorni la Capitale. La salma è al Verano a disposizione dell'Autorità giudiziaria.

10 dicembre - Giornata Mondiale dei Diritti Umani

 Blog Diritti Umani - Human Rights

La dichiarazione Universale dei Diritti Umani



sabato 4 dicembre 2021

Covid, volano i contagi in Africa: vaccinato solo il 7,5% . La campagna di COOP per sostenere la vaccinazione in Africa

Ansa
Un boom di casi dalla scoperta della variante Omicron in tutta l'Africa specie nell'area meridionale trainata proprio dal Sud Africa che per primo ha annunciato l'individuazione del ceppo.

Vaccinazioni Covid-19 in Africa: al via la campagna COOP 
a sostegno di Sant'Egidio, UNHCR e Medici Senza Frontiere

Nell'ultima settimana i contagi registrati in tutto il continente sono aumentati del 54% secondo i dati dell'OMS. Un'impennata su cui precisa l'agenzia ONU, non ci sono dati sufficienti a certificarne il legame con la nuova mutazione del corona virus, ma secondo secondo l'Istituto Nazional per le Malattie Trasmissibili del Sud Africa, Omicron è già dominante nel Paese ed è stata individuata in tre casi su quattro tra quelli studiati nell'ultimo mese, mentre i contagi nel paese sono raddoppiati in un solo giorno tra martedì e mercoledì.

Se dagli studi emerge che la nuova variante è contagiosa come la Delta, anche sta causando più casi di reiezione e che i vaccini attualmente disponibili dovrebbero proteggere dalle conseguenze più gravi, il problema è proprio il bassissimo tasso di immunizzati in tutta l'Africa dove oggi risulta coperta con con due dosi solo 7,5% della popolazione, pari a 102 milioni di persone. cifre che sostanziano l'allarme dell'OMS sulla continua diffusione di nuovi ceppi in assenza di una campagna vaccinale equa a livello globale.


giovedì 2 dicembre 2021

Foto del Giorno - "Rifugiati alle frontiere dell'Europa"

Blog Diritti Umani - Human Rights

Foto del giorno
"Rifugiati alle frontiere dell'Europa" 


Di questa foto potremmo ricercarne la provenienza, ma non è rilevante! Situazioni simili dove i rifugiati e i migranti sono "accolti" da arresti, violenze e violazioni dei diritti fondamentali dei richiedenti asilo sono presenti in differenti luoghi sulle frontiere europee e avvengono ogni giorno: sulla rotta balcanica, in Grecia, in Ungheria, Turchia, Polonia, ...
Non si vede lo sguardo della bambina, solo immaginarlo da la misura delle tragedie che ogni giorno si verificano alle porte dei nostri paesi ...

ES


mercoledì 1 dicembre 2021

Webinar "No Justice without Life" - VIDEO - 30 Novembre 2021- Per un mondo senza pena di morte.

 santegidio.org

Webinar "No Justice without Life. Per un mondo senza pena di morte" del 30 novembre, nella Giornata mondiale delle Città per la Vita.


Interventi

David Sassoli
Presidente del Parlamento europeo

Bessolé René Bagoro
Ex ministro della giustizia, Burkina Faso 

Antoinette Chahine
Attivista, ex condannata a morte, Libano

Tawakkol Karman
Premio Nobel per la Pace

Mario Marazziti
Coordinatore Campagna per la Moratoria universale, Comunità di Sant’Egidio 

David Mathis
Ex condannato a morte, USA 

Suzana Norlihan Ujen
Attivista, avvocato, Malaysia

Sister Helen Prejean
Attivista, autrice di "Dead Man Walking", USA 

Vitus Rubianto Solichin
Vescovo di Padang, Indonesia


lunedì 29 novembre 2021

Pena di morte - Il 30 novembre "Giornata mondiale "Città per la vita" - Allargare i consensi alla risoluzione ONU sulla moratoria

santegidio.org

“La pena di morte è una pandemia millenaria che si va esaurendo”, ha affermato in conferenza stampa Mario Marazziti, coordinatore della campagna internazionale e co-fondatore della Coalizione mondiale contro la pena di morte. 

Iscriviti al Webinar

“Nel 1977 erano solo 16 i Paesi abolizionisti, mentre lo scorso anno sono stati 18 i Paesi che l’hanno usata. Un ribaltamento totale, come mostra la crescita di consenso contro questa punizione disumana e inutile: 133 Paesi hanno abolito la pena di morte oppure osservano una moratoria e non la utilizzano da almeno 10 anni”, 

ha spiegato Marazziti.

Anche negli USA gli Stati che conservano la pena capitale sono solo uno in più di quelli che non la utilizzano e lo scorso anno si è registrato il numero minore di esecuzioni degli ultimi anni. Un trend molto positivo macchiato, negli ultimi sei mesi della precedente amministrazione, da 13 esecuzioni federali, un record negativo in due secoli di storia americana”, ha osservato Marazziti. 

“Siamo convinti che Biden, che ha annunciato il blocco delle esecuzioni nel braccio della morte federale, saprà voltare pagina. La speranza è che gli USA possano astenersi o addirittura votare a favore della moratoria nella prossima Assemblea generale delle Nazioni Unite”.
Nel corso della conferenza stampa è stata illustrata la grande mobilitazione che il prossimo 30 novembre, a partire dal Colosseo, a Roma, unirà 2446 città di 70 Paesi di tutti i continenti, in occasione della giornata mondiale delle “Città per la Vita”, promossa da Sant’Egidio in ricordo del giorno in cui, per la prima volta nella storia, la pena di morte venne abolita da uno Stato, il Granducato di Toscana.


