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domenica 6 novembre 2022

Humanity 1 e Geo Barens nel porto di Catania. Il Governo esegue una vergognosa "selezione": donne, bambini e fragili si salvano ma gli uomini "forti" devono tornare in mare.

Il Post
Sono a bordo di due navi, da cui il governo vuole far scendere solo donne, bambini e persone fragili, in violazione della legge internazionale.
Migranti a bordo della Humanity 1 (ANSA/MAX CAVALLARI-SOS HUMANITY)
Nel porto di Catania, in Sicilia, ci sono due navi gestite da ong con a bordo molti migranti soccorsi nei giorni scorsi nel Mediterraneo: sono la Humanity 1 di SOS Humanity e la Geo Barents di Medici Senza Frontiere. In entrambi i casi il governo italiano pretende che sbarchino soltanto le donne, i bambini e le persone fragili, in chiara violazione della legge internazionale. Contro la decisione del governo, la ong SOS Humanity ha annunciato che farà ricorso al TAR del Lazio.


Dalla prima nave gran parte dei 179 migranti sono stati fatti scendere tra sabato sera e domenica, ma ne sono rimasti a bordo ancora 35, maschi adulti che il governo italiano non vuole autorizzare a far sbarcare: il capitano della nave, il tedesco Joachim Ebeling, ha detto che nella mattina di domenica ha ricevuto la richiesta di lasciare il porto di Catania e di essersi rifiutato: «Sarebbe contro le leggi andare via con i sopravvissuti, come mi ha spiegato il mio legale. I naufraghi rimasti a bordo sono in uno stato depressivo e di apatia, siamo profondamente preoccupati per la loro salute mentale. È difficile riuscire a spiegargli quello che sta succedendo ed è qualcosa che io stesso non riesco a capire perché è contro le leggi», ha spiegato.

Una situazione analoga si sta verificando sulla Geo Barents, che è attraccata nel porto di Catania domenica mattina: a bordo ci sono 572 migranti, e i primi sbarchi sono iniziati nel tardo pomeriggio di domenica. Le operazioni sono ancora in corso e non è chiaro quanti migranti verranno fatti scendere. Ma, come nel caso della Humanity 1, è certo che a bordo rimarranno i maschi adulti considerati in buona salute.

In entrambi i casi lo sbarco parziale è dovuto a un decreto interministeriale firmato venerdì sera secondo cui, una volta entrate in acque italiane, le navi delle ong devono sottoporsi a un’ispezione delle forze dell’ordine italiane, per decidere quali persone hanno i requisiti per scendere e quali no. Al termine dell’ispezione e finite le operazioni di soccorso di donne, bambini e persone fragili, le navi delle ong devono lasciare le acque italiane, secondo il governo.

Venerdì il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi aveva spiegato il decreto dando un’interpretazione molto creativa delle norme sul diritto d’asilo. Secondo Piantedosi le navi che battono bandiera di un certo stato devono essere trattate «come un’isola» di quello stato, implicando che quindi il governo dello stato in questione dovrebbe farsi carico delle richieste d’asilo che avvengono a bordo (nel caso della Humanity 1 e della Geo Barents, rispettivamente il governo norvegese e tedesco).

La decisione del governo è stata però criticata da molti, che ritengono sia un’evidente violazione delle leggi internazionali, e in particolare della  cosiddetta convenzione di Amburgo del 1979, che prevedono che gli sbarchi debbano avvenire nel primo “porto sicuro” sia per prossimità geografica a dove è avvenuto il salvataggio sia dal punto di vista del rispetto dei diritti umani.

Nel frattempo ci sono altre due navi di ong al largo della Sicilia in attesa di sapere se possono attraccare e far scendere le centinaia di migranti che hanno soccorso: sono la Ocean Viking, con 234 migranti, e la Rise Above, che ne ha a bordo 90.

venerdì 4 novembre 2022

Papa Francesco in Bahrein: difesa della libertà religiosa, diritti umani e contro la pena di morte

LaPresse - CorriereTv
Così Papa Francesco giunto in Bahrein per il suo 39mo viaggio apostolico internazionale nel corso del suo discorso ufficiale di fronte alle autorità del luogo. 
"Penso al diritto alla vita, alla necessità garantirla sempre, anche nei riguardi di chi viene punito, la cui esistenza non può essere eliminata."

«Esprimo apprezzamento per le conferenze internazionali e per le opportunità d’incontro che questo Regno organizza e favorisce, mettendo specialmente a tema il rispetto, la tolleranza e la libertà religiosa». 



Sono temi «essenziali» ma anche «impegni da tradurre costantemente in pratica, perché la libertà religiosa diventi piena e non si limiti alla libertà di culto; perché uguale dignità e pari opportunità siano concretamente riconosciute ad ogni gruppo e ad ogni persona; perché non vi siano discriminazioni e i diritti umani fondamentali non vengano violati, ma promossi. Penso anzitutto al diritto alla vita, alla necessità di garantirlo sempre, anche nei riguardi di chi viene punito, la cui esistenza non può essere eliminata».


giovedì 27 ottobre 2022

Ciad, la polizia spara contro il popolo in rivolta: oltre 50 morti. Il paese è in crisi politica dal 2021

AFV
Sono oltre 50 le persone rimaste uccise durante le proteste esplose in Ciad a seguito della decisione della giunta militare di rimandare di due anni la transizione ad un governo civile. La polizia ha aperto il fuoco contro i manifestanti nelle due principali città del Paese. 

Il portavoce del governo ciadiano Aziz Mahamat Saleh ha affermato che 30 persone sono morte nella capitale, N’Djamena. Per gli organizzatori delle proteste i morti nella capitale sarebbero invece 40, oltre a diversi feriti. 

Altre 30 persone sarebbero invece rimaste uccise a Moundou, la seconda città del Ciad, stando a quanto riferito ai media, in condizione di anonimato, da un funzionario dell’obitorio cittadino. Sullo sfondo la lotta popolare contro un governo considerato corrotto e le proteste crescenti contro l’ingombrante presenza francese, accusata di neocolonialismo.

Il Ciad si trova in una crisi politica dall’aprile 2021, quando l’allora presidente Idriss Deby venne ucciso durante una visita alle truppe in prima linea che combattevano contro i ribelli

A seguito della morte del presidente, per colmare il vuoto di potere venutosi a creare, i vertici militari hanno deciso di nominare alla guida del consiglio di transizione (TMC), il figlio del presidente, il generale Mahamat Deby. 

Il TMC aveva il compito di traghettare il paese verso le elezioni entro 18 mesi termine che scadeva proprio giovedì 20 ottobre. Elezioni a cui il figlio di Deby aveva inizialmente annunciato non si sarebbe candidato. 

Tra i compiti del consiglio vi era inoltre quello di cercare di creare un dialogo tra le fazioni all’interno del paese, compreso il gruppo ribelle Front for Change and Concord in Chad (FACT). Falliti i tentavi di creare un dialogo, la giunta militare ha dichiarato lo scioglimento del TMC, annunciando però che le elezioni si sarebbero svolte dopo 24 mesi e che Mahamat Deby avrebbe potuto candidarsi. 

Questo ha fatto esplodere la rabbia dei cittadini e delle opposizioni, che sono scese in strada per protestare contro quello che ritengono un governo illegittimo. In risposta il governo ha dichiarato lo stato di emergenza nella capitale, N’Djamena, e in due città del sud – Moundou e Koumra – consentendo ai rispettivi governatori regionali di utilizzare “tutte le misure necessarie nel rispetto della legge” per sedare le proteste. 

La giunta ha inoltre bandito la coalizione della società civile Wakit Tama e ha annunciato una sospensione di tre mesi delle attività di sette partiti, tra cui il Transformers Party e il Socialist Party without Borders.

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mercoledì 26 ottobre 2022

Governo insediato, il ministero dell'Interno riprende a negare i porti alle due navi con centinaia di naufraghi, Humanity One e Ocean Viking delle Ong, Sea Watch e Sos Méditerranée

Rai News
Il passaggio nelle acque italiane per due navi impegnate a salvare vite nel Mediterraneo, è stato considerato “pregiudizievole per la pace, il buon ordine e la sicurezza dello Stato costiero” da parte del Viminale, ministro Matteo Piantedosi, con una direttiva che rispecchia quella analoga emanata dall'allora ministro dell'Interno, Matteo Salvini, nel marzo 2019.

Le due navi, di altrettante Ong, sono Humanity One e Ocean Viking e fanno riferimento, rispettivamente, alle ong Sea Watch e Sos Méditerranée. 


Humanity 1 è, in realtà, la Sea-Watch 4. Prima del suo impiego come nave di salvataggio, la Sea-Watch 4 era una nave di ricerca e si chiamava "Poseidon". Era di proprietà del Land dello Schleswig-Holstein e gestita dal Geomar Helmholtz Centre for Ocean Research Kiel. La nave è stata costruita nel 1976, è lunga oltre 60 metri e larga 11 metri. È stata acquistata all'asta nel 2020 da Sea-Watch e dalla coalizione di ong United4Rescue e battezzata con il nome di "Sea-Watch 4" nel febbraio del 2020. Batte bandiera tedesca.

"Dopo ampie misure di ristrutturazione - spiega la ong - rappresenta ora una delle navi di soccorso più grandi e meglio equipaggiate del Mediterraneo". Sulla nave sono presenti, tra le altre cose, un'area protetta per le donne e i bambini e un'infermeria.

