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sabato 31 dicembre 2016

Buona notizia 2016 - 500 rifugiati al sicuro in Italia con i Corridoi Umanitari

Blog Diritti Umani - Human Rights
E’ un progetto-pilota, realizzato dalla Comunità di Sant’Egidio con la Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia e la Tavola Valdese, completamente autofinanziato.Ha come principali obiettivi evitare i viaggi con i barconi nel Mediterraneo, che hanno già provocato un numero altissimo di morti, tra cui molti bambini; impedire lo sfruttamento dei trafficanti di uomini che fanno affari con chi fugge dalle guerre;concedere a persone in "condizioni di vulnerabilità" (ad esempio, oltre a vittime di persecuzioni, torture e violenze, famiglie con bambini, anziani, malati, persone con disabilità) un ingresso legale sul territorio italiano con visto umanitario e la possibilità di presentare successivamente domanda di asilo.E’ un modo sicuro per tutti, perché il rilascio dei visti umanitari prevede i necessari controlli da parte delle autorità italiane.

2016 - Le buone notizie sui diritti umani

Corriere della Sera
Per moltissimi versi il 2016 è stato un anno nero per i diritti umani. Ma ci sono tante buone notizie che vanno ricordate. Sono il frutto della pressione dal basso, della società civile che ogni giorno manifesta, promuove appelli, organizza iniziative spesso coronate dal successo.



Nel 2016, Amnesty International ha contribuito alla scarcerazione di quasi 650 prigionieri di coscienza (una media di poco meno di due al giorno), a migliorare le leggi in 40 paesi e a far condannare criminali di guerra. Queste sono le migliori notizie dell’anno, una per mese.

21 gennaio: l’Alta corte dello Zimbabwe dichiara illegali i matrimoni di ragazze di età inferiore ai 18 anni, abrogando una norma che finora aveva consentito a bambine anche di 12 anni di sposarsi col consenso dei genitori.

26 febbraio: due ex militari dell’esercito del Guatemala sono condannati complessivamente a 360 anni di carcere per aver ridotto in schiavitù sessuale e aver torturato, nel 1982 e 1983, 15 donne all’interno del distaccamento militare di Sepur Zanco.

15 marzo: dopo oltre quattro anni di carcere e di appelli, esce dal carcere il poeta del Qatar Mohamed al-‘Ajami, noto come il “poeta dei gelsomini”. Nel novembre 1012 era stato condannato all’ergastolo per “incitamento pubblico al rovesciamento del sistema”, “sfida pubblica all’autorità dell’Emiro” e “diffamazione pubblica del principe della Corona”. Nel febbraio 2013 la condanna era stata commutata in 15 anni di carcere.

9 aprile: l’attivista studentesca di Myanmar Phyoe Phyoe Aung viene rilasciata insieme a un’altra decina di studenti in carcere. Era stata arrestata nel marzo 2015 durante una manifestazione pacifica indetta dagli studenti per protestare contro una riforma universitaria. Per i reati dei quali era imputata, rischiava fino a nove anni di carcere. Amnesty International aveva inserito il suo caso tra quelli della maratona Write for rigths 2015.

3 maggio: Atena Farghadani, giovane vignettista e promotrice di campagne per la scarcerazione dei prigionieri politici in Iran, è rilasciata dopo che in appello la sua condanna a 12 anni e nove mesi di carcere, inflittagli il 1° giugno 2015, viene ridotta a un anno e mezzo, buona parte dei quali già scontati. Atena Farghadani era stata giudicata colpevole di “collusione per compiere crimini contro la sicurezza nazionale”, “propaganda contro il sistema”, “offesa alla Guida suprema” e “offesa a membri del parlamento”.

7 giugno: dopo quasi quattro anni di prigionia, un tribunale dello stato di Sinaloa, in Messico, dispone la scarcerazione di Yecenia Armento Graciano. La donna, madre di due figli, era stata arbitrariamente arrestata dalla polizia investigativa dello stato di Sinaloa il 10 luglio 2012, picchiata, quasi asfissiata e violentata nel corso di 15 ore di torture fino a quando era stata costretta a “confessare” il coinvolgimento nell’omicidio del marito.

21 giugno: la Corte penale internazionale condanna Jean-Pierre Bemba, già ex vicepresidente della Repubblica Democratica del Congo e poi leader di un gruppo armato operante nella Repubblica Centrafricana, a 18 anni di carcere per crimini di guerra.

14 luglio: la Corte suprema di El Salvador annulla per incostituzionalità la legge di amnistia del 1993. Nei successivi 23 anni, la legge ha impedito di fare luce sui crimini commessi durante il conflitto interno tra il 1980 e il 1992, quando oltre 75.000 persone furono torturate, uccise e fatte sparire.

26 agosto: nella Repubblica Democratica del Congo vengono rilasciati Fred Bauma, Yves Makwambala, Christopher Ngoyi e Jean Marie Kalonji, quattro attivisti per la democrazia che rischiavano lunghe condanne e persino la pena di morte per accuse inventate di “complotto contro il capo dello stato”. Amnesty International aveva raccolto oltre 170.000 adesioni all’appello per il loro rilascio.

27 settembre: in Italia il Consiglio di stato dichiara Ungheria e Bulgaria paesi non sicuri versi i quali rinviare persone richiedenti protezione internazionale. In entrambe le sentenze sono menzionate le preoccupazioni e le denunce di Amnesty International riguardo al trattamento riservato ai richiedenti asilo in quei due paesi.

17 ottobre: per la prima volta un tribunale della Corea del Sud assolve due obiettori di coscienza al servizio militare che in primo grado erano stati condannati a 18 mesi di carcere. Lo stesso giorno è respinto anche il ricorso della pubblica accusa contro l’assoluzione, in primo grado, di un terzo obiettore di coscienza.

17 novembre: viene scarcerato Rosmit Mantilla, parlamentare del partito “Volontà popolare” e attivista per i diritti delle persone Lgbti in Venezuela. Era stato arrestato il 2 maggio 2014, quando il suo partito era all’opposizione, con l’accusa di aver ricevuto fondi per finanziare le proteste antigovernative che avevano avuto luogo nella prima parte di quell’anno: accusa basata unicamente su una testimonianza anonima.

4 dicembre: il Genio militare degli Stati Uniti d’America annuncia il blocco della costruzione dell’oleodotto del Nord Dakota, il cui tracciato sarebbe passato sotto il fiume Missouri e nei pressi della riserva sioux di Standing Rock. Amnesty International aveva sostenuto le proteste delle comunità native, non coinvolte nella fase di progettazione, legate ai rischi per l’acqua e l’ambiente.

Riccardo Noury

Buon 2017 - Iniziamo il nuovo anno con il passo della pace

Auguri per un 2017 di pace per tutti il lettori del
Blog Diritti umani - Human Rights 
Iniziamo il nuovo anno con il passo della pace 
il 1° gennaio manifestazioni in tutto il mondo


Pace, Sant’Egidio: il primo gennaio marcia verso San Pietro 
e manifestazioni in tutto il mondo


Il 1° gennaio, in occasione della 50° Giornata Mondiale della Pace, esprimendo il proprio sostegno al messaggio di Papa Francesco “La non violenza: stile di una politica per la pace”, la Comunità di Sant’Egidio invita a cominciare il nuovo anno partecipando a manifestazioni in tutto il mondo contro le guerre e i muri che separano gli uomini e fanno guardare al futuro con paura e rassegnazione.
In risposta ai conflitti in corso e al terrorismo che minaccia la convivenza, si svolgeranno, a Roma e in centinaia di altre città di tutti i continenti, marce e iniziative pubbliche.

Si intende lanciare un forte appello contro l’indifferenza che ha accompagnato tante guerre, come quella in Siria: un messaggio rivolto a tutti e alla comunità internazionale, gravemente assente, per lungo tempo, di fronte a centinaia di migliaia di vittime e milioni di uomini e donne costretti ad abbandonare le loro terre.