Sempre il 30 novembre, alle ore 17,30, si terrà il webinar “No Justice Without Life - Per un mondo senza pena di morte”, con la partecipazione del presidente del Parlamento europeo David Sassoli, di Tawakull Karman, premio Nobel per la pace 2011, e di altri attivisti impegnati nella battaglia contro la pena di morte, a partire dalla statunitense Sister Helen Prejean.

Maggiori informazioni al link https://www.santegidio.org/downloads/Conferenza-Stampa-Citta-per-la-Vita-2021.pdf


martedì 23 novembre 2021

30 novembre - WEBINAR - No Justice without Life - Per un mondo senza la pena di morte - Promosso da Sant'Egidio

santegidio.org
Nell'ambito della Giornata mondiale "Città per la vita, città contro la pena di morte" del 30 novembre, la Comunità di Sant'Egidio promuove un webinar internazionale dal titolo "No Justice without Life" con esperti, attivisti, testimoni e società civile da Africa, Asia, Europa e Nord America. L'evento si conclude con l'illuminazione straordinaria del Colosseo, simbolo della campagna globale contro la pena di morte.

 

Intervengono

Antoinette Chahine 
Attivista, ex condannata a morte, Libano 
Mario Marazziti
Coordinatore Campagna per la Moratoria universale, Comunità di Sant’Egidio

David Mathis
Ex condannato a morte, USA
Denis Mukwege
Medico, Premio Nobel per la Pace 2018, Congo RDC
Suzana Norlihan Ujen
Attivista, avvocato, Malaysia
Sister Helen Prejean 
Attivista, Congregation of St. Joseph, USA
Vitus Rubianto Solichin
Vescovo di Padang, Indonesia
David Sassoli
Presidente del Parlamento europeo



















domenica 21 novembre 2021

Iran - L'attivista dei diritti umani Narges Mohammadi arrestata rischia 80 frustate, aveva partecipato ad una manifestazione per un collega ucciso.

La Repubblica
La denuncia di Amnesty International: "Sia rilasciata immediatamente"
Una nota attivista per la difesa dei diritti umani iraniana, Narges Mohammadi, è stata arrestata a Karaj, nella provincia dell’Alborz, mentre partecipava alla commemorazione di Ebrahim Ketabdar, ucciso dalle forze di sicurezza durante le proteste nazionali del novembre 2019. 
L'attivista dei diritti umani Narges Mohammadi

Il giorno dopo ha telefonato ai familiari per informarli che era stata portata al carcere di Evin, nella capitale Teheran, per scontare la condanna a due anni e mezzo, emessa nel maggio 2021 insieme alla pena aggiuntiva di 80 frustate, per “propaganda contro il sistema”.

Da anni si batte contro la pena di morte. Narges Mohammadi è la vicepresidente del Centro per i difensori dei diritti umani in Iran e ha collaborato alla Campagna per l’abolizione passo dopo passo della pena di morte. 

Dopo le proteste del novembre 2019, ha sostenuto pubblicamente le richieste di verità e giustizia delle famiglie delle centinaia di manifestanti uccisi dalle forze di sicurezza. Era stata già arrestata arbitrariamente nel maggio 2015 e condannata, un anno dopo, a 16 anni di carcere solo per aver esercitato la sua libertà di espressione e di manifestazione. 

Nell’ottobre 2020, dopo una campagna globale portata avanti anche da Amnesty International, era stata scarcerata ma le autorità iraniane avevano continuato a minacciarla.

Le sue attività del tutto pacifiche. “Narges Mohammadi è una prigioniera di coscienza presa di mira solo per aver svolto attività del tutto pacifiche in favore dei diritti umani. Ora che è in carcere rischia addirittura 80 frustate. Chiediamo alle autorità iraniane di rilasciarla immediatamente, di annullare la condanna e di assicurare che sia protetta da ogni forma di tortura, comprese le frustate”, ha dichiarato Heba Morayaf, direttrice di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Africa del Nord.

Narges Mohammadi

sabato 20 novembre 2021

Sono 1236 nel 2021 le persone morte nel Mediterraneo nel tentativo di venire in Europa. Erano 858 nel 2020. Le Ong denunciato: sistematicamente ignorate le richieste di soccorso

Blog Diritti Umani – Human Rights
10 persone trovate morte sul fondo di un barcone dove erano stipate di oltre 100 migranti. La loro richiesta di aiuto è stata ignorata e hanno vagato per 13 ore al largo della Libia.


Queste morti fanno raggiungere al numero di 1236 i migranti che hanno perso la vita nel tentativo di attraversare il Mediterraneo nel 2021.

La Sea Wath e Alarm Phone ricostruiscono la vicenda e dichiarano:
"Non ne possiamo più di queste morti annunciate e che si potrebbero impedire. Condoglianze alle loro famiglie e ai loro cari".
La ong tedesca denuncia che aveva avvistato il natante in pericolo "vicino alle navi italiane AssoVenticinque e Almisan che non hanno risposto al Mayday Relay lanciato dal nostro equipaggio".

Sono 1.236 - spiega il portavoce dell'Oim, l'agenzia delle Nazioni Unite per le migrazioni, Flavio Di Giacomo - le persone morte nel Mediterraneo centrale nel 2021 (erano 858 nello stesso periodo del 2020).

