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giovedì 31 maggio 2018

Ungheria. Passa la legge contro le Ong che prevede il carcere per chi aiuta migranti irregolari

La Repubblica
Il partito di Orbàn approva la norma che punisce chiunque dia sostegno agli immigrati illegali: per i critici è un modo per colpire il rivale George Soros. 

Migranti irregolari presenti in Ungheria
Dopo il trionfo elettorale dell'8 aprile, il popolare, carismatico premier sovranista ungherese Viktor Orbán lancia l´offensiva finale sul fronte dei migranti e contro ogni altro presunto avversario. 

È ormai pronta e passata ieri sera dalla maggioranza assoluta detenuta dalla Fidesz (il partito di Orbán, membro dei Popolari europei) allo Orszagház, il Parlamento magiaro, la cosiddetta legge "Stop Soros" che punirà come reato penale ogni aiuto agli immigranti illegali fornito da ong o da qualsiasi organizzazione umanitaria.
Secondo la legge, qualsiasi organizzazione ma anche qualsiasi singolo cittadino che si renda colpevole di aiuto a entrare e restare in Ungheria a persone che non hanno i titoli per chiedere asilo politico sarà passibile di pene detentive. 
Una seconda legge, sempre promossa dalla maggioranza, afferma che sarà necessario introdurre un emendamento nella Costituzione ungherese per affermare esplicitamente che sarà vietato far installare o aiutare a installarsi in Ungheria qualsiasi "popolazione aliena", cioè in sostanza non conforme con valori occidentali e cristiani del paese magiaro.

Il pacchetto di leggi ungheresi è stato immediatamente condannato dall´Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr). Nelle leggi si afferma tra l'altro che "abbiamo bisogno di un piano d´azione per difendere l'Ungheria" e che "chi fornisce aiuti finanziari o di altro tipo a un ingresso e permanenza illegale nel nostro paese deve essere punibile con pene detentive fino a un anno di reclusione". 

Immediata e durissima è stata la reazione dello Unhcr: in un appello urgente ha chiesto all'Ungheria di annullare subito le nuove leggi. Sottolineando che tali leggi, se non verranno ritirate, "toglieranno ogni diritto da chi fugge da guerre e rischio di morte e al tempo stesso infiammeranno un dibattito politico già caratterizzato da forti pesanti toni xenofobi".

Nei giorni scorsi, un altro show di potere della maggioranza è stato il sequestro degli scritti inediti del grande filosofo marxista critico e oppositore sotto il regime comunista, Gyorgy Lukacs, trasportati a destinazione ignota, e la chiusura della casa di Lukacs dove fino a un giorno prima studiosi di tutto il mondo lavoravano all'edizione postuma di sue opere.

Andrea Tarquini

Corridoi umanitari Cei-Sant'Egidio: arrivati 50 profughi dal Corno d’Africa

TV2000
Dalle regioni in guerra arriva sulle coste italiane la maggior parte dei profughi, che spesso mette a repentaglio la propria vita, in mare. Per evitare queste tragedie, la Cei, in collaborazione con Sant’Egidio ha attivato dei corridoi umanitari. 



Oggi, 50 profughi provenienti da Somalia, Sudan e Eritrea hanno potuto fare il loro ingresso legale e sicuro in Italia. Servizio di Alessandra Camarca.







mercoledì 30 maggio 2018

L'America di Trump: la polizia spara in testa a una giovane migrante disarmata al confine con il Texas

Globalist
Claudia Patricia Gomez Gonzales, 20 anni, era partita dal Guatemala per trovare un lavoro che le consentisse di pagarsi l'università.


Voleva studiare legge, ma le servivano i soldi per l'Università. Così Claudia Patricia Gomez Gonzales, originaria del Guatemala, si è messa in viaggio verso gli Stati Uniti, tentando di attraversare il confine con il Texas. Dove però, ha trovato le guardie di frontiera del Customs and Border Protection (Cbp) che le hanno sparato in testa, uccidendola. Aveva 20 anni.

Era insieme ad un gruppo di migranti che l'agente che ha sparato ha definito 'aggressivi', cosa poi smentita dal rapporto della stessa Cbp, che adesso è nell'occhio del ciclone e al centro di un'indagine dell'Fbi e dei Texas Ranger. 

Ma il cadavere di Claudia è rimasto lì, a Rio Bravo e a denunciarne la morte sono i media, in particolare Al Jazeera che ha ospitato Cristina Jimenez, direttrice di United We Dream, un'organizzazione di giovani migranti con base a New York: "Il Congresso Usa deve mettere fine a questa follia. I parlamentari hanno il potere di impedire a queste agenzie di colpire le nostre comunità".

Egitto, Gehad el-Haddad in isolamento dal 2013 e ora senza sedia a rotelle

Corriere della Sera
L’accanimento delle autorità egiziane nei confronti dei detenuti, attraverso l’isolamento prolungato, era stato già recentemente denunciato da Amnesty International.
Gehad el-Haddad
Ma con la vicenda di Gehad el-Haddad sono stati raggiunti nuovi picchi di crudeltà.
El-Haddad è un ex portavoce dei Fratelli musulmani. È stato arrestato il 17 settembre 2013.

Per i primi 18 giorni di detenzione è stato tenuto in isolamento 24 ore al giorno nella sezione Liman del centro penitenziario di Tora, alla periferia del Cairo. Nei mesi successivi gli è stata permessa un’ora al giorno di esercizio fisico. Poi, nel gennaio 2014, è stato trasferito, sempre in isolamento, nella famigerata sezione chiamata “Scorpione”. Dal settembre 2016 all’agosto 2017 gli sono state negate le visite dei parenti, poi consentite ma solo per 10 minuti. Dal marzo 2018 il divieto di visita è stato ripristinato.

Colui che al momento dell’arresto era un trentenne in perfetta forma, ora è una persona rapidamente invecchiata. Le sue condizioni di salute sono via via peggiorate a tal punto che anche solo per andare in bagno dev’essere accompagnato.

L’8 aprile un medico della prigione ha disposto una visita medica e una serie di analisi radiologiche. El-Haddad è stato così trasferito nella sezione Liman, dove però la direzione del carcere ha negato la visita, rimandandolo nella sezione “Scorpione”.
Per concludere questo campionario di crudeltà, il 10 maggio gli hanno confiscato la sedia a rotelle e altri beni personali.


Suo padre, Essan Haddad, ex consigliere dell’ex presidente Morsi, è in isolamento 24 ore al giorno dal settembre 2013 e non riceve visite dei familiari dall’ottobre 2016.

martedì 29 maggio 2018

Ong lanciano allarme sulle condizioni vita richiedenti asilo Cipro

ANSAmed
Le organizzazioni umanitarie Agapi, Caritas, Cyprus Red Cross Society, Cyprus Refugee Council, Hope for Children, KISA, MiHub, Municipality of Nicosia, UNHCR, hanno realizzato una nota congiunta nella quale segnalano che i richiedenti asilo a Cipro affrontano un deterioramento delle condizioni di accoglienza sull'isola, e che aumenta il rischio per loro di vivere in stato di indigenza.


Le organizzazioni sottolineano nella nota che "il numero di persone richiedenti asilo a Cipro ha continuato a mostrare forti aumenti nel corso degli anni, soprattutto a causa del conflitto in corso in Siria: 1.887 nel 2014; 2.108 nel 2015; 2.871 nel 2016 e 4.499 nel 2017". 

I firmatari della dichiarazione ritengono "che il sistema di accoglienza nazionale si sia dimostrato inadeguato a soddisfare le esigenze di un numero crescente di richiedenti asilo e abbia urgente bisogno di una riforma globale". A seguito di un recente cambiamento di politica da parte del Servizio di asilo cipriota, il centro di accoglienza di Kofinou l'unico presente sull'isola, "non accetta più richiedenti asilo di sesso maschile. Ciò significa che, a parte le 265 persone ospitate a Kofinou e 130 minori non accompagnati che risiedono in rifugi speciali, la stragrande maggioranza dei richiedenti vive fuori dal centro" e che la carenza di alloggi e di assistenza finanziaria "lascia ancora i beneficiari al di sotto della soglia di povertà", fatto che "esacerba il rischio di indigenza per i richiedenti asilo".

Alla luce di quanto denunciato, le organizzazioni chiedono al governo cipriota di agire immediatamente per porre rimedio alla situazione. In particolare l'appello è quello di assicurare un alloggio di emergenza a tutti i richiedenti asilo bisognosi che rischiano di vivere come senzatetto, aumentare il livello di assistenza per i richiedenti asilo, ridurre il periodo di divieto di accesso al mercato del lavoro attualmente presente nel Paese, mettere in atto procedure per l'individuazione di richiedenti asilo vulnerabili e istituire misure per l'assistenza ai minori stranieri non accompagnati.

lunedì 28 maggio 2018

Migranti, l'inferno si chiama Moria: ancora violenze nel centro d'identificazione a Lesbo

La Repubblica
Attualmente sull’isola greca, secondo l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), ci sarebbero 4.521 profughi

Non c'è pace nel campo profughi di Moria, a Lesbo, l'isola greca diventata negli ultimi due anni la testa di ponte delle ondate di profughi dirette verso l'Europa. Coinvolti, stando alle testimonianze delle autorità greche, dieci rifugiati curdi siriani, rimasti gravemente feriti a seguito di uno scontro con tre persone di etnia presumibilmente araba. Sarbast Mohammed, esponente del Kurdistan Democratic Party (KDP) in Grecia, ha confermato che non ci sarebbero morti e che le vittime proverrebbero dalle città di Afrin, Kobani e Sulaimani. In totale, nelle ultime settimane, ben 72 persone sarebbero state vittime di episodi di violenza.

