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venerdì 31 maggio 2013

India: mamma in carcere, figlio lavora da anni per pagare la cauzione e liberarla

ANSA
Era nato in prigione, un anno in fabbrica per trovare 138 euro
Se fosse vissuto ai nostri giorni Edmondo De Amicis gli avrebbe trovato un ruolo nel libro Cuore, ovviamente dalla parte dei 'buoni', come Garrone o Crossi. Ma dell'esistenza di Kanhaiya, un giovane indiano che ha lavorato sodo per pagare una cauzione e far uscire la mamma dal carcere, si e' saputo solo da qualche settimana. La donna, Vijaya Kumari, e' ritornata a casa dopo 19 anni dietro le sbarre, e visibilmente commossa ha detto ai giornalisti che le chiedevano quali fossero i suoi sentimenti: ''Tutti dovrebbero avere un figlio come il mio''.

Il fatto e' che Kanhaiya era ancora nella pancia della mamma quando questa fu condannata all'ergastolo nel 1994 con l'accusa di omicidio di un bambino ed internata nel carcere di Lucknow, in Uttar Pradesh. L'anno dopo, con il neonato fra le braccia, Vijaya riusci' a farsi ascoltare in Corte d'Appello e fu convincente, perche' il giudice annullo' la dura sentenza di primo grado, concedendole una liberta' dietro il pagamento di una cauzione di 10.000 rupie (138 euro), che lei pero' non fu capace di pagare.

''Fui lasciata sola - ha ricordato con tristezza - e ne' la mia famiglia, ne' i parenti e neppure mio marito mossero un dito per aiutarmi. Nei sette anni successivi lui venne a trovarmi una sola volta per dirmi che si era risposato''. Mamma e figlio vissero insieme fino a quando il piccolo Kanhaiya (uno dei nomi del Dio Krishna che vuol dire 'Colui che ha visto la luce dietro le sbarre') fu trasferito all'eta' di sei anni in una casa-famiglia di Lucknow dove crebbe con un'idea fissa: trovare il modo per far uscire la madre dal carcere.

Ormai adolescente il ragazzo ha cominciato a fare lavoretti di ogni genere, ma per anni la sua capacita' di risparmio e' stata vicina a zero, anche se almeno ogni due settimane tornava in carcere per incontrare la mamma.

Finche' lo scorso anno, ormai maggiorenne, si e' presentato in una fabbrica di abbigliamento di Kanpur ed e' stato assunto. Da quel momento, ha raccontato, ''ogni rupia superflua finiva in un salvadanaio per accumulare la somma richiesta per la cauzione'', obiettivo raggiunto un mese fa. ''Ed ora - ha assicurato - sono molto molto felice''.

La storia di Vijaya Kumari ha avuto ampia eco sulla stampa, al punto che l'Alta Corte di Allahabad ha chiesto a tutti i tribunali locali di presentare al piu' presto la lista di tutti i detenuti che, avendo ottenuto la liberta' dietro cauzione, non sono usciti per mancanza di risorse.

Russia: sciopero fame centinaia detenuti in carcere Urali per percosse e violazione diritti

ANSA
Diverse centinaia di detenuti, 400 secondo Itar-Tass, hanno iniziato oggi uno sciopero della fame nella prigione di Neviansk, nella regione di Sverdlovsk, sugli Urali. 

Motivo della protesta: la violazione dei loro diritti e presunte percosse da parte delle guardie. 

Alcuni di loro si sono barricati e hanno esposto dalle finestre striscioni in cui si dicono pronti a misure estreme. La polizia ha circondato il penitenziario mentre sono in corso trattative.

Disabilità e carceri, sono più di 200 i detenuti portatori di handicap in Italia

Agenparl
La situazione delle carceri italiani “è costantemente sotto la lente d’ingrandimento dello “Sportello dei Diritti”, da anni impegnato anche per un miglioramento delle condizioni della popolazione carceraria e per la tutela dei diritti di chi si trova a scontare una pena o è in attesa di giudizio, troppo spesso in condizioni disumane e sicuramente non all'altezza di un Paese che assume di essere “civile”. 

Questa volta siamo costretti a segnalare chi tra gli ultimi e forse ancora più ultimo, ci si conceda questa licenza, se siamo a parlare degli oltre 200 detenuti disabili presenti negli istituti penitenziari italiani secondo una recente ricerca condotta dalla ricercatrice Catia Ferrieri per l’Università degli studi di Perugia nell’ambito del “Por Umbria Fse 2007-2013” dall’eloquente titolo “Carcere e disabilità: analisi di una realtà complessa” che è bene divulgare per non far cadere nel dimenticatoio un ulteriore problematica che riguarda i nostri istituti di detenzione”. 

“Lo studio in questione ha preso in esame solo 84 dei 210 casi “ufficiali” in collaborazione con l’ufficio Detenuti e Trattamento del provveditorato regionale dell’Amministrazione Penitenziaria. 

Tale numero è dovuto al fatto che su un totale di 416 istituti penitenziari italiani, solo 14 hanno risposto al questionario, inviato a tutti gli assessorati regionali alla sanità delle regioni a statuto ordinario e, previa autorizzazione del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, ai direttori delle case circondariali e di reclusione nelle regioni a statuto speciale. 

L’indagine si è basata, quindi, sugli 84 detenuti di cui si sono ricevuti i questionari ed ha riguardato sia la presa in carico da parte delle Asl di competenza, sia la compatibilità delle sezioni e reparti detentivi che ospitano detenuti disabili con le norme sull’abbattimento delle barriere architettoniche. La carenza di risposte da parte di alcune istituzioni delle varie regioni ha fornito solo dati parziali, ed in particolari quelli rivenienti dalle 10 regioni che hanno risposto al questionario: in particolare Umbria, Piemonte, Liguria, Calabria, Campania, Friuli Venezia Giulia, Sardegna, Valle d’Aosta, Lombardia e Veneto. 

I dati in questione sono aggiornati a luglio 2012. Per brevità mettiamo in evidenza solo i principali”. “Per ciò che concerne le presenze, la regione (tra quelle che hanno risposto) con il maggior numero di detenuti disabili è la Liguria, con 44 presenze tra la casa circondariale di Genova (40) e quella di Sanremo (4). A seguire la Calabria - con 19 presenze tra Castrovillari e Reggio Calabria e la Campania, con 7 detenuti disabili. Quanto alle differenze per sesso, età, stato civile, il 79,3% dei detenuti disabili è di sesso maschile. Il 35,7% ha un età compresa tra i 40-50 anni, il 20,2% tra i 50-60 anni, il 15,4% tra i 30 e i 40, il 5,9% ha più di 70 anni. Il 40,4% è celibe, mentre il 41,6% è coniugato, il 7,1% è separato o divorziato. Circa la metà dei detenuti disabili ha figli. 

Anche altre differenze sono state prese in considerazione e tra queste la cittadinanza, l’istruzione, e la formazione. I detenuti disabili sono in gran parte italiani (92,8%), circa la metà ha un diploma di scuola media inferiore, il 21,4% ha la licenza elementare, il 14,2% è diplomato alla scuola superiore, il 7,14% è laureato. Il 61,9% non ha seguito corsi di formazione né prima dell’ingresso nell’istituto penitenziario, né durante l’attuale detenzione”. “Per ciò che riguarda la tipologia di detenzione e di reparto: il 51,1% dei detenuti disabili presi in considerazione è sottoposto ad esecuzione penale, mentre il 27,3% è in custodia cautelare. Per il 19% il dato risulta addirittura sconosciuto. 

Quasi la metà, in particolare il 47,6% è attualmente assegnato a reparti ordinari, a fronte del 14,2% assegnati a reparti specifici. Un elemento importante da evidenziare è anche la tipologia di disabilità: il 79,7% dei detenuti è affetto da una disabilità fisica, mentre l’11,9% ha una disabilità sia fisica che psichica. Anche in questo caso, per il 3,5% il dato non è conosciuto. Il 19% dei soggetti ha una disabilità legata a una patologia immunitaria, il17,8% è affetto da problemi legati all’apparato cardiocircolatorio, il 17,8%, ha una disabilità legata all’apparato nervoso centrale. 

Uno spazio da porre all’attenzione riguarda gli aspetti delle indennità e del lavoro. Circa il 50% dei detenuti usufruisce attualmente di una indennità di disabilità erogata dall’Inps o da altri enti, mentre il 38% non ne usufruisce. Pochissimi, ossia solo il 96,4%, non è inserito in una attività all’interno del carcere. Da segnalare come esempio isolato e positivo è quello della Casa Circondariale di Reggio Calabria, dove i detenuti disabili sono inseriti nell’attività di lavanderia e di lavoro all’esterno dell’istituto”. “Quando si parla di handicap e disabilità non bisogna mai accantonare l’aspetto dell’accessibilità. 

La ricerca in questo senso evidenzia che il 55,9% dei detenuti disabili è ospitato in sezioni o reparti detentivi con ridotte barriere architettoniche, mentre il 44% in reparti o sezioni aventi barriere architettoniche. Il 42,8% dei detenuti disabili monitorati utilizza ausili per la deambulazione, mentre il 57,1% non ne utilizza. Tra gli ausili, prevalgono la sedia a ruote (16,6%) e i bastoni canadesi (11,9%). 