La Sea-Watch 4, costata alla ong 1,3 milioni di euro, può ospitare e curare circa 300 profughi a bordo. In caso di gravi emergenze, tuttavia, può capitare che ce ne siano molte di più, per un breve periodo. Durante la missione, l'equipaggio è composto da 26 persone a bordo. Nelle ultime ore l'equipaggio della nave ha salvato 22 migranti che erano su un gommone in pericolo. Poche ore prima aveva soccorso 113 persone. Ora sono 180 le persone al sicuro sull'unità di Sos Humanity.

La Ocean Viking è registrata come nave cargo presso il Norwegian International Ship Registry (Nis), e batte perciò bandiera norvegese. Il vascello in passato era utilizzato come nave da supporto e soccorso per piattaforme offshore di petrolio e gas nel Mare del Nord. Costruita nel 1989, è lunga 69.3 e larga 15.5 metri. Il grande ponte, una volta vuoto, ospita ora un modulo-container. La nave adesso è equipaggiata per la ricerca e il soccorso con quattro High speed rescue boats (Rhibs), con una clinica per le consultazioni mediche, il triage e delle stanze per il recupero. La squadra di Sos mediterranee consiste di 13 persone ed è guidata da un Coordinatore della Ricerca e Soccorso (Search and Rescue Coordinator). Altre 9 persone fanno parte dell'equipaggio marittimo e sono dipendenti dell'armatore.

Dopo gli ultimi soccorsi, tra cui donne e diversi bambini, a bordo di Ocean Viking viaggiano in queste ore 146 migranti soccorsi al largo della Libia.

sabato 22 ottobre 2022

USA - Tennessee, Alabama, Louisiana, Oregon e Vermont - 5 Stati al voto per abolire i lavori forzati dei detenuti

Il Fatto Quotidiano
Tennessee, Alabama, Louisiana, Oregon e Vermont al voto per l’abolizione. La forza lavoro praticamente a costo zero delle prigioni produce circa 2 miliardi all’anno in beni, ed oltre 9 miliardi in servizi per la manutenzione delle stesse prigioni. Negli Usa i detenuti sono circa due milioni.

Oggi, nel 2022, sono ottocentomila i detenuti che negli Stati Uniti sono sottoposti ai lavori forzati. Una forma di schiavitù, perché in sette Stati i prigionieri-lavoratori non vengono pagati nulla, mentre a livello nazionale la paga media è di 52 centesimi all’ora, un guadagno già infinitamente minimo che viene ancora ridotto dalle ‘detrazioni’ compiute dalle amministrazioni carcerarie per tasse e spese. 

Ma le cose potrebbero cambiare in Tennessee, Alabama, Louisiana, Oregon e Vermont, che l’8 novembre votano - oltre che per il midterm - per abolire completamente ogni forma di schiavitù ancora ammessa dalla Costituzione.

Il 13esimo emendamento con cui è stata abolita nel 1865 la schiavitù infatti la riconosce ancora possibile come punizione per un crimine. E nell’America della più grande popolazione carceraria al mondo - oltre due milioni secondo i dati del 2021, con un numero sproporzionato di afroamericani - la forza lavoro praticamente a costo zero delle prigioni produce circa 2 miliardi all’anno in beni, ed oltre 9 miliardi in servizi per la manutenzione delle stesse prigioni, secondo i dati dell’Aclu.

I referendum presentati tendono ad eliminare nelle loro Costituzioni statali la formula che, sul modello del 13esimo emendamento, permette i lavori forzati. Finora solo tre stati - Colorado per primo nel 2018, seguito due anni dopo da Nebraska e Utah - hanno adottato legislazioni in questo senso. E secondo gli esperti i referendum del prossimo mese potrebbero essere “l’inizio di un’ondata, sospetto che da qui a dieci anni saremo inorriditi al pensiero che nel 2022 vi erano stati che permettevano questo cose”, come ha detto Sharon Dolovich, docente di diritto dell’University of California a Los Angeles.

“Dobbiamo prendere coscienza del fatto che lo stesso emendamento che ha liberato gli schiavi ha una clausola che ha permesso di renderli di nuovo schiavi - aggiunge Robert Chase, docente della Stony Brook University che dirige il gruppo Historians Against Slavery - permettendo che uomini e donne afroamericani siano rimessi in schiavitù incarcerandoli e vendendo il loro lavoro alle corporation private”. I detenuti che si rifiutano di lavorare a queste condizioni vengono puniti, messi in isolamento o perdono la possibilità di avere la pena ridotta per buona condotta, spiega ancora Chase.

Nel 2002 alla Corte Suprema è arrivato il caso di un detenuto dell’Alabama che era rimasto legato ad un palo sotto il sole per sette ore perché si rifiutava di lavorare alla ‘chain gang’, la fila di forzati, legati ad un’unica catena, che lavorano, nelle divise a righe, sui cigli delle strade, nei campi, sui binari delle ferrovie. Nel 2016 c’è stato anche il più grande sciopero delle prigioni d’America, con 24mila detenuti che si sono rifiutati di lavorare. Ed il mese scorso i detenuti dell’Alabama hanno scioperato ancora, paralizzando i servizi di pulizie del carcere.

La questione centrale infatti è che il sistema delle carceri si basa sul lavoro praticamente gratuito fornito dai detenuti: nei mesi scorsi in California non è stata accolta la misura che avrebbe abolito la servitù involontaria, costringendo l’amministrazione statale a pagare ai detenuti il salario minimo. “Stiamo facendo ricorso” annuncia Dolovich spiegando che pagare i detenuti sotto il salario minimo è sempre “una specie di schiavitù”.

venerdì 21 ottobre 2022

Incontro Internazionale di Preghiera per la Pace - "Grido di Pace" - Religioni e culture in dialogo - Roma, 23-25 ottobre 2022

santegidio.org

Quest'anno l'incontro internazionale di Preghiera per la Pace delle religioni mondiali nello Spirito di Assisi, che ha come titolo "Il Grido della Pace" - Religioni e Culture in dialogo, si svolgerà a Roma da domenica 23 a martedì 25 ottobre

L'evento raccoglie le attese di pace di popoli e culture, in un tempo segnato dal tragico ritorno della guerra in Europa, che sta causando tante vittime e tanta distruzione. C'è bisogno di inviare un forte messaggio di speranza e di fiducia nel futuro. Il mondo globale ha urgentemente bisogno di un architettura di dialogo che protegga e affermi la pace, sempre ed in ogni contesto.

Oggi lo “spirito di Assisi”, che è spirito di dialogo e amicizia capace di coinvolgere leader religiosi, politici e gente comune nella costruzione della pace a ogni latitudine, appare sempre più necessario.

Su questo si confronteranno leader religiosi e rappresentanti dei popoli e delle culture di ogni parte del mondo nei tre giorni di convegno che si terrà al Centro Congressi La Nuvola, e si concluderà con la Preghiera per la Pace al Colosseo.

Nei prossimi giorni su questo sito sarà possibile trovare le informazioni dettagliate sullo svolgimento dell'Incontro e sulle modalità di partecipazione.

IL PROGRAMMA >>

L'evento è trasmesso integralmente in live streaming su questo sito, dove è possibile trovare tutti gli aggiornamenti.

Puoi partecipare a tutti gli appuntamenti in streaming.
Tutti gli aggiornamenti al link: https://preghieraperlapace.santegidio.org/


mercoledì 19 ottobre 2022

Europa - Oltre mille chilometri di muri anti profughi.

True Numbers
Il conto delle barriere anti migranti in tutto il continente. Adesso arriva quello polacco.Tutta Europa sta costruendo muri e barriere contro l’accoglienza dei profughi. E chi non li sta costruendo significa che ce li ha già.

Da sud-ovest, partendo dalle enclavi spagnole in Marocco di Ceuta e Melilla, fino a sud-est arrivando alla Grecia. E poi salendo a nord verso la Macedonia e la Bulgaria e quindi in Ungheria e Austria fino ad arrivare in Polonia e Lituania: l’Europa è attraversata da oltre 1000 chilometri di barriere, pari a sette volte la lunghezza del Muro di Berlino. Ma come si è arrivati a questo punto? Facciamo un passo indietro.

Il muro più lungo è quello costruito dall’Ungheria
La politica europea in fatto di accoglienza degli immigrati è cambiata e si sta radicalizzando. Nei confronti dei blocchi anti migranti, come per il muro dell’Ungheria voluto da Orbán, Bruxelles ha sempre espresso un fermo dissenso ma la crisi afghana e il flusso migratorio da parte della Bielorussia hanno cambiato le carte in tavola mentre per quanto riguarda l’accoglienza dei profughi ucraini l’atteggiamento sembra più “morbido”.