Durante le manifestazioni verranno ricordati i nomi di tutti i Paesi ancora coinvolti dai conflitti e dalla violenza nei diversi continenti.


venerdì 30 dicembre 2016

Colombia. Amnistia per guerriglia e militari consolida la pace. Senato approva all'unanimità

Il Manifesto
Una legge "storica". Così il governo colombiano ha commentato l'approvazione dell'amnistia da parte del Senato: "il primo passo per consolidare la pace", ha detto Santos, insignito del Nobel per aver portato a casa la firma degli accordi con la guerriglia marxista delle Farc. 


Il testo prevede un trattamento giuridico speciale, amnistia e indulto ai componenti delle Farc accusati di reati politici, e riguarda anche i militari.
Esclude dai benefici i responsabili di delitti di lesa umanità, genocidio, violenze sessuali, tortura ed esecuzioni extragiudiziarie. Chi confessa i crimini più gravi davanti a un tribunale speciale che dovrà presiedere alla giustizia di transizione, potrà accedere alle pene alternative al carcere. Se non accetta e viene ritenuto colpevole, dovrà scontare una pena che va da 8 a vent'anni.
Entro il 30 gennaio si saprà quanti guerriglieri verranno esclusi dalla disposizione di legge. Gli agenti dello Stato o i civili responsabili di violenze nel conflitto armato (che dura da oltre cinquant'anni) interessati dall'amnistia sarebbero circa 5.000, e circa 1.200 quelli che uscirebbero dal carcere. Il Senato ha approvato la legge con 69 voti a favore e nessun contrario. In precedenza, l'amnistia era passata alla Camera con 121 voti a favore e nessuna opposizione.
L'estrema destra del Centro democratico, diretto dall'ex presidente Alvaro Uribe, in prima fila contro gli accordi di pace, ha partecipato alla discussione in entrambe le Camere, ma è uscito dall'aula al momento del voto. 

Le Camere hanno deliberato in sessione straordinaria, in base a una procedura d'urgenza (fast track) stabilita il 24 novembre scorso, al momento della firma dell'accordo rivisto, dopo la bocciatura al referendum voluto da Santos. Ora l'ultima parola spetta alla Corte Costituzionale la cui decisione verrà ratificata da Santos.
Potrà allora cominciare la smobilitazione dei circa 5.700 guerriglieri che avevano bloccato il processo di rientro nella vita politica a causa dei ritardi nell'approvazione della normativa. Ora potranno trasferirsi nelle 26 zone stabilite dagli accordi, in attesa che si apra davvero la fase del post-accordo. Un percorso tutt'altro che lineare in un paese che, in America latina, gioca lo stesso ruolo di Israele in Medioriente. Un ruolo che, se i decisori rimangono gli stessi, avrà una ulteriore accelerazione con la firma degli accordi di partenariato con la Nato, annunciata da Santos. E resta in sospeso l'accordo con l'altra guerriglia storica, quella guevarista dell'Eln, che ha auspicato la ripresa dei negoziati.

di Geraldina Colotti

Bahrein: Nabeel Rajab scarcerato e riarrestato, il 23 gennaio si processano le sue idee

Articolo 21
Nell’udienza del 28 dicembre , il giudice ha disposto la scarcerazione in attesa del processo di Nabeel Rajab, il più noto difensore dei diritti umani del Bahrein, la monarchia del Golfo persico che dalla “primavera araba” del 2011 ha scatenato la repressione contro il dissenso. Immediatamente, la procura ha presentato nuove accuse e Rajab è rientrato in carcere in attesa della prossima udienza del processo, prevista il 23 gennaio. 


Rajab, 52 anni, presidente del Centro per i diritti umani del Bahrein, è agli arresti dal 13 giugno. Accusato di aver diffuso “notizie false in tempo di guerra” e “voci allo scopo di screditare lo stato” via Twitter, rischia fino a 13 anni di carcere, cui potrebbero aggiungersene altri per un articolo pubblicato a settembre sul New York Times e per un altro, uscito su Le Monde alla vigilia di Natale, critici nei confronti del governo.

La “guerra” su cui Nabeel Rajab avrebbe diffuso notizie false è quella che si svolge dal marzo 2015 in Yemen, dove una coalizione guidata dall’Arabia Saudita e di cui fa parte anche il Bahrein sta portando avanti un’incessante campagna di bombardamenti aerei, molti dei quali costituiscono crimini di guerra. Le “voci” riguardano invece la situazione dei diritti umani nel paese, in particolare la tortura nelle carceri, e i rapporti tra il Bahrein e lo Stato islamico, nel quale secondo Rajab sarebbero finiti a militare vari funzionari del regno.

Rajab è nel mirino degli al-Khalifa, la famiglia reale sostenuta, armata e protetta dai governi di Washington e Londra, sin dal 2012. Questi i suoi precedenti: due anni di carcere tra il 2012 e il 2014 per aver promosso e preso parte a manifestazioni pacifiche ma non autorizzate e aver in quel modo arrecato “disturbo all’ordine pubblico”; divieto di espatrio emesso nei suoi confronti nel novembre 2014 e tuttora in vigore; sei mesi di carcere nel 2015, poi ridotti a due per motivi di salute, per aver diffuso “un messaggio che potrebbe istigare l’opinione pubblica e mettere in pericolo la pace”.

Le organizzazioni per i diritti umani considerano Rajab un prigioniero di coscienza e continuano a sollecitare le autorità del Bahrein a proscioglierlo da ogni accusa e a rilasciarlo.

Riccardo Noury

Migranti: 36 minori di Calais lanciano azione legale contro Gb

AnsaMed 
Sono in 36, a molti di loro è stato negato asilo nel Regno Londra - Sono 36 i minori che vivevano nel campo profughi di Calais ad aver avviato una azione legale contro il governo britannico. Si tratta di ragazzi la cui età è compresa tra i 14 e i 17 anni e accusano, tramite i loro legali, il ministro degli Interni britannico, Amber Rudd, di aver agito in modo illegittimo nel gestire le loro richieste di asilo in Gran Bretagna. 



Secondo il Guardian, 28 di loro si sono già visti rifiutare la domanda mentre gli altri sono in attesa di una risposta dall'Home Office. I minori si trovano in diversi centri di accoglienza sparsi in Francia e arrivano in maggioranza da Eritrea, Afghanistan e Sudan.

Si tratta dell'ennesimo segnale negativo della tardiva quanto scarsa politica di sostegno ai bambini migranti mostrata dal governo di Theresa May, che su questo dossier è stato duramente criticato.

giovedì 29 dicembre 2016

India - Il giornale censurato Kashmir Reader torna in edicola

Internazionale
Un quotidiano del Kashmir torna in edicola dopo la censura del governo. Il Kashmir Reader, un giornale in lingua inglese, ha ripreso le pubblicazioni dopo tre mesi. 


Era stato accusato dal governo locale di “incitare alla violenza”, ma secondo alcune organizzazioni per i diritti umani era trattato di un attacco alla libertà d’espressione. 

La censura nei confronti del giornale era dopo gli scontri tra polizia e manifestanti, che avevano causato 80 morti, scatenati dalla morte del militante separatista Burhan Wani.

Spose bambine - Il Ciad eleva a 18 anni l’età minima per sposarsi

Amnesty International
Il Parlamento del Ciad ha approvato la riforma del codice penale del 1967. Tra le novità più importanti nel campo dei diritti umani, c’è l’abolizione della pena di morte per i reati comuni (resta in vigore per i soli casi di terrorismo, legati alla presenza del gruppo armato islamista Boko haram ai confini e a volte anche oltre i confini del paese) e soprattutto l’innalzamento a 18 anni dell’età minima per sposarsi.



Si tratta di un provvedimento fondamentale, in un paese dove – secondo dati forniti ad agosto dalla ministra per le Donne Ngarmbatina Carmel Sou Iv – il 28% delle donne tra i 15 e i 49 anni di età è stato dato in sposa prima di compiere 15 anni e il 69% delle donne tra i 20 e i 49 anni di età prima dei 18 anni.

Nel 2015 era entrata in vigore una legge che prevede da cinque a 10 anni di carcere per chiunque sia coinvolto nel matrimonio di una minorenne.

Il presidente Idriss Deby ha preso l’impegno di fronte alle Nazioni Unite di mettere al bando i matrimoni forzati e precoci entro il 2020.