Un ultimo dato su cui riflettere riguarda le pene espiate e le pene residue. La pena residua più lunga è di 28 anni, mentre la più breve è di 8 giorni a fronte di una media 1527,78 giorni ossia a 4 anni, 2 mesi e 7 giorni. La pena espiata più lunga è di 19 anni, la più breve è di 16 giorni, mentre la media del tempo in cui il soggetto è in stato detentivo è di 1057,41 giorni, ossia 3 anni e 57 giorni. 

Alla luce di tali dati, Giovanni D’Agata presidente e fondatore dello “Sportello dei Diritti”, rileva la complessità della situazione invitando i familiari dei detenuti disabili o tutti quelli che hanno conosciuto esperienze simili a segnalarle all’associazione specie per tutti quei casi che hanno riguardato circostanze che sono ritenute come lesive dei propri o altrui diritti”.

Siria. Msf: “Mancano organizzazioni umanitarie. È una catastrofe”

Quotidianosanità.it
La situazione nel Paese si sta aggravando. L’accesso alle cure è sempre più difficile e aumenta il numero dei rifugiati. Medici senza frontiere invita tutte le parti coinvolte nel conflitto a raggiungere un accordo di base per consentire la fornitura di assistenza umanitaria attraverso le linee del fronte.
Accesso alle cure estremamente limitato, non solo per i feriti, ma anche per i pazienti con malattie croniche, per le donne in gravidanza e per i bambini che necessitano di vaccinazioni. Mancano attori umanitari che possano fornire assistenza alle vittime della guerra e gli aiuti non sono più sufficienti per dare una risposta adeguata agli immensi bisogni delle popolazione. E ora la possibilità di ricevere cure mediche è diventata difficile anche nei Paesi vicini dove aumentano i rifugiati.

La Siria è allo stremo. Da più di due anni vive una grave emergenza umanitaria: la violenza senza fine del conflitto e l’insicurezza hanno causato oltre 70mila morti, e ora lo scenario si sta ulteriormente aggravando. Per questo Medici senza frontiere lancia un nuovo allarme.

“La situazione è peggiorata dall’ultima volta che sono stato nella zona di Idlib pochi mesi fa – ha dichiaratoLoris de Filippi, Presidente di Medici Senza Frontiere Italia, appena tornato da una missione in Siria - ho visto con i miei occhi che mancano acqua potabile, cibo e altri beni essenziali. Per rispondere ai bisogni, nonostante l’enorme sfida che rappresenta lavorare in Siria, siamo operativi con 5 ospedali e stiamo incrementando le nostre attività attraverso cliniche mobili. Ma questo non è sufficiente. Anche perché siamo soli: nelle zone in cui sono stato, non ci sono altre organizzazioni umanitarie”.

Indipendentemente dal progresso o meno delle iniziative diplomatiche in corso, la situazione sul campo è drammatica: ogni giorno sempre più persone hanno bisogno di cure mediche e assistenza umanitaria. Per questo MSF ribadisce la sua richiesta a tutte le parti coinvolte nel conflitto di raggiungere almeno un accordo di base che possa consentire la fornitura di assistenza umanitaria attraverso le linee del fronte e attraverso le frontiere.

“Il fallimento della risposta umanitaria all’emergenza in Siria – spiega l’organizzazione – è il risultato di vari fattori: soprattutto l’intensità dei combattimenti e bombardamenti che rendono la Siria un paese molto difficile in cui lavorare, ma anche il rifiuto da parte del Governo di Damasco all’assistenza umanitaria nelle aree controllate dall’opposizione, la diffidenza nei confronti degli aiuti attraverso le linee del fronte e la generale paralisi della comunità internazionale a fornire aiuti umanitari ovunque ve ne sia bisogno. A prescindere dalle cause, il risultato è lo stesso: la scarsa assistenza per oltre 4.200.000 siriani all’interno del paese e per oltre 1milione e 500mila rifugiati nei paesi vicini”.


Per garantire l’indipendenza del proprio lavoro in Siria, MSF si finanzia solo attraverso donazioni private. I bisogni della popolazione sono in crescita e sono aumentate di conseguenza anche le spese per sostenere i progetti. MSF chiede agli Italiani di continuare a dare il proprio supporto per poter garantire cure salva-vita alle persone intrappolate nel conflitto.

MSF in Siria ha realizzato 2.095 interventi chirurgici, più di 37.400 visite mediche, oltre 8.500 vaccinazioni e ha distribuito 166 tonnellate di materiali medici. L’organizzazione nelle zone di Idlib e Aleppo garantisce anche servizi ostetrici, dove si registrano circa 120 parti al mese e sta aumentando i servizi di salute mentale. Le équipe di MSF garantiscono assistenza medica ai rifugiati siriani in Libano, Giordania, Turchia e Iraq.

giovedì 30 maggio 2013

European Court again chides Greece over discrimination against Roma schoolchildren

Amnesty International
The Greek authorities must immediately stop segregating Romani schoolchildren from their peers, Amnesty International urged today after the European Court of Human Rights ruled that the practice in a local school district in central Greece amounted to discrimination.

In a unanimous ruling today in Lavida and Others v. Greece, the European Court found that “the continuing nature of this situation and the State’s refusal to take anti-segregation measures implied discrimination and a breach of the right to education”.

It is the sixth European Court ruling on discrimination against Roma pupils, and the third involving Greek schools.

“It’s shameful that, despite three separate European Court rulings now, Greece has failed to change its ongoing discrimination against Romani schoolchildren and the flagrant violation of their right to education,” said Jezerca Tigani, Deputy Europe and Central Asia Director at Amnesty International.

The latest case was brought by a national NGO, the Greek Helsinki Monitor (GHM) on behalf of 23 Romani schoolchildren from the town of Sofades, in the central Greek region of Thessaly.

There are almost 400 Roma families in Sofades – half the town’s population – nearly all of whom live in two areas known as the old and new Roma housing estates.

One of Sofades’ four primary schools – school number 4 – was built on the old Roma estate, meaning it catered almost exclusively to the Romani schoolchildren living on the estate. Despite living closer to a different school, residents of the new Roma estate were within the catchment area for school number 4, according to local authorities.

After a visit to Sofades in 2009, a GHM delegation sent two letters to the Ministry of Education, pointing out “a clear ethnic segregation, which violates both Greek law and international human rights norms” including the European Convention on Human Rights. No reply was received to either.

The European Court noted that a report sent to the Regional Education Department drew attention to the situation and recommended that the authorities avoid placing Roma children in schools attended exclusively by other Roma, in order to end social exclusion and promote integration.

The report had suggested building new schools and re-drawing the school catchment map. And it also noted that Sofades municipal authorities had refused to close down school no. 4, as well as the hostile reactions of the parents of non-Roma pupils when Roma children were enrolled in the town’s other schools.

The European Court ordered the Greek authorities to pay each of the 23 complainants in the Lavida case €3,000 for damages and expenses.

Twice before – in rulings in the cases of Sampanis and others v. Greece in June 2008 and Sampani and others v. Greece in December 2012 – the Court has censured the Greek authorities for allowing discrimination against Roma pupils in a school in Aspropirgos, a western suburb of Athens.

"This being the third judgment for discriminatory access to education of Romani children it indicates that the government has no intention to desegregate such schools as long as local authorities are opposed to such moves,” said Panayote Dimitras, spokesperson of the Greek Helsinki Monitor.

Amnesty International noted that Roma children face segregation or exclusion from schools in many other parts of Greece such as Thrace, Psahna Evias and Spata.

The UN Committee on the Rights of the Child has recently expressed concerns about the limited access to education and school segregation experienced by Roma pupils in Greece, and Greek civil society organisations have documented several cases of persistent segregation and exclusion of Roma pupils in different parts of the country.

“This situation demonstrates that EU standards on discrimination on grounds of race and ethnic origin are not being adequately implemented in Greece, in education as well as many other areas of life,” said Tigani.

Roma people face exclusion and disadvantage in education across the European Union.

A recent survey by the European Union Agency for Fundamental Rights and the United Nations Development Programme shows that in some EU countries – such as France, Italy, Portugal, Slovakia and Spain – young Roma aged 20-24 are up to two or three times less likely to have completed general upper-secondary education or vocational education as their non-Roma counterparts from the same age group.

The European Court has found that Roma children were discriminated against in schools in other European countries including Hungary, the Czech Republic and Croatia. But despite these judgments, the discrimination continues and Roma pupils are still enrolled in schools and classes for pupils with "mild mental disability" and in Roma-only segregated schools and classes where they follow reduced curricula.

“In many cases governments across the region are failing to take action to end this shameful practice that has no place in 21st century Europe,” said Tigani.

“EU institutions must use all the political and legal measures in their power against countries that fail to effectively implement the Race Equality Directive which prohibits discrimination on grounds of ethnic origin in many areas including education.”

South Africa: Police repeatedly turn on asylum-seekers amid xenophobia spike

Amnesty International
Asylum-seekers and refugees waiting outside the 
Cape Town Refugee Reception Office © Amnesty International
The South African authorities must stop trying to ‘squeeze out’ asylum-seekers Amnesty International said today, after police used pepper spray and stun grenades to repel desperate crowds outside a Cape Town refugee office.