ES

martedì 16 novembre 2021

Confine Bielorussia-Polonia - Per soccorrere i profughi, sfidando i divieti, una "lanterna verde" indica le case dove trovare accoglienza

Avvenire
Nelle città di confine si moltiplicano le iniziative di solidarietà spontanea. Alcuni residenti accendono una luce verde davanti alle case per segnalare che lì si può ottenere aiuto


I ribelli restano chiusi in casa. Non per timore, ma perché è proprio questo il modo con cui hanno scelto di aiutare i migranti sfidando i divieti imposti da Varsavia. Un sì spontaneo agli appelli alla solidarietà che arrivano da organizzazioni internazionali come dai vescovi del Paese.


Restano chiusi in casa e lasciano sull’uscio, nei villaggi sul confine, una luce verde sempre accesa. È il segnale convenuto per indicare a chi riuscisse ad attraversare la frontiera che in quella casa troverà un pasto caldo, coperte, braccia aperte e nessuno spione pronto a chiamare la polizia. 

Non hanno nulla da nascondere e perciò hanno aperto anche una pagina sui social network. «Nella casa contrassegnata dal “semaforo verde” dalla sera in poi troverai un aiuto d’emergenza». Oltre all’inglese, la pagina offre informazioni in arabo, curdo, francese e naturalmente polacco.

Uno dei promotori, l’avvocato Kamil Syller, ha rivolto un appello cominciando dai suoi vicini nel villaggio di Dubicze Cerkiewne, nel nord-est della Polonia. 

Un po’ alla volta le “green light” si stanno moltiplicando. La legge polacca vieta di accompagnare i migranti lungo il tragitto o di farli soggiornare per più giorni. In questi casi si va incontro a un processo per favoreggiamento dell’immigrazione illegale. Allo stesso tempo è vietato avvicinarsi al confine per lanciare viveri, sacchi a pelo, coperte in territorio bielorusso.

Gli attivisti delle "lanterne verdi", offrendo ospitalità per la notte e aiuti d’emergenza non sono perseguibili. Secondo l’avvocato Syller, molti migranti per timore di venire denunciati si nascondono nella foresta, sul lato polacco, anziché chiedere aiuto alla gente del posto. 

«Non ti aiuteremo a nasconderti o a viaggiare oltre – è il messaggio – . Ti aiuteremo solo a sopravvivere, come parte della solidarietà con una persona bisognosa».

I volontari non forniscono dati sulle persone fino ad ora accolte. Ma attaccano il governo, che emana «norme draconiane che presto legalizzeranno i respingimenti, pur sapendo che provocherà la morte delle persone. E noi abitanti della terra di confine, che vediamo il dramma e la sofferenza umana, non facciamo calcoli. Dobbiamo restare umani».

Nello Scavo

lunedì 15 novembre 2021

Sahara Occidentale. Saharawi, la guerra dimenticata che può travolgere il Nord Africa, dove si combatte dal novembre 2020

Avvenire
I fuoristrada disegnano piste sulla sabbia incandescente del Sahara Occidentale. Omar Deidih Brahim sobbalza, avvolto nel suo turbante verde, mentre sfreccia rapido il convoglio dei mezzi militari saharawi. «Dobbiamo allontanarci subito – esclama – o i soldati marocchini ci scaricheranno addosso l’artiglieria pesante». All’orizzonte, colonne di fumo e polvere si alzano dal deserto piatto. A seguire, i boati sordi squarciano il silenzio, in lontananza. Sono le batterie di razzi lanciate dai saharawi. La risposta del Marocco non si fa attendere. Una salva di missili si abbatte sulle posizioni da cui è partita l’offensiva, a non più di un chilometro da dove ci siamo riparati. «È così tutti i giorni, da ormai un anno – spiega Omar – questa è la seconda guerra del Sahara Occidentale, che il Marocco si ostina a negare». 


Ci troviamo nell’area di Mahbes, VI regione militare dell’esercito di liberazione popolare saharawi (Elps). Uno scampolo di deserto dimenticato, dove convergono i confini di quattro Paesi dell’Africa settentrionale. A Nord c’è l’Algeria e l’arido deserto dell’Hammada, dove da 46 anni giacciono i campi di rifugiati saharawi. A Est c’è la Mauritania. Sul lato opposto, il Marocco. All’orizzonte si intuisce il muro militare, la lunga duna fortificata fatta costruire da re Hassan II, negli anni Ottanta. Oltre 2.700 chilometri di sabbia e mine, il muro più lungo mai edificato al mondo, dopo la Grande muraglia cinese. Taglia in due come una cicatrice quello che dovrebbe essere il quarto Paese, il Sahara Occidentale. «Abbiamo atteso per trent’anni una soluzione pacifica, ma invano – dice Omar, mentre balza giù dalla jeep – vogliamo solo quello che ci spetta: il referendum per l’autodeterminazione del nostro popolo, chiesto dalle Nazioni Unite dal 1966. Non vogliamo restare l’ultima colonia d’Africa».
Un anno fa il Fronte Polisario dichiarava decaduta la tregua con il Marocco, dopo 29 anni. Oggi il conflitto prosegue. Nei campi dei rifugiati, pandemia e penuria di cibo