Algeria: Reporters sans Frontières denuncia grave violazione della libertà di stampa

AnsaMed
Detenzioni arbitrarie e un costante aumento della violenza nei confronti dei giornalisti, in particolare via Internet; pluralismo mediatico asfittico e un servizio pubblico asservito al potere (che rimane intoccabile).


Il giornalismo algerino è sotto scacco. A dirlo è l'ultimo rapporto di Reporters sans Frontières (Rsf) dedicato alla libertà d'informazione in Algeria. A pesare, denuncia l'inchiesta - che posiziona il Paese maghrebino al 129 posto su 180 nella classifica mondiale 2016 sulla libertà di stampa - oltre alle incarcerazioni pretestuose, sono le continue pressioni politiche, le intimidazioni e, soprattutto, una nuova forma di violenza: quella che viaggia sulla Rete ''a opera di mercenari che, riprendendo articoli in controtendenza o critici nei confronti del potere, dileggiano e incitano all'odio. 

Una prassi sempre più frequente, si legge nel rapporto - in grado di scatenare commenti a catena dei lettori che, sulla pagina o sul profilo del giornalista, giungono a minacciarlo anche di morte. Dinnanzi a questa situazione, ''le autorità non fanno assolutamente nulla. E peggio ancora - scrive Rsf - secondo diverse fonti, gli stessi servizi di sicurezza incoraggerebbero questo tipo di pratica''. Se la libertà di stampa è ancora merce rara nel Paese, a mancare non sono certo le testate. Con l'avvento dei movimenti di protesta del 2011 nel mondo arabo, infatti, anche le autorità algerine avviano alcune riforme che portano a un ammorbidimento delle sanzioni (il carcere viene sostituito con ammende) e a uan lieve apertura. Nel 2014 viene cosi' modificata la legge sull'Audiovisivo e il numero di testate lievita fino a 150.

Molte di queste, o quasi tutte, per assicurarsi la pubblicità scelgono una linea piuttosto morbida nei confronti del potere. A essere meno allineate, rileva l'inchiesta, sono le testate online (web Tv e periodici) e il giornalismo diretto - dei cittadini - attraverso i social network. Il rovescio della medaglia, spiega il rapporto, è la poca chiarezza normativa che disciplina il funzionamento delle testate online e la facilità con cui le autorità possono in qualsiasi momento oscurare i siti e bloccare l'accesso alla rete. Il vero spauracchio per i giornalisti algerini è il codice penale. ''Diffamazione, oltraggio e ingiuria'', ricorda Rsf, ''sono reati disciplinati dal codice che prevede sanzioni da 2 mesi a 5 anni di detenzione e da 10 a 4.000 euro di ammenda''.

Fra i casi più eclatanti, quello del giornalista algerino-britannico Mohamed Tamalt corrispondente del giornale algerino El Khabar a Londra, morto l'11 dicembre scorso nel carcere di Algeri. Imprigionato il 27 giugno scorso, era stato condannato a 2 anni di detenzione per oltraggio e contro presidente algerino. Dopo uno sciopero della fame, il suo stato di salute si aggrava, riducendolo in fin di vita. In base alle accuse, Tamalt avrebbe postato video e poesie diffuse via Internet insultando il capo dello Stato. O ancora quello di Mehdi Benaissa e Ryad Hartouf, responsabili della Tv KBC (del gruppo El Khabar), incarcerati dal 24 giugno al 18 luglio 2016 ''per false dichiarazioni'' in merito alle autorizzazioni per effettuare alcune riprese. 

Perché le cose cambino, conclude il rapporto, serve innanzitutto l'apertura di una inchiesta in grado di stabilire la verità sulla morte di Mohamed Tamalt, che porti alla punizione dei responsabili. Rsf chiede poi ''la scarcerazione di tutti i giornalisti detenuti per il solo fatto di avere esercitato il proprio diritto a informare''; che il codice penale non venga utilizzato per avallare detenzioni arbitrarie e procedure amministrative illegali e, infine, la protezione dei giornalisti dalla violenza che scorre attraverso la Rete.

mercoledì 28 dicembre 2016

La tragedia dei migranti è senza fine. 5.000 morti nel 2016 nel Mediterraeno. Altri 100 alla vigilia di Natale.

Corriere Della Sera
Il dossier dell’alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr): quello in corso è stato l’anno più drammatico di sempre. «L’aumento dei decessi è allarmante». L’Osservatore Romano: a Natale grave sciagura. Affondati due gommoni, 100 le vittime



I numeri sono questi. 
Nel 2016 sono morti cinque mila migranti nel tentativo di attraversare il Mediterraneo, per raggiungere l’Europeo. Ogni giorno, 14 vittime. Un numero che per dimensioni non è mai stato registrato prima. Lo scorso anno, per fare un paragone, il bilancio fu di 3.771 morti. Lo ha annunciato che da tempo segnala il preoccupante aumento delle vittime del mare. L’ultima strage è stata registrata alla vigilia di Natale: 100 persone sono morte mentre tentavano di raggiungere le coste italiane a bordo di due gommoni. Il portavoce dell’Unhcr, William Spindler, ha sottolineato le avverse condizioni del mare in questo periodo e ha avvertito: «L’aumento dei decessi è allarmante».

La strage della Vigilia
Secondo quanto riferito dai sopravvissuti, due battelli si sono rotti e sono affondati, il giorno della Vigilia, facendo cadere in mare le persone a bordo. Il primo gommone trasportava tra le 120 e le 140 persone, tra cui molte donne e bambini. Solo 63 persone sono sopravvissute dopo essere state soccorse in mare. Il secondo gommone trasportava circa 120 persone, di cui 80 salvate dalla guardia costiera. Circa 175 persone sono state salvate con successo da un altro gommone e da un peschereccio. In tutto, sono 264 le persone sbarcate la notte scorsa a Trapani da una nave della Guardia Costiera. Altri otto corpi sono stati recuperati durante le operazioni
39 iracheni soccorsi a Noto
Sono stati invece intercettati solo alcune ore dopo lo sbarco i 39 iracheni arrivati ieri sull’isolotto della riserva naturale di Vendicari, nel territorio di Noto, in provincia di Siracusa. Sul luogo dello sbarco non è stata trovata alcuna imbarcazione. Secondo una prima ricostruzione dei fatti, i migranti sarebbero stati lasciati a Vendicari intorno alle 18 di ieri. Sono 23 gli uomini, 10 le donne e sei i minori. Ma i pericoli per i migranti - scrive il quotidiano della Santa Sede - non si esauriscono in mare. C’è anche chi pur avendo raggiunto il territorio europeo, dopo peripezie di ogni sorta, trova ugualmente la morte. È accaduto a un algerino di circa 25 anni, la cui identità è ancora in fase di accertamento, che è stato travolto e ucciso da un treno delle linee francesi a Ventimiglia mentre cercava di raggiungere la Francia costeggiando la ferrovia. Non è il primo a perdere la vita in questo modo. E molto ha rischiato un bambino di 10 anni che, fuggito ieri da un centro di accoglienza di Monza, ha percorso alcuni chilometri a piedi per raggiungere un altro centro, nel milanese, dove sono ospitati altri bambini e adulti che con lui avevano attraversato il Mediterraneo su un barcone. Camminava lungo la superstrada 36 Valassina. Fortunatamente è stato salvato da una pattuglia della polizia stradale.
Aruna, arti amputati
C’è poi la vicenda di Aruna, un ragazzo di 18 anni del Burkina Faso, in condizioni gravissime per le violenze subite mentre era a bordo del barcone su cui è giunto in Italia. Per lui gli infermieri dell’ospedale Pugliese-Ciaccio di Catanzaro, in Calabria, hanno lanciato un appello alle autorità, spiegando che ha bisogno di cure particolari e di protesi perché i medici hanno dovuto amputare le gambe, irrimediabilmente lesionate dai lacci stretti dai trafficanti.

di Alessandro Fulloni

ONU-Ocha: altri 7 mila sud sudanesi rifugiati in Uganda a dicembre arrivando al numero di 584.000

Agenzia Nova
Khartoum - Il numero di rifugiati sud sudanesi in fuga verso l’Uganda continua ad aumentare, con 7.046 nuovi arrivi registrati lo scorso 13 dicembre. È quanto reso noto dall’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (Ocha), 



secondo cui la maggior parte dei rifugiati hanno raggiunto l'Uganda attraverso posti di frontiera informali, mentre oltre 4 mila sono arrivati in Uganda attraverso il territorio della Repubblica democratica del Congo (Rdc). 

