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venerdì 30 settembre 2022

Iran - L’indignazione che non c’è. Perché le opinioni pubbliche e le femministe si disinteressano della lotta delle donne iraniane?

Linkiesta
Migliaia di persone contestano da giorni il regime di Ali Khamenei per condannare l’omicidio della ventiduenne Masha Amini, uccisa dalla polizia di Teheran perché i suoi capelli non erano sufficientemente coperti dal velo. Le cose purtroppo non cambieranno perché il resto del mondo non se ne occupa.

Ha un suo grande peso l’assoluta indifferenza nei confronti della repressione, in particolare nei confronti delle donne iraniane, delle opinioni pubbliche internazionali, in particolare, lo ripetiamo, da parte dei movimenti femministi e progressisti che sanno vedere oppressione e ingiustizie solo in Occidente.
Le donne iraniane che protestano coraggiosamente in piazza sono sole.
Nel disinteresse totale del movimento femminista e progressista internazionale da quattro giorni molte piazze iraniane si sono riempite di manifestanti che protestano contro l’uccisione in carcere a Teheran da parte della “polizia morale” della ventiduenne Masha Amini. La sua colpa? I capelli non erano sufficientemente coperti dal velo. Tutto qui.

La polizia iraniana ha reagito alle manifestazioni sparando, usando gli idranti e ha lasciato sul selciato almeno cinque morti. Il 13 settembre scorso Masha, una giovane curda in vacanza a Teheran, era stata duramente malmenata e gettata violentemente su un furgone della polizia del costume con l’accusa di violare le norme sullo Hijab emanate dalla Commissione per la Promozione della Virtù e la repressione del Vizio.

Gli agenti hanno detto ai parenti della ragazza che protestavano che Masha sarebbe stata sottoposta a una «sessione di rieducazione». Gli esiti della “rieducazione” sono stati fatali: dopo tre giorni, Masha è stata dichiarata morta in ospedale. Immediate le manifestazioni di protesta davanti all’università di Teheran, a Sanandaj e in tutto il Kurdistan, regione nella quale le aspirazioni autonomiste e indipendentiste non si sono mai sopite, nonostante una repressione che dal 1979 in poi, dalla instaurazione della Repubblica Islamica di Khomeini, ha fatto decine di migliaia di morti.

Nei cortei, moltissime donne si sono levate il velo dalla testa e molti, come già durante le grandi manifestazioni del 2020, hanno gridato lo slogan: «Morte al dittatore!» indirizzato alla Guida della Rivoluzione Ali Khamenei. Fortissima anche la mobilitazione in rete, con non meno di 1.600.000 visualizzazioni dello hashtag #MashaAmini.

È questa l’ennesima protesta di massa che vede le piazze iraniane riempirsi con una grande mobilitazione, soprattutto giovanile. Enorme fu l’Onda Verde del 2009 e altrettanto grandi le manifestazioni del 2020. Ambedue con centinaia di morti falciati dalle forze dell’ordine. Ma oggi la mobilitazione si presenta con una novità precisa: la protesta contro l’umiliazione della donna imposta dal regime con una stretta decisa dall’ultra conservatore presidente Ibrahim Raisi, eletto un anno fa.

Stretta di cui si fa interprete appunto la “polizia morale”, composta soprattutto da donne, che ha imposto strumenti di verifica come il riconoscimento facciale e che setaccia autobus, treni e strade alla ricerca di “ribelli” non abbigliate secondo rigidissimi canoni islamici.

Purtroppo, queste ripetute e massicce proteste popolari in Iran non hanno mai uno sbocco politico e non preoccupano eccessivamente il regime che reagisce sempre con enorme violenza repressiva. Non esiste infatti né dentro il paese né all’estero una forza politica di opposizione che riesca a capitalizzare sul piano politico la grande forza espressa. Men che meno esiste dentro il regime – se non nella fantasia di certi media e analisti occidentali – una componente riformista in grado di contrastare o quantomeno condizionare la retriva forza conservatrice della dirigenza islamica degli ayatollah e ancor più il potentissimo blocco ultra nazionalista e ancora più retrivo dei Pasdaran.

Carlo Panella

domenica 25 settembre 2022

Migranti - La frontiera europea si è spostata in Niger generando un nuovo inferno dopo quello libico. OIM: "Per ogni migrante morto in mare 2 vittime nel deserto"

Il Manifesto
Esternalizzazione dei confini. Impugnata la legge anti-migranti. Due associazioni ricorrono alla Corte Ecowas: la misura approvata su pressioni Ue, ma viola i diritti umani e ostacola l’integrazione dei Paesi dell’Africa occidentale.