Condizioni disumane. Attualmente sull’isola di Lesbo, secondo l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), ci sarebbero 4.521 profughi, in gran parte trattenuti nell’hotspot di Moria, ovvero un centro d’identificazione e registrazione per i migranti irregolari. Qui vivono, in condizioni igienico-sanitarie più che precarie, quelli arrivati dopo l’entrata in vigore dell’accordo tra Unione europea e Turchia nel marzo del 2016. Da qualche settimana gli arrivi dal Paese di Erdogan sono aumentati, e i minori non accompagnati sarebbero 45.

Bloccati per mesi. Le persone arrivano a Moira pensando che prenderanno un aereo o un traghetto per raggiungere le famiglie in qualche altro Paese europeo ma poi finiscono per restare bloccate per mesi, aspettando che la propria domanda di asilo, di ricollocamento (relocation) o di ricongiungimento familiare venga valutata dalle autorità. "Più di seimila stipati in tende e container dove dovrebbero starcene 3 mila. Il mare di Lesbo è sempre stupendo, ma vi assicuro che visto da qui ha perso completamente di importanza per me. O meglio: è diventato un mare nero", si legge nel reportage di Allegra Salvini per Repubblica Firenze.

Gli effetti della "politica di contenimento". Il divieto per i richiedenti asilo di viaggiare fuori dai cinque grandi CIE a cielo aperto del mar Egeo (Lesbo, Chio, Samo, Leros e Kos), frutto della controversa "politica di contenimento" dell'Unione Europea, sta insomma creando tensioni crescenti. Distribuite su una collina, le tende a forma di scatola di scarpe sembrano porre la stessa domanda: quando finirà?


Sara Ficocelli

Sud Sudan, La lettera di un missionario la terribile condizione del paese

Avvenire
Quando la lettera mi arriva sulla scrivania, ancor prima di leggerla, già ne intuisco il contenuto e vedo lui con il cuore spezzato per il dispiacere. Guardo i francobolli del Kenya e non mi sorprende affatto che il timbro postale è del 26 febbraio. Dall'Africa a Milano più di due mesi di viaggio. 
Bambini soldato in Sud Sudan
Un po' come accade con i migranti, anche se loro di tempo ne consumano molto ma molto di più. Del resto, le parole che leggerò raccontano proprio di loro, la storia che precede la decisione che li spingerà a intraprendere il cammino della speranza. 

Perché da dove provengono queste vite, la speranza viene violentata e uccisa ogni giorno che cade sulla terra.
«Caro fratello, Gesù risorto fa miracoli... ma ha bisogno del tuo aiuto!», comincia con queste parole la lettera che padre Giacomo "Jim" Comino, da 56 anni missionario salesiano, di cui 25 passati in Africa, mi invia dal Sud Sudan. L'ho conosciuto molti anni fa a Khartoum, quando si occupava della "Scuola professionale, centro giovanile, tipografia, scuola per adulti e centro assistenza profughi Don Bosco" nella capitale del Sudan arabo musulmano. Erano gli anni della guerra che si combatteva nelle regioni equatoriali del Sudan meridionale, a prevalenza cristiano e animista. In ballo c'era l'indipendenza di quest'ultimo, siglata poi nel 2011. E soprattutto un bottino ancor più ambito: i ricchissimi giacimenti petroliferi e minerari. Ma ecco che i fratelli uniti per l'indipendenza, nel 2013, si rinnegano per soldi e potere.
«La lotta fratricida-tribale continua a mietere innumerevoli vittime. Tradirei la mia vocazione missionaria salesiana e farei un torto specialmente a 5 milioni di persone, di cui un milione sono bambini affamati, se non portassi il loro grido, ignorato, dimenticato e soffocato dai mass media – scrive un amareggiato padre "Jim" Comino –. I vescovi e noi missionari abbiamo chiesto e implorato le autorità di rispettare i valori fondamentali della vita, i diritti umani, e nel nome del signore di fermare le atrocità pazzesche, con stupri di migliaia di bambine e donne, di bambini bruciati vivi, e di orrendi crimini di guerra». 

«Dopo l'indipendenza, le speranze del Paese più giovane del mondo, ma anche del più povero e pericoloso, sono cadute con la cruenta guerra civile per il potere e la gestione delle risorse. Atrocità inumane hanno bruciato la gioia di 17mila bambini addestrati per farne dei terribili bambini soldato, il cui motto è: uccidi o sarai ucciso. Sono violentati, sfruttati, usati come scudi umani e come kamikaze. A tutto questo aggiungiamo la povertà estrema e la tremenda carestia. Una fame calcolata voluta dal governo, che sovente blocca gli aiuti alimentari che con difficoltà riusciamo ad avere, perché ci accusano di aiutare i nemici. Ma per noi sono tutti figli di Gesù risorto. La gente si nutre di radici e bacche selvatiche... Mamme con 4 o 5 bambini per mano e uno legato sulla schiena arrivano in missione sfinite dalla fame e dopo avere partorito per strada...».
La lettera, spedita dal Kenya, perché in Sud Sudan non esistono gli uffici postali, si chiude con una richiesta di aiuto: «Con il prezzo di un caffè possiamo dare un pasto a tre bambini». La lettera doveva raggiungermi per gli auguri di Pasqua. Ma anche a ricordami che tutti i giorni la speranza di un nostro prossimo è messa sulla Croce. Padre "Jim" il 29 maggio compirà 79 anni. Facciamogli un regalo.

Claudio Monici

Nigeria, "Ci hanno tradite" L'esercito "libera" donne da Boko Haram, poi le segrega e le stupra

Amnesty International
Nigeria: donne alla fame e stuprate da soldati e miliziani che sostengono di averle liberate da Boko Haram.



In un nuovo rapporto reso noto oggi, Amnesty International ha denunciato che migliaia di donne e ragazze sopravvissute alla brutalità del gruppo armato Boko haram sono state successivamente stuprate dai soldati che sostengono di averle liberate.

Il rapporto, intitolato “Ci hanno tradite”, rivela come l’esercito nigeriano e la milizia alleata, chiamata Task force civile congiunta (Jtf), hanno separato le donne dai loro mariti confinandole in “campi satellite”. Lì, le hanno stuprate, a volte in cambio di cibo. Amnesty International è in grado di documentare che dal 2015 migliaia di persone sono state ridotte alla fame nei campi dello stato di Borno, nel nordest della Nigeria.

Quando, a partire dal 2015, l’esercito ha strappato territori a Boko haram, alle persone che vivevano nei villaggi è stato ordinato di trasferirsi nei “campi satellite”. Chi ha resistito all’ordine è stato ucciso. Centinaia di migliaia di persone sono fuggite o sono state costrette a muoversi dai loro villaggi.

Ogni persona trasferita nei “campi satellite” è stata interrogata. In alcuni campi la maggior parte degli uomini da 14 a 40 anni è stata imprigionata, così come le donne che avevano viaggiato senza i loro mariti. Queste detenzioni di massa hanno costretto molte donne a badare da sole alle loro famiglie.

In alcuni casi, le violenze paiono far parte di un sistema di punizioni contro persone sospettate di avere legami con Boko haram. Alcune donne hanno denunciato di essere state picchiate e apostrofate come “vedove di Boko haram” ogni volta che si lamentavano del trattamento ricevuto.

“Suona completamente scioccante che persone che hanno già tanto sofferto nelle mani di Boko haram siano condannate a subire ulteriori tremendi abusi da pare dell’esercito. Invece di essere protette, donne e ragazze sono costrette a sottostare agli stupri per evitare la fame”, ha dichiatato Osai Ojigho, direttrice di Amnesty International Nigeria.
Stupro e sfruttamento sessuale di donne ridotte alla fame

Decine di donne hanno raccontato di essere state stuprate nei “campi satellite” da parte di soldati e miliziani della Jtf e di essere state ridotte alla fame per diventare le loro” fidanzate”, ossia essere disponibili a rapporti sessuali a ogni evenienza.
Cinque donne hanno riferito ad Amnesty International di essere state stuprate tra la fine del 2015 e l’inizio del 2016 nel campo “Ospedale di Bama”, dove la fame era all’ordine del giorno.

“Ti davano da mangiare di giorno, poi a sera venivano a prenderti. Un giorno un miliziano mi ha portato il cibo e il giorno dopo mi ha invitato ad andare a fare rifornimento d’acqua da lui. Quando sono arrivata ha chiuso la porta e mi ha stuprata. Poi mi ha detto che se avessi voluto avere quelle cose avremmo dovuto essere marito e moglie”, ha raccontato Ama (nome di fantasia), 20 anni.