Secondo l’agenzia Onu, la maggior parte dei rifugiati stanno lasciando il Sud Sudan a causa del deterioramento delle condizioni di sicurezza. Oltre a quelli che fuggono in Uganda, c’è un numero crescente di persone in fuga verso il Kenya, si legge nel rapporto ripreso dal quotidiano “Sudan Tribune”. 

Dal luglio 2016 più di 394.500 sud sudanesi sono arrivati in Uganda, portando il numero totale di rifugiati nel paese a oltre 584 mila. (Res)

Sudafrica: rivolta nel carcere St. Albans a Port Elizabeth, 3 morti e 26 feriti

Reuters
Una rivolta carceraria è esplosa oggi in Sudafrica. I detenuti si sono scontrati con le guardie in una prigione fuori Port Elizabeth. Tre persone sono morte e altre 26 sono rimaste ferite. Lo riferiscono fonti ufficiali. 


A St. Albans, questo il nome della prigione, sono accorsi ambulanze e un elicottero, oltre ad altri veicoli di emergenza. Non è chiaro quanti detenuti e quante guardie siano tra i morti o tra i feriti.

martedì 27 dicembre 2016

Fosse comuni a Aleppo, segni di torture. Isis fa nuova strage

ANSA
Beirut - Fosse comuni con decine di cadaveri che presentavano segni di mutilazioni e torture: questa, secondo quanto reso noto dal ministero della Difesa di Mosca, la scoperta fatta da militari russi nella parte di Aleppo strappata nei giorni scorsi alle milizie ribelli e qaediste. E intanto la guerra non si ferma. Bombardamenti aerei governativi sono stati segnalati anche ieri su una cittadina alle porte di Damasco in mano agli insorti, mentre nel nord un'autobomba dell'Isis ha provocato una trentina di morti, secondo l'esercito turco.


Mosca afferma che nelle fosse comuni trovate ad Aleppo giacevano i resti di "diverse decine di siriani che hanno subito atroci torture e massacri". Il portavoce del ministero della Difesa, Igor Konashenkov, ha detto che alcuni dei cadaveri erano stati mutilati e altri avevano segni di ferite da arma da fuoco.

Massacri e pratiche di tortura, anche ai danni di civili, sono stati denunciati più volte durante gli oltre cinque anni e mezzo del conflitto civile. E volta a volta ne vengono accusati l'esercito governativo e milizie lealiste, gruppi di ribelli e lo Stato islamico. Ma Konashenkov ha affermato che, prima di essere costretti a lasciare i quartieri orientali di Aleppo per oltre quattro anni nelle loro mani, i ribelli hanno anche disseminato mine e trappole esplosive. 


L'Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria (Ondus) ha detto ieri che, secondo testimonianze raccolte dal terreno, 63 soldati di Damasco e miliziani loro alleati sono stati uccisi da questi ordigni a partire dal 22 dicembre, quando le forze governative hanno ripreso il controllo della città. 

Nella sua prima uscita pubblica dopo la riconquista di Aleppo, Bashar al Assad ha visitato, in occasione del Natale, un orfanatrofio cristiano nel sobborgo di Sednaya. Le fotografie pubblicate sulla pagina Facebook della presidenza siriana mostrano il presidente con la moglie Asma insieme con le suore e i bambini. Nel giorno di Natale il Papa ha lanciato un nuovo appello perché "si raggiunga una soluzione negoziale e si ristabilisca la convivenza civile" in Siria. Ma per ora le armi non tacciono.

Mentre l'esercito turco ha affermato in un comunicato che 30 persone sono state uccise da un'autobomba dell'Isis ad Al Bab, nella provincia di Aleppo, che forze ribelli siriane e soldati di Ankara stanno cercando di strappare allo Stato islamico in un'offensiva che dura da quattro mesi.

Secondo la Turchia, l'attacco è stato compiuto contro i civili che cercavano di fuggire dalla città, situata 30 chilometri a sud del confine turco.

Intensi combattimenti sono in corso anche a nord e ad ovest di Raqqa, la 'capitale' dell'Isis in Siria, in coincidenza con un'avanzata delle cosiddette Forze democratiche siriane (Sdf), a predominanza curda, sostenute dagli Usa. Fonti dell'Ondus riferiscono che le Sdf sono arrivate alla località di Tal Samn, 27 chilometri a nord della città. Circa 45 chilometri ad ovest, invece, si trovano ormai a ridosso della diga strategica di Tabqa, sull'Eufrate..
Alberto Zanconato

Nella tragedia del Tu-154 muore Elizaveta Glinka nota filantropa e attivista dei diritti umani

Sputnik
Elizaveta Glinka, nota filantropa e attivista dei diritti umani, per cui non esistevano bambini e sciagure d'altri e conosciuta da tutti come Dottoressa Lisa, secondo il ministero della Difesa era a bordo dell'aereo militare russo Tu-154 precipitato ieri nelle acque del Mar Nero diretto a Latakia.


Aiutava chi aveva poche speranze di essere aiutato, dai senzatetto, ai malati terminali e alle persone sole; portava i bambini del Donbass a Mosca per curarsi. Era un'altruista, era un angelo — ricorda con le lacrime chi conosceva la Dottoressa Lisa. Non era una persona di parole, ma di azioni concrete. Esteriormente una donna minuta, aveva mostrato dedizione e compassione, non aveva paura, combatteva e sempre era in prima linea per dire "no" alla guerra.

La Glinka faceva parte del Consiglio per i diritti umani del Cremlino. A settembre lei insieme con il presidente di quest'organo Mikhail Fedotov era stata in Siria: allora gli attivisti per i diritti umani avevano lanciato un appello per unire gli sforzi per opporsi alle sanzioni occidentali riguardo le forniture di medicinali e attrezzature mediche. 

Ora la Dottoressa Lisa era impegnata nelle consegne di aiuti umanitari in Siria, in particolare all'ospedale dell'università di Latakia: si trattava di farmaci per i bambini malati di cancro e di apparecchiature mediche, che mancavano per le sanzioni e la guerra. Più di recente, la scorsa settimana, aveva portato 17 bambini del Donbass in Russia per le cure e la riabilitazione in un ospedale di Mosca. 

Quest'anno la Dottoressa Lisa aveva ricevuto un'onorificenza di Stato per gli altissimi meriti nel campo delle attività per i diritti umani. La cerimonia ufficiale di premiazione si è svolta poche settimane fa, allora Dottoressa Lisa aveva rivelato i suoi piani per recarsi a Donetsk e in Siria. "Domani parto per Donetsk, da lì mi recherò in Siria, con me decine di altri volontari che sono impegnati in attività umanitarie. Non siamo mai sicuri di ritornare vivi, perché la guerra è l'inferno sulla terra. So quello che dico," — aveva detto Elizaveta Glinka. "E' molto difficile vedere i bambini morti e feriti nel Donbass ed i bambini siriani malati e morti", — aveva affermato, sottolineando che i veri difensori dei diritti umani sono avulsi dalla politica. "Siamo fiduciosi che un buon lavoro di compassione e misericordia sia più forte di qualsiasi arma," — aveva concluso la Dottoressa Lisa.

Sant'Egidio - Pranzi di Natale in carcere - La società civile fa festa nelle carceri accolta dai detenuti

Blog Diritti Umani - Human Rights
Regina Coeli, Rebibbia, Mammagialla a Viterbo, Poggioreale e altri sono citati ogni giorno dalle cronache giudiziarie nelle pagine dei quotidiani. Ma a Natale diventano luoghi di festa vera con i Pranzi di Natale della Comunità di Sant'Egidio.