Le pressioni europee per contrastare i flussi di migranti sub-sahariani non hanno trasformato in un inferno soltanto la Libia. Lo stesso è avvenuto in Niger. Torture, violenze, stupri, detenzioni arbitrarie contro le persone in transito si sono moltiplicate nel paese crocevia delle rotte che dall’Africa occidentale puntano verso le rive del Mediterraneo. Tra le misure adottate per arrestare il fenomeno la più significativa è la «Legge sul contrabbando illegale di migranti», la numero 36 del 2015.

Adesso l’associazione Jeunesse Nigérienne au Service du Développement Durable, parte del network Alarm Phone Sahara, e l’Association Malienne des Expulsé l’hanno impugnata davanti alla Corte di giustizia della Comunità degli stati dell’Africa Occidentale (Ecowas) chiedendo di dichiararla illegittima. Secondo i ricorrenti viola diverse disposizioni della Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli, della Convenzione di Ginevra sui rifugiati e del protocollo Ecowas relativo alla libertà di circolazione, residenza e stabilimento in un altro paese.

Le crescenti tensioni a nord di Bamako hanno dirottato molte rotte migratorie verso il Niger, incastonato tra Mali, Burkina Faso, Benin, Nigeria e Ciad e più su confinante con Algeria e Libia. E in particolare verso Agadez e la regione circostante

Il Niger occupa il terzultimo posto nella classifica sullo sviluppo umano delle Nazioni unite, ma nel corso degli anni ha acquisito crescente importanza strategica nel processo di esternalizzazione della frontiera europea. 

Che contro le migrazioni subsahariane conta su due elementi principali: il Mediterraneo, presidiato dai paesi nordafricani e in particolare dalla Libia, e il deserto del Sahara, su cui il Niger gioca un ruolo decisivo. «Abbiamo l’impressione che la frontiera europea inizi ad Agadez», ha detto un informatore qualificato ai ricercatori dell’Organizzazione mondiale contro la tortura (Omct) che per il rapportoTorture roads hanno studiato sul campo gli effetti della criminalizzazione delle migrazioni causata da pressioni e fondi europee.

La legge nigerina contro il traffico non ha fermato i movimenti di persone, ma li ha resi ancora più pericolosi. Le rotte tentano di girare intorno ad Agadez allungandosi, moltiplicando il rischio di perdere la vita e il potere dei trafficanti
L’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) stima che per ogni morto in mare ci siano due vittime nel deserto, lontanissime da qualsiasi riflettore. All’interno del Paese nigerino i migranti, e persino alcuni cittadini diretti a nord, sono sottoposti a detenzioni arbitrarie, senza aver commesso alcun reato. Ricattati da soggetti statali e non. 
La stessa idea di integrazione regionale attraverso la libera circolazione delle persone, obiettivo dei 15 stati che aderiscono all’Ecowas, è indebolita e ostacolata dalla legge 36.

Le associazioni che la contestano chiedono alla Corte di ordinare al Niger una sua parziale abrogazione e l’adozione di misure che tutelino i diritti dei migranti. La procedura ha diversi limiti giuridici, il principale è che la Corte Ecowas non ha un potere diretto sui Paesi membri ma in caso di mancata applicazione di una sua decisione deve passare attraverso un giudice nazionale. Si tratta comunque di un’azione importante che fa luce su un altro pezzo delle criminali politiche europee e tenta di aprire una breccia contro i muri invisibili che stanno crescendo lungo tutte le rotte migratori.

Degli effetti dell’esternalizzazione dei confini Ue si parlerà approfonditamente il 29 settembre in un convegno organizzato a Roma dall’Asgi. Titolo: «La libertà di circolazione in Africa occidentale e dalla sub-regione verso l’Europa».

Giansandro Merli

sabato 24 settembre 2022

Mozambico, la guerra dimenticata di Cabo Delgado nel Nord. Imperversa da 5 anni, 4 mila morti e un milione hanno abbandonato i villaggi

Vita
Cabo Delgado è una provincia dell’estremo nord mozambicano, scenario di uno dei conflitti più dimenticati del pianeta, che imperversa ormai da 5 anni. Secondo i dati recentemente diffusi dall’Ocha, sono 945 mila le persone che hanno dovuto abbandonare i propri villaggi per scampare dagli attacchi del gruppo terrorista Sunna Wa Jama (ASWJ) chiamata dalla gente del luogo Machababos, “i molti ragazzi”. Gli stessi che hanno tolto la vita a Suor Maria De Coppi, la religiosa italiana uccisa in un agguato nella sua missione di Chipene