Crowds of around a thousand asylum-seekers and refugees trying to legally renew their permits at the Cape Town Refugee Reception Office have been refused entry since Monday 27 May, and over three days have been on the receiving end of stun grenades, pepper spray, warning shots and a fire-hose.

The tensions outside the Cape Town office come amid a recent national spike in attacks on small businesses owned by asylum-seekers and refugees.

A witness to the first incident on 27 May told Amnesty International:

“Suddenly the crowd started moving backwards. I asked someone what was happening and they told me the police were [pepper] spraying people. Then I heard a loud boom which sounded like a gunshot and the crowd started running. I ran with them. I saw a man with blood running down his head and two men with red eyes who had been sprayed.”

The same day not only did police use pepper spray, but security guards used a fire hose to force back a thousand asylum-seekers and refugees, including small children and their mothers, who were waiting to renew their papers. Reports of gunshot-like booming noises were consistent with the alleged use of stun grenades.

Since the previous week, only women and children have been allowed to access the Refugee Reception Office, leaving hundreds of increasingly anxious and angry male asylum-seekers and refugees outside.

Witnesses reported the use of stun grenades and warning shots to disperse the crowd on 28 May, and today security guards physically beat back the crowd.

The Department of Home Affairs has been attempting to close down the Cape Town office entirely as part of an apparent government plan to shut down urban refugee offices and move all asylum services to the country’s borders. Their actions have been vigorously challenged by refugee rights organizations in the courts.

“There is intolerable pressure building up on asylum-seekers and refugees in South Africa, undermining the protection to which they are entitled under domestic and international law,” said Netsanet Belay, Amnesty International’s Africa Director.

New department practices and a huge backlog have meant that the crowd has grown desperate after being continually turned away.

One asylum-seeker who had fallen and injured his hand while being fire-hosed on 27 May told Amnesty International that he, like many of the others, had been queuing since 4:00am to renew his permit.

Many interviewed by Amnesty International now have expired permits despite queuing daily from before sunrise for a week, leaving them vulnerable to fines, detention, deportation or risk of forced removal to the country from which they may have fled persecution.

Despite a High Court ruling in March requiring them to maintain full services, the Refugee Reception Office in Cape Town has stopped providing services to people trying to lodge asylum claims, and to those asylum-seekers who first registered with another office even if it was a great distance from Cape Town. The Department of Home Affairs is currently appealing the High Court order.

Amnesty International also warned of an increasingly hostile, discriminatory and xenophobic environment for those seeking asylum in South Africa. In 2012 incidents of looting and destruction of shops and displacement of asylum-seekers and refugees occurred in nearly every province, and the organization noted that this pattern is continuing in an increasingly blatant manner.

Humanitarian and human rights organizations, including Amnesty International, have repeatedly appealed to South Africa's government to implement a nationally led strategy of prevention, protection and access to justice for the victims of these crimes. This has failed to happen.

“The government’s failure to mount a meaningful response to the continuing violence against refugees and asylum-seekers is a failure of political will and a dereliction of their obligations under domestic and international refugee law,” said Netsanet Belay.

“The potential of a repetition of the large-scale, rapid displacement of tens of thousands of refugees and asylum-seekers which occurred in 2008 is ever present, the longer the government fails to uphold their rights.”

Etiopia - Protesta dei rifugiati eritrei contro il regime di Asmara

Agenzia Fides
Addis Abeba -Circa tremila rifugiati eritrei hanno dimostrato presso il campo di Berahle nella regione Afar dell’Etiopia a pochi chilometri dal confine con l’Eritrea.
I dimostranti hanno così voluto attirare l’attenzione della comunità internazionale su quello che definiscono “il genocidio commesso dal governo di Asmara contro la minoranza Afar”.
Facciamo appello alle Nazioni Unite e alla comunità internazionale di proteggere gli Afar eritrei dalla pulizia etnica perpetrata da questo regime brutale” affermano i rifugiati in una dichiarazione.

In un’intervista al Sudan Tribune, Rashid Saleh, presidente dell’associazione giovanile del campo di rifugiati di Berahle, afferma che la dimostrazione è stata organizzata in coincidenza con il 22esimo anniversario dell’indipendenza dell’Eritrea (per ottenere la quale è stata condotta una guerra ultra trentennale contro l’Etiopia prima del Negus Selassié, poi di quella del regime marxista di Menghistu), sottolineando che “nonostante l’Eritrea ha conquistato l’indipendenza oltre 20 anni fa, la sua popolazione non è stata ancora liberata”.

Si stima che vi siano 5.000 prigionieri politici in Eritrea detenuti in condizioni spaventose. Migliaia di giovani preferiscono fuggire dal Paese, finendo spesso vittima dei mercanti di esseri umani (vi sono diversi eritrei tra le persone che scompaiono inghiottiti dalle acque del Mediterraneo nel tentare l’attraversata del Canale di Sicilia).
Nella sola Etiopia vi sono 70.000 rifugiati eritrei. Il campo di Berahle è stato costituto nel 2008. Si trova in una regione desertica dove la temperatura raggiunge facilmente i 45° centigradi. Il campo accoglie più di 5.000 persone in condizioni igieniche-sanitarie precarie.

In carcere a Rebibbia a 82 anni e malato di tumore

Corriere della Sera
Il garante dei detenuti Marroni: svolgete al più presto le verifiche per una misura alternativa alla reclusione
ROMA - A 82 anni di età, malato di tumori alla prostata, alla vescica e alla gola, è rinchiuso nel carcere di Rebibbia Nuovo Complesso a Roma per una pena di tre anni per un reato commesso nel 2004. È il caso segnalato con un telegramma dal Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni al Presidente del Tribunale di Sorveglianza della capitale, secondo una nota dello stesso garante. Nella sua segnalazione, Marroni ha evidenziato la necessità di svolgere, «al più presto», le opportune verifiche anche al fine di valutare «la possibilità di applicare, a quest'uomo, R.M., una misura alternativa alla detenzione in carcere».

NELLA SALA PING PONG - La vicenda è stata scoperta nei giorni scorsi dai collaboratori del Garante che quotidianamente visitano il carcere di Rebibbia Nuovo Complesso. «Oltre all'età e alle patologie - ha detto Marroni - mi ha colpito la circostanza che quest'uomo è ospitato in quella che era sala per il ping pong che, visto il sovraffollamento, è stata trasformata da tempo in una cella per 15 detenuti e con un solo bagno alla turca a disposizione».

UN ANNO DI TEMPO - «Quella che si sta vivendo nelle carceri è una situazione disperata - prosegue Marroni -, confermata anche dal pronunciamento della Corte europea dei diritti dell'uomo, che ha rigettato il ricorso dell'Italia contro la sentenza dell'8 gennaio per il trattamento inumano e degradante a 7 detenuti del carcere di Busto Arsizio e di Piacenza. In base a questa sentenza l'Italia ha un anno di tempo per trovare una soluzione al sovraffollamento. Ora spetta alla politica porre in evidenza, nella propria agenda, il problema delle carceri. Lo ha detto anche il Ministro della Giustizia Cancellieri che non servono nuove carceri ma occorre ripensare il sistema delle pene. Il caso del detenuto di Rebibbia che denunciamo oggi è l'ennesimo emblema del fallimento di una linea improntata alla «tolleranza zero» che non ha risolto i problemi di sicurezza del Paese ed ha di fatto cancellato l'art. 27 della Costituzione»(Fonte Ansa)

Brasile: il Programma Apac nelle carceri, perché l’uomo non è il suo errore…

Famiglia Cristiana
In Brasile da 40 anni si sperimenta una metodologia alternativa di espiazione della pena, che punta sulla reintegrazione nella società. Una sperimentazione ora premiata dalla World Bank.

L’uomo non è il suo errore. Un’affermazione densa di significati, ancor più se è scritta sui muri di una prigione. Accade in Brasile, dove nel 1972 Mario Ottoboni, volontario a Sao Paulo della Fbac (Fraternidade brasileira de assistencia aos condenados) dedito alla pastorale carceraria, mise a punto un progetto che, senza negare l’aspetto punitivo della detenzione, promuovesse i diritti umani dei carcerati preparando la loro reintegrazione nella società.


Nacque così il programma Apac (Associacoes de protecao e assistencia aos condenados), oggi riconosciuto dalla Legge brasiliana e praticato dai tribunali di 17 stati brasiliani. 


Una metodologia che costituisce una reale alternativa di espiazione della pena detentiva: i detenuti scontano la propria pena nei Centri di reintegrazione sociale Apac, centri in cui non è presente la polizia penitenziaria ma sono gli stessi detenuti a essere responsabili della sicurezza e del regolare andamento dell’istituto.

Il programma può vantare il raggiungimento di risultati a dir poco strabilianti: mentre la media brasiliana di recidiva dei condannati arriva fino all’80 per cento, per i detenuti nelle APAC si attesta tra il 10 e il 15 per cento. Un altro aspetto che dovrebbe far riflettere, è che il costo di costruzione di un posto/persona è pari a un terzo del costo del carcere comune e quello di mantenimento è la metà.