Pranzo di Natale a Regina Coeli realizzato dalla Comunità di Sant'Egidio
Anche questa immagine racconta la realtà del carcere dove i volontari offrono il loro lavoro silenzioso e gratuito tutto l'anno scegliendo di entrare per offrire il loro sostegno per contribuire ad umanizzare questa istituzione del nostro paese, aiutando in particolare chi è più povero ed in difficoltà. 
Il carcere è uno specchio della società, soprattutto di quella che presenta problemi di natura sociale.
Infatti, una percentuale rilevante della popolazione detenuta è portatrice di seri problemi di natura socio-sanitaria: malati psichici, persone senza fissa dimora, malati di AIDS, persone con scarsissime risorse economiche ed un gran numero di tossicodipendenti.
Gli immigrati che fanno parte come gli italiani di queste categorie hanno una ulteriore criticità dovuta alle scarse relazioni sociali con l’esterno, si pensi in particolare alla mancanza della famiglia e dell’alloggio. 
Le immagini dei pranzi di Natale fanno comprendere quanto sia importante che il carcere si apra alla società civile. In questo sforzo I volontari contribuiscono a costruire quel ponte tra dentro e fuori che potrà essere percorso da persone che, superando i loro errori, saranno aiutati a reinserirsi a pieno titolo nel tessuto sociale, rendendo le nostre città inclusive, giuste e sicure.
Quest'anno, con la Comunità di Sant'Egidio in Italia centinaia persone con più di 5.000 detenuti hanno vissuto così la festa di Natale in più di 40 carceri . E' una lunga tavolata che unisce l'Italia da Nord a Sud nello spirito di solidarietà.

lunedì 26 dicembre 2016

Libia. Le condizioni tragiche di detenzione dei migranti e profughi detenuti in meno di mezzo metro quadrato a testa

La Repubblica
Le persone vivono in condizioni antigeniche e inumane e in strutture malsane. Situazione drammatica dei rifugiati e dei migranti detenuti in un paese dilaniato dalla guerra civile e in balia di bande di delinquenti, formate da forze militari, milizie, reti di contrabbando, gang criminali e individui privati.



Lo staff di Medici Senza Frontiere (Msf) che fornisce assistenza in 7 centri per migranti a Tripoli e dintorni, attraverso le ormai celebri cliniche mobili, segnala le condizioni infernali di vita delle persone trattenute nelle carceri libiche in una detenzione tanto arbitraria, quanto indefinita, di migranti, rifugiati e richiedenti asilo in Libia. 

Un Paese ancora diviso da un conflitto interno, dove i combattimenti imperversano in diverse zone. La mancanza di sicurezza, il collasso economico e l'inesistenza di un sistema di legalità trasformano la vita quotidiana di molti libici in una vera e propria lotta per la sopravvivenza. Come non bastasse, la Libia è ormai sia un luogo di destinazione che un approdo di transito per centinaia di migliaia di rifugiati, richiedenti asilo e migranti che scappano da conflitti, estrema povertà, o persecuzioni.

Esposti a violenze e sfruttamenti. Una volta in Libia, rifugiati e richiedenti asilo non possono ricevere protezione poiché manca un sistema di asilo funzionante, l'Alto Commissariato dell'Onu per i Rifugiati (Unhcr) svolge un ruolo limitato e la Libia non è firmataria della Convenzione sullo status dei rifugiati. I migranti sono esposti ad altissimi livelli di violenza e sfruttamento per mano di forze militari, milizie, reti di contrabbando, gang criminali e individui privati.
Quelli intercettati in mare dalla guardia costiera libica, o trattenuti in Libia sono inviati in centri di detenzione per migranti. Qui le persone affrontano una detenzione arbitraria per periodi prolungati in condizioni antigeniche e inumane. Non c'è alcun modo di contestare la legittimità della detenzione, che espone le persone a maltrattamenti, le priva di contatto col mondo esterno e della possibilità di accedere a cure mediche.

Accesso alle cure nelle carceri. Da luglio, Msf ha condotto 5.579 consultazioni mediche, con una media di 500 visite ogni settimana. 32 donne incinte hanno ricevuto assistenza prenatale e sono stati visitati 41 bambini con meno di 5 anni di età. Molti di loro sono nati nelle strutture di detenzione: il bambino più piccolo visitato aveva solo 5 ore di vita. 
Nell'eventualità di un'emergenza medica all'interno di una struttura detentiva, Msf tenta di organizzare il trasferimento in ospedale. Finora, 113 casi medici urgenti o con complicazioni sono stati trasferiti in una struttura sanitaria, incluse 7 persone con gravi disordini psichiatrici. Ogni trasferimento è complicato e richiede molto tempo, poiché diversi ospedali di Tripoli non accettano africani sub-sahariani.

Le patologie prevalenti. Msf sta trattando infezioni respiratorie, diarrea grave, malattie della pelle, e infezioni urinarie. Questi malesseri sono per lo più legati alle condizioni presenti all'interno dei centri detentivi che sono sovraffollati e privi di luce e areazione naturali. In alcune strutture, la quantità di spazio per ogni persona è molto limitata (poco meno di 0.41 m² per persona).

Manche anche il cibo. Nei centri detentivi c'è carenza di cibo che rende le persone più suscettibili di ammalarsi. Un numero significativo di detenuti ha sofferto di una drammatica perdita di peso, ha un aspetto estremamente emaciato e mostra segni di insufficienza nutrizionale. A volte una razione di cibo è divisa tra 5 o più detenuti, o il cibo è servito in scodelle comuni così i più deboli o invalidi non mangiano nulla. Nella prima metà di novembre, MSF ha visitato 41 persone affette da malnutrizione moderata ma anche acuta. Questo dato, che rappresenta il circa 3% di tutti i detenuti nelle strutture visitate da Msf, è molto preoccupante considerato che il Paese non è affetto né da siccità né da disastri naturali.

Il disastro dei servizi igienici. I detenuti non hanno un adeguato accesso all'acqua potabile, quindi soffrono di mal di testa, costipazione e disidratazione. L'accesso alle latrine o alle docce è gravemente limitato e i servizi igieni sono inadeguati, causando molte infezioni della pelle e infestazioni di pidocchi, acari della scabbia e pulci. Msf si è occupata della distribuzione di kit per l'igiene, di taniche di acqua, secchi e materiale per la pulizia in diversi centri di detenzione. MSF inoltre, oltre a sollecitare le autorità competenti a fornire cibo in modo adeguato, in alcuni casi specifici, dove le riserve di cibo erano finite e la situazione era diventata critica, ha fornito generi alimentari.

Difficile assistere chi ha perduto la dignità. Un'équipe di pronto soccorso psicologico supporta i detenuti coinvolti in incidenti traumatici in mare. Il supporto è stato fornito a 29 sopravvissuti del naufragio avvenuto il 27 ottobre dove almeno 100 persone sono annegate. L'équipe cerca anche di migliorare l'accesso ai servizi di salute mentale e sostegno psicologico non solo per i migranti ma anche per i libici dell'area di Tripoli. È una scelta difficile per MSF quella di lavorare in un ambiente dove le persone sono tenute in condizioni che ledono la dignità umana, con nessuna prospettiva di migliorare la loro situazione e con nessuna idea del perché o per quanto ancora rimarranno rinchiusi.

Il lavoro quotidiano di Msf. Ciononostante l'aspettativa è che con la presenza e l'assistenza medica, Msf possa assicurare un miglioramento immediato delle condizioni di vita dei detenuti. Ogni giorno le équipe di Msf si fanno promotrici di un trattamento umano per le persone trattenute nei centri, sottolineando l'importanza di ricevere cibo e acqua adeguati, e di accedere a latrine e docce funzionanti. Lo staff di Medici Senza Frontiere preme affinché le autorità rilascino le donne incinte, le donne con neonati, bambini e ragazzi al di sotto dei 18 anni di età, e persone disabili o con gravi condizioni di salute.

India. Morti sospette in carcere, Human Right Watch denuncia: circa 600 casi in 5 anni

interris.it
Secondo un rapporto stilato dall'associazione, sarebbero sempre più frequenti gli abusi da parte della polizia sui detenuti in stato di fermo.
Quasi 600 persone, in India, tra il 2010 e il 2015, sarebbero decedute mentre si trovavano sotto custodia cautelare delle Forze dell'ordine locali: questo, almeno, è quanto emerge dal rapporto "Bound by brotherhood: Indiàs failure to end killings in police custody", stilato dall'associazione umanitaria "Human Right Watch" (Hrw) in oltre cento pagine di dati e referti.
 