I primi attacchi si sono scagliati contro i simboli dell’autorità statale e del governo. Uffici, sedi amministrative, stazioni della polizia. Poi hanno appiccato il fuoco a scuole e ospedali, poi il loro obiettivo sono diventati le donne e gli uomini, aggrediti, uccisi barbaramente nelle loro incursioni notturne, senza badare a distinzioni etniche e religiose.
[...]
La guerriglia è scoppiata nelle remote aree del nord del Mozambico dal 2017, seminando una violenza che a oggi è costata la vita a oltre 4mila persone, secondo i dati raccolti dall’osservatorio Cabo Ligado. E che negli ultimi due mesi si è spinta sempre più a sud, nei distretti di Ancuabe, Chiure e Mecufi. Le strade che si diramano da Metoro sono diventate scenari di potenziali imboscate per le jeep in transito. Fino a superare lo scorso giugno, per la prima volta, il confine del fiume Lurio che divide le province di Cabo Delgado e Nampula e oltre cui si trova la missione di suor Maria, a Chipene.

La situazione è fluida ma sono circa venti i campi profughi allestiti dalle agenzie umanitarie, molti di questi agglutinati intorno a Metuge, a due ore dalla capitale provinciale Pemba. Sono cresciuti a dismisura in distese di tende o capanne di fascine e fango confusamente allineate sui dorsi delle colline, attorno ai piccoli villaggi preesistenti, e dove qualche rifugiato ha iniziato a praticare agricoltura di sussistenza o microscopici commerci fra i sentieri polverosi, lontani dall’ombra degli alberi. E dove si va avanti con le razioni del World Food Program, che arrivano una volta al mese.
[...]
I rifugiati arrivano dalle zone di Mocímboa da Praia, Palma, Macomia e Quissanga, Muidumbi e Nangade dalla parte più settentrionale di Cabo Delgado che ora è avvolta nel buio. Qualcuno dei profughi va e viene anche per badare a quel che resta dei propri villaggi, si entra con pass speciali ma è difficile valutare lo stato attuale delle infrastrutture per chi vi è rimasto a vivere, circa un milione di persone, mentre le autorità stanno spingendo le persone a ritornare a Mocímboa da Praia, considerata relativamente normalizzata.
[...]
Lo sfruttamento delle ricchezze minerarie da parte di persone arrivate da fuori, dalle multinazionali, da funzionari corrotti, sono una formidabile arma di propaganda per i jihadisti tra i giovani delle piccole comunità disseminate nel mato, la foresta, che non vedono futuro davanti a loro. S’intuisce dalle parole di Bernardo, agricoltore e capo villaggio del campo profughi di Ngalane, dove Cuamm gestisce un progetto di supporto antiviolenza per le donne e persone con disagio psichico. Dietro agli attacchi non ci sono problemi etnici, né religiosi. È tutta una questione d’interessi, di affari privati”, racconta. Bernardo delle imprese estrattive di gas nella sua provincia dice di sapere poco, spiega però che i suoi compaesani conoscono molto bene la gigantesca miniera di rubini nel distretto di Montepuez, nel cuore di Cabo Delgado, Ruby Mining, di proprietà d’una holding inglese: “È in mano a persone che vengono da fuori. Noi dei villaggi siamo sempre stati a guardare, nelle miniere non ci lavoriamo, non ci resta mai nulla”. E spalanca le mani in un gesto di frustrazione comune a tanti, che da generazioni si vedono deturpati delle loro risorse e incamerano una rabbia muta.

Marco Benedettelli


venerdì 23 settembre 2022

Nuova tragedia - Naufragio migranti, 71 i corpi recuperati al largo Siria. Imbarcazione partita dal Libano con 100 migranti siriani, libanesi e palestinesi. Tra loro donne e bambini.

TRT
Sale a 71 morti il bilancio del naufragio di una barca di migranti provenienti dal Libano, a largo delle coste siriane. Lo ha confermato il ministro dei trasporti del Libano Ali Khamiye, dicendo che le operazioni di soccorso, durate tutta la notte, proseguono in queste ore.

Fin’ora sono state salvate 20 persone mentre si tratta del ritrovamento di 71 corpi.

Secondo quanto riportato dai media libanesi una barca che trasportava migranti dal Libano si e’ capolta al largo dell’isola Ervad, vicino al distretto di Tarsus. La maggior parte dei migranti morti sono libanesi, siriani, e palestinesi.

giovedì 22 settembre 2022

Guerre dimenticate - Etiopia: rapporto Onu denuncia nuove violazioni dei diritti umani nel Tigrè. Crimini di guerra, esecuzioni extragiudiziali e stupri.

