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mercoledì 31 gennaio 2018

Yemen, si inasprisce la "guerra dimenticata". Violenti scontri nel sud del paese. Famiglie morte di stenti.

Lifegate
Una faida interna è esplosa nel fronte sunnita che controlla il sud dello Yemen. Decine i morti e centinaia i feriti. Popolazione sempre più allo stremo.


Tra attentati suicidi e popolazione allo stremo, nella guerra che dilania da tre anni lo Yemen si è aperto un nuovo fronte. Il blocco sunnita che combatte i ribelli houti e controlla il sud del paese si è infatti spaccato tra coloro che sono rimasti leali al presidente Abdrabbuh Mansour Hadi e quelli, separatisti, che invece chiedono al governo locale di fare un passo indietro.
Quattordici morti in un attacco suicida a Ataq
Così, da alcuni giorni si moltiplicano gli scontri tra gli ex alleatinel Sud del paese, che si intrecciano con gli attacchi dei militanti islamici. Quattordici soldati sono stati uccisi nella mattinata di martedì 30 gennaio nella provincia di Shabwa. L’attacco ha preso di mira un posto di blocco tenuto da separatisti sostenuti dagli Emirati Arabi Uniti nella città di Ataq. Secondo fonti anonime riferite dall’agenzia Afp, la paternità dell’attentato andrebbe ricondotta a gruppi estremisti legati ad al-Qaeda. Testimoni oculari hanno parlato di un kamikaze che si è lanciato a bordo di un’autobomba sul checkpoint, facendosi saltare in aria. E di uomini armati che immediatamente dopo hanno aperto il fuoco contro i militari.

La provincia teatro dell’attacco è controllata dal governo del presidente Hadi, sostenuto a sua volta da una coalizione militare guidata dall’Arabia Saudita, presente nello Yemen dal 2015 con l’obiettivo di sedare, nel nord, la rivolta dei ribelli sciiti houti. Questi ultimi hanno però conquistato vaste regioni settentrionali della nazione, compresa la capitale Sana’a, nella quale lo scorso 4 dicembre è stato ucciso l’ex presidente Ali Abdallah Saleh.
Violenti scontri nella città portuale di Aden, la seconda più grande dello Yemen

Intanto, nelle regioni meridionali, la faida interna tra separatisti e lealisti si è trasformata da domenica 28 gennaio in un aspro conflitto armato. Fonti internazionali parlano di almeno 36 morti e più di cento feritinella città portuale di Aden, la seconda più importante dello Yemen. Proprio domenica, infatti, è scaduto un ultimatum da parte del Consiglio di transizione del sud, organismo decisionale dei separatisti che chiedeva la destituzione del primo ministro Ahmed ben Dagher. Il governo, da parte sua, ha parlato invece di “tentativo di golpe”.

Intanto, sempre a Aden, la popolazione è sempre più allo stremo. Lo stato è incapace di assicurare i servizi di base: scuole e ospedali sono nel caos. Un pescatore sessantenne, intervistato dalla radio francese France Info ha parlato di “vita impossibile: tutto costa cifre esorbitanti ormai, la nostra moneta nazionale non ha più alcun valore. Non ci sono più leggi, più istituzioni. Non ce la facciamo più”.

Al nord l’embargo saudita fa mancare il cibo
L’emittente riferisce inoltre di “strade della città invase da montagne di rifiuti, nelle quali adulti e bambini frugano alla ricerca di cibo”. La fame è già una realtà nel nord controllato dagli houti, poiché sottoposto a un duro embargo da parte dei sauditi. Per questo, numerosi profughi hanno abbandonato la capitale Sana’a nei mesi scorsi, trasferendosi proprio a Aden.