Elemento centrale e qualificante del programma è la formazione professionale, intesa soprattutto come strumento di sviluppo del potenziale umano del detenuto. I due aspetti, infatti, vanno di pari passo nel processo di espiazione della pena, inteso sia in senso punitivo sia riabilitativo.


I prigionieri sono sottoposti a un diverso regime detentivo rispetto al carcere comune. Prima attraversano un processo di ricostruzione umana e familiare. Poi, quando possono accedere al regime di semi-libertà, ricevono una formazione professionale che si accompagna al percorso già avviato di riscatto e crescita umana.


Il programma si è dimostrato vincente perché l’intero sistema sociale ne beneficia a diversi livelli: se ne giovano gli ex detenuti in grado di perseguire un reale reinserimento nella vita sociale, e ne beneficia la società stessa. Infatti più ex detenuti avranno la possibilità di lavorare e mantenere così la propria famiglia, più bassa sarà la probabilità di commettere nuovi crimini e la società diverrà più sicura e meno violenta


Infine, ne trae vantaggio anche il mercato del lavoro, che avrà a disposizione una forza lavoro più qualificata.
Da tempo partner della Fbac è la Fondazione Avsi, convinta che l’attività di cooperazione allo sviluppo non possa mai prescindere da azioni concrete, volte allo sviluppo del potenziale umano ancor prima che prettamente economico.
Avsi quindi non solo ha recepito la metodologia Apac ma l’ha promossa con il Progetto Além dos Muros (Oltre il muro), nello stato brasiliano di Minas Gerais. Il contributo della Fondazione ha permesso di sviluppare corsi di panificazione ed edilizia civile rivolti a 1400 detenuti delle 29 Apac presenti nello stato, oltre a programmi di formazione per il direttore e il personale dell’istituto penitenziario.
Inoltre Fondazione Avsi e i suoi partner locali sono impegnati in attività di sensibilizzazione che stimolano la partecipazione della società (Governo, potere giudiziario, settore privato e società civile) nel processo di reintegrazione dei detenuti. Un aspetto fondamentale, quest’ultimo, dal momento che il pregiudizio delle persone rappresenta il principale ostacolo per il riscatto dei condannati.
La metodologia sviluppata in Brasile ha fatto proseliti anche all’estero ed è stata riconosciuta come un punto di riferimento a livello internazionale: lo scorso 20 maggio a Washington, infatti, è stata insignita del premio indetto dalla World Bank “Experiences From The Field”, nella categoria “Most promising approach”. Un riconoscimento del valore della cooperazione tra settore pubblico, privato e terziario - rappresentato dalle Ong - nell’ambito carcerario e nel problema del reinserimento nella società degli ex detenuti. Come dire che l’uomo può essere più grande dei propri errori e che, oltre il muro, è possibile un futuro diverso.


mercoledì 29 maggio 2013

Amnesty: ci sono violazioni dei diritti umani in Slovacchia, in particolare verso i rom

Amnesty International Slovensko
Un rapporto annuale di Amnesty International (AI) sui diritti umani spiega che la discriminazione nei confronti dei rom in Slovacchia è continuata anche nel 2012, in particolare con la segregazione degli alunni nelle scuole e gli sgomberi forzati. Inoltre, non ci sono garanzie che i prodotti dell’industria militare slovacca rispettino i divieti internazionali sulle esportazioni verso paesi che possono utilizzarli per violazioni dei diritti umani. Il rapporto cita ad esempio esportazioni verso Algeria, Egitto, Cambogia, Kazakistan e Uganda, tutti paesi inseriti anche nel rendiconto 2012 dell’industria della difesa slovacca presentata dal Ministero dell’Economia.

La discriminazione dei rom è problema di lungo termine, per il quale la Slovacchia è stata criticata anche dal Comitato delle Nazioni Unite per i diritti economici, sociali e culturali (CESCR), ed è più evidente nelle aree dell’istruzione, l’abitazione e l’accesso all’assistenza sanitaria, ha sottolineato la portavoce di Amnesty International Slovensko. Nonostante progressi il Ministero dell’Istruzione è passivo e non prende provvedimenti per abolire la pratica di dividere gli alunni nelle scuole in base alla loro etnia. Dovrebbe invece agire con decisione per creare un modello di educazione veramente inclusiva, ricorda AIS.

Ad esempio, la situazione nella scuola elementare Jan Francisci di Levoca ha visto alcuni miglioramenti per l’integrazione degli alunni rom, ma i cambiamenti non sono ancora sufficienti. AIS avverte che potrebbe dover arrivare a portare il caso davanti a un tribunale, se la situazione non si risolve. Dopo aver segretato i bambini rom in classi separate, la scuola aveva, sotto le critiche e pressioni di diverse Ong, oltre che di genitori rom, trasferito diversi bambini non rom in classi miste. Ma il problema in quanto tale non è stato ancora risolto, avverte AIS, e ci sono ancora classi separate in questa scuola. Il portavoce del Ministero dell’Istruzione ha smentito Amnesty, dicendo che un’ispezione nel mese di marzo non ha riscontrato alcuna forma di segregazione, sia nelle aule che nella mensa.

Quanto all’assistenza sanitaria, AIS ha ricordato le tre sentenze emesse nel 2012 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) di Strasburgo, con le quali ha condannato le sterilizzazioni forzata di alcune donne rom fatte in Slovacchia negli anni 2000. E gli sfratti forzati fatti da diverse amministrazioni locali per i rom che vivono in insediamenti illegali, dichiara Amnesty, sono un altro grave violazione dei diritti umani.

Sénégal: les imams approuvent la peine de mort Au moment où on parle de la ratification de l'abolizion

Afrik.com
Au moment où on parle de la ratification de la peine de mort au Sénégal, un groupe de députés membres de la coalition « Benno Book Yaakaar » (mouvance présidentielle) et la ligue des imams approuvent son instauration pour lutter contre le grand banditisme à Dakar, la capitale sénégalaise.

Le député Seydina Fall, de la coalition Benno Book Yaakaar, avait soutenu l’instauration de la peine de mort la semaine dernière dans la banlieue de Dakar, la capitale sénégalaise, où on note de plus en plus des cas de meurtre. Le député-imam Mbaye Niang, de la même coalition, précise qu’il y a la volonté de plusieurs députés de revenir sur beaucoup de lois, notamment celle abrogeant la peine de mort. Selon lui, cette volonté sera bientôt concrétisée par le dépôt d’une proposition de loi pour revenir sur la peine de mort, quand l’élaboration de l’exposé de motifs sera terminée avant le mois de juillet.

Les imams entrent dans la danse
Le président de la Ligue des imams Youssoupha Sarr s’est prononcé sur le débat pour le retour de la loi sur la peine de mort au Sénégal, que le député de la majorité Seydina Fall entend soumettre à l’Assemblée nationale. Sans surprise, la Ligue des imams par la voix de l’imam Youssoupha Sarr approuve une telle initiative. Mieux, ce dernier estime sur les ondes de Sud FM que la peine de mort doit être appliquée dans un pays qui se dit musulman. Se basant sur le Saint Coran en ses versets 178 et 179 de la Sourate 2 (Al Baqara, la Vache) et les écrits de l’imam Malick, l’école dont les musulmans Sénégalais se réfèrent, Youssoufa Sarr opte ainsi pour une loi sur la peine de mort surtout dans un pays en majorité musulman.

L’indignation de la société civile
Le représentant de la section Amnesty International Sénégal, Seydi Gassama est monté au créneau pour dénoncer la proposition de certains députés membres de la coalition Benno Book Yaakaar qui veulent rétablir la peine de mort. « L’abolition de la peine de mort contribue à promouvoir la dignité humaine et le développement progressif des droits de l’homme. Il s’agit plutôt de renforcer l’architecture mise en place depuis la déclaration universelle des droits qui proclamait, haut et fort, l’universalité, l’égalité et l’indivisibilité de tous les droits », a-t-il rappelé.

En effet, pour le représentant d’Amnesty international, il est d’une politique démagogique que d’aller voir des gens endeuillés, pour leur promettre que quand quelqu’un tue, on le tue aussi. « Il faut lutter contre le chômage des jeunes, la baisse des denrées de premières nécessités et les inondations qui endeuillent chaque année cette partie de la capitale sénégalaise », a-t-il proposé.

Le Sénégal a aboli la peine de mort en 2004, même si la ratification tarde à se faire. Une rencontre de sensibilisation de deux jours, destinée aux parlementaires, autorités gouvernementales et à la société civile, s’est tenue à Dakar mais sans pouvoir dissuader les partisans de la peine mort.

Camera - Commissione Giustizia: audizioni su progetto di legge per pene detentive non carcerarie

ASCA
La Commissione Giustizia anche in questa settimana sarà impegnata nella messa a punto della proposta di legge - discussa fino agli ultimi giorni della scorsa legislatura - di delega al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e disposizioni per la sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili. 


Un tema sul quale ha molto insistito nei mesi scorsi l’ex Ministro dell’Interno Cancellieri e che viene ora riproposto dalla stessa Cancellieri, in veste di titolare della Giustizia, sollecitando rapide e concrete scelte per attenuare l’emergenza del sovraffollamento degli istituti di pena. 