Ylva Johansson, commissaria agli affari interni della Commissione europea, non lascia margini d’interpretazione ha detto che “dobbiamo evitare una crisi umanitaria in Europa: per questo dobbiamo aiutare gli afghani a casa loro”. Una dichiarazione che sembra quasi un tacito via libera alla costruzione di muri contro l’accoglienza dei profughi. Vediamo dove sono queste barriere e quanto sono lunghe.
Il muro anti immigrati in Lituania
La Lituania ha iniziato a costruire una barriera lunga 508 km e alta 3,4 metri, la Grecia ha già costruito un blocco lungo 40 km, la Polonia, dopo la crisi dei migranti con la Bielorussia, progetta una recinzione di 180 km. Così arriviamo a 692 km. Ma il conto totale è molto più alto perché è il doppio della barriera tra Ungheria e Serbia voluta da Orbán, lunga 523 chilometri e circa un terzo del muro tra Messico e Usa, 3.169 km

Migranti, il ruolo della Bielorussia
Torniamo un secondo alla Lituania per capire come l’atteggiamento contrario all’accoglienza dei profughi dell’Europa si sia radicalizzato. L’11 agosto 2021 il parlamento del Paese, con 80 sì e 2 no, ha approvato una legge di emergenza del governo di centrodestra per la costruzione di una recinzione lunga 508 Km. Obiettivo: bloccare l’accoglienza dei profughi provenienti dalla confinante Bielorussia. La Lituania, Paese Nato e membro Ue con 2,7 milioni di abitanti, si è allarmata dopo aver registrato un incremento nel flusso d’immigrati clandestini nei mesi precedenti.

La ritorsione di Lukashenko contro l’Europa
Secondo il governo di Vilnius la responsabile di questo incremento è la confinante Bielorussia che risponde cosi alle sanzioni economiche imposte dall’Ue a Aleksandr Lukashenko a causa del suo presunto ruolo nel dirottamento di un aereo il 23 giugno 2021. Lukashenko, secondo il governo lituano, ha organizzato dei voli diretti da Baghdad a Minsk e favorito una tratta illegale di donne e uomini ben prima che iniziasse la ritirata americana dall’Afghanistan.
I muri anti migranti della Lituania

E quindi se una nazione ostile usa i flussi di uomini come arma per destabilizzare un paese l’unica soluzione è impedirlo, per questo lo scopo dichiarato del muro di 508 Km della Lituania è di fermare i profughi “usati” da Lukashenko come ritorsione nei confronti delle sanzioni Ue. Stesso discorso vale per la decisione del governo polacco, l’ultima cronologicamente in fatto di nuovi innalzamenti di barriere. Anche per Varsavia la costruzione di nuovi muri anti profughi rappresenta una reazione alle manovre Bielorusse, veri e propri atti di guerra ibrida, ossia atti bellici condotti tramite azioni non convenzionali come, ad esempio tramite l’uso dei migranti come arma di destabilizzazione.

Muri anti profughi, la barriera greca
Stesso discorso per il muro voluto dal governo di Atene che significa tolleranza zero verso il ricatto di Recep Tayyip Erdogan che ha incentivato il flusso dei migranti verso la Grecia fino a quando la Ue (per iniziativa della Merkel) non ha versato decine di miliardi. Costruito in fretta e furia, il blocco greco è al momento lungo 40 km ed è costantemente pattugliato da militari armati.
Dal muro dell’Ungheria a quello austriaco

Sommando i tre muri di Lituania, Grecia e Polonia, arriviamo a 670 Km di barriere anti migranti. Ma i chilometri sono destinati ad aumentare. Al momento la barriera più lunga in Europa è quella ungherese. Costruita dall’esercito è alta circa 3,5 metri e lunga 523 chilometri lungo tutto confine serbo e croato. Infine ci sono le recinzioni austriache al confine con la Slovenia, 3 chilometri e quello sloveno al confine con la Croazia, 200 km.

Il muro più alto è a Ceuta e Melilla, sei metri
Il conteggio deve comprendere anche il muro che separa le città autonome spagnole Ceuta e Melilla dal Marocco; quello che impedisce ai migranti di saltare sopra i camion diretti in Gran Bretagna nel porto di Calais in Francia. Le barriere di Ceuta e Melilla, in totale 20 km, sono le più alte di tutti: sei metri di barriere coronate da filo spinato e, queste sì, sono state finanziate da fondi europei.

Muri anti migranti: 12 Paesi chiedono che li finanzi la Ue
Sono 12 i Paesi europei che hanno chiesto all’Europa di disporre di finanziamenti ad hoc per proteggere i propri confini dall’immigrazione. Si tratta di: Austria, Cipro, Danimarca, Grecia, Lituania, Polonia, Bulgaria, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Lettonia e Slovacchia. La Danimarca inoltre è il primo paese europeo ad aver approvato una legge sull’immigrazione, passata con 70 voti favorevoli contro 40 contrari, a “delocalizzare” le domande di asilo e di protezione internazionale. Le domande verranno prese in gestione da un paese terzo non ancora individuato. La decisione presa dal governo danese, guidato dalla socialista Mette Frederiksen, conferma la direzione che la Danimarca ha deciso di seguire rispetto all’immigrazione clandestina e l’accoglienza profughi: azzerare le domande di asilo.
Le barriere di filo spinato contro i profughi

Il governo danese ha fornito gratuitamente alla Lituania la stessa tipologia di filo spinato, affilatissimo e capace d’infliggere ferite mortali, usato dall’Ungheria di Orbán nel 2015 per blindare il confine con la Serbia. Un contributo simbolico per sostenere la costruzione di un nuovo muro in Europa. La Danimarca che sette anni fa aveva criticato le misure ungheresi di concerto con tutta l’Ue, ha adesso deciso di regalare alla Lituania ben 15 chilometri di filo spinato “speciale” per aiutare il paese, guidato da Ingrida Šimonytė, a proteggere il confine con la Bielorussia.
La Danimarca regala filo spinato

Il ministro degli esteri danese Mattias Tesfaye, proveniente da una famiglia etiope a sua volta rifugiata, il 28 settembre si è recato in Lituania per assistere ai lavori per la costruzione delle barriere anti immigrazione. Ora la Danimarca contribuisce ad accrescere il muro lituano. Il ministro degli esteri danese si discosta dalle critiche mosse dall’Ue dichiarando che quella di Orbán di sette anni fa è stata una decisione “di buon senso” per proteggere l’Europa e che i giudizi dati allora “non erano corretti“.

Il nuovo muro anti migranti in Polonia
Il conto non finisce qui. La Polonia, dopo l’ultima crisi migratoria che ha visto per oltre sei settimane scontri al confine dove almeno 4mila migranti provenienti dal Medio Oriente sono rimasti bloccati nelle foreste, ha dichiarato tramite il ministro della Difesa, Mariusz Blaszczak, la volontà di costruire una nuova recinzione alta 2 metri e mezzo e lunga circa 180 chilometri. Durante la crisi al confine Polacco sono morte almeno 14 persone, tra cui un bambino di solo un anno, la più giovane vittima nota della crisi al confine orientale. La costruzione della nuova barriera contro l’accoglienza dei profughi voluta dal governo polacco verrà iniziata a dicembre e sarà lunga 180 chilometri e alta 5,5 metri e costerà 335 milioni di euro. La domanda che pende come una spada di Damocle sull’Ue è relativa alla possibilità di un finanziamento da parte dell’Unione europea del nuovomuro anti profughi polacco.

martedì 18 ottobre 2022

Lettonia: rifugiati e migranti arrestati, torturati e respinti alla frontiera con la Bielorussia. Gravi violazioni diritto internazionale e UE

Corriere della Sera
 “Ci costringevano a rimanere nudi, a volte ci picchiavano e poi ci obbligavano a tornare indietro in Bielorussia, in alcuni casi anche attraversando un fiume la cui acqua era molto fredda. Ci dicevano che ci avrebbero sparato se non avessimo attraversato il confine”.“Dormivamo nella foresta, sotto la neve. Accendevamo dei fuochi per riscaldarci. C’erano lupi e orsi”.

“Un agente mi ha preso la mano, mi ha imposto di mettere la firma e mi ha fatto firmare con la forza”.

Queste testimonianze non provengono da una brutale dittatura ma da uno stato membro dell’Unione europea.

Sono contenute in un rapporto sulla Lettonia, pubblicato oggi da Amnesty International, che denuncia violenti respingimenti di migranti e rifugiati al confine con la Bielorussia e gravi violazioni dei diritti umani commesse nei loro confronti, tra cui detenzioni segrete e persino la tortura.

Il rapporto, intitolato “O tornerai a casa tua o non lascerai mai la foresta”, rivela il brutale trattamento di migranti e rifugiati, bambini compresi, trattenuti arbitrariamente in strutture segrete all’interno della foresta e costretti illegalmente e con la violenza a tornare in Bielorussia.

Molti di loro sono stati picchiati e sottoposti a scariche elettriche con le pistole taser, anche sui genitali. Alcuni sono stati obbligati a tornare “volontariamente” nei paesi di origine.

Questa situazione è iniziata il 10 agosto 2021, quando a seguito dell’aumento del numero di migranti e rifugiati incoraggiati dalla Bielorussia ad arrivare al confine, le autorità lettoni hanno posto in vigore lo stato d’emergenza.

Lo stato d’emergenza ha privato persone in cerca di rifugio dei loro diritti, sanciti dal diritto internazionale e da quello dell’Unione europea, consentendo alle autorità di rimandarle in Bielorussia in modo sommario e forzato, in violazione del principio di non respingimento.

Le autorità lettoni hanno ripetutamente prorogato lo stato d’emergenza, attualmente in vigore fino al novembre 2022, nonostante la diminuzione degli arrivi alla frontiera e la loro stessa ammissione che il numero dei tentativi d’ingresso era il risultato di più attraversamenti da parte delle medesime persone.