Un reportage della televisione Yemen Today ha mostrato una famiglia intera morta di stenti nella propria casa. Una situazione che è ormai talmente drammatica da convincere molti ad unirsi alle milizie ribelli houti, con l’obiettivo di guadagnare ciò che serve per nutrire parenti e amici. Il che alimenta ulteriormente una guerra che si annuncia ancora molto lunga, in uno scacchiere sempre più complesso.

Andrea Barolini

Indonesia, transgender arrestate per essere rieducate come 'veri uomini'

Ansa
Taglio di capelli e abiti maschili come 'terapia'. Secondo le accuse avrebbero una cattiva influenza sui loro figli maschi.


Dodici transgender indonesiane sono state arrestate ieri dalla polizia nella provincia di Aceh, e sono al momento sottoposte a un trattamento di "rieducazione" di tre giorni che mira a insegnare loro a comportarsi "come veri uomini", compreso un taglio forzato dei capelli e l'uso di abiti maschili. Lo ha annunciato la stessa polizia di Aceh, l'unica provincia indonesiana governata dalla legge islamica.

Il gruppo di transgender è stato prelevato ieri durante un raid in alcuni centri estetici della provincia, dopo le lamentele di alcuni residenti secondo cui le "waria" - il termine indonesiano che combina le parole per "uomo" e "donna" - avrebbero una cattiva influenza sui loro figli maschi. Alcune famiglie hanno anche riferito di avance ai loro figli da parte delle waria. Al blitz era stato dato il nome di "Operazione contro le malattie morali".

"Li terremo per tre giorni per offrire loro la terapia. Sta andando bene, e ora si stanno tutte comportando come veri uomini", ha detto alla Bbc il comandante di polizia Ahmad Untung Surianata. Alla provincia di Aceh è stato concesso di introdurre la sharia all'inizio dello scorso decennio, anche nel tentativo del governo di Giacarta di porre fino a un movimento secessionista.

Nella provincia, essere transgender non è illegale, ma relazioni omosessuali lo sono. Nel resto dell'Indonesia le waria sono relativamente accettate come parte della società. Negli ultimi anni, però, nell'arcipelago si è diffusa una ventata di intolleranza verso la comunità Lgbt sulla scia di una forma più conservatrice di Islam. Anche nella capitale Giacarta sono stati compiuti alcuni raid contro gay bar e centri massaggi, con l'arresto di decine di persone in base a una controverse legge contro la pornografia.

Turchia, riprende il processo contro 11 difensori dei diritti umani

Agora Vox
Mercoledì 31 gennaio a Istanbul riprenderà il processo contro 11 difensori dei diritti umani, tra i quali Taner Kılıç e İdil Eser, rispettivamente presidente e direttrice di Amnesty International Turchia.

Gli undici imputati devono rispondere di inesistenti reati di “terrorismo”. Finora, la procura non ha fornito alcuna prova a sostegno dell’accusa né ha dimostrato alcun comportamento penalmente rilevante. Si tratta di un procedimento politicamente motivato con l’obiettivo di zittire le voci critiche all’interno della Turchia.

Taner Kılıç è stato arrestato il 6 giugno 2017 e posto in stato di detenzione tre giorni dopo. Gli altri 10 attivisti sono stati arrestati a luglio. Otto di loro sono stati tenuti in carcere per quasi quattro mesi prima di essere rilasciati su cauzione alla fine della prima udienza.

L’accusa nei confronti di Taner Kılıç è grottesca: aver scaricato e utilizzato l’applicazione di messaggistica ByLock, che secondo la procura turca era usata dai membri del movimento Gülen per le loro comunicazioni. Tuttavia, due analisi indipendenti commissionate da Amnesty International sul telefono di Taner Kılıç hanno concluso che sul suo telefono non c’era la minima traccia dell’applicazione.

Il mese scorso le autorità turche hanno ammesso che migliaia di persone erano state ingiustamente accusate di aver scaricato l’applicazione. Dopo aver pubblicato i numeri di telefono di 11.480 utenti, ne è derivata una scarcerazione di massa. Purtroppo, Taner Kılıç non è tra coloro che sono tornati in libertà.