Nova News
La commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite ha affermato di avere “ragionevoli motivi per ritenere che, in diversi casi, queste violazioni equivalgano a crimini di guerra e crimini contro l'umanità”

Un nuovo rapporto delle Nazioni Unite accusa le parti in conflitto di essere responsabili dei numerosi crimini contro l’umanità commessi nella regione settentrionale del Tigrè, in guerra dal novembre 2020.

Nel suo primo rapporto pubblicato dopo la sua costituzione, nel dicembre scorso, la Commissione di esperti in materia di diritti umani sull’Etiopia ha affermato di aver riscontrato violazioni, come esecuzioni extragiudiziali e stupri, e ha evidenziato quelle che ha definito “informazioni credibili” circa omicidi su larga scala commessi dalle Forze di difesa nazionale etiopi (Endf), accusate di aver preso di mira uomini e ragazzi di etnia tigrina in età da combattimento.

La commissione, creata lo scorso anno dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite e composta da tre esperti indipendenti di diritti umani, ha affermato di avere “ragionevoli motivi per ritenere che, in diversi casi, queste violazioni equivalgano a crimini di guerra e crimini contro l’umanità”. Gli investigatori affermano inoltre che ci sono anche prove che la fame sia usata come arma di guerra, e che tutte le parti hanno commesso violazioni dei diritti umani da quando sono scoppiati i combattimenti, descrivendo la crisi umanitaria nel Tigrè come “scioccante”, ulteriormente aggravata dal fatto che il governo e i suoi alleati continuano a negare alle persone l’accesso ai servizi di base, tra cui Internet, le banche e l’elettricità.

Questo, combinato con la scarsità di cibo, medicine e carburante, nonché con le severe restrizioni all’accesso umanitario, ha lasciato circa 20 milioni di persone bisognose di assistenza e protezione, quasi tre quarti delle quali donne e bambini. “L’effetto combinato di queste misure, che rimangono in vigore più di un anno dopo, ha costretto gran parte della popolazione del Tigrè a mangiare di meno e vendere il raccolto e il bestiame riproduttivo. Fonti hanno anche riportato un aumento dei mezzi disperati per sopravvivere, come i matrimoni precoci e il lavoro minorile, la tratta di esseri umani e il sesso transazionale”, afferma il rapporto.

In una dichiarazione, il presidente della Commissione Kaari Betty Murungi ha descritto la crisi umanitaria causata dal conflitto nel Tigrè come “scioccante, sia in termini di portata che di durata”. “La diffusa negazione e ostruzione dell’accesso ai servizi di base, al cibo, all’assistenza sanitaria e all’assistenza umanitaria sta avendo un impatto devastante sulla popolazione civile e abbiamo ragionevoli motivi per ritenere che rappresenti un crimine contro l’umanità”, ha affermato. “Abbiamo anche ragionevoli motivi per ritenere che il governo federale stia usando la fame come metodo di guerra”, ha aggiunto, invitando il governo a “ripristinare immediatamente i servizi di base e garantire un accesso umanitario pieno e illimitato”.

Murungi ha anche chiesto alle forze del Fronte di liberazione del popolo del Tigrè (Tplf) di “assicurarsi che le agenzie umanitarie siano in grado di operare senza impedimenti”, dopo che la commissione ha ricevuto informazioni secondo cui le forze tigrine avrebbero saccheggiato o sottratto indebitamente aiuti umanitari.

In risposta al rapporto le autorità del Tigrè hanno affermato di “aver sempre sostenuto” che il governo etiope fosse responsabile di crimini contro l’umanità, mentre nessun commento è ancora giunto da parte del governo etiope.