Nello stesso campo altre 10 donne sono state costrette a diventare “fidanzate” per scampare alla fame. Molte di loro avevano già perso figli e altri familiari a causa della mancanza d’acqua, cibo e cure mediche.
Lo sfruttamento sessuale continua ancora adesso, seguendo uno schema consolidato: i soldati entrano nei campi per fare sesso e i miliziani della Jtf scelgono le donne e le ragazze, “le più belle”, da consegnare ai soldati. La paura impedisce alle donne di ribellarsi.

“Una relazione sessuale in queste circostanze coercitive è sempre uno stupro, anche in assenza di violenza fisica. I soldati nigeriani e i miliziani della Jtf riescono sempre a farla franca, agiscono senza timore di essere sanzionati. Ma costoro, e i loro superiori che consentono tutto questo senza intervenire, devono essere chiamati a rispondere di questi crimini di diritto internazionale”, ha commentato Ojigho.

Profughi, il 29 maggio altri 75 rifugiati siriani con i corridoi umanitari ecumenici

La Stampa
Altri 75 rifugiati siriani in fuga dalla guerra accolti da Sant’Egidio e Chiese Protestanti con un progetto che offre sicurezza e integrazione.


Settantacinque profughi dal Libano giungeranno il prossimo martedì 29 maggio all’aeroporto di Fiumicino grazie ai corridoi umanitari promossi da Comunità di Sant’Egidio, Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia e Tavola Valdese, in accordo con i Ministeri dell’Interno e degli Esteri.

I rifugiati, in maggioranza siriani, si aggiungeranno alle 1500 persone arrivate in Italia, in Francia e in Belgio, in modo legale e sicuro, dal febbraio 2016. Dopo mesi, spesso anni, trascorsi nei campi profughi in situazioni di estrema precarietà e senza possibilità di frequentare la scuola per i bambini, i rifugiati saranno accolti nel nostro Paese grazie alla generosità di tanti italiani, che hanno offerto le loro case, ad associazioni, parrocchie, strutture diaconali. 

Poi verranno inseriti in percorsi di integrazione, a partire dall’apprendimento della lingua e dall’inserimento lavorativo. Il progetto è interamente autofinanziato dalle realtà che lo hanno promosso.

A Fiumicino, il 29 maggio, si terrà il benvenuto ai profughi siriani e, subito dopo, alle 11, una conferenza stampa alla quale interverranno Marco Impagliazzo, presidente della Comunità di Sant’Egidio, e Paolo Naso, a nome delle Chiese protestanti italiane, insieme a rappresentanti dei Ministeri dell’Interno e degli Esteri.

Per informazioni: www.santegidio.org

domenica 27 maggio 2018

Guantánamo? È un ospizio, i detenuti ormai sono vecchi e hanno bisogno di cure

Il Giornale
Anche i terroristi più pericolosi al mondo invecchiano dietro le sbarre del carcere di Guantánamo. E come tutti gli anziani hanno bisogno di pedane per le sedie a rotelle, corrimano per andare al bagno, letti più comodi e cure mediche. 


Gli acciacchi dell'età degli ultimi 40 super terroristi detenuti a Guantanámo sono una seria preoccupazione per la Casa Bianca sempre nel mirino delle organizzazioni internazionali in difesa dei diritti umani. Poverini verrebbe da dire se non fossero jihadisti incalliti che hanno seminato morte e distruzione con l'11 settembre ed in mezzo mondo. Guantánamo "sta vivendo problemi strutturali e guasti al sistema che, se non controllati, potrebbero rappresentare un rischio per le guardie ed i detenuti" ha scritto la Casa Bianca in una lettera inviata al Congresso. La prigione "non soddisfa i bisogni di una popolazione che invecchia" ha ammesso l'amministrazione del presidente Donald Trump, che non vuole chiudere il super carcere. Problemi cardiocircolatori ed a i reni, calo di vista, diabete, artrite, malattie degenerative sono le emergenze dei detenuti del terrore sempre più anziani.

L'età media dei "nemici combattenti" dietro le sbarre è di 46,5 anni. Neppure tanto alta, ma dopo un lungo periodo di detenzione anche il terrorista duro e puro forgiato nei campi di addestramento di Al Qaida invecchia malamente. Il più anziano è il pachistano Saifullah Paracha, 71 anni, da 14 a Guantánamo dopo la sua cattura in Tailandia. Finanziatore di Al Qaida ha tentato in tutti i modi di procurarsi armi chimiche e biologiche per Osama bin Laden. Poi è riuscito a spedire un container pieno di esplosivo negli Stati Uniti per fortuna intercettato in tempo. Non ha nessun capo di accusa specifico sulla testa, ma viene considerato "troppo pericoloso per venire rilasciato". Paracha è ovviamente il campione dei detenuti che marcano visita per diabete, pressione alta, psoriasi e artrite. Il Pentagono ha dovuto aviotrasportare nel centro di detenzione un complesso macchinario per esami particolari, che sarebbe costato 370mila dollari e all'inizio neppure funzionava.

Il detenuto più famoso rimane Khalid Sheikh Mohammed, la mente dell'11 settembre catturato in Pakistan nel 2002. I suoi leggendari baffoni neri si sono trasformati in un barbone grigiastro. A 53 anni sono finiti i tempi in cui resistiva ai duri interrogatori che simulano l'annegamento. Sembra che adesso abbia bisogno di una sedie a rotelle.

E per questo il Pentagono ha fatto costruire delle regolari rampe per disabili dentro il centro di detenzione, che dovrebbe essere il più rigido al mondo. Lo yemenita Ramzi Binalshibh indicato come il ventesimo attentatore dell'11 settembre, rientra nell'età media di 46 anni. Ad Amburgo con il capo di dirottatori suicidi, Mohammed Atta, aiutò il commando a realizzare il complotto per tirare giù le Torri gemelle. Unico sopravissuto è stata catturato in Pakistan nel 2002 e pure lui comincia ad avere qualche acciacco.

La Croce rossa visita Guantánamo quattro volte all'anno per controllare che i detenuti jihadisti vengano trattati secondo i criteri internazionali. Amnesty international sta cavalcando il problema dell'invecchiamento "e delle cure mediche necessarie" per i terroristi con gli acciacchi. Gli Stati Uniti già spendono 450 milioni di dollari l'anno per Guantánamo. E dovranno tirare fuori sempre più soldi per i 26 jihadisti, che non verranno mai rilasciati condannati alla vecchiaia dietro le sbarre.

Fausto Biloslavo

Migranti, duemila arrivi in 48 ore. E a bordo della Aquarius nasce Miracle

La Repubblica
Navi della Marina italiana e delle ong impegnate in otto operazioni di soccorso. Preoccupa l'aumento dei flussi dalla Tunisia.


Ne hanno soccorsi in mare 69 ma adesso a bordo della Aquarius di Sos Mediterranee, in navigazione verso il porto di Catania dove arriverà domani mattina, sono in 70. L'ultimo arrivato si chiama Miracle, pesa 2 chili e 800 grammi ed è nato a bordo oggi, con l'assistenza dello staff di Medici senza frontiere, poco dopo che la sua mamma, ormai agli sgoccioli della gravidanza, era stata tirata su da una delle otto imbarcazioni soccorse nel Mediterrano nelle ultime 48 ore con quasi 2000 persone a bordo. 

n numero molto consistente che non si vedeva più da mesi, da quando i flussi dalla Libia hanno fatto segnare una diminuzione dell'80 per cento rispetto allo scorso anno.

In 752 sono arrivati oggi ad Augusta, insieme alla salma di uno dei migranti che non ce l'ha fatta, sbarcati dalla nave Dattilo della Guardia costiera italiana che, insieme ad altre due navi della Marina militare italiana, ha effettuato una serie di soccorsi insieme alle due navi umanitarie della Ong tedesca Sea Watch che ha a bordo altri 400 migranti, recuperati su indicazione della sala operativa di Roma dopo che, vedendo arrivare una motovedetta libica, molti di loro si erano gettati in mare.

A Pozzallo, dopo che ieri una nave militare portoghese di Frontex ha sbarcato 296 migranti, oggi c'è stato un tentativo di rivolta nell'hotspot al limite della capienza e con ospiti quasi tutti tunisini. Una situazione che continua a preoccupare il sindaco Roberto Ammatuna che ha rivolto un nuovo appello al Viminale. Preoccupa il numero crescente di arrivi dalla Tunisia dove, negli ultimi giorni sembra essersi spostato l'asse delle partenze con barconi che hanno a bordo anche persone provenienti dal centro Africa e persino dalla Siria.

sabato 26 maggio 2018

Honduras «Detenzioni infernali per i prigionieri politici del presidente Hernandez»

Il ManifestoHonduras. Liberi solo 17 dei 23 arrestati nelle proteste post-voto. Parla l'attivista canadese nel paese, Karen Spring: la vita in cella di Edwin e Raul è fatta di poco cibo, due ore d’aria al mese e 5 minuti d’acqua al giorno.

Lo scorso martedì una delegazione di cittadini canadesi e statunitensi, osservatori dei diritti umani, è arrivata all’ingresso del carcere di massima sicurezza La Tolva, in Honduras. Volevano vedere i due prigionieri politici lì rinchiusi, Edwin Espinal e Raul Alvarez.