Oltre un milione di persone da 194 paesi e territori, tra cui decine di personalità e figure autorevoli, hanno firmato gli appelli di Amnesty International per chiedere il rilascio di Taner Kılıç e degli altri 10 difensori dei diritti umani.


Riccardo Noury - Amnesty International

martedì 30 gennaio 2018

Bangladesh - Una scuola per i bambini profughi Rohingya

Agenzia Fides
Dacca - “Nei campi profughi i Rohingya vivono in piccoli ripari realizzati con canne di bambù e pezzi di plastica; scarseggiano ancora l’acqua potabile e il cibo. Sono più di 500.000 i bambini, che bramano un futuro che non c’è. 


Ho appena visitato i campi dei rifugiati Rohingya in Bangladesh: quasi un milione di persone sono fuggite dal Myanmar per salvarsi la vita. Per rispondere al grande bisogno dei bambini, che ormai costituiscono più della metà della popolazione Rohingya nei campi, la Comunità di Sant’Egidio ha aperto una Scuola per 300 bambini, nel campo profughi di Jamtholi”: lo annuncia all’Agenzia Fides Alberto Quattrucci, inviato della comunità di Sant’Egidio in Bangladesh, dove ha visitatao i campi profughi che accolgono i Rohingya fuggiti dal Myanmar.

Quattrucci racconta: 
“Gli uomini dell’esercito birmano hanno distrutto i villaggi dei Rohingya, bruciato le loro case, torturato gli uomini e violentato le donne, ucciso solo nell’ultimo anno più di 7000 persone. Così, chi ci è riuscito è fuggito, portando con sé la propria famiglia o quello che ne restava. E' un popolo senza cittadinanza, il più numeroso popolo di apolidi nel mondo. Un popolo che non esiste e quindi senza alcun diritto. Si tratta della pulizia etnica del nostro secolo”.
Un piccolo seme di speranza, in tale situazione drammatica, è la nuova scuola avviata nel campo profughi di Jamtholi: funziona per sei giorni la settimana, dal sabato al giovedì, dalle 9.00 alle 15.00, in tre turni di 100 bambini. 

Gli insegnanti – spiega Quattrucci – sono quattro rifugiati Rohingya, che erano maestri nello stato birmano Rakhine prima di fuggire in Bangladesh. Le lezioni si tengono per ora in una baracca provvisoria, in attesa di avviare una costruzione più ampia e stabile su un terreno individuato per il quale si ha già l’autorizzazione. E’ realizzata in partnership con i volontari dei Dreamers e della Muhammadiyah, l’organizzazione islamica indonesiana che gestisce anche un piccolo centro nutrizionale.

“Fare scuola è un gesto di speranza per il futuro dei rohingya, in un momento in cui la situazione è ancora bloccata: infatti la prospettiva di un possibile rimpatrio annunciata dal governo del Bangladesh dopo l’incontro con il governo del Myanmar a Naypyidaw, il 16 gennaio scorso, si scontra con notevoli difficoltà”, rileva il delegato della Comunità di Sant’Egidio.

L'eventuale rimpatrio, infatti, è subordinato alla concessione ai rohingya della cittadinanza del Myanmar, e verrà concesso (secondo gli accordi sottoscritti) a non più di 300 persone al giorno. “Questo significa che i campi profughi saranno smantellati nell’arco di dieci anni”, nota.

La scuola, spiega, rappresenta “il primo passo per provare a trasformare questa lunghissima fase di emergenza in un tempo utile, che prepari le nuove generazioni ad un futuro che ci auguriamo veda un processo di integrazione in un una società multietnica, che tutela la convivenza e il pluralismo”.

Rifugiati climatici, potrebbero arrivare a 1 miliardo entro il 2050

EBMeteo
Eventi meteorologici estremi, riscaldamento globale e innalzamento del livello marino potrebbero costringere un miliardo di persone a spostarsi dalle loro zone entro il 2050.