Così, decine e decine di migranti e rifugiati sono stati arrestati arbitrariamente e trattenuti in condizioni insalubri. A una piccola percentuale di loro è stato consentito l’ingresso in Lettonia, mentre la maggior parte è stata posta in centri di detenzione con scarsa o nulla possibilità di accedere alla procedura d’asilo, all’assistenza legale e a una supervisione indipendente.

Riccardo Noury

lunedì 17 ottobre 2022

La Grecia denuncia all'ONU di aver accolto 92 migranti completamente nudi provenienti dalla frontiera con la Turchia

Ansa Med
Il ministro greco per l'Immigrazione, Notis Mitarakis, ha annunciato che incontrerà lunedì prossimo il Presidente dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite per sottoporre alla sua attenzione il caso dei 92 migranti che sono stati recuperati dalle autorità greche, spogliati interamente dei loro vestiti, venerdì scorso lungo il fiume Evros, nella regione greca della Tracia al confine con la Turchia.

Mitarakis ha annunciato l'incontro durante un'intervista con la televisione greca Skai, e ha aggiunto di avere già informato la Commissione europea a proposito della vicenda. 
"La Turchia si è trovata in una posizione molto difficile, poiché le 92 persone sono state trovate da Frontex, che ha confermato l'incidente" ha dichiarato Mitarakis, aggiungendo: "Queste persone, purtroppo, sono state sottoposte a trattamenti degradanti in Turchia. Ora sono in territorio greco e saranno trasferiti al Centro di registrazione di Fylakio".

In base a quanto dichiarato dalle autorità greche, i 92 migranti, tutti uomini principalmente di origine afghana e siriana, hanno testimoniato di essere stati condotti al confine da tre camionette della Guardia di frontiera turca. Ankara, a sua volta, nega ogni coinvolgimento nella vicenda e accusa la Grecia di violare sistematicamente i diritti umani dei richiedenti asilo con la collaborazione di Frontex.

Nella sua intervista, il ministro Mitarakis ha definito concreto il rischio che la Turchia strumentalizzi i flussi migratori per mettere in difficoltà la Grecia. "Nonostante la pressione a cui siamo sottoposti, quest'anno registriamo il secondo numero più basso di arrivi che si è verificato negli ultimi dieci anni" ha annunciato il ministro. 

"Per avere un'idea, nel 2015 è entrato nel nostro Paese circa 1 milione di persone, nel 2019 72.000, l'anno scorso 8.500 e quest'anno 11.000" ha spiegato Mitarachis, aggiungendo che delle 121 strutture di accoglienza operative in Grecia, ne sono rimaste solo 34.

domenica 16 ottobre 2022

Carcere, la strage silenziosa. Arrivano a 70 i suicidi nel 2022. Mai così tanti morti dal 2009

Avvenire
Ancora un suicidio. Non si ferma la strage nelle carceri italiane. Stavolta a togliersi la vita è stato, giovedì nella Casa circondariale di Sollicciano a Firenze, un detenuto marocchino di 29 anni. E nello stesso giorno un ragazzo recluso nell’istituto minorile “Ferrante Aporti” di Torino ha tentato di uccidersi ma è stato salvato in extremis dalle guardie. 


Il nordafricano avrebbe finito di scontare la sua condanna il 22 ottobre prossimo: gli mancavano solo 9 giorni ma non ce l’ha fatta a resistere allo stress psicologico, forse anche perché su di lui pendeva un mandato d’arresto europeo appena confermato dalla Corte d’Appello. Da Aosta era stato temporaneamente trasferito a Firenze per poter partecipare a un processo ma giovedì sera, preso dallo sconforto, ha bloccato la serratura della sua cella con un pezzo di plastica, ha appeso una corda alle sbarre della finestra e si è impiccato. Erano le 20.30 quando i secondini se ne sono accorti, nel loro solito giro di controllo. 

E con questo di Sollicciano, il tragico bilancio dei suicidi tra le mura di un istituto penale sale a 70 dall’inizio dell’anno (dati di “Ristretti Orizzonti”): mai così tanti dal 2009 quando – al 31 dicembre però per propria mano ne morirono 72. 

E non vanno dimenticati i 4 agenti di polizia penitenziaria che in questi nove mesi e mezzo del 2022 hanno avuto la stessa sorte, come sottolinea Gennarino De Fazio, segretario generale Uilpa della categoria. Segno di un malessere profondo che arriva spesso alla disperazione, una situazione, per detenuti, personale e volontari, diventata ormai impossibile in gran parte dei 192 istituti di pena italiani, sovraffollati, con gravi carenze di organico e strutturali e in condizioni igienico-sanitarie spesso precarie. Il ragazzo scampato alla morte a Torino aveva cercato di uccidersi formando un cappio con un lenzuolo che aveva legato alla grata della sua stanza. 
Con il lembo stretto attorno al collo il ragazzo si è lasciato cadere ma il tempestivo intervento degli agenti è stato decisivo. 
Nello stesso carcere minorile, inoltre, come denunciano i rappresentanti di Cgil, Cisl e Uil, una guardia è stata ferita mentre, all’ora di pranzo cercava di separare due reclusi che stavano litigando con violenza: colpito in faccia da un contenitore metallico il secondino è stato portato al pronto soccorso del Cto. 
La situazione nella struttura torinese è «drammatica e pericolosa» «Il personale è allo stremo e abbandonato a se stesso tanto da essere costretto a improvvisare qualsiasi intervento senza idonee e chiare direttive, il carcere minorile di Torino – accusano i sindacati – ha bisogno di un direttore titolare e non di un direttore pendolare che arriva da Bari una volta al mese». 

Secondo l’ultimo Report dell’associazione Antigone, a tutt’oggi, l’istituto dove sono avvenuti più casi di suicidio dall’inizio dell’anno è quello di Foggia con quattro decessi. Seguono con tre suicidi ognuno, Milano San Vittore, Monza e Roma Regina Coeli. 

«Attendiamo l’insediamento del prossimo governo per chiedere al nuovo ministro della Giustizia un confronto ad ampio spettro su tutte le questioni che investono il sistema d’esecuzione penale – afferma De Fazio - ma sia chiaro sin d’ora che servono riforme strutturali, investimenti per organici ed equipaggiamenti e persino un banale accorgimento: subito un direttore e un comandante della Polizia penitenziaria titolari in ogni carcere». 
«Vanno assunti immediati e urgenti provvedimenti da parte del ministero» aggiunge Aldo Di Giacomo, segretario del Spp (Sindacato di Polizia penitenziaria), che ricorda la promessa del ministro Cartabia di introdurre nelle carceri italiane 2mila psicologi.

Fulvio Fulvi

sabato 15 ottobre 2022

Turchia - Stretta sui media, governo vuole zittire voci critiche prima delle elezioni, Amnesty contro la nuova legge

Ansa
Amnesty International ha criticato la legge, approvata ieri dal Parlamento turco, che prevede pene fino a tre anni di reclusione per chi diffonde "disinformazione" o "fake news" su internet. "Oggi è un altro giorno buio per la libertà di espressione on-line e la libertà di stampa in Turchia", ha affermato Guney Yildiz, ricercatore della sezione turca di Amnesty International.

Citando un "maggiore controllo del governo sui media negli ultimi anni", Yildiz ha affermato che "con il pretesto di combattere la disinformazione" il nuovo provvedimento "consente al governo di censurare ulteriormente e mettere a tacere le voci critiche in vista delle prossime elezioni in Turchia", che si terranno nella primavera del 2023. Secondo Amnesty, con la nuova legge, ci potrebbero essere arresti per persone che semplicemente ritwittano contenuti ritenuti "disinformazione".

Il provvedimento, voluto dal partito Akp del presidente Recep Tayyip Erdogan, prevede infatti sanzioni penali per chi viene ritenuto colpevole di avere diffuso on-line informazioni false o fuorvianti e richiede ai social network e ai siti internet di consegnare dati personali di utenti sospettati di "propagare informazioni ingannevoli". 

La legge consente ai tribunali di condannare, a pene che vanno da 1 a 3 anni di reclusione, giornalisti accreditati e regolari utenti dei social media che "diffondono apertamente informazioni fuorvianti".

Continua la strage di migranti, recuperati undici corpi a largo della Tunisia

Stranieri in Italia
Undici corpi in decomposizione di migranti sono stati recuperati tra giovedì e venerdì al largo del governato di Mahdia. A rendere nota la notizia è stata la Guardia costiera tunisina. La stessa ha anche dichiarato che dai resti sono stati prelevati dei campioni per l’analisi del Dna.

Le analisi, ha spiegato all’Afp il portavoce della Guardia nazionale Houcem Eddine Jebabli, serviranno per capire se i corpi dei migranti appartengono oppure no all’imbarcazione di fortuna partita da Zarzis naufragata circa venti giorni fa. A bordo di quella barca erano presenti 18 persone.