Inizia nel 1975 la decolonizzazione incompiuta del Sahara occidentale, dannato dalle sue ricchezze: fosfati e pesca. La Spagna è al capezzale del caudillo Francisco Franco. Era stato lui a rendere provincia la colonia del Sahara spagnolo. Due anni prima, i saharawi avevano dato vita al loro movimento di liberazione nazionale, il Fronte Polisario. Gli spagnoli si ritirano e siglano a Madrid un accordo segreto con Marocco e Mauritania, che si spartiscono il territorio. Il Polisario prende le armi. La prima guerra del Sahara Occidentale inizia qui e dura 16 anni. La gran parte dei saharawi si rifugia nei campi algerini, dove fonda, in esilio, la Repubblica araba saharawi democra- tica (Rasd). La Mauritania abbandona. Il Marocco cristallizza l’occupazione, costruendo il muro. Le armi tornano a tacere solo nel 1991, dopo che l’Onu convince le due parti a firmare un faticoso cessate il fuoco. Viene creata la Minurso (Missione delle Nazioni Unite per il Referendum nel Sahara Occidentale). Deve vigilare sulla pace e permettere il referendum. Ma i propositi restano tali, per 29 anni. Alla fine, il Polisario non riesce più a contenere la pressione dei giovani saharawi, fiaccati da 45 anni di esilio nel deserto. «Noi siamo un popolo pacifico – spiega ancora Omar – ma non ci era rimasta altra scelta. Siamo stati costretti a tornare alla guerra. Ora libereremo la nostra terra con le armi. O moriremo da martiri».

Omar ha 23 anni e parla quattro lingue. Con una mano tiene il kalashnikov, con l’altra un paio di libri: «L’arma più importante» sorride. Il suo percorso di studi è una mappa del vecchio mondo disallineato che appoggia la Rasd: le scuole superiori tra Libia e Algeria, l’Università a Cuba. Nei campi è tornato per combattere, dopo che la guerra è ripresa, il 13 novembre di un anno fa. Il casus belli ha luogo a Guerguerat, al confine Sud con la Mauritania. Un gruppo di civili saharawi blocca per settimane l’importante arteria commerciale che dal Marocco si dirige verso il meridione del continente. Si radunano nel tratto di strada che attraversa la buffer zone, tra il muro e il confine mauritano, l’area demilitarizzata sancita dall’Onu nel 1991. Mohamed VI decide di far entrare l’esercito. Il Polisario dichiara decaduta la tregua. E torna a combattere.

«Mi sono ferito a Guerguerat, proprio quella notte» racconta Abdalahi Mohamed Fadel, mentre si trascina zoppicando tra le corsie dell’ospedale militare di Bola. È un comandante del Polisario, uno dei veterani del primo conflitto. Da un anno si porta dietro una lacerazione al piede che non vuole saperne di guarire. «Sono stato il primo ferito di questa nuova guerra – dice – ma purtroppo non sarò l’ultimo. Da questo ospedale sono già passati diversi ragazzi. Quasi tutti feriti dall’artiglieria e dai droni da combattimento marocchini». È stato un drone ad uccidere, lo scorso aprile, Addah Al Bendir, capo di stato maggiore della gendarmeria saharawi. Finora, il Polisario conteggia una decina di perdite e circa venti feriti. «Il monarca del Marocco nega persino che ci sia un conflitto – dichiara il presidente della Rasd, Brahim Ghali – la realtà è che i combattenti saharawi attaccano le posizioni marocchine ogni giorno. Siamo disposti a fare qualunque sacrificio, pur di raggiungere quello che è un nostro diritto».

La sproporzione di forze è evidente. Ma il conflitto, seppure a bassa intensità, rischia di destabilizzare l’intero quadrante. A preoccupare è la profonda crisi diplomatica tra Algeria e Marocco. Negli scorsi mesi Algeri ha dapprima annunciato la rottura delle relazioni con Rabat. Quindi ha interdetto lo spazio aereo ai velivoli marocchini e francesi. Sullo sfondo, ancora una volta, la crisi del Sahara. Un popolo tagliato in due da un muro. Da un lato i saharawi rifugiati nei campi. Dall’altro coloro che vivono nei territori occupati dal Marocco. Salah Lebssir, per quanto giovane, appartiene a entrambe le categorie. «Sono nato e cresciuto nella città occupata di Smara – racconta – nel 2015 mi hanno arrestato per aver preso parte a una protesta saharawi. E mi hanno messo in carcere per quattro anni. Mi torturavano con cavi elettrici, bastoni, corde. Non potevo vedere la mia famiglia, né avere accesso a cure mediche». Oggi Salah vive ai campi, da rifugiato politico. Lavora come mediattivista per la Fondazione Nushatta. «Giriamo video – spiega – per bucare il blackout imposto dal Marocco e informare sul conflitto».

È sempre più difficile contenere la pressione dei giovani, fiaccati da 45 anni di esilio nel deserto Il dramma di un popolo tagliato in due da un muro

Dalle zone di guerra sono dovuti scappare circa 4.750 saharawi. Oggi sono rifugiati interni, di ritorno in un accampamento di rifugiati. E’ il caso del pastore Mohamed Moulud Sidahmed. Una vita trascorsa a pascolare le sue capre nei pressi della città di Tifariti, dove oggi si combatte. «Da quando è ripreso il conflitto – testimonia – ho dovuto abbandonare tutto. È troppo pericoloso, per me e per la mia famiglia. Siamo dovuti fuggire verso i campi. E non abbiamo più nulla». La guerra non è l’unico problema. Non piove da tre anni. E da due bisogna fare i conti anche con la pandemia. Il dottor Talebuya Brahim Ghali ci fa strada verso il reparto Covid dell’ospedale nazionale di Rabuni. Dodici letti e altrettanti respiratori, non certo di ultima generazione. Ci sono due pazienti ricoverati, un uomo e una donna, entrambi sulla sessantina. «Ora il virus è sotto controllo – spiega il dottor Ghali – ma c’è stato un momento in cui l’ospedale era saturo. Abbiamo dovuto evacuare pazienti verso Tindouf». In totale, dall’inizio della pandemia, nei campi saharawi si sono registrati oltre 1.700 casi e 67 morti.