Ogni giorno sentiamo parlare di rifugiati politici, coloro che scappano dalle politiche dei loro paesi perché in pericolo di vita e cercano riparo in zone socialmente più sane. Ma i rifugiati climatici chi sono? Sono persone normali, come tutti noi, costrette ad abbandonare il posto in cui hanno sempre vissuto, perché compromesso dai cambiamenti climatici.

Il termine è nato anni fa in riferimento ad alcuni insediamenti di nativi americaniminacciati dall'innalzamento del livello marino e non è stato ancora accettato ufficialmente tanto che L'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (International Organization for Migration - IOM) preferisce parlare ancora di "migranti ambientali". 

I primi rifugiati climatici del mondo sono stati gli abitanti dell'isola di Jean Charles, vicino alle coste della Lousiana che in 50 anni ha perso il 98% della sua superficie. Stessa sorte è toccata agli abitanti dell'isola di Saricef in Alaska dove il mare continua ad avanzare rosicchiando pezzo dopo pezzo tutta la terra. Sono numeri ancora piccoli, parliamo di poche centinaia di persone ma se all'innalzamento marino aggiungiamo le altre calamità climatiche come gli eventi meteorologici estremi e le siccità i numeri diventano migliaia di volte maggiori.
In un rapporto di Oxfam International, si legge che tra gennaio e settembre del 2017, ben 15 milioni di persone hanno dovuto abbandonare le loro case per fuggire da eventi meteo estremi: di questi, in 14 milioni provenivano da Paesi a basso reddito. 

Tra il 2008 e il 2016, in media, i rifugiati climatici sono stati 21,8 milioni l'anno. Tra i Paesi più colpiti il Bangladesh, l'India e il Nepal, che lo scorso agosto hanno subito rovinose inondazioni, che hanno colpito 43 milioni di persone e prodotto oltre 1200 vittime. 

Ma anche le piccole isole del Pacifico, con i cicloni Pape e Winston del 2015, che nelle Isole Fiji hanno messo in fuga 55 mila persone, e ridotto del 20% il prodotto interno lordo nazionale. 

In un rapporto pubblicato recentemente, i ricercatori del FMI hanno esaminato i legami tra eventi atmosferici estremi e migrazioni in più di 100 paesi in un intervallo di tempo di oltre tre decenni. Hanno scoperto che un aumento della temperatura e una maggiore incidenza di disastri meteorologici aumentano le percentuali di emigrazione. 
Petia Topalova, ricercatrice del FMI e autrice del report, descrive la migrazione come una strategia di adattamento per famiglie colpite da shock climatici, predicendo che in futuro potrebbero verificarsi flussi migratori sempre più consistenti. Nel 2050 i rifugiati climatici potrebbero arrivare all'incredibile cifra di 1 miliardo!

30 gennaio - Memoria di Gandhi a 70 anni dalla sua morte

Blog Diritti Umani - Human Rights


Il 30 gennaio del 1948 veniva assassinato Gandhi, teorico della nonviolenza e politico che portò l'India alla propria Indipendenza

Esattamente settant'anni fa scompariva per mano di un attentatore indù il Mahatma Gandhi, una delle personalità più straordinarie ed influenti del Novecento.

lunedì 29 gennaio 2018

Tora, la Guantanamo di al-Sisi: entri e poi muori - Nel carcere di massima sicurezza leader politici, religiosi e dissidenti

Il Fatto Quotidiano
Nel carcere di massima sicurezza finiscono leader politici, religiosi e dissidenti: la sezione Scorpione è la più letale. 


Il muro di cinta del complesso carcerario di Tora, alla periferia sud del Cairo, è punteggiato di torrette da dove spuntano fucili di precisione. I nuclei detentivi sono protetti da almeno tre file di barriere. Fuori è un brulicare di poliziotti, soldati e guardie.