Sono due dei 23 arrestati in seguito alle manifestazioni di protesta che hanno scosso tutto il paese dopo le elezioni di sei mesi fa. Era il 26 novembre 2017 quando gli elettori furono chiamati, per la prima volta, a rieleggere il presidente uscente, in una giornata caratterizzata da brogli e strani black-out nel conteggio dei voti.

Ci vollero comunque tre settimane per «riconoscere» la vittoria di Juan Orlando Hernandez, confermato alla guida del paese. A guidare la piccola delegazione di attivisti alle porta de La Tolva c’era Karen Spring, una giovane donna canadese che vive dal 2009 in Honduras, dove coordina l’Honduras Solidarity Network.

Karen è la compagna di Edwin Espinal, ma anche a lei è stato impedito di vederlo. Di superare l’ingresso della prigione. «La situazione nelle strutture di massima sicurezza è lesiva dei diritti umani fondamentali: Edwin, arrestato a gennaio, e Raul non ricevono cibo a sufficienza e possono uscire all’aria aperta per appena due ore al mese. In pratica, non vedono mai la luce del sole – spiega al manifesto Karen, raggiunta telefonicamente in Honduras – Ci hanno informato che l’acqua corrente c’è per 5 o 10 minuti al giorno e questo non permette loro di usare i bagni, di lavarsi, portando all’insorgere delle malattie».

Un altro prigioniero politico è detenuto nel carcere di massima sicurezza El Pozo, che i media honduregni descrivono come el infierno, e due nella prigione di El Progreso.

«Dei 23 complessivamente catturati, di cui uno in Costa Rica, restano reclusi in attesa di processo in cinque. Grazie alla pressione internazionale siamo riusciti a farne liberare 17 e tra questi anche Lourdes Gomez, l’unica donna tra i fermati. Restano tutte le accuse formulate a loro carico che vanno dalla violazione e danneggiamento della proprietà privata alla detenzione illegale di armi, ma in questo modo possono difendersi in libertà», sottolinea l’attivista canadese.

Dei 23 prigionieri politici molti sono leader indigeni, contadini, persone che come Edwin sono impegnate nella tutela dei diritti umani e nella difesa della democrazia a partire dal colpo di Stato del 28 giugno 2009.

«Il suo è un caso emblematico e spiega come il governo honduregno approfitti della situazione di crisi post elettorale per lanciare dei messaggi molto chiari a tutti i settori della società civile attivi nella resistenza – spiega Karen – Edwin era già stato torturato nel 2010 e nel 2009 la sua compagna di allora era rimasta uccisa durante la repressione delle proteste popolari intorno all’ambasciata del Brasile, dove si era rifugiato Mel Zelaya, il presidente destituito dai golpisti. Nel 2013, la polizia militare entrò nella sua casa, senza mandato di persecuzione. E oggi è chiuso in un carcere di massima sicurezza nonostante la Commissione Interamericana per i Diritti Umani (Cidh) abbia riconosciuto “misure speciali” di protezione nei suoi confronti».

Edwin rischia la vita, di diventare l’ennesimo martire, seguendo tragicamente il destino della sua amica Berta Caceres, la leader indigena del Copinh uccisa tra il 2 e il 3 marzo 2016 nella sua casa a La Esperanza.
«Tra coloro che sono stati arrestati,ci sono anche altri leader comunitari. Ad esempio tra le persone di Pimienta, una comunità del dipartimento di Cortés – sottolinea Karen – Il paese vive una fase di transizione. Per la prima volta dopo molti anni, però, non riesco a capire in che direzione si muoverà. La situazione è molto complicata e quella dei diritti umani, e per i difensori dei diritti umani, è in continuo peggioramento. Una certezza la abbiamo, però: il governo non vuole dialogare e infatti al momento non c’è stato nemmeno un arresto per gli omicidi dopo la crisi elettorale (almeno trenta, secondo il Comité de Familiares de Detenidos Desaparecidos en Honduras, ndr), e non fa nulla per proteggere leader indigeni, contadini, donne. Il governo dipende molto dall’appoggio della comunità internazionale. Crediamo che senza questo riconoscimento non sarebbe legittimato ad andare avanti».

Venezuela, la responsabile delle "Damas salesianas": “È come se fossimo in guerra”

La Stampa
Eliana Ghirardi descrive la situazione drammatica del Paese: «Mancano medicine, si muore anche per una influenza. Il prezzo dei beni al supermercato cambia mentre sei in coda per pagare».


Eliana Gherardi, 56 anni, è responsabile internazionale della formazione delle Damas salesianas (Ads), organizzazione nata in Venezuela cinquant’anni fa. Il gruppo, presente in tutto il mondo, si occupa di aiutare la popolazione venezuelana sotto tanti punti di vista: dall’istruzione alla sanità, passando per i bisogni primari delle persone che oggi, in Venezuela, faticano a trovare anche da mangiare. «Non siamo in guerra, ma è come se lo fossimo». Così Eliana riassume la situazione difficile del suo Paese in questo momento. Dopo l’elezione di Maduro, non riconosciuta dai Paesi del G7 e da molti oppositori politici, la situazione non è cambiata, anzi. «Da dicembre a oggi il tracollo è stato velocissimo. Non si riesce neppure a spiegare».

La situazione del Venezuela è problematica da diverso tempo: mancano cibo, acqua, medicine. Cosa hanno significato le elezioni? «La gente ha dimostrato di non essere d’accordo con queste elezioni non andando a votare, le strade erano completamente vuote, era tutto vuoto. Le persone sono rimaste in casa per dimostrare che non volevano prendere parte a questo voto. Formalmente, si sarebbe dovuto tenere a dicembre. Ma dal punto di vista sociale, per adesso, non è cambiato nulla, anzi: il governo non permette l’apertura di canali umanitari quindi non arrivano aiuti internazionali. La crisi economica è molto dura e si prevede che sarà ancora peggio. Il prezzo dei beni al supermercato cambia anche mentre sei in coda per pagare. Possiamo dire che in qualche modo è come se fossimo in guerra».

La crisi economica è grave e l’inflazione altissima. Come sopravvivere nella quotidianità?
«Nel mercato ufficiale del governo il cambio è un dollaro per 70 mila bolivar. Ma in quello non ufficiale, dove tutti noi dobbiamo cambiare i soldi, arriva anche a 1 milion1 di bolivar. Lo stipendio, se va bene, è di due milioni: la carne costa cinque milioni al chilo, per dare un’idea. Non si riesce a comprare nulla, manca tutto. E il mercato nero fiorisce».

Nei mesi scorsi siete spesso stati definiti dai media “un popolo in coda”: è ancora così? «Certo. Le persone sono in coda prima di tutto in banca per ottenere i contanti anche solo per prendere l’autobus e andare al lavoro. Ma la maggior parte di loro non ci riesce. Sono in coda al supermercato ma non sanno mai cosa trovano. E se possono permettersi di comprare qualcosa».

Il problema è anche sanitario. Come uscire dalla fase di stallo?
«Non ci sono medicinali, non possiamo importarli. Ogni giorno muoiono bambini di malattie banali, anche di influenza. Stanno tornando la malaria e altre malattie debellate. Non c’è acqua, non c’è cibo. Non puoi lavarti o lavare quello che mangi. C’è però un “mercato nero” anche di medicine di aiuto. Dalla Colombia riusciamo a far arrivare qualcosa e abbiamo anche alcune farmacie venezuelane che fino a poco tempo fa riuscivano a comprare via internet. Chi riesce a uscire dal Paese, come me, riporta indietro qualche medicinale e si cerca di andare avanti così. Noi come Damas salesianas abbiamo degli ambulatori: per i 50 anni dell’organizzazione, compiuti il 13 maggio, abbiamo scelto di radunare medici e medicine per vaccinare e aiutare quanti più bambini possibile. Ma molti medici lasciano il Paese, sono parte di quei 4 milioni di persone che se ne sono andate».

Il vostro ruolo, in quanto organizzazione religiosa sul territorio, è quindi importantissimo. Come operate?
«Tutte le organizzazioni religiose si sono mobilitate e si mobilitano ogni giorno. Lo facciamo insieme. Il Venezuela è un Paese profondamente cattolico per questo per noi rimanere lì è naturale e il ruolo è importante. Aiutiamo come possiamo: fornendo pasti, medicine ma tanti offrono anche una casa ai bambini abbandonati dalle famiglie che non possono più mantenerli. Si fa qualsiasi cosa pur di dare una mano».
Come si avverte nel Paese il ruolo della Chiesa, del Vaticano?
«Il Papa parla spesso del Venezuela nei suoi discorsi. Il ruolo del Nunzio Apostolico è stato importante per provare a mediare tra governo e opposizione ma non è riuscito a cambiare le cose. Noi rimaniamo nel Paese perché in fondo è una questione di fede: vogliamo che le cose cambino, vogliamo aiutare. La fratellanza è la base di tutto, non possiamo tirarci indietro. Siamo un sassolino, che però dà fastidio e finché restiamo sentiamo la speranza che le cose cambino».