mercoledì 21 settembre 2022

Rifugiati - Dal 2015 richieste di asilo in Europa in calo: dimezzate in Italia

Truenumbers
Gli ultimi dati sulle richieste d’asilo mostrano come dal 2014 le domande per la concessione dello status di rifugiato siano in calo in tutta Europa. Per la precisione, rispetto al 2016, l’Italia ha visto dimezzarsi le domande per la richieste d’asilo che sono calate di 50,7 punti percentuali. 
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Lo mostra bene in grafico in apertura attraverso il quale si può seguire l’andamento delle richieste d’asilo in Europa. Il calo, che non riguarda tutti i Paesi, ci fornisce una mappa dello stato della migrazione nel Vecchio Continente. Per quanto riguarda la comunità europea il tasso di richiesta d’asilo è pari a 1,7 domande ogni 1000 abitanti, in Italia si registra invece un flusso pari a 0,9 domande d’asilo ogni 1000 abitanti
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Il Paese che riceve più richieste di asilo in Europa è la Germania
La Germania è il Paese europeo che gestisce più richieste d’asilo. Per la precisione nel corso del 2021 le persone che hanno chiesto lo status di rifugiato a Berlino sono state 190.545, di queste 148.175 lo hanno fatto per la prima volta. In Italia, a titolo di confronto, nel 2021 sono state 45.200 le richieste (a fronte di 67.040 sbarchi). Questo vuol dire che la Germania, rispetto al nostro Paese, gestisce circa il triplo di richieste d’asilo. Per il Paese guidato dal Cancelliere Olaf Scholz, il più popoloso d’Europa (80 milioni di abitanti contro i 60 dell’Italia), il flusso di immigrazione rappresenta un pilastro dell’economia: l’unica soluzione per fare fronte alla carenza di manodopera specializzata; la Germania si prepara infatti a dover gestire un “buco” di circa 240mila lavoratori specializzati che potrebbe rappresentare un reale pericolo per l’economia tedesca.
Il piano tedesco per aumentare il flusso di lavoratori extracomunitari

Per questo Berlino è già corsa ai ripari promuovendo, per la prima volta in Europa, la possibilità per i cittadini extracomunitari di ottenere la doppia cittadinanza. [...]

Dopo la Germania, nella classifica dei Paesi Ue per richieste d’asilo, troviamo Francia, Spagna e Italia. La Francia è l’unico Paese Ue dove le richieste superano le 100mila, come è possibile vedere nel grafico qui in alto che mostra come Italia e Spagna ricevano circa lo stesso numero di richieste di asilo, una quota ampiamente sotto i numeri di Germania e Francia. Dopo l’Italia il dato delle richieste diminuisce progressivamente, con l’Austria che gestisce (rispetto al nostro Paese) il 34,36% di richieste di protezione internazionale in meno e il Belgio con più del 100% di domande per lo status di rifugiato in meno. Scendendo nella classifica dei paesi Ue per richieste d’asilo arriviamo infine all’Ungheria; qui le richieste scendono verticalmente: nel 2021 il Paese guidato da Viktor Orban ha gestito in tutto solo 40 richieste d’asilo. D’altronde l’Ungheria è il Paese europeo dove è presente il più lungo muro anti migranti.
[...]
In Europa i richiedenti asilo provengono in totale da 138 Paesi differenti, non mancano gli apolidi, ovvero quello persone che non possiedono la cittadinanza di nessuno stato. Il primo Paese di provenienza dei richiedenti asilo nel 2021 in Ue è la Siria, seguito dall’Afghanistan e dall’Iraq come mostra il grafico qui in alto. Naturalmente oggi nel 2022 il Paese da cui provengono la maggior parte dei richiedenti asilo in Ue è l’Ucraina come spieghiamo qui sotto nel focus Ucraina.

Accoglienza migranti, focus Ucraina: in Italia accolti 159mila sfollati
I dati fin qui delineati e relativi al 2021 non tengono conto della crisi Ucraina la quale cambia radicalmente il volto dell’immigrazione e delle richieste d’asilo in Europa. Secondo l’Unhcr l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha provocato il più grave flusso migratorio in Europa dalla Seconda guerra mondiale. Dal 24 febbraio, data d’inizio del conflitto, sono più di 5 milioni le donne, i bambini e gli uomini ucraini in fuga dalla guerra. Gli stati confinanti con l’Ucraina sono quelli che hanno accolto più profughi: la Polonia è il Paese dell’Ue che ha concesso il maggior numero di protezioni temporanee agli ucraini fuggiti dopo il 24 febbraio, le prime cifre parlano di 675.085 richiedenti asilo, di questi il 54% sono minori di 18 anni il 66% donne. In Italia gli ultimi aggiornamenti parlano di 159mila persone provenienti dall’Ucraina che hanno chiesto al nostro Paese lo status di rifugiati per essere accolte principalmente a Roma, Milano, Napoli e Bologna.

I dati si riferiscono al: 2021-2022 - Fonte: Commissione europea

domenica 18 settembre 2022

Siria, il martirio di un popolo continua ma il mondo ha chiuso gli occhi. La guerra non e finita e il 90% della popolazione vive sotto la soglia di povertà

Globalist
In Siria, circa il 90 per cento dei siriani vive al di sotto della soglia di povertà e negli ultimi 11 anni oltre 13 milioni sono stati costretti a fuggire, con 5,5 milioni di rifugiati accolti in cinque Paesi limitrofi.
Un obbligo morale. Un dovere professionale: non spegnere i riflettori sulla tragedia siriana. Una tragedia che continua undici anni dopo l’inizio della guerra dichiarata dal “macellaio di Damasco”, al secolo il presidente Afez al-Asad, al suo popolo, “colpevole” di essere sceso in strada per reclamare libere elezioni, giustizia, diritti. La Siria, il martirio di un popolo continua.