Occupano tutti i tavolini dei due bar proprio davanti all'ingresso, sorseggiano tè o caffè turco. Gli unici civili sono i parenti in visita ai detenuti. Tra questi Mohamed Abu Zeid, fratello di Mahmoud, più noto come Shawkan, il fotoreporter arrestato il 13 agosto 2013 e da allora in cella in attesa di giudizio.

È il giorno dell'ennesima udienza in cui si spera che il giudice decida finalmente per la scarcerazione. Ma l'attesa è vana: anche ieri il caso Shawkan non è stato discusso. Decisione rimandata al 30 gennaio. Il Cairo somiglia a Milano in autunno: foschia densa e l'aria gelata. Alle 8 in giro solo poche auto. Dalla metropolitana di piazza Tahrir, stazione Sadat, si sale a bordo della linea blu. Il treno si dirige verso sud costeggiando la Corniche del Nilo.

Nove fermate, quasi tutte in superficie, e si arriva alla stazione di Tora el-Balad, area degradata della capitale. All'uscita subito una piazzetta occupata da venditori di cibo e bevande e dalla diffusione di una preghiera cantata. Assieme a Mohamed Abu Zeid percorriamo a piedi il chilometro e mezzo fino al cancello della prigione.

Le guardie ci fermano, chiedono i documenti, ma è proprio Mohamed a sbrogliare la matassa: "È un amico, ci stiamo salutando, tranquilli se ne va". Attivisti e giornalisti, specie se stranieri, non sono ben visti in Egitto. Due ore dopo Mohamed esce da Tora: "Mio fratello dentro quel carcere ci sta morendo. È denutrito, ha contratto l'epatite C. Non ce la fa più. A tenerlo su di morale è la vicinanza della gente dal mondo intero. Gli ho detto che ci siamo visti qui fuori e lo salutavi, si è commosso: non vede l'ora di incontrarti quando uscirà".

"Tora, il quartiere della sofferenza. Una città carceraria dove esiste sempre un girone peggiore di quello in cui sei finito". Specie se il destino ti riserva la sezione Al-Aqrab, "Scorpione". A dirlo è Hassan Mustafa Osama Nasr, l'ambiguo personaggio egiziano noto alle cronache italiane come Abu Omar, prelevato per strada a Milano nel 2003 attraverso una extraordinary rendition, trasferito proprio nell'enorme complesso di Tora.

Le celle dei quattro padiglioni che formano la 'tombà oggi ospitano personaggi di rilievo. A partire dall'ex presidente, Mohamed Morsi, leader della Fratellanza Musulmana, arrestato nel 2013 su ordine di Abdel Fattah al-Sisi e da allora chiuso nella sezione El- Maz raa per prigionieri politici. Stesso spazio in cui hanno trascorso del tempo un altro ex presidente egiziano, Hosni Mubarak, e i due figli Alaa e Gamal.

A El-Mazraa, l'anno scorso, c'è finito anche Murtada (nome di fantasia, preferisce restare anonimo), un attivista del Cairo: "Ho vissuto due settimane in isolamento. Una cella di 3 metri quadrati, luce sempre accesa, solo un materasso e una coperta e un buco a terra come gabinetto. Nessun effetto personale concesso, il cibo me lo facevo comprare fuori dai miei familiari. È stato durissimo, ma c'è a chi va peggio".

Quelli della sezione Al-Aqrab. Il 10 settembre scorso, c'è finito Ibrahim Metwaly, consulente legale della famiglia Regeni al Cairo e fondatore di un'associazione per la ricerca degli scomparsi: "L'ha creata dopo che si sono perse le tracce del figlio - racconta il suo avvocato, Halem Henish - l'altro ieri il giudice ha prorogato il suo fermo di altri 15 giorni. Viene picchiato e torturato. Lo hanno arrestato ufficialmente per l'associazione, in realtà si stanno accanendo su di lui perché seguiva il caso della morte di Giulio".