Come?
«Serve l’arrivo di un uomo forte che guidi verso un cambiamento. Forse ci serve il nostro Mandela. Ma oggi non c’è. Le fratture nei blocchi al potere possono essere un segnale che un cambiamento è possibile. Ma non si vede ancora la fine, non è facile. È come se vivessimo in prigione. Uscire dal Paese, venire qui a Torino, per me è stato come respirare per un momento la libertà. Ma nonostante questo dobbiamo rimanere, per aiutare e per cambiare le cose».

Camilla Cupelli

Trafficanti sparano su migranti e rifugiati: fuggivano da una prigione clandestina in Libia, vittime

Rai News 24
Oltre 100 tra migranti e rifugiati tenuti prigionieri da trafficanti di esseri umani sono stati raggiunti da colpi d'arma da fuoco mentre fuggivano da una prigione clandestina nel nordovest della Libia; ci sono stati numerosi morti e feriti. 



Lo afferma Medici senza frontiere. L'organizzazione medica internazionale afferma che molte persone nella città di BaniWalid, tra cui anche membri delle forze di sicurezza, hanno cercato di proteggere i fuggiaschi mentre venivano inseguiti da uomini armati che tentavano di per ricatturarli. 

Msf spiega che i sopravvissuti alla fuga di mercoledì sera hanno riferito che almeno 15 persone sono state uccise e che fino a 40 persone, per lo più donne, sono state lasciate indietro. 

Lo staff di Msf ha aiutato a curare 25 feriti al Bani Walid General Hospital, di cui sette con gravi ferite d'arma da fuoco e fratture multiple. L'organizzazione afferma che i sopravvissuti sono per lo più adolescenti provenienti dall'Eritrea, dall'Etiopia e dalla Somalia che cercano asilo in Europa. Alcuni hanno raccontato al personale di Msf di essere stati tenuti prigionieri anche per tre anni. Molti avevano cicatrici visibili, segni di bruciature elettriche e vecchie ferite infette.

Fonte: MSF

venerdì 25 maggio 2018

I muri non funzionano - Usa. Il «muro» di Trump non ferma la fuga dal Centroamerica, +38% di richieste di asilo

Avvenire
L’Onu: in un anno le richieste di asilo sono salite del 38% in Messico e Usa.
Tolleranza zero contro l’immigrazione illegale, detenzione di tutti coloro che valicano un confine americano senza documenti e la rinnovata promessa di completare il muro fra gli Stati Uniti e il Messico. L’Amministrazione Trump indurisce ulteriormente la sua linea contro i migranti, eppure gli aspiranti rifugiati continuano a premere sulla frontiera meridionale Usa, spinti da una nuova ondata di violenza in America centrale e dal taglio (previsto almeno al 36 per cento per il 2018) ai piani di aiuto americani per la sicurezza dei loro Paesi. 


Secondo l’Agenzia Onu per i rifugiati (Acnur), nel 2017 le domande di asilo da parte di centroamericani sono cresciute del 38 per cento rispetto all’anno precedente. La maggior parte viene presentata negli Stati Uniti, ma un numero crescente di profughi è costretto a fermarsi in Messico in attesa di poter entrare negli Usa, dove gli arresti al confine si sono moltiplicati. 

L’Amministrazione Trump ha aumentato il numero di agenti schierati alla frontiera e ha assicurato che perseguirà penalmente chiunque attraversi in modo irregolare il confine tra Stati Uniti e Messico: una svolta rispetto alla pratica Usa di lunga data che prevedeva la semplice espulsione dei migranti senza precedenti penali. Il ministro alla Giustizia Jeff Sessions ha di recente inviato 35 nuovi procuratori criminali al confine sud-occidentale Usa e ha assegnato 18 giudici dell’immigrazione alla gestione dei casi arretrati. Sono tutte misure che sperano di inviare un forte messaggio di deterrenza a chiunque intenda attraversare illegalmente o presentarsi ai porti di ingresso per chiedere asilo.

Donald Trump ha promesso ieri di inasprire le leggi americane sull’immigrazione che «sono le peggiori al mondo» e di continuare la sua battaglia contro gli Stati e le città santuario che offrono rifugio ai migranti. Il presidente Usa è al momento impegnato di un confronto serrato con la California, il cui governatore democratico, Jerry Brown, ha firmato una legge che proibisce alla polizia ordinaria di verificare i documenti di soggiorno di ogni persona fermata o di aiutare gli agenti migratori federali a portare a termine retate o deportazioni. Una misura che il capo della Casa Bianca ha definito «letale e incostituzionale», perché «offre protezione ad alcuni dei più brutali e violenti criminali sulla Terra, dei veri animali». In contrapposizione all’approccio della California, Trump ha messo in evidenza i progressi compiuti sul fronte del muro con il Messico e chiesto al Congresso più fondi per portarlo avanti. Nonostante la crescente difficoltà nell’accedere agli Stati Uniti, gli abitanti di Honduras, Guatemala e El Salvador sostengono, però, di non aver altra scelta che di abbandonare i loro Paesi, dove città intere sono controllate da bande criminali che reclutano a forza i giovani e minacciano di morte le loro famiglie.

L’Amministrazione Trump, però, sembra voler reclutare anche le scuole nel contenimento dell’immigrazione negli Stati Uniti. Betsy De-Vos, ministro dell’Istruzione, durante un’audizione al Congresso, ha affermato che tutti gli istituti d’istruzione del Paese possono denunciare alle autorità gli studenti immigrati senza documenti. L’affermazione si scontra con una sentenza della Corte Suprema, che impone alle scuole pubbliche di garantire l’istruzione dei bambini a prescindere dal loro status legale.

Malaysia - Pena di morte per Maria Exposto nonna di Sydney, vittima di un inganno, ha trasportato droga

Corriere della Sera
Maria Exposto fu fermata nel 2014 all’aeroporto con oltre un chilo di «ice» nella borsa che le avrebbe dato un «fidanzato conosciuto online». I giudici: «Doveva controllare».



Una donna (e nonna) australiana di 54 anni, Maria Elvira Pinto Exposto, è stata condannata a morte in Malaysia per traffico internazionale di droga: tre anni e mezzo fa fu arrestata all’aeroporto di Kuala Lumpur mentre rientrava a Melbourne con oltre 1 chilo di metanfetamine, meglio note come «ice», in un compartimento segreto di una borsa che però, ha sempre sostenuto la difesa, lei non sapeva cosa contenesse. 


I tre giudici della Corte d’appello della capitale malese l’hanno ritenuta colpevole e per la legge del Paese sul traffico di droga, introdotta nel 1983, chi viene beccato con più di mezzo chilo «dev’essere impiccato». C’è ancora una speranza per Maria Exposto: che almeno l’ultimo grado di giudizio, come aveva fatto il primo, creda alla sua innocenza.l raggiro del «fidanzato online»
Sul fatto che nella valigia della signora ci fosse la droga non ci sono dubbi. Ma secondo il giudice di primo grado Maria era stata raggirata: non sapeva cosa trasportava. La valigia le era stata consegnata da un «fidanzato conosciuto online, che sosteneva di essere il capitano Daniel Smith delle forze speciali Usa». Secondo il giudice la signora si era «ingenuamente innamorata» di quest’uomo incontrato su internet, con cui ha avuto una relazione soltanto online per due anni, prima che lui la convincesse ad andare a trovarlo a Shanghai. Lì l’uomo le ha dato la borsa: «Dentro ci sono dei vestiti che dovresti portare a Melbourne». Lei ci ha creduto e si è imbarcata per fare ritorno a casa.
L’accusa e i documenti per la pensione
Allo scalo di Kuala Lumpur la sua ingenuità ha abbattuto un altro limite: la signora — sottolinea la difesa a sostegno della sua innocenza — si è offerta di passare la valigia nello scanner degli agenti di controllo, quando l’operazione era ancora facoltativa. «Lì hanno scoperto che in una parte nascosta dello zaino c’era la droga». 

E così Maria è stata arrestata, ha perso il visto e ha affrontato il processo. Assolta in primo grado a dicembre, sembrava aver evitato la pena capitale. «Siamo di fronte a un caso di adescamento online: volevano trasformarla in un mulo della droga a sua insaputa, è evidente», ha detto all’Afp la sua avvocata Tania Scivetti. 

Ma la Corte d’Appello è di un’altra opinione. «Avrebbe avuto tutto il tempo per controllare cosa c’era nella borsa che le aveva dato un uomo conosciuto da così poco. Avrebbe dovuto avere dei sospetti, e sappiamo che la signora prima del volo aveva incontrato qualcuno per ottenere i documenti per la pensione», come se sapesse che con i soldi della partita si sarebbe sistemata a vita. Ora l’Alta Corte è l’ultima chance che le resta per evitare la fine toccata già a tre australiani in Malaysia negli ultimi 30 anni, tutti impiccati per traffico di stupefacenti. Gli avvocati dicono che Maria «è ancora fiduciosa. Non aveva mai visto della droga in vita sua».

Guerre dimenticate - Yemen : Msf, per guerra e bombardamenti crisi sanitaria sempre più grave

Asia News
La situazione di maggiore criticità nel nord-ovest. In tre anni quasi 17mila raid aerei sul Paese. A dicembre nel solo governatorato di Saada 541 attacchi. Gli operatori di Msf hanno curato 7mila persone, di cui il 44% bambini con meno di cinque anni e il 41% donne. Per i malati difficile ricevere cure mediche o trattamenti.