La testimonianza di Grandi
Una nota ufficiale dell’Unhcr : “A seguito di una visita terminata ieri (15 settembre 2022), l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, Filippo Grandi, ha esortato ad assicurare maggiore sostegno per far fronte alle drammatiche esigenze umanitarie rilevate in Siria. La visita dell’Alto Commissario mirava ad attirare l’attenzione della comunità internazionale sui 14,6 milioni di persone che necessitano di assistenza umanitaria nel Paese, di cui oltre 6,9 sono sfollati interni. Circa il 90 per cento dei siriani vive al di sotto della soglia di povertà e negli ultimi 11 anni oltre 13 milioni sono stati costretti a fuggire, con 5,5 milioni di rifugiati accolti in cinque Paesi limitrofi.

“È diritto di tutti vivere al sicuro e avere accesso a cibo, mezzi essenziali di sostentamento, acqua, alloggio e calore”, ha affermato Grandi. [...]

La piaga del colera
Le Nazioni Unite hanno espresso preoccupazione per la prima epidemia di colera confermata da anni nella regione: è necessaria un’azione urgente per prevenire ulteriori casi e morti, dicono dal Palazzo di Vetro.

Imran Riza, che rimane per il momento il rappresentante delle Nazioni Unite e il coordinatore umanitario in Siria, ha espresso seria preoccupazione per l’epidemia. Il numero di casi confermati di colera finora è di 20 ad Aleppo, 4 a Latakia e 2 a Damasco. Le Nazioni Unite in Siria chiedono ai paesi donatori di fornire urgenti finanziamenti aggiuntivi per contenere l’epidemia e impedirne la diffusione. [...]
L’epidemia si concentra nelle province di Aleppo e Deir al Zor. Si ritiene che derivi dall’acqua contaminata del fiume Eufrate, che scorre attraverso le province, e che viene usata sui raccolti.
L’epidemia è un indicatore della grave carenza di acqua in tutta la Siria causata dai cambiamenti climatici e dal conflitto. 


I numeri dell’emergenza umanitaria
La guerra ha provocato quasi 400mila morti e 200mila dispersi, secondo le cifre dell’Osservatorio siriano per i diritti umani. Su una popolazione di 21 milioni di persone prima della guerra, 6,6 milioni sono fuggite dalla Siria per cercare rifugio all’estero, principalmente negli Stati vicini. Inoltre le statistiche rivelano che il 90 per cento della popolazione rimasta nel Paese è costretta a vivere sotto la soglia della povertà. Il Programma alimentare mondiale (Pam) ha stimato che più di 12 milioni di siriani, ossia il 60 per cento della popolazione, vive in situazione di insicurezza alimentare. In totale sono 14,6 milioni le persone con bisogno di aiuto umanitario, di cui 9,6 urgente.

L’illusione della pace
Il sanguinoso conflitto in Siria, in corso da più di undici anni e che ha finora ucciso almeno mezzo milione di persone, rischia di riaccendersi dopo l’inasprimento della tensione lungo diverse linee del fronte. Lo afferma o l’ultima relazione della commissione d’inchiesta indipendente dell’Onu sulle violazioni commesse in Siria. “La Siria non può permettersi un ritorno a combattimenti su larga scala, ma questo è ciò verso cui si sta andando”, ha affermato Paulo Sergio Pinheiro, presidente della commissione d’inchiesta.

“A un certo punto – ha detto Pinheiro parlando ai giornalisti a Ginevra e citato dai media siriani e libanesi – credevamo che la guerra in Siria fosse completamente finita (…) le violazioni documentate hanno dimostrato che non è così”.

La relazione di 50 pagine afferma che nonostante il fatto che numerosi fronti di guerra, a lungo attivi, si siano in apparenza pacificati, negli ultimi sei mesi si sono registrate numerose e gravi violazioni dei diritti umani fondamentali.


In particolare, si legge nella relazione dell’Onu, l’inasprimento di combattimenti e raid aerei nel nord-est e nel nord-ovest della Siria hanno provocato la morte di decine di civili. Le popolazioni sono inoltre private in diverse aree di cibo e acqua potabile.