Non c’è più farina, né riso, e per tutto il resto, è stato dato fondo agli stock d’emergenza.
Già 1.700 casi di Covid, e 67 morti, mancano i vaccini


Ma oltre al bilancio sanitario, a gravare su una popolazione che vive di aiuti umanitari, è stato il blocco delle frontiere, che ha reso impossibile l’approvvigionamento di cibo. «Non abbiamo più farina, né riso – constata Buhubaini Yahia, presidente della Mezzaluna rossa saharawi – e per tutto il resto, abbiamo già messo mano agli stock d’emergenza. Oggi, qui ai campi, tre donne su quattro soffrono di anemia. E un bambino su tre è malnutrito cronico». Stando ai numeri del Programma Alimentare Mondiale, l’insicurezza alimentare tra i saharawi è passata dal 77 per cento del pre-pandemia al 92 per cento di oggi. Meglio non va sul versante dei vaccini. Con fatica, negli ultimi mesi sono giunte anche quaggiù le prime dosi di Astra-Zeneca e SinoVac. Ma la percentuale dei vaccinati è ancora molto bassa. «Europa e Stati Uniti hanno un accesso privilegiato ai vaccini – denuncia il dottor Ghali – c’è uno squilibrio evidente. Spesso sono consapevole che alcuni miei pazienti non si salveranno, perché necessiterebbero di trattamenti che qui non possiamo fornire. È questa la cosa che fa più male».

Gilberto Mastromatteo 

lunedì 8 novembre 2021

Libia - Finalmente dopo un anno di attesa 172 rifugiati trasferiti in Niger con un volo "salvavita".

AnsaMed
Sono ripresi i voli che trasferiscono migranti dalla Libia in altri Paesi africani. "Siamo lieti che l'aereo che ha portato in salvo 172 richiedenti asilo fuori dalla Libia sia appena atterrato in Niger", ha annunciato su Twitter la notte scorsa l'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr).


"Questo è il primo volo di evacuazione in Niger da oltre un anno", sottolinea l'Unhcr, aggiungendo che il trasferimento "segna la ripresa dei voli salvavita dalla Libia e riporta la speranza ai rifugiati più vulnerabili".

Un totale di 172 "richiedenti asilo", principalmente dai Paesi africani, compresi i minori non accompagnati, sono stati evacuati in Niger dalla Libia, grazie alla ripresa dei voli umanitari.

Lo rende noto l'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr).

"Tra gli sfollati, molti sono stati detenuti in condizioni terribili, sono state vittime delle tratte o hanno subito violenze in Libia", si legge in una nota. "Gli sfollati si sono detti sollevati di lasciare la Libia", aggiunge l'Unhcr, che specifica che il gruppo è composto da famiglie, bambini che viaggiano da soli e un bambino nato poche settimane fa. 

Le 172 persone - principalmente da Eritrea, Sud Sudan e Sudan - sono state evacuate grazie a un meccanismo di emergenza dell'Unhcr che consente ai rifugiati vulnerabili di lasciare la Libia mentre l'agenzia Onu può trovare loro "una sistemazione duratura". A fine ottobre la Libia ha autorizzato la ripresa dei voli umanitari, sospesi da quasi un anno. 

sabato 6 novembre 2021

Corridoi umanitari, a Fiumicino arrivati 44 rifugiati siriani (15 bambini). Accolti in diverse regioni italiane con precisi percorsi di integrazione

Il Faro
Fiumicino – Sono atterrati questa mattina a Fiumicino, con un volo proveniente da Beirut, 44 rifugiati siriani – tra cui 15 bambini – che vivevano da tempo nei campi profughi del Libano e che negli ultimi mesi hanno sofferto un peggioramento delle loro condizioni di vita non solo a causa della pandemia, ma anche della gravissima crisi politica, economica e sociale che sta attraversando questo Paese. 


Il loro ingresso in Italia è stato reso possibile grazie ai corridoi umanitari promossi da Comunità di Sant’Egidio, Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia e Tavola Valdese, grazie al rinnovo del protocollo firmato lo scorso agosto con i Ministeri dell’Interno e degli Esteri, che prevede l’arrivo di altre 1000 persone in condizioni di vulnerabilità.
Dal febbraio 2016 con i corridoi umanitari sono giunti in Italia dal Libano più di 2050 profughi e, complessivamente, in Europa, circa 4mila richiedenti asilo.
Anche i rifugiati giunti questa mattina saranno accolti da associazioni, parrocchie e comunità in diverse regioni italiane (Lazio, Marche, Piemonte, Sicilia e Toscana) e, dopo aver trascorso un periodo di quarantena nel rispetto delle normative anti-covid, verranno avviati in un percorso di integrazione: per i minori attraverso l’immediata iscrizione a scuola e per gli adulti, subito con l’apprendimento della lingua italiana e, una volta ottenuto lo status di rifugiato, l’inserimento nel mondo lavorativo. I corridoi umanitari, interamente autofinanziati (dalla raccolta fondi di Sant’Egidio e dall’8 per mille della Tavola valdese) e realizzati grazie a una rete di accoglienza diffusa, rappresentano un modello efficace, che coniuga solidarietà e sicurezza, tanto da essere stati replicati in altri Paesi come Francia, Belgio e Andorra.

giovedì 4 novembre 2021

Etiopia - Degenera la guerra civile - Forze tigrigne verso Addis Abeba - In Tigray da entrambi i fronti: torture sui prigionieri, strupri di gruppo e arresti su base etnica.

Il Sole 24 Ore
Le forze tigrine si stanno avvicinando alla capitale, il premier Abiy chiede di fare muro. Come si è arrivati alla crisi e perché è pericolosa per l’intera regione.