Intanto, le autorità tunisine nei giorni scorsi hanno smantellato quattro reti di immigrazione clandestina attive su una nuova rotta migratoria che passa attraverso la Turchia e la Serbia. La situazione, a causa delle condizioni meteorologiche favorevoli, infatti, è piuttosto difficile da controllare. Di fronte alla pressione migratoria, le autorità tunisine faticano per intercettare o soccorrere i migranti a causa, dicono, della mancanza di mezzi. Stando a quanto dichiarato dal ministero della Difesa tunisina, inoltre, quasi 200 migranti ,per lo più tunisini, sono stati intercettati in mare lo scorso fine settimana. Stavano tentando di raggiungere l’Europa per mezzo del Mediterraneo.

Da inizio 2022 sono più di 22.500 i migranti intercettati al largo delle coste tunisine. Di questi, 11.000 sono di origine subsahariana. Infine, secondo l’agenzia europea Frontex, la rotta del Mediterraneo centrale è stata utilizzata da oltre 42.500 migranti da gennaio a luglio. Questo dimostra un aumento del 44% rispetto ai primi sette mesi del 2021.

sabato 8 ottobre 2022

ll Nobel per la Pace 2022 ai difensori dei diritti umani: Ales Bialiatski (Bielorussia), il Russia's Memorial e l'Ukraine's Center for civil Liberties (Ccl) ... e la Russia sequestra gli uffici di "Memorial"

Ansa
Ales Bialiatski è un attivista bielorusso per i diritti umani, noto per il suo lavoro con il Viasna Human Rights Centre of Belarus, mentre le due organizzazioni umanitarie sono e il Russia's Memorial e l'Ukraine's Center for civil Liberties (Ccl).


La magistratura russa ha ordinato il sequestro degli uffici a Mosca dell'ong Memorial, insignita oggi del premio Nobel per la pace.

Il Nobel per la Pace al dissidente Bialiatski e alle organizzazioni Memorial e al Center for Civil Liberties in onore dell' "impegno in difesa dei diritti umani e del diritto di criticare il potere, di difesa dei diritti dei cittadini per i diritti dei cittadini e contro gli abusi di potere, per aver documentato crimini di guerra", è stato annunciato dal Comitato per il Nobel a Oslo.

Il Comitato per il Nobel ha chiesto alla Bielorussia la liberazione del dissidente Ales Bialiatski, ha detto nella conferenza stampa di annuncio la presidente del Comitato, Berit Reiss-Andersen.

La moglie del Premio Nobel per la Pace bielorusso, Natallia Pinchuk, si dice travolta dalla "commozione" e dalla "gratitudine" per il riconoscimento assegnato.

Ecco chi sono i tre vincitori ex aequo del Premio Nobel per la Pace 2022: 

ALES BIALIATSKI, 60 anni, è un attivista per i diritti umani, dissidente bielorusso, ex obiettore di coscienza e tra i fondatori dell'ong bielorussa Viasna.

Nel 2011 il regime di Aleksandr Lukashenko lo ha arrestato per presunta "evasione fiscale": una condanna che dissidenti e organizzazioni per i diritti umani considerano politicamente motivata.

Rilasciato nel 2014, è stato arrestato di nuovo dopo una violenta perquisizione alla sede di Viasna e condannato a una seconda pena di 7 anni, sempre per presunta evasione fiscale, ed è tuttora in carcere. Fra i riconoscimenti internazionali per la sua attività di dissidente e di denuncia delle violazioni dei diritti civili e umani, Bialiatski è stato insignito, fra l'altro, del Premio Sakharov da parte del Parlamento europeo nel 2020, del premio Vaclav Havel per i Diritti umani conferito nel 2012 dal Consiglio d'Europa. E' stato nominato per cinque volte per il Nobel, vinto solo quest'anno, ed è cittadino onorario di Parigi e, in Italia, di Genova e di Siracusa.

L'ong russa MEMORIAL fu fondata nel 1989, nel pieno del processo della Perestroika voluto da Mikhail Gorbaciov, quando l'Unione sovietica era vicina al suo crollo, per studiare e denunciare le violazioni e i crimini commessi durante il terrore imposto dal regime di Stalin. Inizialmente diviso in due sezioni, una per documentare i crimini stalinisti una per i diritti umani nelle zone di conflitto, in area sovietica e anche fuori. Strutturato più come movimento che come organizzazione, al dicembre 2021 Memorial incorporava 50 ong russe e altre 11 da altri Paesi, inclusi Ucraina, Germania, Italia, Belgio e Francia. Memorial è stata messa fuorilegge in Russia il 5 aprile di quest'anno come "agente straniero", in base alla legge putiniana sulle ong, e chiusa.

Il CENTER FOR CIVIL LIBERTIES (CCL) è una Ong ucraina con base a Kiev, fondata nel 2007 e dedita alla documentazione di crimini di guerra, abusi sui diritti umani e abusi di potere. Nella sue stesse parole, Ccl si autodefinisce "uno degli attori principali in Ucraina, volto a influenzare l'opinione pubblica e la politica, a favorire lo sviluppo di un attivismo civico, partecipa a network internazionali e nelle azioni di solidarietà per promuovere i diritti umani in ambito Osce". Si tratta della prima organizzazione ucraina a ricevere un Nobel per la Pace.

WIRED
La Russia ha sequestrato gli uffici di Memorial, l'ong che ha vinto il Nobel per la pace
Poche ore dopo il conferimento del riconoscimento, un tribunale di Mosca ha messo i sigilli alla sede. 

Al Wired Next Fest di Milano il direttore Sergej Davidis è intervenuto sul regime oppressivo di Putin subito dopo aver appreso del premio
[...] A darne notizia è l'agenzia russa Interfax, che riporta una decisione di un tribunale di Mosca che venerdì ha ordinato il sequestro degli uffici di Memorial a poche ore dal conferimento del riconoscimento internazionale.

Secondo quanto riferiscono le agenzie, il tribunale di Tverskoy ha stabilito che gli uffici della ong Memorial sono “diventati proprietà dello Stato”. Non è la prima volta in cui le autorità russe opprimono l'organizzazione per i diritti umani. L'anno scorso Mosca ha chiuso l'ong, senza che il presidente Vladimir Putin facesse nulla per impedire che l'ong fosse calpestata, e il clima è peggiorata dal momento dell'invasione dell'Ucraina. L'associazione è stata fondata nel 1987 da alcuni importanti attivisti per i diritti umani, tra cui il premio Nobel per la pace Andrei Sakharov e la matematica e attivista Svetlana Gannuskina. L’organizzazione si occupa di studiare e raccogliere le prove delle repressioni politiche avvenute durante il regime sovietico e sostenere le persone sottoposte a repressioni politiche nella Russia contemporanea, sotto il regime di Vladimir Putin.

venerdì 30 settembre 2022

Iran - L’indignazione che non c’è. Perché le opinioni pubbliche e le femministe si disinteressano della lotta delle donne iraniane?

Linkiesta
Migliaia di persone contestano da giorni il regime di Ali Khamenei per condannare l’omicidio della ventiduenne Masha Amini, uccisa dalla polizia di Teheran perché i suoi capelli non erano sufficientemente coperti dal velo. Le cose purtroppo non cambieranno perché il resto del mondo non se ne occupa.

Ha un suo grande peso l’assoluta indifferenza nei confronti della repressione, in particolare nei confronti delle donne iraniane, delle opinioni pubbliche internazionali, in particolare, lo ripetiamo, da parte dei movimenti femministi e progressisti che sanno vedere oppressione e ingiustizie solo in Occidente.
Le donne iraniane che protestano coraggiosamente in piazza sono sole.
Nel disinteresse totale del movimento femminista e progressista internazionale da quattro giorni molte piazze iraniane si sono riempite di manifestanti che protestano contro l’uccisione in carcere a Teheran da parte della “polizia morale” della ventiduenne Masha Amini. La sua colpa? I capelli non erano sufficientemente coperti dal velo. Tutto qui.

La polizia iraniana ha reagito alle manifestazioni sparando, usando gli idranti e ha lasciato sul selciato almeno cinque morti. Il 13 settembre scorso Masha, una giovane curda in vacanza a Teheran, era stata duramente malmenata e gettata violentemente su un furgone della polizia del costume con l’accusa di violare le norme sullo Hijab emanate dalla Commissione per la Promozione della Virtù e la repressione del Vizio.

Gli agenti hanno detto ai parenti della ragazza che protestavano che Masha sarebbe stata sottoposta a una «sessione di rieducazione». Gli esiti della “rieducazione” sono stati fatali: dopo tre giorni, Masha è stata dichiarata morta in ospedale. Immediate le manifestazioni di protesta davanti all’università di Teheran, a Sanandaj e in tutto il Kurdistan, regione nella quale le aspirazioni autonomiste e indipendentiste non si sono mai sopite, nonostante una repressione che dal 1979 in poi, dalla instaurazione della Repubblica Islamica di Khomeini, ha fatto decine di migliaia di morti.

Nei cortei, moltissime donne si sono levate il velo dalla testa e molti, come già durante le grandi manifestazioni del 2020, hanno gridato lo slogan: «Morte al dittatore!» indirizzato alla Guida della Rivoluzione Ali Khamenei. Fortissima anche la mobilitazione in rete, con non meno di 1.600.000 visualizzazioni dello hashtag #MashaAmini.

È questa l’ennesima protesta di massa che vede le piazze iraniane riempirsi con una grande mobilitazione, soprattutto giovanile. Enorme fu l’Onda Verde del 2009 e altrettanto grandi le manifestazioni del 2020. Ambedue con centinaia di morti falciati dalle forze dell’ordine. Ma oggi la mobilitazione si presenta con una novità precisa: la protesta contro l’umiliazione della donna imposta dal regime con una stretta decisa dall’ultra conservatore presidente Ibrahim Raisi, eletto un anno fa.