Su questa pdl 321, prima firmataria la Ferranti del PD, sono previste audizioni di rappresentanti dell’Associazione nazionale magistrati, di Luciano Panzani, presidente del tribunale di Torino, di Alessandra Salvadori, giudice del tribunale di Torino, di Claudia Cesari, professoressa di diritto processuale penale presso l’Università degli studi di Macerata, di rappresentanti dell’Unione delle camere penali italiane, di Giovanni Tamburino, capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, di Livia Pomodoro, presidente del tribunale di Milano e di Claudio Castelli, presidente aggiunto dell’ufficio Gip del tribunale di Milano.

Siria: almeno 15 detenuti del carcere Aleppo morti sotto bombardamenti delle forze ribelli

ANSA
Quindici detenuti nella prigione centrale di Aleppo, nel nord della Siria, sono morti sotto bombardamenti delle forze ribelli lo scorso fine settimana durante scontri che oppongono truppe lealiste e miliziani dell’opposizione.

 Ne dà notizia oggi l’Ong Osservatorio nazionale per i diritti umani (Ondus), affermando di avere avuto l’informazione in conversazioni telefoniche con fonti all’interno del carcere. 

Combattimenti per il controllo della prigione sono in corso da circa due settimane e in un’occasione un commando di ribelli era riuscito a penetrare nel penitenziario dopo aver aperto una breccia nel muro di cinta con due autobomba, ma era poi stato respinto. 

La prigione di Aleppo ospita circa 4.000 detenuti, tra i quali criminali comuni e militanti dell’opposizione, ma anche qualche decina di minorenni.

Turchia: Ong denuncia torture in carcere minorile, ministero nega ma ordina inchiesta

AKI
Ha suscitato scandalo in Turchia la denuncia dell’Associazione avvocati progressisti, secondo la quale il carcere minorile di Izmir - l’antica Smirne, nel sud-ovest - è teatro di torture di ogni tipo e gravi violenze psicologiche. 


La denuncia è balzata sulle prime pagine di tutti i giornali e il ministero della Giustizia ha ordinato un’inchiesta, pur dicendosi certo che si tratta di accuse “completamente false”. 

L’associazione ha raccolto le testimonianze di giovani detenuti del carcere Sakran del quartiere Aliaga, i quali hanno raccontato di essere stati messi in isolamento per settimane o per mesi, di aver subito violenze psicologiche, di essersi visti negare cure e assistenza medica e di aver subito percosse. 

Uno di loro ha anche denunciato di essere stato duramente picchiato con un tubo. Il carcere è dotato di 22 celle di isolamento, non più grandi di tre metri quadri ognuna e dotate solo di una sedia, un letto e un bagno. 

La legge turca vieta il regime di isolamento per i minori, ma queste celle, secondo i racconti, erano costantemente occupate da giovani che vi venivano rinchiusi anche per mesi, salvo poi essere svuotate e ripulite in occasione di ispezioni, come una recente da parte della commissione Diritti umani del Parlamento, che poi descrisse il carcere come un “modello”. 

Il ministero della Giustizia si è detto certo che le accuse non corrispondano al vero, visto che nel carcere ci sono 238 telecamere attive 24 ore al giorno, la cui presenza rende impossibili comportamenti impropri. Ha inoltre assicurato che i minori rinchiusi nel carcere ricevono tutte le cure mediche di cui necessitano. 

Ma l’associazione insiste che più volte i detenuti hanno cercato di far arrivare all’esterno petizioni o reclami, di cui però si è persa la traccia, probabilmente perché bloccati dall’amministrazione della struttura.

martedì 28 maggio 2013

Death penalty by suffocation passes Papua New Guinea parliament

News.com.au
AUSTRALIA'S vicina vicina Papua Nuova Guinea si è spostato di introdurre la pena di morte - e di soffocamento è uno dei metodi di esecuzione approvati.

Il parlamento della nazione ha superato modifiche al proprio codice penale che permetterà condanne a morte per lo stupro, omicidio e rapina.

Modi approvati persone possono essere eseguiti comprendono l'iniezione letale, impiccagione, fucilazione, elettrocuzione e la morte medica da "deprivazione di ossigeno".

La mossa arriva sulla scia di una serie di omicidi violenti e crimini sessuali nel paese quest'anno. In particolare, le donne accusate di essere streghe sono state uccise in raccapriccianti pubbliche show-trial.

In un incidente, una giovane madre è stato spogliato e bruciato vivo in un mercato pubblico, mentre in un altro un ex insegnante è stato decapitato.

Il portavoce PNG primo ministro Peter O'Neill giustificato le misure in un comunicato.

"Si tratta di sanzioni molto dure, ma riflettono la gravità della natura dei reati e la richiesta da parte della comunità per il Parlamento di agire."

"Quale metodo (di esecuzione è) da utilizzare sarà determinato dal Capo dello Stato il parere del Consiglio Direttivo Nazionale (cabinet)", ha detto.

Il Parlamento ha inoltre abrogato il controverso 1971 Sorcery Act, cioè coloro condannato per aver ucciso accusato "stregoni", sarà condannato a morte,

Il primo ministro Julia Gillard ha espresso la sua opposizione alla pena di morte in visita in PNG all'inizio di questo mese.

"L'Australia è universalmente contraria alla pena di morte", ha detto la signora Gillard. "Questa non è una domanda circa la pena di morte in PNG. Si tratta della pena di morte da nessuna parte."

Signora Gillard ha detto che l'Australia avrebbe continuato la sua relazione di aiuto con PNG. Il programma educa i bambini, offre la medicina per i malati e ha contribuito a ridurre i tassi di mortalità infantile.

La morte per impiccagione è stato parte del codice penale di PNG da prima dell'indipendenza dall'Australia nel 1975, ma non è stata applicata dal 1954.

Dipartimento degli Affari Esteri australiano è stato contattato per un commento.

L’Onu all’Ue: "Più rispetto per i diritti umani dei migranti" Amnesty: “I governi proteggono le frontiere più che le persone”

Stranieri in Italia

Rapporto a Ginevra: "Procedimenti inopportuni di internamento" in Italia. Amnesty International: “I governi proteggono le frontiere più che le persone”

Roma – L'Unione Europea deve fare di più per far rispettare i diritti umani dei migranti lungo le sue frontiere esterne e non limitarsi a fermare l'immigrazione irregolare. Lo afferma Francois Crepeau, relatore speciale dell'Onu, in un rapporto presentato a Ginevra e di cui si parlerà nel corso della 23esima sessione del Consiglio per i Diritti Umani dell'Onu, inaugurata ieri.

L'Unione Europea, sostiene il testo, e' troppo concentrata sul frenare i flussi delle immigrazioni irregolari e trascura così i diritti umani dei rifugiati. Nelle ispezioni condotte in Grecia, Italia, Turchia e Tunisia, riferisce il rapporto, sono state registrate numerose irregolarità, tra cui "procedimenti inopportuni di internamento" degli immigrati.

Crepeau ha raccomandato alla Commissione Europea di agire con mezzi legali contro gli Stati membri che non applicano gli standard europei in materia del diritto dell'immigrazione.

Anche Amnesty International, in un rapporto pubblicato qualche giorno fa, ha sottolineato che il mondo è “sempre più pericoloso per i rifugiati e i migranti”. I loro diritti “sono stati violati da governi che hanno mostrato di essere interessati più alla protezione delle frontiere nazionali che a quella dei loro cittadini o di chi quelle frontiere oltrepassava chiedendo un riparo o migliori opportunità”.

Nella scheda dedicata all’Italia dal rapporto di Amnesty International, si denuncia che “i rom hanno continuato a subire discriminazioni, a essere segregati in campi, sgomberati con la forza e lasciati senza casa”. E che “sistematicamente, le autorità non hanno protetto i diritti di rifugiati, richiedenti asilo e migranti”, con riferimenti ai CIE, ai respingimenti e all’accordo con la Libia.

«In Libano siamo disperati, servono aiuti. L’Occidente deve promuovere la pace in Siria, non inviare armi»

Tempi.it
L’appello del direttore della Caritas in Libano, Georges Khoury, a tempi.it. 

Nel paese ci sono 1,2 milioni di rifugiati, quasi tutti provenienti dalla Siria, e la stabilità è a rischio
«Più passa il tempo e più la situazione peggiora. Abbiamo disperato bisogno di aiuti e non di armi». È drammatica la situazione del Libano descritta a tempi.it da Georges Khoury, il direttore della Caritas locale. Oggi nel paese di circa 4 milioni di abitanti «sono presenti 1,2 milioni di profughi. La maggior parte di loro sono fuggiti dalla Siria e non hanno un posto dove andare».

CAMPI DI FORTUNA. Sono oltre 400 mila i profughi che si sono stabiliti nel nord e nell’area di Bekaa: «Vivono in campi che si sono costruiti da soli», spiega il direttore della Caritas. «Sono precari e in condizioni drammatiche: non ci sono infrastrutture, nessuna organizzazione, manca elettricità e dipendono quasi interamente da quello che noi riusciamo a trovare per loro per quanto riguarda cibo, alloggio e medicinali».