Dall'analisi effettuata dall'associazione basata, come specificato dagli interessati, su documenti ufficiali, vengono citati ben 17 casi di "morti sospette", in merito ai quali sarebbero stati avviati altrettanti "approfonditi procedimenti d'indagine".
Nelle situazioni prese in esame, i detenuti presi in carico dalle forze di polizia non sarebbero stati tratti in arresto secondo le procedure stabilite per legge e, ancor peggio, sarebbero stati sottoposti ad abusi e torture fisiche, messe in atto da alcuni agenti.
Una pratica comune, evidenzia il rapporto, ma perlopiù ignorata, giustificata con motivazioni quali malori, malattie o epidemie congenite e quant'altro. In alcuni circostanze, addirittura, si è parlato di suicidi. Per far luce sui 17 casi posti sotto indagine, l'associazione umanitaria si è avvalsa della collaborazione dei parenti delle vittime, circostanza che ha, in più casi, smentito la versione ufficiale. Come sottolineato dagli attivisti, in India, la custodia cautelare è sancita con una regolamentazione legislativa e prevede, per il trattenuto, una visita medica di routine (la quale ha esattamente lo scopo di attestarne le condizioni fisiche prima dell'eventuale detenzione), e l'obbligo di comparsa davanti a un giudice entro le 24 ore dal fermo.
Entrambi i vincoli, spiega ancora Hrw, verrebbero sempre più spesso glissati da parte dei rappresentanti delle forze dell'ordine e, in molti casi, la prolungata detenzione, unita all'applicazione di vessazioni fisiche, potrebbero costituire la reale causa dei decessi. E questo nonostante l'Organizzazione umanitaria delle Nazioni unite vieti espressamente le confessioni ottenute o, per meglio dire, estorte con metodi quali la tortura, attraverso il protocollo "International Convention for the protection of all persons from enforced disappearance".
Una convenzione alla quale, pur non avendola ancora sottoscritta, l'India ha aderito. A ogni modo, alla base di tale mancanza di osservazione al regolamento vi sarebbe il diverso codice comportamentale adottato dalla polizia, la quale non risponde al convenzionale procedimento penale né, di rimando, alle sue regole.
Una situazione decisamente critica quella evidenziata dal rapporto, il quale ha messo in evidenza una realtà sinistramente aleggiante all'interno dei percorsi di giustizia indiani. A testimonianza della tesi sostenuta dall'associazione, i numeri sugli abusi compiuti dagli organi di giustizia, riportati nelle pagine della relazione: prendendo in esame solo l'anno 2015, infatti, sarebbero circa 97 i decessi avvenuti in fase di custodia cautelare, dei quali solo 37 hanno portato all'avviamento di indagini interne ai commissariati coinvolti. Un quadro dai contorni senza dubbio preoccupanti, aggravati dalla quasi totale assenza di accurati accertamenti riguardo i casi sospetti. Quella che potrebbe definirsi, di fatto, una sorta di impunità.

Medio Oriente. L'Onu vota contro le colonie d'Israele, storica astensione degli Usa

La Stampa
L'ira di Trump: "Le cose andranno diversamente dopo il 20 gennaio". Netanyahu: Israele non rispetterà la risoluzione. Storica astensione degli Stati Uniti all'Onu, grazie alla quale il Consiglio di sicurezza ha approvato una risoluzione di condanna degli insediamenti israeliani in Cisgiordania. 



Al voto si è arrivati dopo un braccio di ferro tra l'amministrazione Obama e il governo di Benjamin Netanyahu, che si è persino rivolto al presidente americano eletto Donald Trump per tentare di scongiurare il passaggio del testo attraverso il veto degli Usa. Ma così non è stato. Stavolta Barack Obama ha fatto seguire alle parole i fatti. 

E, dopo aver criticato più volte la politica di Israele sulle colonie nella West Bank, ha deciso di dare un segnale forte come non mai, permettendo il varo di una decisione in cui si afferma che gli insediamenti non hanno una validità legale e ostacolano il processo di pace in Medio Oriente.
L'ira di Israele - che aveva già definito "vergognosa" l'attesa mossa di Obama alla vigilia del voto - non si è fatta attendere, con l'ambasciatore presso il Palazzo di Vetro che ha parlato di "risoluzione scandalosa".
Per Obama si tratta di una piccola-grande rivincita dopo aver fallito nel favorire i negoziati tra israeliani e palestinesi, fin dal 2009 la sua priorità numero uno in politica estera. Con la decisione di dare carta bianca al segretario di stato John Kerry la cui missione era di portare a casa una storica pace. 

Così non è stato, anche a causa dei gelidi rapporti tra Obama e Netanyahu che hanno fatto precipitare le relazioni tra Usa e Israele ai minimi di sempre.
Neppure Donald Trump è riuscito a fermare il voto dell'Onu o a convincere la Casa Bianca a presentare il veto come in passato. A lui si è rivolto il governo israeliano quando oramai si era capita l'intenzione di Obama. Il tycoon - con un' interferenza senza precedenti per un presidente eletto - ha provato il tutto per tutto, telefonando anche al presidente egiziano al Sisi che aveva presentato la risoluzione originaria. Una chiamata che in effetti ha portato l'Egitto a rinunciare al voto nella giornata di giovedì.
Netanyahu: Israele non rispetterà la risoluzione - "Israele respinge la risoluzione dell'Onu", definisce il voto del Consiglio di Sicurezza "vergognoso" e annuncia che non la rispetterà. Lo ha detto l'ufficio del premier Benyamin Netanyahu, citato dai media locali. "L'amministrazione Obama non solo ha fallito nel proteggere Israele dall'ossessione dell'Onu, ma ha collaborato con l'Onu alle sue spalle. Israele non vede l'ora di lavorare con il presidente Trump per arginare gli effetti di questa risoluzione assurda", conclude l'ufficio del premier.
Abu Mazen: Il voto dell'Onu è uno schiaffo a Israele - Diametralmente opposte le parole del portavoce di Abu Mazen, secondo cui il voto del Consiglio di Sicurezza contro le colonie in Cisgiordania "rappresenta un grande schiaffo alla politica israeliana ed è un'unanime condanna internazionale delle colonie", oltre ad essere "un forte sostegno allo soluzione a due Stati".

domenica 25 dicembre 2016

USA. Obama trasferirà 18 detenuti di Guantànamo, uno accolto in Italia

Il Fogliettone L'amministrazione Obama ha intenzione di trasferire 17 o 18 dei 59 detenuti ancora presenti nel carcere di Guantànamo. Secondo il New York Times, l'Italia ne accoglierà uno, come promesso dal presidente del Consiglio, Matteo Renzi, al presidente Barack Obama, durante l'ultima cena di Stato alla Casa Bianca, lo scorso ottobre.


Prima che l'accordo fosse stipulato, racconta il New York Times, Renzi si è dimesso. Così, il giorno dopo la formazione del governo Gentiloni, il segretario di Stato, John Kerry, ha telefonato all'ex ministro degli Esteri per congratularsi, ma anche per chiedergli di rispettare l'impegno di Renzi. 

Gentiloni, secondo il quotidiano, ha ribadito l'impegno; l'Italia ha già accolto, la scorsa estate, un cittadino yemenita detenuto a Guantànamo.
L'urgenza con cui gli Stati Uniti si sono rivolti all'Italia dimostra la volontà dell'attuale amministrazione di fare il possibile per trasferire il più alto numero di detenuti, visto che in 22 hanno ottenuto il via libera per il trasferimento. Dato che il Pentagono deve notificare un trasferimento al Congresso con 30 giorni di anticipo, il termine ultimo per l'attuale amministrazione era ieri. 

Per questo, è stata presentata una richiesta per il trasferimento di 17 o 18 detenuti; se tutto andrà come previsto, a Guantànamo resteranno 41 o 42 detenuti. Il presidente eletto, Donald Trump, ha più volte detto di voler tenere aperto il centro di detenzione e di volerlo "riempire di cattive persone".

Etiopia. Le autorità annunciano il rilascio di 10mila detenuti arrestati durante le proteste Oromo

Nova
Le autorità etiopi hanno stabilito il rilascio di circa 10 mila persone arrestate durante lo stato di emergenza entrato in vigore ad ottobre. Lo riferisce l'emittente "Bbc", secondo cui altre 2.500 persone dovranno rispondere all'accusa di avere fomentato proteste nel paese. 