Sana’a - In Yemen bombardamenti e costi dei trasporti aggravano sempre più l’emergenza sanitaria e impediscono alle persone di accedere alle cure mediche. A lanciare l’allarme sono gli operatori umanitari di Medici senza frontiere (Msf), secondo cui la situazione di particolare difficoltà si registra nel nord-ovest, dove negli ultimi sei mesi la coalizione internazionale a guida saudita (ed Emirati) ha intensificato gli attacchi contro i ribelli sciiti Houthi. La popolazione, avvertono gli esperti di Msf in una relazione inviata ad AsiaNews, è oggi più che mai “esposta” ai “traumi” derivanti dal conflitto.

Dagli ospedali di Haydan e dal governatorato di Saada arriva la denuncia di una situazione in rapido deterioramento. Secondo gli ultimi dati relativi alla guerra elaborati da Yemen Data Projec, sul Paese si sono abbattuti quasi 17mila attacchi aerei negli ultimi tre anni, con una media di 15 al giorno. Nel solo governatorato di Saada a dicembre si sono registrati 541 raid, con un aumento del 67% rispetto al mese precedente. A preoccupare sono le vittime civili: infatti, almeno una incursione su tre ha centrato siti non militari. Fra questi vi sono infrastrutture pubbliche, mercati, case e veicoli civili. Le strade finiscono con facilità nel mirino delle bombe e l’incessante serie di attacchi ha reso difficile gli spostamenti.

Nel nosocomio di Haydan, che sorge nei pressi del fronte, distrutto da un bombardamento nel 2015 e riaperto nel marzo dello scorso anno, Msf ha curato circa 7mila persone, di cui il 44% bambini con meno di cinque anni e il 41% donne. Ogni giorno la struttura accoglie in media 60 persone; i bambini vengono ricoverati per infezioni respiratorie, dissenteria e anemia.

Frédéric Bonnot, coordinatore Msf ad Haydan, conferma che i bombardamenti hanno “un impatto sulla nostra capacità di trasferire i pazienti” verso altre strutture più attrezzate. Questo causa “ritardi” a fronte di “situazioni di vita o di morte”. “In un’area montuosa - aggiunge Roberto Scaini, vicepresidente Msf - e di villaggi remoti, il problema più grande resta come arrivarci […]. Spesso i feriti di guerra arrivano in condizioni ormai critiche. Per chi soffre di malattie croniche, cardiache o tumori, è difficile garantire trattamenti a lungo termine in tutto lo Yemen”.

In questo contesto di guerra e devastazioni emergono continue storie di sofferenze: come quella della piccola Abeer, neonata di tre settimane, arrivata all’ospedale fra le braccia del nonno. Egli ha dovuto vendere il proprio pugnale (Jambiya) per pagare le spese del viaggio, mentre il padre è rimasto a lavorare nei campi. Ora è sotto antibiotici. O quella della 19enne Qoussor, che ha sempre vissuto sotto la guerra, e oggi ha un figlio di un mese e mezzo di nome Nabil, con difficoltà respiratorie. Hanno aspettato oltre un’ora e mezza ai margini della strada, prima di trovare un’auto che li portasse all’ospedale, dove il bambino è rimasto ricoverato per più di una settimana.

Dal gennaio 2015 il Paese arabo è teatro di un sanguinoso conflitto che vede opposte la leadership sunnita dell’ex presidente Hadi, sostenuta da Riyadh, e i ribelli sciiti Houthi, vicini a Iran ed Hezbollah. Nel marzo dello stesso anno una coalizione araba a guida saudita ha promosso raid contro i ribelli, finiti nel mirino dell’Onu per le vittime civili. Tra questi vi sono anche bambini.

Il vicario apostolico mons. Paul Hinder ha denunciato più volte la gravità del “disastro” in atto, con vittime cristiane come accaduto nell’assalto alle Missionarie della Carità di Aden.

Oggi gli Houthi occupano circa il 30% del territorio, soprattutto nel nord dove si concentra la maggior parte della popolazione. A sud - controllato dal governo di Aden vicino ai sauditi - si è formato un nuovo fronte di scontro con la comparsa di gruppi separatisti filo-emirati. In questo contesto di guerre e divisioni che hanno provocato almeno 10mila vittime si aggiunge il blocco imposto da Riyadh nel novembre scorso in risposta al lancio di razzi Houthi.

giovedì 24 maggio 2018

Immigrazione: Grecia, protesta a campo rifugiati di Diavata contro sovraffollamento e condizioni igienico-sanitarie

Agenzia Nova
Atene - Un centinaio tra migranti e rifugiati hanno protestato presso il campo di Diavata, nel nord della Grecia, per la mancanza di condizioni igienico-sanitarie adeguate e il sovraffollamento della struttura. 

Campo profughi di Diavata - Grecia
Lo riferisce il sito web del quotidiano di Atene "Kathimerini", ricordando che la struttura di Diavata ospita attualmente oltre mille persone, la maggior parte delle quali sarebbero entrate in Grecia attraverso il confine con la Turchia. 

Negli ultimi giorni, centinaia di richiedenti asilo bloccati sulle isole greche orientali dell'Egeo, che dovrebbero essere trasferiti sulla terraferma o deportati, hanno lamentato il sovraffollamento dei campi e dei centri di accoglienza. 

Un'ispezione della polizia presso l'hotspot di Vial sull'isola di Chio ha rilevato che 470 dei 1.468 individui ospitati nel campo non sono soggetti alle restrizioni geografiche stabilite dall'accordo Ue-Turchia. 

Per cui queste persone hanno diritto allo status di rifugiato o ad una protezione, ma rimangono a Chio a causa della mancanza di spazio nelle strutture su terraferma. L'eccessivo sovraffollamento impedisce alle autorità di condurre un'indagine analoga nel campo di Moria a Lesbo, che sulla carta potrebbe ospitare solo 4.300 persone. Le autorità hanno riferito che altre 88 persone sono sbarcate sulle isole greche nell'ultimo giorno.

Iran - Esecuzioni capitali in aumento " Sono 544 nel 2017"

La Repubblica
In Iran le esecuzioni capitali sono in aumento. Soltanto nel 2017 le impiccagioni di Stato sono state 544: sotto la presidenza di Hassan Rouhani, considerato un moderato dalla comunità internazionale, il numero delle condanne a morte eseguite è stato addirittura più alto di quello raggiunto dall' ultraconservatore Mahmud Ahmadinejad. 

L' associazione "Nessuno tocchi Caino" ha pubblicato il Rapporto 2018 sulla pena di morte in Iran: basandosi su fonti ufficiali e sulle denunce della ong Iran Human Rights, il documento mette in luce i dati.

Tra i reati per i quali è stata applicata la pena capitale figurano ad esempio l' adulterio, ma anche la "Guerra a Dio", formula vaga che indica comportamenti non in linea con i precetti del Corano. In Iran infatti il codice penale è basato sulla Sharia, la legge sacra dell' islamismo. 

Nell' ultimo anno 5 dei condannati a morte sono stati giustiziati con l' accusa di adulterio. 

Nel 2017 il numero delle donne giustiziate è salito a 12, a cui si aggiungono 6 ragazzi minorenni, uccisi in violazione della Convenzione sui Diritti del Fanciullo. Il regime è «una minaccia ai diritti umani degli iraniani», conclude il rapporto.
Siria Guerrieri

mercoledì 23 maggio 2018

Egitto, arrestato uno dei principali attivisti e blogger del mondo arabo, Wael Abbas

La Repubblica
Uno dei principali attivisti del mondo arabo è stato portato via dalla sua casa la scorsa notte: l'ultimo di una lunga serie di fermi che riguardano chi denuncia abusi e violenze.
Wael Abbas
Il Cairo - Wael Abbas, uno dei padri della rivoluzione egiziana, il più famoso blogger del Paese, è stato arrestato la scorsa notte nella sua casa del Cairo. Abbas è stato bendato e portato via verso un luogo che non si conosce, senza che gli fosse consentito di avvertire il suo avvocato secondo quanto riferito dagli attivisti dell'Arab Network for human rights al giornale on line egiziano Mada Masr. Le stesse fonti sostengono che dalla casa dell'attivista sono stati sequestrati telefoni, computer, libri e altri oggetti.

Abbas è uno dei nomi più importanti della Rete araba: con il suo lavoro, da anni, ha esposto violenze, soprusi e torture da parte della polizia sui civili. Un'azione che ha dimostrato, sin dal 2007, le potenzialità di Internet in società chiuse e controllate come quella dell'Egitto dell'ex presidente Hosni Mubarak. Proprio per questo e per aver costruito quel network di profili, personalità e capacità che ha poi animato Piazza Tahrir nel 2011, è considerato uno dei padri della rivoluzione. Abbas è da tempo nel mirino del governo del presidente Al Sisi, come lo era stato nell'era di Mubarak: i suoi account Twitter, Facebook e Youtube sono stati a più riprese sospesi o hackerati.