LIBANO INSTABILE. «Nonostante la comunità internazionale non abbia risposto in modo sufficiente ai nostri appelli per chiedere aiuto», Caritas Libano riesce a fornire assistenza a 60 mila persone. Ma non basta. Il numero crescente di rifugiati, infatti, può portare all’instabilità del paese, che rischia sempre di più di essere trascinato dentro la guerra civile siriana. Ieri due razzi partiti dalla Siria hanno colpito a Beirut la roccaforte di Hezbollah, il principale partito libanese e organizzazione terrorista sciita che combatte a Damasco a fianco del regime di Assad contro i ribelli. Sabato scorso il suo leader, Nasrallah, ha promesso di «continuare a combattere con Assad fino alla vittoria. Se non vinceremo, Israele invaderà il Libano».

«AIUTI, NON ARMI». «La situazione del Libano ci preoccupa», afferma Khoury. «È instabile sia dal punto di vista economico che da quello della sicurezza. Quello che noi chiediamo alle potenze mondiali è di smettere di giocare con la Siria. Molti governi occidentali inviano armi e munizioni sia al regime che ai ribelli: se continuano così, nessun aiuto arriverà per alleviare le sofferenze dei rifugiati. Ma noi abbiamo assoluto bisogno sia di soldi che di aiuti materiali».

«SITUAZIONE DRAMMATICA». Tra pochi giorni l’Europa dovrà decidere se rinnovare l’embargo sulle armi alla Siria, che molti paesi, Regno Unito e Francia in testa, vogliono modificare per armare i ribelli contro Assad. Khoury è preoccupato da questa eventualità: «La comunità internazionale deve aiutarci a promuovere la pace, deve prendere tutte le misure necessarie per mettere in sicurezza la regione e calmare entrambe le fazioni in Siria. Perché qui la situazione continua a peggiorare. Ma è difficile parlarne, dovete venire a vedere con i vostri occhi quanto è drammatica la nostra condizione».

Latina, arrestato da due giorni si uccide tagliandosi le vene in carcere

Il detenuto, un 48enne finito in manette per reati di droga, trovato agonizzante nella sua cella
LATINA - Un detenuto della casa circondariale di Latina si è ucciso. P.P., 48 anni, era stato arrestato venerdì 24 maggio nell'ambito dell'operazione «Piazze pulite» coordinata dalla direzione distrettuale antimafia di Napoli che ha smantellato una rete di spacciatori stranieri e italiani, in tutto 25 persone. L'uomo, originario di Fondi (Latina), finito in manette per reati di droga, era stato portato nel carcere del capoluogo pontino in attesa dell'interrogatorio previsto per la giornata di lunedì. Ma domenica ha deciso di togliersi la vita in maniera atroce: tagliandosi le vene dei polsi.
 «Si è tolto la vita tagliandosi le vene con una lametta, all’interno della sua cella di Alta Sicurezza nel carcere di Latina. E’ morto così, domenica sera nel capoluogo pontino, il 48enne Pasqualino Pietrobono», recita il comunicato del garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni. L’uomo per i reati cui era accusato, era stato messo in una cella singola nella sezione Alta Sicurezza. Domenica pomeriggio, intorno alle 18, è stato trovato agonizzante con le vene dei polsi tagliate. E’ stato dichiarato morto alle 19 e 16.

 «Spetta ovviamente alla magistratura chiarire questa vicenda - ha detto il Garante dei detenuti Angiolo Marroni - resta, però il fatto che quello di Latina è un vero e proprio carcere di frontiera con tutte le problematiche che questo comporta. Attualmente vi sono ospitati circa 150 detenuti ma la struttura ospita, in un anno, oltre 1.000 reclusi, con un turn over fra i più elevati d’Italia. A questo dato oggettivo si devono, poi, aggiungere una certa lontananza della società civile ed i tagli imposti ai budget: basti pensare che lo psicologo ha a disposizione solo 13 ore mensili. In queste condizioni è molto difficile garantire assistenza sanitarie e psicologica continuativa ai 

 Notizia terribile proprio nel momento in cui la corte di Giustizia europea ha intimato all'Italia di risolvere l'emergenza carceraria italiana. E inoltre, solo pochi giorni prima c'era stata la visita dell'assessore regionale Rita Visini presso la struttura pontina sottolineando l'insostenibile livello di sovraffollamento, arrivato a sfiorare il 90%. Superata la media regionale che, nelle quattordici strutture, fa contare un sovraffolamento pari al 50%.

Azerbaigian - Human Rights Wacht: False accuse droga per oppositori In vista dell eelzioni presidenziali di ottobre

TMNews
Le autorità dell'Azerbaigian stanno utilizzando false accuse di detenzione di droga per arrestare oppositori, nel tentativo di stroncare il dissenso in vista delle elezioni presidenziali di ottobre. La denuncia arriva dall'organizzazione di difesa dei diritti civili con sede a New York Human Rights Watch. Quattro attivisti critici con l'esecutivo del presidente Ilham Aliyev sono stati arrestati tra marzo e maggio sulla base di accuse "fittizie" di droga, nell'ambito di una stretta sempre più dura contro i gruppi della società civile nella repubblica ex sovietica. "Gli ultimi casi rientrano in una campagna sempre più intensa da parte del governo contro i suoi detrattori, con l'approssimarsi delle elzioni" ha detto Giorgi Gogia, ricercatore per il sud del Caucaso di Human Rights Watch. "Questi arresti e pestaggi sono un chiaro segnale a chiunque voglia impegnarsi attivamente".

I quattro uomini, un noto blogger, un attivista d'opposizione, un esponente di un movimento giovanile e un imam, sono stati arrestati dopo essere stati trovati dalla polizia in possesso di piccole quantità di droga. Gli attivisti, in carcerazione preventiva, negano le accuse e tre di loro denunciando di essere stati picchiati brutalmente dalle forze dell'ordine in carcere, aggiunge Hrw.

Nel mesi scorsi la polizia ha represso con durezza un'ondata di proteste, tra cui contro il nonnismo nell'esercito, e centinaia di oppositori sono stati arrestati in tutto il Paese. Aliyev, al potere dal 2003, è succeduto al padre Heydar, ex funzionario del Kgb, ed è pressochè certo di vincere le presidenziali di ottobre. Secondo Human Rights Watch le autorità hanno già usato accuse infondate di possesso di droga e armi per fermare il dissenso, arrestando cinque attivisti tra agosto 2011 e maggio 2012.

lunedì 27 maggio 2013

La pena de muerte vigente en Burkina Faso

En Burkina Faso al menos diez personas están esperando en el corredor de la muerte para ser ejecutadas desde Diciembre del 2012. Este informe ha sido publicado por Amnistía Internacional el pasado 7 de mayo . A pesar de que las últimas ejecuciones tuvieron lugar en 1988, la pena de muerte es aplicable según el código penal burkinés. Por eso Amnistía vuelve a relanzar el debate y hace una llamada a las autoridades para abolir la pena capital.

Estas diez personas que esperan en el corredor de la muerte se encuentran dispersadas en distintas prisiones del país. Según Amnistía Internacional la pena de muerte debe de estar abolida en países que han integrado en su Constitución la declaración de los Derechos Humanos del Hombre que prohíbe esta pena. Por tanto la ONG considera que el código penal de Burkina Faso es anti-constitucional.

Para muchos observadores de la vida política del país si la pena de muerte aun este vigor es porque las autoridades temen las reacciones de una gran mayoría de la opinión pública que aun defiende la pena de muerte.

Los comportamientos que no se toleran
Los burkinés no toleran los comportamientos perversos en el seno de la sociedad y ese es el motivo de que defiendan la pena de muerte. En el país existe una cultura profunda de respeto al otro por lo que si alguno mata hace un mal al prójimo, o si comete actos ignominiosos se considera que debe de pagar con su vida. Según Frabrice Soma, un buen observador de la vida política de Burkina Faso, “aunque se organizara un referéndum para consultar a la gente sobre esa cuestión de mantener o no la pena capital, la mayoría de burkineses votarían para que no fuera abolida”

En los países integrados, la pena de muerte se efectúa por fusilamiento. Y una vez la persona es ejecutada, está prohibido hacerle ninguna ceremonia respetuosa bajo la pena de multas. La ley también prohíbe ejecutar a condenados en Domingo o los días de fiesta. Y las mujeres que estén embarazadas y condenadas deben de dar a luz al bebe antes de ser ejecutadas. Los crímenes que están penados con la muerte son: el asesinato, los parricidas, el espionaje y los envenenamientos.

Extracto del artículo de Assanatou Baldé. Afrike Traducido del francés para Fundación Sur

Strasburgo - Carceri sovraffollate, condanna confermata. Un anno ditempo per risolvere il problema

ANSA
La Corte europea impone allo Stato di risolvere l'emergenza
STRASBURGO - La Corte europea dei diritti dell'uomo rigetta il ricorso dell'Italia e conferma che dovra' entro un anno trovare una soluzione al sovraffollamento carcerario nonche' risarcire i detenuti che ne sono stati vittime. Lo hanno reso noto all'Ansa fonti vicine alla Corte.
La Corte europea dei diritti dell'uomo ha rigettato la richiesta del governo italiano per il riesame davanti alla Grande Camera del ricorso Torreggiani, contro il sovraffollamento carcerario. In base alla sentenza emessa lo scorso 8 gennaio dai giudici di Strasburgo, divenuta oggi definitiva, l'Italia ha un anno di tempo per trovare una soluzione al sovraffollamento carcerario e introdurre una procedura per risarcire i detenuti che ne sono stati vittime.