Si fa sempre più incandescente la situazione in Etiopia, il paese del Corno d’Africa nel vivo di una guerra civile fra i ribelli della regione settentrionale del Tigray e il governo di Addis Abeba. 

Il primo ministro Abiy Ahmed, Nobel per la Pace nel 2019, ha dichiarato uno stato d’emergenza di sei mesi in risposta alla avanzata delle truppe tigrine verso la capitale, facendo appello ai cittadini perché «difendano» la città dall’ingresso delle truppe separatiste. 

È l’escalation più brusca di un conflitto esploso nell’autunno 2020, quando Abiy ha dato il via all’offensiva contro la regione per replicare agli attacchi delle forze tigrine alla base militare di Sero.

Nei piani di Abiy, fresco di ri-elezione dopo il voto di luglio 2021, le tensioni si sarebbero dovute risolvere nell’arco di qualche settimana. Il blitz è sfociato in una guerra intestina che si trascina da oltre un anno e rischia, ora, di far piombare definitivamente nel caos la capitale del secondo paese più popoloso dell’Africa (115 milioni di abitanti), sede dell’Unione africana e snodo economico e commerciale di prima importanza per il Continente. 

Un report pubblicato il 3 novembre dalle Nazioni unite ha denunciato le «estreme brutalità» commesse da entrambi le parti in conflitto, senza sbilanciarsi sulle maggiori responsabilità. Gli abusi perpetrati includono torture sui prigionieri, strupri di gruppo e arresti su base etnica.

Come si è arrivati a questa crisi?
L’avanzata tigrina verso Addis Abeba è l’ultimo capitolo di una guerra che ha fatto riemergere tutte le tensioni interetniche dell’Etiopia, incrinando le ambizioni di unità nazionale incarnate dallo stessi Abiy. 
Il premier, salito al potere nel 2018, ha dissolto la coalizione di governo fra i principali gruppi etnici che aveva governato per tre decenni il paese: Ethiopian People’s Revolutionary Democratic Front, un blocco politico che vedeva fra le sue forze di maggior peso proprio il partito tigrino (Tigray People’s Liberation Front, Tplf). La scelta di Abiy di sciogliere il partito e dare vita a una formazione che superasse le logiche di divisione etnica non ha incontrato i favori del Tpfl, espressione di una regione che incide sul 6% della popolazione etiope (circa 7 milioni di persone nel 2020) ma gode di un’influenza notevole negli equilibri nazionali.

Le tensioni fra la capitale e i ribelli del nord erano già fermentate di fronte alla scelta dei secondi di indire a settembre 2020 delle elezioni per il consiglio di Stato tigrino, uno strappo ovviamente sgradito ad Abiy e al potere centrale di Addis Abeba. La scintilla della guerra oggi in corso sono stati gli attacchi alle basi militari etiopi nell’ottobre 2020, l’episodio che ha spinto (ufficialmente) Abiy a reagire con l’invio delle truppe a nord. L’operazione militare ha coinvolto anche contingenti in arrivo dall’Eritrea, il paese confinante ed ex avversaria della stessa Etiopia, oltre a truppe della regione Ahamara.

Il blitz previsto da Abiy è degenerato nella guerra in corso. A giugno 2021, a otto mesi dall’inizio delle ostilità, le forze tigrine hanno ripreso «al 100%» il controllo della capitale Macallè. Nello stesso mese il governo di Addis Abeba ha isolato completamente la regione, bloccandone l’accesso a beni commerciali e aiuti umanitari, producendo quello che il report delle Nazioni unite classifica come «un severo impatto socio-economico sulla regione». 

Secondo dati risalenti a ottobre, almeno 500mila persone sono ridotte alla fame, mentre la stessa Onu ha dovuto interrompere il trasporto di beni umanitari a Macallè.

Alberto Magnani

lunedì 1 novembre 2021

Guerre dimenticate - Yemen: 460 scuola colpite, 400 mila dei bambini (60%) senza istruzione, il 20% rischia la vita

RaiNews
Yemen: Il 60% dei bambini lascia le scuole attaccate. 1 su 5 rischia violenze e la vita Sono 460 le scuole colpite dal fuoco incrociato, nella guerra civile per il controllo dei pozzi di petrolio. 400mila il numero della dispersione scolastica.

'Quando siamo a scuola, sentiamo delle esplosioni. Corriamo dentro la scuola e quando finiscono, usciamo di nuovo a giocare. Uno dei miei amici è rimasto ferito in una delle esplosioni". 

In tre righe un bambino di 8 anni racconta un ordinario giorno di scuola nello Yemen. Ma non c’è nulla di ordinario in un paese dove si combatte, da anni, una guerra civile per il controllo dei pozzi di petrolio. 


Non c’è nulla di ordinario se le scuole sono diventate dei rifugi, dei bersagli e il 60% dei bambini non è tornato tra i banchi. 

 È il quadro del nuovo rapporto di Save the Children, 'Will I see my children again?' pubblicato per la quarta Conferenza Internazionale sulla Dichiarazione delle Scuole Sicure, che si terrà da oggi al 27 ottobre per proteggere l'istruzione durante i conflitti armati. 

I numeri. I pericoli Scorrendo le pagine del rapporto non è solo la scuola il “pericolo” ma anche la strada per arrivarci. 

Un bambino su 5 ha raccontato del rischio di perdere la vita, di violenze e rapimenti. Il 90% va a scuola, ogni giorno a piedi. Negli ultimi cinque anni, più di 460 scuole sono state attaccate, comprese quelle colpite da fuoco incrociato. Più di 2.500 istituti sono stati danneggiati, utilizzati come rifugi per le famiglie sfollate o occupate da gruppi armati. La dispersione scolastica è di 400mila bambini.