L'arresto di Abbas, che ha ricevuto diversi premi internazionali per il suo lavoro, è l'ultima dimostrazione della repressione a cui sono sottoposti gli attivisti in Egitto. Di qualche giorno fa era la notizia dell'arresto di Amal Fathy, attivista arrestata al Cairo l'11 maggio scorso insieme al figlio di tre anni e al marito, Mohamed Lotfy, poi scarcerati. Fathy è accusata di "terrorismo" dopo aver pubblicato un video su internet in cui denunciava le autorità egiziane di non difendere le donne dalle molestie sessuali: suo marito è il fondatore della Commissione egiziana per i diritti e le libertà e consulente legale della famiglia Regeni che ha promosso uno sciopero della fame per chiedere la sua liberazione

Rifugiati? L’Uganda sceglie di continuare ad accogliere. Primo tra i paesi africani: ne ospita 1.500.000

Unimondo.org
Nelle scorse settimane, tra le notizie di politica internazionale, è comparsa quella che l’Uganda starebbe considerando la proposta dello Stato di Israele di farsi carico, ossia di ricollocare nel proprio Paese, circa 500 migranti provenienti dal Corno d’Africa, da Eritrea e Sudan in particolare. 

Il più grande campo profughi al mondo: è Bidi Bidi, al confine nord-ovest dell'Uganda,
con quasi 300mila sud sudanesi in circa 250 chilometri quadrati.
Dal 2013 sono circa 4mila i migranti che hanno lasciato Israele alla volta di Ruanda e Uganda all’interno di un programma “volontario” di rimpatrio attivato da Tel Aviv che prevede il pagamento del biglietto aereo e un incentivo di 3500 dollari; in alternativa si rischia di essere tradotti in carcere per immigrazione clandestina. 

Il programma, che si è intensificato da gennaio, trova la sua ragione d’essere nelle forti pressioni provenienti dalla base elettorale conservatrice del premier Netanyahu desiderosa di espellere dal Paese migranti economici, specialmente quelli provenienti dal continente nero. Ad aprile il governo israeliano aveva addirittura annunciato che avrebbe attivato dei rimpatri forzati incontrando però la ferma opposizione di gruppi di tutela dei diritti civili che hanno ottenuto dalla Corte Suprema israeliana una temporanea ingiunzione all’attuazione del piano. Da autorevoli indiscrezioni giornalistiche, emergere però che i decreti di espulsione e le possibili trattative per la ricollocazione dei migranti toccherebbero non 500 persone, come indicato nei documenti ufficiali, ma ben 8mila tra eritrei e sudanesi.

Migranti e rifugiati che andrebbero a sommarsi ai numerosi già ospitati dall’Uganda, primo fra i Paesi africani nell’accoglienza e quinto al mondo. Dati dell’Alto Commissariato ONU per i Rifugiati alla mano, solo nel mese di marzo sono giunti in Uganda 6397 sud sudanesi, circa 208 al giorno, che ne portano il numero totale presente nel Paese a 1.053.598, fuggiti dal conflitto ancora in corso nonostante il cessate il fuoco del dicembre 2017. 

Una situazione che ha condotto l’Uganda a raggiungere il poco entusiasmante primato di detentrice del più grande campo profughi al mondo: è Bidi Bidi, al confine nord-ovest del Paese, con quasi 300mila sud sudanesi in circa 250 Chilometri quadrati. Un tale ammasso di umanità ben poco gestibile e controllabile, nel quale i casi di violenza sulle donne, di sparizione di bambini, nonché i ritardi nell’assistenza umanitaria sono evidenti. 

Di fatto, come riferisce Solomon Osakan, funzionario del governo ugandese, “Il ritmo con cui le persone arrivano è più rapido del tasso al quale ci stiamo registrando, quindi c’è un arretrato di persone non registrate. Sfortunatamente”, aggiunge inoltre, “i finanziamenti non sono andati al ritmo con cui arrivano i rifugiati”.

Dobbiamo precisare che le cifre a cui facciamo riferimento sono solo relative a rifugiati e profughi registrati ma, in un Paese quale l’Uganda dove le frontiere sono meno controllate di quanto potremmo pensare, sono molti gli sfollati che si mescolano con il resto della popolazione senza accedere alle strutture gestite dalle organizzazioni internazionali e dunque senza essere registrati/conteggiati. Non si tratta inoltre di accogliere solo i rifugiati provenienti dal confine nord col Sud Sudan. Sono molti anche quelli che scappano da Repubblica Democratica del Congo, Burundi e Somalia e che in Uganda hanno trovato ospitalità, nel complesso circa 1 milione e mezzo di individui. La gestione accentrata di Yoweri Museveni, presidente dell’Uganda dal 1986, e i fondi messi a disposizione da parte delle organizzazioni internazionali hanno di fatto reso l’accoglienza di rifugiati, profughi e sfollati una risorsa per la comunità locale: l’intera economia ne beneficia, con la vendita di beni di consumo e di servizi, la costruzione di infrastrutture, l’iniezione di valuta pregiata sul mercato interno.

Questo non significa che la presenza di grandi campi profughi non porti a conseguenze, sul piano della sicurezza e/o sanità. Ad esempio, in seguito al verificarsi di oltre 900 casi di colera nel distretto di Hoima(in Uganda occidentale), al pari di altri territori dell’Africa nera maggiormente colpiti da questa pandemia, sono state spedite 370mila dosi di vaccino per scongiurare il più ampio contagio; il focolare iniziale, a quanto confermato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, sarebbe partito proprio da un gruppo di rifugiati congolesi. 

Negli ultimi mesi, infatti, più di 42mila persone sono scappate dalla Repubblica Democratica del Congo attraverso il lago Albert verso l’Uganda. Per l’ennesima volta ragioni di stabilità interna, guerriglia continua, attentati, stupri, hanno condotto all’ennesima fuga verso la ricerca di salvezza; ancora una volta molti sono i morti segnalati nel tentativo di raggiungere un territorio dove poter vivere in pace e in sicurezza. 

In particolar modo i centri di accoglienza di Kagoma e Marutatu da tempo non riescono più a far fronte all’afflusso di rifugiati: è da lì probabilmente che le spaventose condizioni igieniche, l’accesso inadeguato a cibo e ad acqua, l’assenza di un riparo effettivo e dunque l’esposizione alle forti piogge che cadono copiose in questa stagione, uniti all’estrema debolezza fisica di chi è già provato dalle fatiche, hanno condotto allo scoppio dell’epidemia. Una tragedia nella tragedia.

Mariam Rossi

Raggiunto un milione di firme per salvare Noura Hussein, sposa bambina condannata a morte in Sudan

Blog Diritti Umani - Human Rights
Pubblichiamo la comunicazione dell' Ass. Italians for Darfur che aggiorna sulla situazione della mobilitazione per salvare la vita Noura Hussein, la sposa bambina condannata a morte in Sudan, per aver ucciso il marito che la violentava. 



Sudan, raggiunto il milione di firme per Noura Hussein. Mobilitazione internazionale guidata da Italians for Darfur: domani avvocati depositano ricorso per salvarla La petizione per salvare Noura Hussein su Change.org ha raggiunto il milione di firme. 

La mobilitazione avviata da Italians for Darfur, in accordo con gli avvocati di Noura Hussein con i quali è in diretto contatto la presidente Antonella Napoli, ha travalicato i confini nazionali e vede proliferare gli appelli in tutto il mondo. 

"E' particolarmente importante che questo risultato sia raggiunto nel giorno in cui viene depositato il ricorso contro la sentenza di condanna a morte per la giovane sudanese che da sposa bambina aveva ucciso il marito impostole dalla famiglia" dichiara Antonella Napoli che oltre a essere presidente di Italians for Darfur è stata la prima giornalista a raccontare la storia di Noura. 

Italians for Darfur ha già contribuito in passato alla soluzione di un altro caso di condanna a morte per una giovane donna, Meriam Ibrahim, accusata di apostasia, incarcerata all’ottavo mese di gravidanza e sfuggita al boia grazie a una campagna che chiedeva la sua liberazione nel 2015. 

"Ci appelliamo al presidente sudanese, insieme alle organizzazioni e al popolo del Sudan, affinché sia riconosciuta la clemenza a Noura.- prosegue Napoli - e auspichiamo che questa vicenda possa portare a un cambiamento nella società sudanese affinché si garantisca la protezione e la salvaguardia dei diritti di donne, adolescenti e bambine, come previsto nella Dichiarazione universale delle Nazioni Unite per i diritti fondamentali dell’uomo e indicato dagli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile" conclude la presidente di Italians for Darfur.

Rapporto choc. «Fermate i profughi» (con l'uso della forza) - Dall’Italia all’Ungheria accordi coi despoti per frenare i flussi

Avvenire
Poliziotti che premono il grilletto contro i migranti in Belgio. Gendarmi francesi che non si curano di profughe incinte, fino a provocarne la morte. Governi che in Ungheria issano barriere elettrificate. Paramilitari della Bulgaria che danno la caccia ai siriani in fuga. Servizi segreti impiegati nelle indagini sui soccorritori nel Mediterraneo, nella nostra Italia.

Clicca sull'immagine per ingrandirla.
Leggi il rapporto Expanding the Fortress – Ampliando la Fortezza
Niente di strano che un’Europa così si sia messa in affari con 35 tra i più controversi governi del mondo, pur di sigillare i confini e tenere alla larga gli ultimi. 