Stretta di cui si fa interprete appunto la “polizia morale”, composta soprattutto da donne, che ha imposto strumenti di verifica come il riconoscimento facciale e che setaccia autobus, treni e strade alla ricerca di “ribelli” non abbigliate secondo rigidissimi canoni islamici.

Purtroppo, queste ripetute e massicce proteste popolari in Iran non hanno mai uno sbocco politico e non preoccupano eccessivamente il regime che reagisce sempre con enorme violenza repressiva. Non esiste infatti né dentro il paese né all’estero una forza politica di opposizione che riesca a capitalizzare sul piano politico la grande forza espressa. Men che meno esiste dentro il regime – se non nella fantasia di certi media e analisti occidentali – una componente riformista in grado di contrastare o quantomeno condizionare la retriva forza conservatrice della dirigenza islamica degli ayatollah e ancor più il potentissimo blocco ultra nazionalista e ancora più retrivo dei Pasdaran.

Carlo Panella

domenica 25 settembre 2022

Migranti - La frontiera europea si è spostata in Niger generando un nuovo inferno dopo quello libico. OIM: "Per ogni migrante morto in mare 2 vittime nel deserto"

Il Manifesto
Esternalizzazione dei confini. Impugnata la legge anti-migranti. Due associazioni ricorrono alla Corte Ecowas: la misura approvata su pressioni Ue, ma viola i diritti umani e ostacola l’integrazione dei Paesi dell’Africa occidentale.

Le pressioni europee per contrastare i flussi di migranti sub-sahariani non hanno trasformato in un inferno soltanto la Libia. Lo stesso è avvenuto in Niger. Torture, violenze, stupri, detenzioni arbitrarie contro le persone in transito si sono moltiplicate nel paese crocevia delle rotte che dall’Africa occidentale puntano verso le rive del Mediterraneo. Tra le misure adottate per arrestare il fenomeno la più significativa è la «Legge sul contrabbando illegale di migranti», la numero 36 del 2015.

Adesso l’associazione Jeunesse Nigérienne au Service du Développement Durable, parte del network Alarm Phone Sahara, e l’Association Malienne des Expulsé l’hanno impugnata davanti alla Corte di giustizia della Comunità degli stati dell’Africa Occidentale (Ecowas) chiedendo di dichiararla illegittima. Secondo i ricorrenti viola diverse disposizioni della Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli, della Convenzione di Ginevra sui rifugiati e del protocollo Ecowas relativo alla libertà di circolazione, residenza e stabilimento in un altro paese.

Le crescenti tensioni a nord di Bamako hanno dirottato molte rotte migratorie verso il Niger, incastonato tra Mali, Burkina Faso, Benin, Nigeria e Ciad e più su confinante con Algeria e Libia. E in particolare verso Agadez e la regione circostante

Il Niger occupa il terzultimo posto nella classifica sullo sviluppo umano delle Nazioni unite, ma nel corso degli anni ha acquisito crescente importanza strategica nel processo di esternalizzazione della frontiera europea. 

Che contro le migrazioni subsahariane conta su due elementi principali: il Mediterraneo, presidiato dai paesi nordafricani e in particolare dalla Libia, e il deserto del Sahara, su cui il Niger gioca un ruolo decisivo. «Abbiamo l’impressione che la frontiera europea inizi ad Agadez», ha detto un informatore qualificato ai ricercatori dell’Organizzazione mondiale contro la tortura (Omct) che per il rapportoTorture roads hanno studiato sul campo gli effetti della criminalizzazione delle migrazioni causata da pressioni e fondi europee.

La legge nigerina contro il traffico non ha fermato i movimenti di persone, ma li ha resi ancora più pericolosi. Le rotte tentano di girare intorno ad Agadez allungandosi, moltiplicando il rischio di perdere la vita e il potere dei trafficanti
L’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) stima che per ogni morto in mare ci siano due vittime nel deserto, lontanissime da qualsiasi riflettore. All’interno del Paese nigerino i migranti, e persino alcuni cittadini diretti a nord, sono sottoposti a detenzioni arbitrarie, senza aver commesso alcun reato. Ricattati da soggetti statali e non. 
La stessa idea di integrazione regionale attraverso la libera circolazione delle persone, obiettivo dei 15 stati che aderiscono all’Ecowas, è indebolita e ostacolata dalla legge 36.

Le associazioni che la contestano chiedono alla Corte di ordinare al Niger una sua parziale abrogazione e l’adozione di misure che tutelino i diritti dei migranti. La procedura ha diversi limiti giuridici, il principale è che la Corte Ecowas non ha un potere diretto sui Paesi membri ma in caso di mancata applicazione di una sua decisione deve passare attraverso un giudice nazionale. Si tratta comunque di un’azione importante che fa luce su un altro pezzo delle criminali politiche europee e tenta di aprire una breccia contro i muri invisibili che stanno crescendo lungo tutte le rotte migratori.

Degli effetti dell’esternalizzazione dei confini Ue si parlerà approfonditamente il 29 settembre in un convegno organizzato a Roma dall’Asgi. Titolo: «La libertà di circolazione in Africa occidentale e dalla sub-regione verso l’Europa».

Giansandro Merli

sabato 24 settembre 2022

Mozambico, la guerra dimenticata di Cabo Delgado nel Nord. Imperversa da 5 anni, 4 mila morti e un milione hanno abbandonato i villaggi

Vita
Cabo Delgado è una provincia dell’estremo nord mozambicano, scenario di uno dei conflitti più dimenticati del pianeta, che imperversa ormai da 5 anni. Secondo i dati recentemente diffusi dall’Ocha, sono 945 mila le persone che hanno dovuto abbandonare i propri villaggi per scampare dagli attacchi del gruppo terrorista Sunna Wa Jama (ASWJ) chiamata dalla gente del luogo Machababos, “i molti ragazzi”. Gli stessi che hanno tolto la vita a Suor Maria De Coppi, la religiosa italiana uccisa in un agguato nella sua missione di Chipene


I primi attacchi si sono scagliati contro i simboli dell’autorità statale e del governo. Uffici, sedi amministrative, stazioni della polizia. Poi hanno appiccato il fuoco a scuole e ospedali, poi il loro obiettivo sono diventati le donne e gli uomini, aggrediti, uccisi barbaramente nelle loro incursioni notturne, senza badare a distinzioni etniche e religiose.
[...]
La guerriglia è scoppiata nelle remote aree del nord del Mozambico dal 2017, seminando una violenza che a oggi è costata la vita a oltre 4mila persone, secondo i dati raccolti dall’osservatorio Cabo Ligado. E che negli ultimi due mesi si è spinta sempre più a sud, nei distretti di Ancuabe, Chiure e Mecufi. Le strade che si diramano da Metoro sono diventate scenari di potenziali imboscate per le jeep in transito. Fino a superare lo scorso giugno, per la prima volta, il confine del fiume Lurio che divide le province di Cabo Delgado e Nampula e oltre cui si trova la missione di suor Maria, a Chipene.

La situazione è fluida ma sono circa venti i campi profughi allestiti dalle agenzie umanitarie, molti di questi agglutinati intorno a Metuge, a due ore dalla capitale provinciale Pemba. Sono cresciuti a dismisura in distese di tende o capanne di fascine e fango confusamente allineate sui dorsi delle colline, attorno ai piccoli villaggi preesistenti, e dove qualche rifugiato ha iniziato a praticare agricoltura di sussistenza o microscopici commerci fra i sentieri polverosi, lontani dall’ombra degli alberi. E dove si va avanti con le razioni del World Food Program, che arrivano una volta al mese.
[...]
I rifugiati arrivano dalle zone di Mocímboa da Praia, Palma, Macomia e Quissanga, Muidumbi e Nangade dalla parte più settentrionale di Cabo Delgado che ora è avvolta nel buio. Qualcuno dei profughi va e viene anche per badare a quel che resta dei propri villaggi, si entra con pass speciali ma è difficile valutare lo stato attuale delle infrastrutture per chi vi è rimasto a vivere, circa un milione di persone, mentre le autorità stanno spingendo le persone a ritornare a Mocímboa da Praia, considerata relativamente normalizzata.
[...]
Lo sfruttamento delle ricchezze minerarie da parte di persone arrivate da fuori, dalle multinazionali, da funzionari corrotti, sono una formidabile arma di propaganda per i jihadisti tra i giovani delle piccole comunità disseminate nel mato, la foresta, che non vedono futuro davanti a loro. S’intuisce dalle parole di Bernardo, agricoltore e capo villaggio del campo profughi di Ngalane, dove Cuamm gestisce un progetto di supporto antiviolenza per le donne e persone con disagio psichico. Dietro agli attacchi non ci sono problemi etnici, né religiosi. È tutta una questione d’interessi, di affari privati”, racconta. Bernardo delle imprese estrattive di gas nella sua provincia dice di sapere poco, spiega però che i suoi compaesani conoscono molto bene la gigantesca miniera di rubini nel distretto di Montepuez, nel cuore di Cabo Delgado, Ruby Mining, di proprietà d’una holding inglese: “È in mano a persone che vengono da fuori. Noi dei villaggi siamo sempre stati a guardare, nelle miniere non ci lavoriamo, non ci resta mai nulla”. E spalanca le mani in un gesto di frustrazione comune a tanti, che da generazioni si vedono deturpati delle loro risorse e incamerano una rabbia muta.