Secondo quanto riferito dalle autorità, le persone rilasciate sono state sottoposte a una formazione speciale" per evitare il ripetersi di "atteggiamenti distruttivi". La maggior parte dei detenuti proviene dalle regioni di Oromia e Amhara, teatro delle recenti proteste antigovernative, che hanno portato il governo a imporre lo stato di emergenza.

La recente ondata di manifestazioni ha avuto inizio all'inizio di ottobre dopo l'uccisione di almeno 55 persone a seguito di una manifestazione religiosa organizzata nella regione di Oromia, dove decine di persone sono morte a seguito degli scontri avvenuti nel corso di una festa religiosa. 

A riaccendere i riflettori sulla questione oromo era stato nel mese di agosto il plateale gesto di Feyisa Lilesa, il maratoneta etiope che alle Olimpiadi di Rio ha concluso la gara con le braccia incrociate in segno di protesta contro il governo per la repressione dei manifestanti di etnia oromo.
Le proteste oromo sono scoppiate nel novembre 2015 contro il piano di espansione della città di Addis Abeba nella regione di Oromia. Il piano è stato in seguito abbandonato, ma le proteste dei manifestanti di etnia oromo e ahmara hanno continuato ad infiammare a più riprese il paese. 

I dimostranti temono in particolare che i progetti del governo costringano gli agricoltori oromo, maggiore gruppo etnico del paese con alle spalle una storia piuttosto conflittuale con le autorità centrali, ad abbandonare la propria terra. La crisi si è acuita il 23 dicembre 2015 scorso, quando la polizia ha arrestato il vicepresidente del Congresso federalista oromo (Ofc) Bekele Gerba, già in passato condannato a quattro anni di carcere perché riconosciuto dalle autorità etiopi come membro dell'Organizzazione per la liberazione dell'Oromia. Le proteste sono iniziate nella località di Ginchi, 80 chilometri a sud-ovest della capitale Addis Abeba, dopo il tentativo da parte delle autorità di abbattere una foresta per fare spazio a un progetto edilizio.

sabato 24 dicembre 2016

Buon Natale a tutti i lettori del Blog Diritti Umani

Blog Diritti Umani - Human Rights
Buon Natale!
Mentre si accavallano ogni giorno notizie di guerra e di terrore, siamo tentati di dire e pensare che ormai non c'è più nulla da fare, che tutti gli sforzi sono inutili. Ormai il male e la guerra stanno dilagando, non c'è modo di porre un argine.
Ma il Natale è il simbolo e una realtà per tutte le donne e gli uomini perché una speranza comunque nasce. Gesù, nasce nelle difficoltà, non nel benessere e nella tranquillità.
Questa speranza è piccola come un bambino, è debole, ha bisogno di essere alimentata ed aiutata a crescere. Questo è il compito di ognuno di fronte al male che sembra vincere. Alimentare e curare questa speranza.
Questo è l'augurio per tutti i lettori di questo Blog e dei "Social" ad esso collegato.  
I post pubblicati cercano di sostenere la necessità di "rimanere umani" ponendo attenzione a guerre dimenticate e a notizie che trovano poco spazio e rilevo ma che nascondono grandi sofferenze che non possono essere ignorate. Ma anche dando voce a belle notizie che sono piccole luci nel buio che riescono a rischiarare e a non far perdere l'orientamento.  
Buon Natale a tutti gli amici e compagni in questa strada
Rifugiata siriana con il suo bambino a Beirut - Presepe contemporaneo!

venerdì 23 dicembre 2016

Filippine - Carceri affollate di tossicodipendenti che fuggono dagli squadroni della morte di Duterte

Corriere della Sera
Per evitare le esecuzioni sommarie nelle strade scatenate dal presidente Duterte (seimila vittime da maggio), molti tossicodipendenti si consegnano alla polizia: si sentono più al sicuro in cella o nei centri di disintossicazione. 

Carcere di Pisay City - 900 detenuti in un carcere che ne può accogliere 100.
Tutti tossicodipendenti in fuga dagli squadroni della morte

«Ridatemi la pena di morte e organizzerò esecuzioni ogni giorno, cinque o sei. Così vincerò la guerra contro il crimine». Questa sulla quota giornaliera di sentenze capitali è l’ultima esternazione di Rodrigo Duterte, presidente delle Filippine, avvocato, ex sindaco pistolero di Davao. A maggio ha vinto le elezioni giurando di ripulire le strade del Paese e di estirpare il traffico di droga, schiacciando spacciatori e tossicodipendenti. Sta mantenendo la parola con feroce determinazione. Da quando è entrato in carica, il 30 giugno, sono stati contati seimila morti: duemila abbattuti dalla polizia, quattromila eliminati da vigilantes e mercenari organizzati per accelerare il «lavoro sporco».

Il ritorno del patibolo: «5-6 al giorno»
La pena capitale a Manila fu abolita nel 1987, venne reintrodotta nel 1993 e di nuovo abolita nel 2006. Duterte, noto come «il castigatore», si è impegnato nel riproporla come arma totale della sua campagna di purificazione nazionale, per reati che vanno dall’omicidio allo stupro, dal possesso di droga al furto d’auto. La legge è già alla Camera e avanza nonostante le critiche della Chiesa cattolica, che nelle Filippine ha un vasto seguito. Il presidente sostiene che il capestro non abbia funzionato come deterrente in passato perché «pochi detenuti venivano giustiziati». Ecco spiegata la trovata della quota «cinque o sei davanti al boia ogni giorno».

«Niente plotone d’esecuzione: costa troppo»
Duterte ha anche detto di volere l’impiccagione come sistema. «Il capestro è come spegnere la luce, togli la spina e finisce tutto. Il plotone d’esecuzione è più costoso, perché si usano pallottole ed è più crudele e anche la sedia elettrica fa spendere soldi in energia. Qui si tratta di uccidere i cattivi e non è il caso di spendere troppi soldi».

Uccisioni extragiudiziarie e celle piene
In attesa del boia di Stato, il piano antidroga di Duterte si avvale di uccisioni extragiudiziarie e le carceri filippine si sono riempite — come testimoniano le immagini che vi proponiamo in questa pagina, frutto del lavoro sul campo del fotoreporter Alberto Maretti, specializzato in reportage (pubblicati anche dal network Al Jazeera) su questioni sociali e umanitarie —. Nelle celle i detenuti per reati di droga dormono ammucchiati in spazi che contengono il doppio, il triplo della popolazione carceraria per la quale erano stati concepiti. Sono piene anche le piccole celle di sicurezza annesse alle stazioni di polizia, dove alcuni arrestati aspettano per mesi di comparire davanti a un giudice. E non ci sono più posti nei centri di disintossicazione. Decine di migliaia di tossicodipendenti, terrorizzati dalle squadre della morte scatenate da Duterte, si sono consegnati alle autorità per farsi curare e il risultato è che i circa 40 centri di riabilitazione del Paese sono stati presi d’assalto: solo nel Bicutan di Manila arrivano fino a 30 pazienti al giorno, il doppio della sua capacità di accoglienza.

Soldi dal governo ai centri di disintossicazione
Qualche giorno fa il presidente ha annunciato un «regalo» ai ricoverati: un finanziamento straordinario ai centri di disintossicazione. «Spero che un miliardo di pesos (20 milioni di euro circa, ndr) farà grandi cose per il vostro trattamento a Natale», ha detto Duterte. Ma subito il giustiziere ha aggiunto: «Però, se siete impazziti per la droga e non c’è più possibilità di recuperarvi, vi manderò una bella corda così vi potrete impiccare con le vostre mani».

Brutalità e liste nere: si spara a vista
L’operazione antidroga è condotta con brutalità, ogni notte si contano una dozzina di uccisioni: la polizia batte le zone frequentate da spacciatori e tossicodipendenti con elenchi forniti da informatori, bussa alle porte dei sospetti con l’ordine ufficiale di convincerli ad arrendersi. Poi si verifica «un incidente», gli agenti sparano e il pusher o il cliente restano sul terreno. In realtà spesso non c’è stato nessun incidente, nessun tentativo di fuga o di resistenza da parte dei ricercati: semplicemente gli agenti o i mercenari erano venuti per uccidere.