Bangladesh, indù e musulmani contribuiscono alla costruzione di una chiesa cattolica

di Sumon Corraya
A Mathbari, piccola cittadina nelle vicinanze di Dhaka, indù e musulmani hanno aderito a una raccolta di fondi lanciata dalla comunità cattolica per finanziare la costruzione di una chiesa. Il parroco: “sono molto felice, è la prova di un ottimo rapporto di convivenza”.

Dhaka - Alla raccolta fondi indetta dal parroco di Mathbari, distretto del Gazipur, per la costruzione di una nuova chiesa cattolica, hanno partecipato anche cittadini indù e musulmani. "Alcuni fratelli e sorelle non cristiane ci hanno dato 7693 dollari per costruire una nuova chiesa - ha dichiarato p. Boniface Subrata Tolentino - sono felicissimo, abbiamo un ottimo rapporto con loro".

Il costo della chiesa è di circa 380mila dollari, i parrocchiani di Mathbari provano da tempo a finanziarne la costruzione, ma la somma raccolta fino ad ora è insufficiente. "Ho donato parte dei miei soldi perché abbiamo buoni rapporti con i cristiani, sono nostri vicini - spiega un cittadino di fede indù - viviamo insieme, condividiamo gioie e dispiaceri".

Secondo i cattolici della città, P. Boniface Subrata Tolentino ha grandi meriti nella creazione del clima di serenità e concordia che si respira tra le differenti realtà confessionali. "È rispettoso nei confronti degli altri gruppi religiosi, invita i loro membri alle nostre feste e noi stessi ci sentiamo arricchiti da queste esperienze", spiega Nandon Cruze, parrocchiano della chiesa locale.

In Bangladesh, la maggioranza della popolazione è di fede musulmana, mentre la comunità cristiana, in gran parte cattolica, rappresenta soltanto lo 0,4%. Nonostante si registrino spesso episodi di violenza nei confronti delle minoranze da parte dei fondamentalisti musulmani, l'area di Mathbari sembra rappresentare un'eccezione singolare.

Nella cittadina, sono presenti 3500 cattolici; l'unica chiesa presente fu costruita nel 1925 e porta il nome di S.Agostino. Le sue dimensioni ridotte non consentono tuttavia di accogliere tutti i fedeli e la raccolta fondi alla quale hanno contribuito anche indù e musulmani è stata organizzata per finanziare la costruzione di un secondo centro parrocchiale.

Tunisie, l'opinion sur la peine de mort de Moncef Marzouki, Président de la République provisoire

Leaders.com.tn


"Pour la peine de mort, la Tunisie est un pays abolitionniste de facto : l’une de mes premières décisions en tant que Président a été de commuer la peine de deux cents condamnés à mort en prison à vie, et personne n’a protesté. On se trouve dans cette situation particulière où les islamistes maintiennent leur point de vue en faveur de la peine capitale, mais admettent qu’elle ne s’applique pas"
Lorsque j’étais président de la Ligue tunisienne des droits de l’homme, j’avais déjà pu constater à quel point ma conviction n’était pas en phase avec l’ensemble de la société sur ce sujet. Un homme de la ville de Nabeul avait commis le pire crime possible, en violant et en assassinant treize enfants. Il avait été arrêté puis condamné à mort. La plupart des membres de la LTDH préféraient garder le silence, parce que le pays entier réclamait sa mort. Mais j’ai choisi de porter mon désaccord sur la place publique.

Dans la plupart des cas, ai-je alors avancé, la peine de mort était appliquée contre des adversaires politiques et, même s’il s’agissait cette fois d’un vrai criminel à mettre hors d’état de nuire, il n’était pas possible de la justifier : sans compter les possibles erreurs judiciaires qui devraient à elles seules motiver l’abolition de la peine capitale, il est avéré que celles-ci n’a jamais permis de dissuader les criminels. Le raisonnement était imparable, mais la tension a été terrible. Des gens m’ont craché dessus dans la rue, parce qu’ils estimaient que je défendais un violeur et un assassin.

Je continue à dire aujourd’hui à mes partenaires d’Ennahdha que l’abolition de la peine de mort est nécessaire même si la société n’est pas encore prête pour qu’on l’inscrive dans la loi».

Emergenza colera nei campi rifugiati del Niger che accolgono 50 mila rifugiati maliani

UNHCR
I rifugiati erano un uomo di 45 anni e un bambino di 3 anni, deceduti rispettivamente il 13 e il 19 maggio, dopo essere giunti nei centri medici in condizioni gravissime. Entrambi i rifugiati vivevano nel campo di Mangaize, nella regione di Tillaberi, che accoglie 15mila persone. Finora i casi registrati nella regione di Tillaberi sono 248, tra cui 31 rifugiati dei campi di Mangaize e Tabareybarey.

Il colera si contrae generalmente attraverso il consumo di acqua contaminata.

L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) sta rispondendo all’insorgenza della patologia nei campi implementando misure igienico-sanitarie di emergenza. I rifugiati colpiti sono assistiti nei centri per la cura del colera (Cholera Treatment Centres, CTC) gestiti da Medici Senza Frontiere Svizzera. In collaborazione con le agenzie partner, l’UNHCR sta fornendo inoltre soluzioni per la reidratazione per via orale, sapone e compresse per la purificazione dell’acqua. Tuttavia, sono urgenti più farmaci per curare i potenziali nuovi casi.

L’Agenzia è inoltre impegnata in campagne di sensibilizzazione al fine di diffondere informazioni sulla salute pubblica. Le stesse attività vengono realizzate in favore delle comunità locali che abitano nelle aree limitrofe ai campi.
Per rafforzare il team dell’UNHCR sul terreno è arrivato, nella giornata di ieri, un coordinatore sanitario regionale, che collaborerà con autorità e agenzie partner sulle misure aggiuntive mirate a contenere l’epidemia. L’implementazione di una campagna di vaccinazione della popolazione a rischio – sia all’interno che all’esterno dei campi per rifugiati – è una delle misure in corso di valutazione.
Lo scorso anno un’epidemia di colera colpì 5.287 persone, uccidendone 110 in tutto ili territorio del Niger. La regione di Tillaberi fu la più colpita con 4.792 casi e 87 vittime. In quell’epidemia non furono registrati decessi tra la popolazione di rifugiati.
L’insorgenza di epidemie di colera è ricorrente in Niger, uno dei paesi più poveri al mondo. Il Niger al momento accoglie circa 50mila rifugiati maliani – 31mila dei quali vivono in 3 campi della regione di Tillaberi – fuggiti da un conflitto nel nord del proprio paese cominciato all’inizio del 2012.
A causa del conflitto in Mali 174mila persone sono state costrette a cercare rifugio in Burkina Faso, Mauritania e Niger, mentre oltre 300mila hanno lasciato le proprie abitazioni pur restando all’interno dei confini nazionali.

Roma - Ruba per sfamare il figlio: sei mesi di carcere

TG Com 24
E' successo a Roma: Filippo, disoccupato 34enne, è stato sorpreso a sottrarre del cibo in un supermercato: accusato di furto aggravato, dovrà scontare sei mesi a Regina Coeli
Sei mesi di carcere per aver rubato una fetta di arrosto, un pezzo di formaggio e una bottiglia d’olio. Da quando ha perso il lavoro, Filippo non sa più come cavarsela: con un figlio di quattro anni da crescere, il 34enne romano non ha trovato altra alternativa a piccoli furti di generi alimentari di prima necessità. Niente di eclatante, due settimane fa era stato sorpreso a rubare del pane e poco altro ma, processato per direttissima, gli erano stati inflitti cinque mesi con la condizionale. Alla luce della nuova denuncia, la condanna di Filippo sale a sei mesi, da scontare questa volta a Regina Coeli.

domenica 26 maggio 2013

Uzbekistan - Cristiana uzbeka condannata per il possesso di Bibbie e materiale religioso

Asia News
Per 18 mesi dovrà svolgere lavori “correttivi” e versare parte dello stipendio allo Stato come multa. Il timore è che nei prossimi mesi venga spedita nei campi di cotone per la raccolta, un lavoro massacrante. Nella capitale un gruppo di fedeli è stato punito con “pesanti multe” per essersi riunito in una casa a leggere “materiale cristiano”.

Tashkent - Le autorità uzbeke hanno condannato a 18 mesi di "lavoro correttivo" una cristiana protestante di Urgench, nel nord-ovest del Paese, perché colpevole di "produzione illegale, archiviazione, importazione o distribuzione di materiale religioso". Il giudice Makhmud Makhmudov ha sentenziato che la donna dovrà prestare lavori umili al completo servizio dello Stato, mentre una buona parte dello stipendio verrà requisito per il pagamento della multa. Inoltre, per i prossimi mesi potrà viaggiare solo all'interno dello Stato.

In un secondo episodio di violazione alla libertà religiosa, un gruppo di persone della capitale è stato condannato a pesanti multe per "essersi riunito" a pregare e leggere materiale cristiano (leggi Bibbia) all'interno di una abitazione privata.