Marco Benedettelli


venerdì 23 settembre 2022

Nuova tragedia - Naufragio migranti, 71 i corpi recuperati al largo Siria. Imbarcazione partita dal Libano con 100 migranti siriani, libanesi e palestinesi. Tra loro donne e bambini.

TRT
Sale a 71 morti il bilancio del naufragio di una barca di migranti provenienti dal Libano, a largo delle coste siriane. Lo ha confermato il ministro dei trasporti del Libano Ali Khamiye, dicendo che le operazioni di soccorso, durate tutta la notte, proseguono in queste ore.

Fin’ora sono state salvate 20 persone mentre si tratta del ritrovamento di 71 corpi.

Secondo quanto riportato dai media libanesi una barca che trasportava migranti dal Libano si e’ capolta al largo dell’isola Ervad, vicino al distretto di Tarsus. La maggior parte dei migranti morti sono libanesi, siriani, e palestinesi.

giovedì 22 settembre 2022

Guerre dimenticate - Etiopia: rapporto Onu denuncia nuove violazioni dei diritti umani nel Tigrè. Crimini di guerra, esecuzioni extragiudiziali e stupri.

Nova News
La commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite ha affermato di avere “ragionevoli motivi per ritenere che, in diversi casi, queste violazioni equivalgano a crimini di guerra e crimini contro l'umanità”

Un nuovo rapporto delle Nazioni Unite accusa le parti in conflitto di essere responsabili dei numerosi crimini contro l’umanità commessi nella regione settentrionale del Tigrè, in guerra dal novembre 2020.

Nel suo primo rapporto pubblicato dopo la sua costituzione, nel dicembre scorso, la Commissione di esperti in materia di diritti umani sull’Etiopia ha affermato di aver riscontrato violazioni, come esecuzioni extragiudiziali e stupri, e ha evidenziato quelle che ha definito “informazioni credibili” circa omicidi su larga scala commessi dalle Forze di difesa nazionale etiopi (Endf), accusate di aver preso di mira uomini e ragazzi di etnia tigrina in età da combattimento.

La commissione, creata lo scorso anno dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite e composta da tre esperti indipendenti di diritti umani, ha affermato di avere “ragionevoli motivi per ritenere che, in diversi casi, queste violazioni equivalgano a crimini di guerra e crimini contro l’umanità”. Gli investigatori affermano inoltre che ci sono anche prove che la fame sia usata come arma di guerra, e che tutte le parti hanno commesso violazioni dei diritti umani da quando sono scoppiati i combattimenti, descrivendo la crisi umanitaria nel Tigrè come “scioccante”, ulteriormente aggravata dal fatto che il governo e i suoi alleati continuano a negare alle persone l’accesso ai servizi di base, tra cui Internet, le banche e l’elettricità.

Questo, combinato con la scarsità di cibo, medicine e carburante, nonché con le severe restrizioni all’accesso umanitario, ha lasciato circa 20 milioni di persone bisognose di assistenza e protezione, quasi tre quarti delle quali donne e bambini. “L’effetto combinato di queste misure, che rimangono in vigore più di un anno dopo, ha costretto gran parte della popolazione del Tigrè a mangiare di meno e vendere il raccolto e il bestiame riproduttivo. Fonti hanno anche riportato un aumento dei mezzi disperati per sopravvivere, come i matrimoni precoci e il lavoro minorile, la tratta di esseri umani e il sesso transazionale”, afferma il rapporto.

In una dichiarazione, il presidente della Commissione Kaari Betty Murungi ha descritto la crisi umanitaria causata dal conflitto nel Tigrè come “scioccante, sia in termini di portata che di durata”. “La diffusa negazione e ostruzione dell’accesso ai servizi di base, al cibo, all’assistenza sanitaria e all’assistenza umanitaria sta avendo un impatto devastante sulla popolazione civile e abbiamo ragionevoli motivi per ritenere che rappresenti un crimine contro l’umanità”, ha affermato. “Abbiamo anche ragionevoli motivi per ritenere che il governo federale stia usando la fame come metodo di guerra”, ha aggiunto, invitando il governo a “ripristinare immediatamente i servizi di base e garantire un accesso umanitario pieno e illimitato”.

Murungi ha anche chiesto alle forze del Fronte di liberazione del popolo del Tigrè (Tplf) di “assicurarsi che le agenzie umanitarie siano in grado di operare senza impedimenti”, dopo che la commissione ha ricevuto informazioni secondo cui le forze tigrine avrebbero saccheggiato o sottratto indebitamente aiuti umanitari.

In risposta al rapporto le autorità del Tigrè hanno affermato di “aver sempre sostenuto” che il governo etiope fosse responsabile di crimini contro l’umanità, mentre nessun commento è ancora giunto da parte del governo etiope.

mercoledì 21 settembre 2022

Rifugiati - Dal 2015 richieste di asilo in Europa in calo: dimezzate in Italia

Truenumbers
Gli ultimi dati sulle richieste d’asilo mostrano come dal 2014 le domande per la concessione dello status di rifugiato siano in calo in tutta Europa. Per la precisione, rispetto al 2016, l’Italia ha visto dimezzarsi le domande per la richieste d’asilo che sono calate di 50,7 punti percentuali. 
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Lo mostra bene in grafico in apertura attraverso il quale si può seguire l’andamento delle richieste d’asilo in Europa. Il calo, che non riguarda tutti i Paesi, ci fornisce una mappa dello stato della migrazione nel Vecchio Continente. Per quanto riguarda la comunità europea il tasso di richiesta d’asilo è pari a 1,7 domande ogni 1000 abitanti, in Italia si registra invece un flusso pari a 0,9 domande d’asilo ogni 1000 abitanti
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Il Paese che riceve più richieste di asilo in Europa è la Germania
La Germania è il Paese europeo che gestisce più richieste d’asilo. Per la precisione nel corso del 2021 le persone che hanno chiesto lo status di rifugiato a Berlino sono state 190.545, di queste 148.175 lo hanno fatto per la prima volta. In Italia, a titolo di confronto, nel 2021 sono state 45.200 le richieste (a fronte di 67.040 sbarchi). Questo vuol dire che la Germania, rispetto al nostro Paese, gestisce circa il triplo di richieste d’asilo. Per il Paese guidato dal Cancelliere Olaf Scholz, il più popoloso d’Europa (80 milioni di abitanti contro i 60 dell’Italia), il flusso di immigrazione rappresenta un pilastro dell’economia: l’unica soluzione per fare fronte alla carenza di manodopera specializzata; la Germania si prepara infatti a dover gestire un “buco” di circa 240mila lavoratori specializzati che potrebbe rappresentare un reale pericolo per l’economia tedesca.
Il piano tedesco per aumentare il flusso di lavoratori extracomunitari

Per questo Berlino è già corsa ai ripari promuovendo, per la prima volta in Europa, la possibilità per i cittadini extracomunitari di ottenere la doppia cittadinanza. [...]

Dopo la Germania, nella classifica dei Paesi Ue per richieste d’asilo, troviamo Francia, Spagna e Italia. La Francia è l’unico Paese Ue dove le richieste superano le 100mila, come è possibile vedere nel grafico qui in alto che mostra come Italia e Spagna ricevano circa lo stesso numero di richieste di asilo, una quota ampiamente sotto i numeri di Germania e Francia. Dopo l’Italia il dato delle richieste diminuisce progressivamente, con l’Austria che gestisce (rispetto al nostro Paese) il 34,36% di richieste di protezione internazionale in meno e il Belgio con più del 100% di domande per lo status di rifugiato in meno. Scendendo nella classifica dei paesi Ue per richieste d’asilo arriviamo infine all’Ungheria; qui le richieste scendono verticalmente: nel 2021 il Paese guidato da Viktor Orban ha gestito in tutto solo 40 richieste d’asilo. D’altronde l’Ungheria è il Paese europeo dove è presente il più lungo muro anti migranti.
[...]
In Europa i richiedenti asilo provengono in totale da 138 Paesi differenti, non mancano gli apolidi, ovvero quello persone che non possiedono la cittadinanza di nessuno stato. Il primo Paese di provenienza dei richiedenti asilo nel 2021 in Ue è la Siria, seguito dall’Afghanistan e dall’Iraq come mostra il grafico qui in alto. Naturalmente oggi nel 2022 il Paese da cui provengono la maggior parte dei richiedenti asilo in Ue è l’Ucraina come spieghiamo qui sotto nel focus Ucraina.

Accoglienza migranti, focus Ucraina: in Italia accolti 159mila sfollati
I dati fin qui delineati e relativi al 2021 non tengono conto della crisi Ucraina la quale cambia radicalmente il volto dell’immigrazione e delle richieste d’asilo in Europa. Secondo l’Unhcr l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha provocato il più grave flusso migratorio in Europa dalla Seconda guerra mondiale. Dal 24 febbraio, data d’inizio del conflitto, sono più di 5 milioni le donne, i bambini e gli uomini ucraini in fuga dalla guerra. Gli stati confinanti con l’Ucraina sono quelli che hanno accolto più profughi: la Polonia è il Paese dell’Ue che ha concesso il maggior numero di protezioni temporanee agli ucraini fuggiti dopo il 24 febbraio, le prime cifre parlano di 675.085 richiedenti asilo, di questi il 54% sono minori di 18 anni il 66% donne. In Italia gli ultimi aggiornamenti parlano di 159mila persone provenienti dall’Ucraina che hanno chiesto al nostro Paese lo status di rifugiati per essere accolte principalmente a Roma, Milano, Napoli e Bologna.