Francis, 6 anni, ucciso insieme al padre
Questo è il racconto fatto alla Cnn da Elizabeth Navarro, che ha visto il marito e il figlio di sei anni morire sotto i suoi occhi: «Era notte, abbiamo sentito bussare alla porta, mio marito ha chiesto “Chi è?”, poi ci sono stati due colpi di pistola. Quando ho acceso la luce mio marito Domingo e mio figlio Francis erano per terra, pieni di sangue». Il piccolo Francis aveva l’argento vivo addosso, era il primo a svegliarsi al mattino e per questo la mamma lo faceva dormire accanto alla porta dell’unica stanza che era la casa dei Navarro, così poteva uscire in strada a giocare al mattino lasciando i genitori in pace, a smaltire gli effetti della dose di droga. Quella notte Francis si è trovato sulla linea di fuoco dei due colpi diretti al padre. Chi ha ucciso Domingo e Francis? Agenti di polizia o vigilantes? O mercenari? Ci sono testimonianze sull’impiego di killer da parte delle forze dell’ordine, che non hanno tempo per saldare i conti con tutti i ricercati.

Anche donne negli squadroni della morte
Negli squadroni della morte ci sono anche donne. Come Maria (niente cognome) che ha raccontato alla Bbc di essere stata arruolata in un gruppo di fuoco addetto all’eliminazione degli spacciatori: per una donna è più facile avvicinarsi a un ricercato senza destare sospetti. Maria riceve 20 mila pesos a contratto, 430 euro per una vita da terminare con un colpo alla testa. Maria sostiene di aver ucciso cinque volte.

Le mani sporche di sangue del presidente
Ha ucciso anche Duterte, quando era sindaco della città di Davao. Lo ha rivendicato con orgoglio lui stesso qualche giorno fa. «Ho ammazzato tre ricercati... non so quanti dei colpi che ho sparato siano finiti nei loro corpi, ma li ho fatti fuori. È successo perché volevo mostrare ai ragazzi di pattuglia come si fa e che se lo facevo io lo potevano fare anche loro».

La 44 Magnum dell’ispettore Callaghan
Questi sistemi hanno conquistato al presidente filippino il soprannome di «Duterte Dirty», che ricorda l’Ispettore Callaghan dei film interpretati da Clint Eastwood, sempre pronto a tirar fuori la sua 44 Magnum. E ancora oggi, dopo seimila morti nelle strade, il suo gradimento tra la popolazione è altissimo, come se fosse un divo del cinema: 89 per cento secondo l’ultimo sondaggio. Le uccisioni, le carceri strapiene, però hanno suscitato critiche e minacce di inchieste sui diritti umani violati da parte delle Nazioni Unite. E quando anche gli Stati Uniti hanno espresso qualche critica, è calato il gelo diplomatico con le Filippine. Duterte ha insultato Barack Obama, ha giurato di cancellare l’alleanza con gli americani ed è volato a Pechino tra le braccia del collega Xi Jinping. La strategia spregiudicata ha fruttato al giustiziere di Manila un posto tra i personaggi più potenti del mondo: Forbes lo ha inserito al 70° posto nella sua classifica.
Lo straordinario reportage del fotografo italiano Alberto Maretti

di Guido Santevecchi, corrispondente da Pechino

Iraq - La battaglia di Mosul - La tragedia dei bambini che rischiano di essere una generazione perduta

Corriere della Sera
Di ritorno da una missione di oltre due settimane nel nord dell’Iraq, Amnesty International ha denunciato la disperata situazione di un’intera generazione di bambini coinvolti nella battaglia di Mosul, rimasti gravemente feriti e traumatizzati a causa dei combattimenti tra lo Stato islamico e le forze del governo iracheno sostenute da una coalizione a guida statunitense.



Le testimonianze, raccolte negli ospedali della regione autonoma curda e nei campi per sfollati, sono sconvolgenti: bambine e bambini di ogni età non solo hanno riportato ferite orribili ma hanno anche visto familiari e vicini di casa decapitati dai colpi di mortaio, fatti a pezzi dalle autobomba e dalle mine o sbriciolati sotto le macerie delle loro abitazioni.

Ali, due anni, è stato ferito nel quartiere Hay al-Falah di Mosul il 14 dicembre. Quando Amnesty International l’ha incontrato, respirava a malapena e aveva il volto irriconoscibile a causa delle ferite sanguinanti.

Sua nonna, Sokha, ha già perso due nipoti: Zaira di 14 anni e Wa’da di 16, uccise nello stesso attacco del 14 dicembre:

Le mie nipoti stavano da 30 giorni nella cantina di un vicino. Avevano finito le scorte di acqua e cibo. Siccome due giorni prima la zona era stata riconquistata dalle truppe governative, si sono fidate e sono uscite. Sono state colpite appena raggiunto il cancello”.
In un campo per sfollati interni, Amnesty International ha incontrato Mohammed, quattro anni. Non riesce a stare fermo, si prende a schiaffi e batte la testa contro il pavimento. Si fa i bisogni addosso più volte al giorno e ogni volta piange inconsolabilmente.

Sua madre Mouna, immobilizzata su un lettino a causa di una frattura a una gamba, ha raccontato che fa così dal colpo di mortaio del 12 novembre che ha ucciso due delle sue sorelle, Teiba di otto anni e Taghreed di 14 mesi. Ecco il racconto di Mouna:

“Continuavo a dire alle bambine di rimanere in casa. C’erano colpi di mortaio e sparatorie 24 ore al giorno. Poi è arrivato quel colpo di mortaio. Io sono caduta a terra, le bambine sono andate a sbattere la testa contro il cancello. La più piccola, gattonando, è arrivata fino da me e mi è morta in braccio”.“Mohamed e Taghreed erano inseparabili. La prendeva sempre in braccio. Non riesce a capire che la sorellina è morta, è triste e arrabbiato perché pensa che l’abbiamo lasciata a Mosul. Penso che abbia bisogno di psicoterapia ma qui nel campo non c’è niente”.
Le due figlie sopravvissute, di 10 e 12 anni, devono occuparsi di ogni cosa: andare a prendere l’acqua, cucinare, lavare i vestiti e medicare le ferire dei genitori. Non hanno il minimo tempo per giocare o studiare.

Dall’arrivo al campo per sfollati interni, bambini che hanno visto le loro sorelle e i loro fratelli morire non hanno ricevuto alcun sostegno psicologico. Le poche attività di assistenza psicosociale previste in alcuni di questi campi sono del tutto insufficienti a causa dell’alto numero di bambini coinvolti nel conflitto e in molti casi vittime dirette della violenza.

Gli operatori umanitari hanno riferito ad Amnesty International che i bambini e le bambine sfollati dalla battaglia di Mosul mostrano evidenti segni del trauma: piangono spessissimo, rimangono muti, hanno scatti di violenza e vogliono rimanere attaccati ai loro genitori o agli adulti che si prendono cura di loro.

A causa della mancanza di risorse, questi bambini non stanno ricevendo il sostegno psicologico necessario per aiutarli a elaborare eventi enormemente traumatici e iniziare a ripristinare un senso di normalità nelle loro vite.

Per chi è rimasto intrappolato a Mosul la situazione è drammatica. L’aumento del prezzo dei beni di prima necessità, così come la mancanza di cibo, carburante da riscaldamento, medicine e acqua potabile espongono i bambini a fortissimo rischio di malnutrizione, disidratazione, infezioni batteriche e altre malattie. La catastrofe umanitaria potrebbe essere alle porte.

La campagna militare per riconquistare Mosul è stata pianificata per lungo tempo. Per questo, le autorità irachene e i loro partner internazionali avrebbero potuto e dovuto organizzarsi meglio in vista delle inevitabili perdite civili, soprattutto sapendo che gli ospedali della regione autonoma curda sarebbero entrati in sofferenza a causa dell’afflusso di un gran numero di feriti.

Se ci sono risorse per fare la guerra, devono essercene anche per affrontarne gli effetti. Così non è stato. Così un’intera generazione di bambini di Mosul rischia di perdersi.



di Riccardo Noury