Secondo la commissione d’inchiesta, negli ultimi tre mesi si è inoltre registrato un aumento dei bombardamenti aerei russi nelle regioni nord-occidentali, dove da anni sono ammassati circa 4 milioni di persone, fuggite negli anni da altre zone del martoriato paese.

La Siria “dimenticata” è l’inferno raccontato da Catherine Russell, Direttore Generale dell’Unicef (l’Agenzia delle Nazioni Unite per l’Infanzia) nel suo intervento alla VI Conferenza di Bruxelles: “Sostenere il futuro della Siria e della regione”.

Inferno siriano
Così Russell: “La Siria oggi è uno dei posti più pericolosi al mondo per essere un bambino. Un’intera generazione sta lottando per sopravvivere. Quasi il 90% delle persone in Siria vive in povertà. Più di 6,5 milioni di bambini hanno bisogno di assistenza urgente – il maggior numero di bambini siriani in difficoltà dall’inizio del conflitto. Undici anni di conflitto e sanzioni hanno avuto un impatto devastante sull’economia della Siria, riportando lo sviluppo indietro di 25 anni. La maggior parte dei sistemi e dei servizi di base da cui dipendono i bambini – salute, nutrizione, acqua e servizi igienici, istruzione e protezione sociale – sono stati ridotti all’osso. Le famiglie stanno lottando per mettere il cibo in tavola. Tra febbraio e marzo (quest’anno), il prezzo del paniere alimentare standard è aumentato di quasi il 24%. Quasi un terzo di tutti i bambini soffre di malnutrizione cronica. E l’impatto della guerra in Ucraina sui prezzi del cibo sta rendendo una brutta situazione ancora peggiore.

Questi sono tempi pericolosi, persino mortali, per essere un bambino in Siria. Gli attacchi alle infrastrutture civili sono diventati comuni. Più di 600 strutture mediche, tra cui ospedali materni e infantili, sono state attaccate. Dall’inizio della guerra, abbiamo potuto verificare che quasi 13.000 bambini sono stati uccisi o feriti – ma sappiamo che la cifra è molto più alta. La guerra non ha segnato solo fisicamente i bambini della Siria. L’anno scorso, un terzo di tutti i bambini in Siria ha mostrato segni di stress psicologico – ferite invisibili che possono durare tutta la vita. Anche i bambini che sono fuggiti dalla guerra in Siria hanno subito un trauma. Circa 2,8 milioni di bambini (siriani) vivono ora in Giordania, Libano, Iraq, Egitto e Turchia. Le vite di questi bambini sono piene di perdite, rischi e incertezze. Come ha detto una bambina di 11 anni a un operatore Unicef, “Non so cosa significhi la parola casa”.

Undici anni di guerra, disordini e sfollamenti hanno anche minacciato l’istruzione di un’intera generazione. Più di 3 milioni di bambini siriani non vanno ancora a scuola. Ma contro ogni previsione, circa 4,5 milioni di bambini siriani hanno accesso a opportunità di apprendimento. Questo grazie ai generosi finanziamenti dei donatori attraverso iniziative come (The) No Lost Generation, co-guidata dall’Unicef. [...]
Ma il mondo non deve dimenticare i bambini della Siria. Le loro vite sono altrettanto preziose e il loro futuro è altrettanto importante. Prima di tutto, hanno bisogno della fine di questa lunga e infruttuosa guerra. Non ci può essere una soluzione militare a questa crisi. Solo la pace può evitare che i bambini della Siria diventino davvero una generazione perduta. Chiediamo anche la fine immediata di tutte le gravi violazioni contro i bambini in Siria, compresi l’uccisione e il ferimento dei bambini. Fino a quando non sarà raggiunta una soluzione sostenibile, l’Unicef e i nostri partner continueranno a fare tutto il possibile per raggiungere ogni bambino, ovunque si trovi”, conclude Russell.

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mercoledì 14 settembre 2022

Schiavitù moderna - Sono 50 milioni le vittime di schiavitù nel mondo. Lavoro e matrimonio forzato per i bambini

IOL
Il lavoro forzato e il matrimonio forzato sono aumentati significativamente negli ultimi cinque anni, riportano le stime aggiornate dell’Organizzazione internazionale del lavoro, Walk Free e Organizzazione internazionale per le migrazioni.


Secondo il rapporto Global estimates of modern slavery: Forced labour and forced marriage (“Stime globali della schiavitù moderna: Lavoro forzato e matrimonio forzato”), nel 2021 erano 50 milioni le persone che vivevano in condizioni di schiavitù moderna. Di queste persone, 28 milioni erano costrette al lavoro forzato e 22 milioni erano costrette in matrimonio forzato.