Fonti locali raccontano che la polizia segreta avrebbe montato ad arte prove fasulle per inchiodare Sharofat Allamova, che è stata quindi condannata durante un processo farsa. In una nazione in cui il possesso di materiale religioso è controllato con rigore dallo Stato, con una pesantissima censura del Comitato per gli affari religiosi, spesso si ripetono fenomeni coercitivi ai danni della minoranza cristiana.

Il doppio raid nella sua abitazione è avvenuto nel gennaio scorso e di recente il giudice ha stabilito la pesante condanna, in base all'articolo 244-3 del Codice penale. Già nel maggio 2012 aveva subito punizioni analoghe, sempre per il possesso di materiale religioso. Oltre alla confisca della Bibbia e altri testi, il timore più grande è che la donna possa essere spedita in autunno nei campi di cotone per la raccolta. Come denunciato più volte da organizzazioni e attivisti, lo Stato sfrutta il lavoro di minori e condannati per un compito massacrante a livello fisico.

L'88% delle popolazione uzbeka è di fede musulmana sunnita mentre i cristiani costituiscono l'8%. Nel Paese, la libertà confessionale è soggetta a forte limitazione da parte del governo. Il rapporto annuale della Commissione statunitense per la libertà religiosa, pubblicato lo scorso 30 aprile, alla voce "Paesi oggetto di particolare attenzione" ha stilato una lista di 15 governi tra i quali quello di Tashkent.

Repubblica Centrafricana - I cristiani vivono in un “regno del terrore”

Agenzia Fides
Bangui - I cristiani in Repubblica Centrafricana sono presi di mira dai militanti islamici: vengono legati, picchiati e costretti a consegnare i soldi per salvarsi la vita. La denuncia di un “un regno del terrore” contro i cristiani da parte dei ribelli Seleka che hanno acquisito il controllo del paese nel marzo scorso, giunge da un Pastore leder di una chiesa locale, che chiede l’anonimato per motivi di sicurezza. 

Già nei mesi scorsi alcuni cristiani sono stati uccisi o feriti. I ribelli girano alla ricerca di sacerdoti e altri lavoratori cristiani, mentre luoghi di culto e proprietà private di cristiani vengono attaccate e saccheggiate. 

Molti cristiani – prosegue una nota pervenuta a Fides – hanno abbandonato le loro case in campagna e sono troppo spaventati per tornare. Oltre 200.000 persone sono sfollate, mentre 49.000 rifugiati sono stati registrati nei paesi limitrofi.

Il 10 maggio scorso Human Rights Watch (HRW) ha pubblicato un rapporto che cita “gravi violazioni” commesse dai ribelli Seleka contro i civili, come saccheggi, esecuzioni sommarie, stupri e torture.
Tra gli episodi citati, vi è un raid in una chiesa nella capitale Bangui, uno dei primi obiettivi dei ribelli Seleka, quando sono entrati in città. HRW racconta anche dell’attacco contro un corteo funebre a Bangui il 13 aprile, quando le forze Seleka aperto il fuoco sulla folla uccidendo un leader cristiano.

La crisi del Centrafrica è ignorata dai mass media e la popolazione prevalentemente cristiana si sente abbandonata dalla comunità internazionale”, notano i leader cristiani locali. 

La scorsa settimana, l'inviato delle Nazioni Unite a CAR, Margaret Vogt, ha invitato il Consiglio di sicurezza a prendere in considerazione il dispiegamento di una forza di sicurezza per “contenere l'attuale stato di anarchia”, chiedendo l'imposizione di sanzioni a ribelli, accusati di gravi violazioni dei diritti umani. (PA)

sabato 25 maggio 2013

Papa Francesco: «Chiesa madre di tutti i migranti e i profughi»

Avvenire
"La Chiesa è madre e la sua attenzione materna si manifesta con particolare tenerezza e vicinanza verso chi è costretto a fuggire dal proprio Paese e vive tra sradicamento e integrazione". Lo ha ricordato papa Francesco che ha ricevuto i partecipanti all'assemblea plenario del Pontificio Consiglio per la pastorale dei migranti, sottolineando che "la compassione cristiana si esprime anzitutto nell'impegno di conoscere gli eventi che spingono a lasciare forzatamente la patria e, dove è necessario, nel dar voce a chi non riesce a far sentire il grido del dolore e dell'oppressione".

Nel suo discorso, Bergoglio ha voluto anche "invitare tutti a cogliere negli occhi e nel cuore dei rifugiati e delle persone forzatamente sradicate anche la luce della speranza". "Speranza - ha sottolineato - che si esprime nelle aspettative per il futuro, nella voglia di relazioni d'amicizia, nel desiderio di partecipare alla società che li
accoglie, anche mediante l'apprendimento della lingua, l'accesso al lavoro e l'istruzione per i più piccoli". "Ammiro il coraggio - ha confidato - di chi spera di poter gradualmente riprendere la vita normale, in attesa che la gioia e l'amore tornino a rallegrare la sua esistenza. Tutti possiamo e dobbiamo alimentare questa speranza".


Secondo papa Francesco, la Chiesa ha "un compito importante anche nel rendere sensibili le comunità cristiane verso tanti fratelli segnati da ferite che marcano la loro esistenza: violenza, soprusi, lontananza dagli affetti familiari, eventi traumatici, fuga da casa, incertezza sul futuro nel campo-profughi". "Sono tutti elementi - ha spiegato - che disumanizzano e devono spingere ogni cristiano e l'intera comunità ad una attenzione concreta". "Come Chiesa - ha esortato il Pontefice - ricordiamo che curando le ferite dei rifugiati, degli sfollati e delle vittime dei traffici mettiamo in pratica il comandamento della carità che Gesù ci ha lasciato, quando si è identificato con lo straniero, con chi soffre, con tutte le vittime innocenti di violenze e sfruttamento".

"Dovremmo rileggere più spesso il capitolo del Vangelo secondo Matteo dove si parla del giudizio finale", ha suggerito Bergoglio agli ecclesiastici presenti. "Vorrei anche - ha aggiunto - richiamare l'attenzione che ogni pastore e comunità cristiana devono avere per il cammino di fede dei cristiani rifugiati e forzatamente sradicati dalle loro realtà, come pure dei cristiani emigranti". Gli immigrati, infatti, "richiedono una particolare cura pastorale che rispetti le loro tradizioni e li accompagni a una armoniosa integrazione nelle realtà ecclesiali in cui si trovano a vivere". "Le nostre comunità cristiane - siano veramente luoghi di accoglienza, di ascolto, di comunione". "Cari amici - ha esortato ancora rivolto ai membri del dicastero - spetta anche a voi orientare verso nuove forme di corresponsabilità tutti gli organismi impegnati nel campo delle migrazioni forzate. Purtroppo è un fenomeno in continua espansione, e quindi il vostro compito è sempre più esigente, per favorire risposte concrete di vicinanza e di accompagnamento delle persone, tenendo conto delle diverse situazioni locali".

RDC: 30.000 déplacés ont fui leurs camps en raison des combats dans l'Est

Slate Afrique
Plus de 30.000 personnes ont fui leur camp de déplacés près de Goma, dans l'est de la République démocratique du Congo, en raison des combats entre l'armée et la rébellion Mouvement du 23 mars, a-t-on appris mercredi auprès du Haut-commissariat aux réfugiés de l'ONU.

"Le camp de déplacés de Mugunga I, qui compte 55.000 déplacés, s'est vidé à 45% et celui de Mugunga III, où 13.000 personnes sont recensées, s'est vidé à 70%", a déclaré à l'AFP Simplice Kpandji, chargé de communication au bureau régional du HCR à Kinshasa.
Selon lui, "la population fuit vers Goma et Sake", deux villes dont le M23 s'était emparé fin novembre, avant de s'en retirer contre la promesse d'un dialogue avec Kinshasa.
Les déplacés fuient "de façon préventive", craignant une escalade, estime une source onusienne.

Après plusieurs mois de trêve, les combats ont repris lundi entre les forces régulières et rebelles dans la zone de Mutaho, à une dizaine de kilomètres au nord de Goma, la capitale de la province riche et instable du Nord-Kivu.

Depuis mardi, des tirs d'armes lourdes ont atteint les localités de Mugunga et Ndosho, à l'ouest de Goma, selon plusieurs sources. Mugunga abrite des camps de déplacés.
"Nous voudrions demander à la population de s'éloigner des FARDC (Forces armées de la RDC) car les combats se dirigent vers Mugunga. (...) Ils peuvent se rendre à Goma au lieu de rester près des FARDC car sinon il y aura des pertes humaines", a déclaré mercredi à l'AFP le lieutenant-colonel Vianney Kazarama, porte-parole militaire du M23.

Dans un communiqué publié mercredi, Médecins sans frontières (MSF) a indiqué que "6 obus" tombés dans la zone des camps de déplacés de Mugunga avaient fait 4 blessés" mardi, et qu'à Ndosho des "tirs d'obus" ont fait "deux morts et une dizaine de blessés".
Selon l'ONU, les combats de lundi avaient déjà provoqué le déplacement d'environ 800 personnes en direction de Goma.
Le secrétaire général de l'ONU Ban Ki-moon doit se rendre à Goma jeudi, après avoir rencontré le président congolais Joseph Kabila à Kinshasa mercredi.