 ''La situazione qui è allarmante – racconta Lamia, 30 anni, insegnante a Taiz una delle città al centro dei combattimenti- I gruppi armati si muovono in sicurezza 24 ore su 24, 7 giorni su 7, e gli studenti li vedono ogni giorno. 

In qualsiasi momento, ci aspettiamo che sparino, e spesso accade intorno al cancello in quanto gli uomini armati hanno reso questa scuola un bersaglio militare. Questo mette bambini e ragazzi in grave pericolo. Hanno persino rubato materiali da costruzione. Si studia nella paura studiando nella paura''. La paura Non c’è nulla di ordinario in tetti colpiti dall'artiglieria, in muri e classi ridotte in macerie. 

Non c’è nulla di ordinario in bambini che fanno lezione con il rombo degli aerei da guerra in sottofondo, o in tende improvvisate in campi profughi. Chi non torna a scuola, si legge nel rapporto, è per la paura ma anche perché a scuola, il luogo sicuro, hanno visto morire compagni, amici e insegnanti. Hanno visto volare via pagine di libri e quaderni.

venerdì 29 ottobre 2021

In Russia sale il numero di detenuti politici. Sono 420 come ai tempi pre Gorbaciov

rainews.it
È paragonabile a quello dell'Urss, prima dell'arrivo di Gorbaciov. Secondo le stime del Centro per i diritti dell'uomo "Memorial", nell'ultimo anno il numero di detenuti politici in Russia è salito da 362 a 420 persone, ed è paragonabile a quello ai tempi dell'Unione Sovietica, prima del rilascio dei detenuti politici per ordine di Mikhail Gorbačëv.


Tra i detenuti, 360 sono imprigionati per motivi religiosi ed altri 80 per motivi puramente politici. I dati sono stati diffusi alla vigilia della Giornata della memoria delle vittime della repressione politica che dal 1990 in Russia si commemora il 30 ottobre. 

Tuttavia, sottolinea "Memorial", il numero reale di prigionieri politici e altre persone imprigionate per motivi politici è senza dubbio significativamente più alto. L'aumento maggiore è dovuto alle condanne dei seguaci di Hizb ut-Tahrir, un'organizzazione politica internazionale pan-islamica e fondamentalista, il cui obiettivo è quello di ristabilire un califfato islamico che unisca tutta la comunità musulmana e che implementi la sharia, e dei testimoni di Geova.

giovedì 28 ottobre 2021

Siria: Onu, la guerra non è finita. Persone uccise, migliaia di detenuti, 12 milioni di sfollati soffrono la fame, 2% di vaccinati.

AnsaMed
La guerra in Siria continua nonostante molti Stati e analisti preferiscono considerare finito il conflitto: parole di Paulo Pinheiro, presidente della Commissione internazionale indipendente incaricata dall'Onu di far luce sulle violazioni umanitarie durante la guerra siriana.

In un discorso pronunciato nelle ultime ore di fronte ai membri della 3/a commissione dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite, riunitisi a New York, Pinheiro ha ricordato che in Siria si contano "diverse centinaia di migliaia di persone uccise", "decine di migliaia di detenuti", "più di 12 milioni di persone che soffrono di insicurezza alimentare" e "12 milioni di sfollati".

Nella sua relazione, Pinheiro ha detto: "molti Stati e analisti preferirebbero chiudere con il conflitto siriano. Il governo controlla oltre il 70% del Paese e il presidente Assad è stato rieletto. Ma la realtà è che la guerra contro il popolo siriano continua". "Mentre parliamo - ha proseguito - milioni di civili continuano a essere condannati alla guerra, al terrore e al dolore. Molti degli sfollati hanno visto le loro proprietà distrutte o sequestrate dal governo, da gruppi armati o gruppi terroristici".

"L'inverno sta arrivando di nuovo - ha aggiunto Pinheiro - portando il freddo pungente nelle loro tende improvvisate. I siriani ora affrontano una nuova ondata di pandemia e solo il 2,1% della popolazione è completamente vaccinata". 

Alla luce di questi dati, il presidente della commissione d'inchiesta afferma: "non è il momento di pensare che la Siria sia sicura per il ritorno a casa dei suoi rifugiati. Siamo invece assistendo a un aumento dei combattimenti e della violenza". Pinheiro cita a proposito l'escalation di violenze armate verificatesi dall'estate scorsa nel nord-ovest, nel sud, nel nord e nell'est del paese. "Centinaia di migliaia di siriani si svegliano ogni mattina, preoccupati per il destino e dove si trovano i propri cari scomparsi", ha affermato.

martedì 26 ottobre 2021

Bangladesh, i profughi Rohingya deportati nell'isola-lager di Bhasan Char. Senza lavoro e scuola cercano la fuga dall'isola

La Repubblica
Bhasan Char è il luogo in cui il governo ha trasferito decine di migliaia di migranti musulmani birmani per dare respiro al famigerato campo di Cox’s Bazar. Ma la vita è un inferno: si rischiano inondazioni, il cibo è scadente, e così in tanti cercano di scappare via barca con l'aiuto dei trafficanti. "Vogliono lavorare e raggiungere la loro famiglia"


Il suo nome in bangladese significa “l’isola galleggiante", ma potremmo anche chiamarla l’isola che non c’è. Anzi, che non c’era. E che a forza di dragare i sedimenti del fiume Meghna e costruire argini ora c’è. Anche se rischia d’essere spazzata via dalle tempeste tropicali e dalle alluvioni dei cambiamenti climatici sempre più virulenti nel Golfo del Bengala. Ma il governo del Bangladesh vuol riempirla di 100mila profughi rohingya per alleviare il sovrappopolamento a Cox’s Bazar, il mostruoso campo dove vivono ammassati altri 890mila birmani musulmani, fuggiti dalle pulizie etniche del Tatmadaw, l’esercito buddhista di Myanmar.