Lo sostiene il rapporto “ Expanding the Fortress – Ampliando la Fortezza”, diffuso dall’istituto transnazionale 'Stop Wapenhandel' (Campagna olandese contro il commercio di armi) e rilanciato dalla Rete Italiana per il Disarmo. 
«La collaborazione dell’Ue con i Paesi limitrofi per il controllo delle migrazioni ha rafforzato i regimi autoritari, fornito profitti alle imprese della sicurezza e ai produttori di armamenti, distolto risorse dallo sviluppo e indebolito i diritti umani», si legge nel dossier. I ricercatori hanno esaminato il frequente ricorso a intese per l’esternalizzazione delle frontiere.
Esemplare il caso della Turchia del presidente Erdogan, regolarmente criticato da Bruxelles per le ripetute violazioni delle libertà fondamentali, ma a cui sono stati versati 6 miliardi di euro pur di trattenere in Anatolia il più alto numero possibile di profughi siriani. 

Le misure adottate dall’Ue includono la formazione delle forze di sicurezza di Paesi terzi; donazioni di elicotteri, navi per pattugliamento e veicoli; cessioni di apparecchiature di sorveglianza e monitoraggio; sviluppo di sistemi di controllo biometrico; accordi per i respingimenti. Nella lista, oltre alla Turchia, vi sono Libia, Egitto, Sudan, Niger, Mauritania e Mali. In tutti questi Paesi, «gli accordi hanno portato l’Ue – insistono i ricercatori – a trascurare o attenuare le critiche sulle violazioni dei diritti umani»

In Egitto, per fare un esempio, è stata intensificata la cooperazione per il controllo delle frontiere con il supporto del governo tedesco, «malgrado il consolidamento del potere militare al Cairo».

In Sudan, il sostegno per la sicurezza delle frontiere da parte dell’Ue ha permesso al presidente Omar al-Bashir (destinatario di un mandato di cattura della Corte penale internazionale dell’Aja) di rompere l’isolamento internazionale, «consentendo di rafforzare le Forze di supporto rapido, formate da combattenti della milizia Janjaweed», responsabili di crudeli crimini contro i civili nella regione del Darfur. Il dossier esamina da vicino tutti i 35 Paesi a cui l’Ue attribuisce priorità negli sforzi di esternalizzazione delle frontiere. Il 48% (17) ha un governo autoritario e solo quattro possono essere considerati Stati democratici. Il 100% (35) pone rischi estremi o elevati per il rispetto dei diritti umani. Il 51% (18) è classificato come 'basso' negli indici dello sviluppo umano.

In Niger, una delle nazioni più povere al mondo, le intese procedono verso una progressiva militarizzazione, aumentando i rischi per i migranti e accrescendo il potere di bande armate e trafficanti. Allo stesso modo in Mali, Paese che sta riprendendosi dopo la guerra civile, gli 'aiuti' militari dall’Europa per trattenere i migranti minacciano di risvegliare quel conflitto. «L’Unione Europea – sostengono gli autori dello studio – ha voltato le spalle ad un impegno incondizionato per i diritti umani, la democrazia, la libertà e la dignità umana espandendo negli ultimi anni in maniera problematica le proprie politiche di esternalizzazione delle frontiere». Dalle cronache degli ultimi giorni, purtroppo, non arrivano smentite.

Nello Scavo

martedì 22 maggio 2018

I Laogai, le carceri–gulag cinesi, vere industrie della morte e mano d'opera a costi quasi nulli

Daily Cases
Più di mille i campi di prigionia e lavoro forzato disseminati in tutta la Repubblica Popolare Cinese dove le condizioni di vita e lavoro dei detenuti, uomini donne e bambini, sono disumane.



Sono più di mille i campi di prigionia e lavoro forzato disseminati in tutta la Repubblica Popolare Cinese. Definiti “i nuovi Gulag cinesi”, perché ispirati ai campi di concentramento russi di epoca staliniana, i Laogai vennero istituiti nel 1950 da Mao Zedong, il rivoluzionario che portò il comunismo a trionfare in Cina. Attualmente i Laogai ospitano milioni di persone, uomini, donne e bambini che, al pari di schiavi, sono costretti a massacranti condizioni di vita e di lavoro.

Le poche informazioni a riguardo, per lo più smentite dal Governo cinese, arrivano da coloro che, da queste prigioni, sono usciti, perché arrivati a fine pena o perché riusciti a fuggire. Harry Wu era forse il più famoso di questi: arrestato nel 1960 con l’accusa di essere un cattolico e “controrivoluzionario di destra”, fu detenuto in diversi campi Laogai fino al 1979, quando fu rilasciato grazie alla liberalizzazione che seguì la morte di Mao Zedong. 

Diciannove anni di sofferenze e di violenze testimoniate da Wu, fino al giorno della sua morte nel 2017, con numerose interviste e con esperienze di attivismo e denuncia delle violazioni dei diritti umani in Cina, iniziate una volta rifugiatosi in America, dove fondò, nel 1992, la Laogai Research Foundation, un’organizzazione di ricerca e pubblica educazione no profit sui campi di lavoro cinesi.

Negli anni sono venuti alla luce alcuni degli strumenti di tortura che la dittatura cinese mette in atto in questi “campi di rieducazione” nei confronti dei condannati. Si parla di lavori forzati, che durano anche 18 ore al giorno, in miniere di carbone o a costruire strade o lavorare la terra, di tempo passato a nutrirsi, in mancanza d’altro, anche di insetti e topi. 

All’interno dei Laogai sono previste punizioni corporali quali scariche elettriche, pestaggi, sospensione per le braccia, privazione del sonno, isolamento in celle di pochi metri quadrati, assenza di cure mediche e controlli, induzione al vomito con tubi ficcati in gola o nel naso, esposizione a caldo o freddo, bruciature, fino ad arrivare a violenze sessuali e all’asportazione e al traffico di organi dei detenuti.

Ma ciò che veramente distingue i Laogai cinesi dai predecessori campi di concentramento nazisti o staliniani, è l’attuazione anche di un vero e proprio abuso psicologico, che si concretizza nel lavaggio del cervello dei detenuti. Un indottrinamento politico che porta il prigioniero alla perdita della propria identità e a essere educato all’infallibilità del comunismo. Ogni giorno sono previste sessioni di studio dopo il lavoro forzato, costituite anche dalla cosiddetta “autocritica” per la riforma del pensiero, in cui, oltre a elencare e analizzare le proprie colpe, il detenuto le deve ammettere pubblicamente e deve giurare di diventare una “nuova persona socialista”. Infine deve dimostrare la propria lealtà al Partito Comunista Cinese denunciando anche i propri amici e familiari. I più colpiti, come è facile capire, sono i dissidenti politici contrari al Partito e i praticanti del Falun Gong, una pratica spirituale accusata di diffondere credenze irrazionali e di minare la stabilità sociale.

La “riforma” della personalità dei detenuti rende il sistema di rieducazione del Laogai strettamente funzionale allo stato totalitario cinese, così come, altrettanto funzionale, questa volta all’economia cinese, risulta il lavoro a cui sono costretti i prigionieri. Questo, infatti, rappresenta il secondo scopo alla base dell’istituzione dei Laogai: fornire un’enorme forza lavoro a costo zero per le multinazionali che producono e investono in Cina. È proprio dal lavoro nei Laogai che è partita l’attuale conquista cinese dei mercati esteri, caratterizzata da un basso tasso di disoccupazione, da una crescita continua dell’esportazione e dalla concorrenza spietata sui prezzi. Oggi nei Laogai si produce di tutto: articoli di vestiario, giocattoli, mobilio, tecnologia, veicoli… praticamente tutto ciò che in Occidente porta il marchio “Made in China”.

Viene facile capire come diventi semplice trarre vantaggio dalla violazione dei diritti umani in un Paese dove il solo pensare è considerato reato capitale e il pensiero è definito “istigazione eversiva”. Ne consegue che l’attuale e sfavillante crescita economica cinese nasce e si perpetua con il lavoro forzato nei Laogai e in una vasta rete di fabbriche-lager in cui le condizioni lavorative non sono tanto diverse dalla schiavitù. Si stima che almeno l’80% della popolazione cinese sia sfruttata in esse, nelle campagne e nelle miniere, a vantaggio della restante minoranza del 20%, il più delle volte collegata al Partito.

Il lavoro nei Laogai diventa quindi un business, non solo per la Cina, che è ormai la seconda potenza economica mondiale, ma anche per il resto del mondo che, pur condannando apertamente il sistema dei Laogai e le violazioni dei diritti umani, si limita però assurdamente a voltare lo sguardo altrove e a continuare a intrattenere rapporti commerciali con Pechino, con la falsa speranza che il commercio con l’Occidente potrà migliorare la situazione, e senza comprendere che è proprio questo comportamento che perpetua lo status quo. È evidente, infatti, che finché l’Occidente accetterà i prodotti fabbricati in Cina, i Laogai continueranno ad esistere e i diritti umani ad essere calpestati.

Luca Rinaldi


Harry WU, in una delle sue interviste, ha usato poche semplici parole per descrivere i Laogai: “Sono posti in cui si fabbricano due generi di cose: i prodotti e gli uomini”.