I dati si riferiscono al: 2021-2022 - Fonte: Commissione europea

domenica 18 settembre 2022

Siria, il martirio di un popolo continua ma il mondo ha chiuso gli occhi. La guerra non e finita e il 90% della popolazione vive sotto la soglia di povertà

Globalist
In Siria, circa il 90 per cento dei siriani vive al di sotto della soglia di povertà e negli ultimi 11 anni oltre 13 milioni sono stati costretti a fuggire, con 5,5 milioni di rifugiati accolti in cinque Paesi limitrofi.
Un obbligo morale. Un dovere professionale: non spegnere i riflettori sulla tragedia siriana. Una tragedia che continua undici anni dopo l’inizio della guerra dichiarata dal “macellaio di Damasco”, al secolo il presidente Afez al-Asad, al suo popolo, “colpevole” di essere sceso in strada per reclamare libere elezioni, giustizia, diritti. La Siria, il martirio di un popolo continua.


La testimonianza di Grandi
Una nota ufficiale dell’Unhcr : “A seguito di una visita terminata ieri (15 settembre 2022), l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, Filippo Grandi, ha esortato ad assicurare maggiore sostegno per far fronte alle drammatiche esigenze umanitarie rilevate in Siria. La visita dell’Alto Commissario mirava ad attirare l’attenzione della comunità internazionale sui 14,6 milioni di persone che necessitano di assistenza umanitaria nel Paese, di cui oltre 6,9 sono sfollati interni. Circa il 90 per cento dei siriani vive al di sotto della soglia di povertà e negli ultimi 11 anni oltre 13 milioni sono stati costretti a fuggire, con 5,5 milioni di rifugiati accolti in cinque Paesi limitrofi.

“È diritto di tutti vivere al sicuro e avere accesso a cibo, mezzi essenziali di sostentamento, acqua, alloggio e calore”, ha affermato Grandi. [...]

La piaga del colera
Le Nazioni Unite hanno espresso preoccupazione per la prima epidemia di colera confermata da anni nella regione: è necessaria un’azione urgente per prevenire ulteriori casi e morti, dicono dal Palazzo di Vetro.

Imran Riza, che rimane per il momento il rappresentante delle Nazioni Unite e il coordinatore umanitario in Siria, ha espresso seria preoccupazione per l’epidemia. Il numero di casi confermati di colera finora è di 20 ad Aleppo, 4 a Latakia e 2 a Damasco. Le Nazioni Unite in Siria chiedono ai paesi donatori di fornire urgenti finanziamenti aggiuntivi per contenere l’epidemia e impedirne la diffusione. [...]
L’epidemia si concentra nelle province di Aleppo e Deir al Zor. Si ritiene che derivi dall’acqua contaminata del fiume Eufrate, che scorre attraverso le province, e che viene usata sui raccolti.
L’epidemia è un indicatore della grave carenza di acqua in tutta la Siria causata dai cambiamenti climatici e dal conflitto. 


I numeri dell’emergenza umanitaria
La guerra ha provocato quasi 400mila morti e 200mila dispersi, secondo le cifre dell’Osservatorio siriano per i diritti umani. Su una popolazione di 21 milioni di persone prima della guerra, 6,6 milioni sono fuggite dalla Siria per cercare rifugio all’estero, principalmente negli Stati vicini. Inoltre le statistiche rivelano che il 90 per cento della popolazione rimasta nel Paese è costretta a vivere sotto la soglia della povertà. Il Programma alimentare mondiale (Pam) ha stimato che più di 12 milioni di siriani, ossia il 60 per cento della popolazione, vive in situazione di insicurezza alimentare. In totale sono 14,6 milioni le persone con bisogno di aiuto umanitario, di cui 9,6 urgente.

L’illusione della pace
Il sanguinoso conflitto in Siria, in corso da più di undici anni e che ha finora ucciso almeno mezzo milione di persone, rischia di riaccendersi dopo l’inasprimento della tensione lungo diverse linee del fronte. Lo afferma o l’ultima relazione della commissione d’inchiesta indipendente dell’Onu sulle violazioni commesse in Siria. “La Siria non può permettersi un ritorno a combattimenti su larga scala, ma questo è ciò verso cui si sta andando”, ha affermato Paulo Sergio Pinheiro, presidente della commissione d’inchiesta.

“A un certo punto – ha detto Pinheiro parlando ai giornalisti a Ginevra e citato dai media siriani e libanesi – credevamo che la guerra in Siria fosse completamente finita (…) le violazioni documentate hanno dimostrato che non è così”.

La relazione di 50 pagine afferma che nonostante il fatto che numerosi fronti di guerra, a lungo attivi, si siano in apparenza pacificati, negli ultimi sei mesi si sono registrate numerose e gravi violazioni dei diritti umani fondamentali.


In particolare, si legge nella relazione dell’Onu, l’inasprimento di combattimenti e raid aerei nel nord-est e nel nord-ovest della Siria hanno provocato la morte di decine di civili. Le popolazioni sono inoltre private in diverse aree di cibo e acqua potabile.

Secondo la commissione d’inchiesta, negli ultimi tre mesi si è inoltre registrato un aumento dei bombardamenti aerei russi nelle regioni nord-occidentali, dove da anni sono ammassati circa 4 milioni di persone, fuggite negli anni da altre zone del martoriato paese.

La Siria “dimenticata” è l’inferno raccontato da Catherine Russell, Direttore Generale dell’Unicef (l’Agenzia delle Nazioni Unite per l’Infanzia) nel suo intervento alla VI Conferenza di Bruxelles: “Sostenere il futuro della Siria e della regione”.

Inferno siriano
Così Russell: “La Siria oggi è uno dei posti più pericolosi al mondo per essere un bambino. Un’intera generazione sta lottando per sopravvivere. Quasi il 90% delle persone in Siria vive in povertà. Più di 6,5 milioni di bambini hanno bisogno di assistenza urgente – il maggior numero di bambini siriani in difficoltà dall’inizio del conflitto. Undici anni di conflitto e sanzioni hanno avuto un impatto devastante sull’economia della Siria, riportando lo sviluppo indietro di 25 anni. La maggior parte dei sistemi e dei servizi di base da cui dipendono i bambini – salute, nutrizione, acqua e servizi igienici, istruzione e protezione sociale – sono stati ridotti all’osso. Le famiglie stanno lottando per mettere il cibo in tavola. Tra febbraio e marzo (quest’anno), il prezzo del paniere alimentare standard è aumentato di quasi il 24%. Quasi un terzo di tutti i bambini soffre di malnutrizione cronica. E l’impatto della guerra in Ucraina sui prezzi del cibo sta rendendo una brutta situazione ancora peggiore.

Questi sono tempi pericolosi, persino mortali, per essere un bambino in Siria. Gli attacchi alle infrastrutture civili sono diventati comuni. Più di 600 strutture mediche, tra cui ospedali materni e infantili, sono state attaccate. Dall’inizio della guerra, abbiamo potuto verificare che quasi 13.000 bambini sono stati uccisi o feriti – ma sappiamo che la cifra è molto più alta. La guerra non ha segnato solo fisicamente i bambini della Siria. L’anno scorso, un terzo di tutti i bambini in Siria ha mostrato segni di stress psicologico – ferite invisibili che possono durare tutta la vita. Anche i bambini che sono fuggiti dalla guerra in Siria hanno subito un trauma. Circa 2,8 milioni di bambini (siriani) vivono ora in Giordania, Libano, Iraq, Egitto e Turchia. Le vite di questi bambini sono piene di perdite, rischi e incertezze. Come ha detto una bambina di 11 anni a un operatore Unicef, “Non so cosa significhi la parola casa”.

Undici anni di guerra, disordini e sfollamenti hanno anche minacciato l’istruzione di un’intera generazione. Più di 3 milioni di bambini siriani non vanno ancora a scuola. Ma contro ogni previsione, circa 4,5 milioni di bambini siriani hanno accesso a opportunità di apprendimento. Questo grazie ai generosi finanziamenti dei donatori attraverso iniziative come (The) No Lost Generation, co-guidata dall’Unicef. [...]
Ma il mondo non deve dimenticare i bambini della Siria. Le loro vite sono altrettanto preziose e il loro futuro è altrettanto importante. Prima di tutto, hanno bisogno della fine di questa lunga e infruttuosa guerra. Non ci può essere una soluzione militare a questa crisi. Solo la pace può evitare che i bambini della Siria diventino davvero una generazione perduta. Chiediamo anche la fine immediata di tutte le gravi violazioni contro i bambini in Siria, compresi l’uccisione e il ferimento dei bambini. Fino a quando non sarà raggiunta una soluzione sostenibile, l’Unicef e i nostri partner continueranno a fare tutto il possibile per raggiungere ogni bambino, ovunque si trovi”, conclude Russell.

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