Il problema di quest’isola che non c’era, Bhasan Char, 40 chilometri quadrati con 1.440 palazzine e 120 rifugi anti-ciclone, sotto un manto di tetti rossi retti da mattoni forati, è che i 20mila disperati che sono già venuti a viverci non vedono l’ora di scappar via. Sognano di tornare dalle famiglie a Cox’s Bazar, di raggiungere i mariti in Malesia, in Thailandia o in Medio Oriente, per poi aprirsi una strada verso l’Europa. 

Vogliono, soprattutto, non vivere di cibo regalato dagli aiuti umanitari, ma guadagnare qualche soldo, avere la dignità di un lavoro che li illuda di un futuro diverso. Così sono pronti a morire affogati, o a farsi riacciuffare e riportare qui. Ma devono superare la polizia che controlla i loro movimenti e che a volte impedisce ai residenti d’interagire con i vicini. “Sono confinati nell’isola, senza permesso di andarsene”, denuncia Zaw Win di Fortify Rights.

In questi mesi, più di 700 profughi hanno pagato ai trafficanti dai 130 ai 500 euro a testa per salire su una barchetta e traversare i 6 chilometri di mare che dividono l'isola dalla costa. Duecento di loro sono stati arrestati e ritrascinati a Bhasan Char, nelle loro unità ben allineate e organizzate che ricordano tanto un lager. Ad agosto, sono affondate due barche di fuggiaschi. Dodici dispersi nella prima, 14 morti e 13 dispersi nella seconda. Le storie sono tante, ma raccontano la disperazione di non sentirsi a casa, di provare un vuoto senza speranza che fa sembrare la morte come un’alternativa migliore di una vita alienante, lontano dalle persone amate, senza nulla in cui sperare. “E in un’isola dove tempeste e alluvioni mettono a rischio chi ci abita”, come denuncia Human Rights Watch.

“Ci danno da mangiare sempre la stessa sbobba, ogni giorno pesce e riso, pesce e riso”, si lamenta un ragazzo. “È cibo che possono mangiare i bangladesi, ma noi rohingya non possiamo ingoiarci quella roba per il resto della vita”. Un anziano, cieco da un occhio, approfondisce il tema: “Quando la gente non ha soldi, e non ha modo di guadagnarne, anche se ha cibo sul piatto, non può essere felice. Per questo vogliono scappar via tutti”. “Sì, è vero, la responsabilità del Bangladesh è servir loro cibo ogni giorno, non trovargli un lavoro”, analizza così il problema il commissario responsabile dei profughi e del rimpatrio per il Bangladesh, Shah Rezwan Hayat. “Dobbiamo ancora sviluppare una comunità, qui. E ciò richiede che arrivi più gente, non che se ne vadano. Quando arriveranno tutti i parenti di chi vive qui, meno gente vorrà andarsene”.

È proprio la mancanza di un’attività lavorativa e la scompaginazione dei nuclei familiari a spingere alla fuga dall’isola che non c’era. Lo ammette anche il poliziotto di Chattogram, una città lungo la costa, incaricato di intercettare i fuggiaschi. “Sono irritati dal fatto di non avere un lavoro. Vogliono lavorare e guadagnare. Per questo fuggono”. Il direttore del Progetto Bhasan Char, Rahed Satter, conferma: “Sono soprattutto i giovani e gli adolescenti a voler fuggire, via fiume, strada o via mare. Vanno a cercare un futuro”.
Chi resta organizza scioperi della fame e proteste, soprattutto quando arrivano gli osservatori Onu, i giornalisti o le organizzazioni a tutela dei diritti umani. E vedono le finestre spaccate, gli atti di vandalismo che rispecchiano rabbia e non senso d’appartenenza. “Siamo circondati dal mare e viviamo terrorizzati dalle alluvioni”, dice Dil Mohammed. “E poi mancano le scuole. Mio figlio sta dimenticando tutto quello che aveva imparato nelle aule di Cox’s Bazar”.

Chi è riuscito a scappare è felice. “Morivo ogni giorno in quell’isola”, confessa Munazar Islam. Nel 2017 era sopravvissuto alla pulizia etnica buddhista nella regione di Rakhine. Il Tatmadaw gli ha ucciso tre cugini. A Cox’s Bazar si era rifatto una vita, anche se in una baracca sovraffollata in un malsano campo profughi. Era venuto volontariamente fino a Bhasan Char, pensando che avrebbe avuto condizioni di vita migliore. Si è pentito, ha pagato 350 euro a un trafficante ed ora è di nuovo con la famiglia a Cox’s Bazar, dove si trova anche Jannat Ara. Mentre fuggiva su una barca per raggiungere il marito in Malesia, Ara fu intercettata dalla marina bangladese e portata a Bhasan Char a vivere con altre tre donne. “Telefonavo piangendo ogni giorno a mamma e papà, rimasti a Cox’s Bazar”. Poi ha pagato 500 euro a un trafficante che l’ha riportata dalla famiglia. “Solo Allah sa come ho fatto a vivere lì un anno intero. Era una prigione con i tetti rossi circondata dal mare”.

Carlo Pizzati