Il numero di persone in forme di schiavitù moderna è aumentato significativamente negli ultimi cinque anni. Nel 2021 le persone in schiavitù moderna erano 10 milioni in più rispetto a quanto registrato dalle stime globali del 2016. Donne e bambini sono maggiormente vulnerabili.

La schiavitù moderna è presente in quasi tutti i paesi del mondo e non conosce frontiere etniche, culturali o religiose. Più della metà (52 per cento) del lavoro forzato e un quarto di tutti i matrimoni forzati si concentrano nei paesi a reddito medio-alto o alto.

Lavoro forzatoLa maggior parte dei casi di lavoro forzato (86 per cento) si registra nel settore privato. Il lavoro forzato in settori diversi dallo sfruttamento sessuale commerciale rappresenta il 63 per cento di tutto il lavoro forzato, mentre lo sfruttamento sessuale ai fini commerciali rappresenta il 23 per cento di tutto il lavoro forzato. Quasi quattro su cinque delle persone vittime di sfruttamento sessuale ai fini commerciali sono donne o ragazze.

Il lavoro forzato imposto dallo Stato rappresenta il 14 per cento che lavoro contro la loro volontà.

Quasi uno su otto di tutti i lavoratori forzati sono bambini (3,3 milioni) e più della metà di essi sono vittime di sfruttamento sessuale a fini commerciali.

Matrimonio forzato - Si stima che, in qualsiasi giorno del 2021, circa 22 milioni di persone si trovino in una situazione di matrimonio forzato, un aumento di 6,6 milioni rispetto alle stime globali del 2016.

L’incidenza reale dei matrimoni forzati, in particolare quelli che coinvolgono minori di 16 anni o meno, è probabilmente molto più alta di quanto registrato dalle stime attuali, che si basano su una definizione maggiormente ristretta e non includono tutte le tipologie di matrimoni infantili. I matrimoni infantili sono considerati forzati perché un bambino non può dare legalmente il proprio consenso al matrimonio.

Il matrimonio forzato è strettamente legato a consuetudini e pratiche patriarcali consolidati nel tempo e assume delle caratteristiche specifiche in base ai contesti. [...]

I migranti sono particolarmente vulnerabili al lavoro forzatoI lavoratori migranti hanno una probabilità più che tripla di essere sottoposti a lavoro forzato rispetto ai lavoratori adulti non migranti. Sebbene la migrazione per lavoro abbia un effetto ampiamente positivo su individui, famiglie, comunità e società, questo dato dimostra la maggiore vulnerabilità dei migranti al lavoro forzato e alla tratta, sia a causa di una migrazione irregolare o mal governata, sia a causa di pratiche di reclutamento illecite e non etiche.

“È sconvolgente che la schiavitù moderna continui ad esistere. Nulla può giustificare la persistenza di questo abuso fondamentale dei diritti umani”, ha dichiarato il Direttore Generale dell’OIL, Guy Ryder. “Sappiamo cosa bisogna fare e sappiamo che si può fare. Politiche e normative nazionali efficaci sono fondamentali ma i governi non possono farlo da soli. Le norme internazionali forniscono una base solida ed è necessario un approccio che coinvolga tutti. I sindacati, le organizzazioni dei datori di lavoro, la società civile e la gente comune hanno tutti un ruolo fondamentale da svolgere”.

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lunedì 12 settembre 2022

Migranti - 6 rifugiati siriani alla deriva per giorni morti di fame e sete, tra loro 2 bambini e 3 donne. Urgente ripristinare ricerca e soccorso in mare

Ansa
Sei rifugiati siriani, fra cui due bambini di uno e due anni, un adolescente di 12 e tre donne, sono morti su un barcone rimasto per giorni alla deriva nel Mediterraneo centrale presumibilmente "di fame e di sete".

Lo afferma l'Unhcr sottolineando che l'Agenzia sta assistendo i 26 sopravvissuti sbarcati a Pozzallo, molti dei quali "presentano condizioni estremamente gravi, tra cui ustioni".

"Questa inaccettabile perdita di vite umane e il fatto che il gruppo abbia trascorso diversi giorni alla deriva prima di essere soccorso evidenziano ancora una volta l'urgente necessità di ripristinare un meccanismo di ricerca e soccorso tempestivo ed efficiente, guidato dagli stati nel Mediterraneo - dice la rappresentante dell'Unhcr in Italia Claudia Cardoletti - Il soccorso in mare è un imperativo umanitario saldamente radicato nel diritto internazionale"