Francesco Curzi

Corridoi umanitari - Domani i primi arrivi del 2018 di profughi dalla Siria

Vatican Insider
«Di fronte a nuove chiusure e a pericolose strumentalizzazioni del fenomeno immigrazione c’è un’Europa che continua a credere che il suo futuro è anche nella capacità di accogliere e integrare». 


È quanto sottolinea la Comunità di Sant’Egidio, che, dopo l’arrivo di oltre 1.000 profughi dall’inizio del 2016, insieme alla Fcei e alla Tavola Valdese, si prepara a dare il benvenuto, il 30 gennaio a Fiumicino, a un nuovo gruppo di 30 profughi siriani. 

Lo stesso avverrà, il giorno prima a Parigi, all’aeroporto Charles de Gaulle, per una quarantina di persone, insieme ad altre organizzazioni cattoliche e alle Chiese protestanti francesi. Si tratta in entrambi i casi di famiglie con bambini e alcuni malati.

Verranno accolte con un percorso di integrazione secondo il progetto dei Corridoi Umanitari, che oltre a Italia e Francia ora è attivo anche in Belgio.

«Un’iniziativa autofinanziata dalla società civile - spiega una nota di Sant’Egidio - in accordo con le istituzioni, che ormai non è più un esperimento: dimostra concretamente la possibilità, in presenza di un progetto, di accogliere e integrare guardando al futuro dell’Europa e non a muri e rifiuti che riportano a tristi ricordi del passato e non aiutano lo sviluppo del continente».

In Siria «la guerra purtroppo non è finita - ricorda la Comunità - ma anzi in queste ultime settimane si sono aperti nuovi fronti. Anche per questo motivo i corridoi umanitari risultano preziosi: invitano l’Europa a prenderne coscienza e rafforzano la richiesta di pace per questo Paese, vittima di terribili sofferenze e colpevolmente abbandonato dalla comunità internazionale».

A Fiumicino il benvenuto ai profughi siriani e una conferenza stampa di bilancio sono previsti alle 10.30 di martedì 30 gennaio. Interverranno Marco Impagliazzo, presidente della Comunità di Sant’Egidio, Luca Maria Negro, presidente della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, Mario Giro, viceministro degli Esteri e rappresentanti del ministero dell’Interno.

Turchia. Il silenzio sbagliato dell'occidente sui curdi

Corriere della Sera
Difenderli non è solo una questione di giustizia, è nel nostro interesse. 
L'offensiva turca contro i Curdi in Siria
I fatti sono noti. I curdi sono stati fondamentali combattenti contro lo Stato islamico. Lo hanno combattuto perché non accettavano di finire sotto il suo giogo e per calcolo: volevano acquisire meriti davanti alla comunità internazionale allo scopo di guadagnarsi l'indipendenza politica. I duri colpi inferti allo Stato islamico negli ultimi mesi non lo hanno ancora distrutto ma lo hanno ferito a morte. Per conseguenza i curdi hanno perso valore e importanza per gli altri nemici dello Stato islamico. Per questo il vento è ora cambiato. È in corso da alcuni giorni l'operazione "Ramo d'ulivo" lanciata dalla Turchia contro i guerriglieri curdi, alleati degli americani, dello Ypg ("Unità di protezione popolare") in Siria.

I turchi considerano lo Ypg come la filiale siriana del Pkk, il partito dei lavoratori del Kurdistan, lo storico nemico che il presidente/dittatore turco Erdogan combatte con ferocia da molti mesi entro il proprio territorio nazionale. 

Obiettivo dell'operazione "Ramo d'ulivo" è liberare la città di Afrin, ora sotto controllo curdo, in territorio siriano. Ma difficilmente le ambizioni di Erdogan si placheranno. Una volta avuto ragione dei curdi siriani i turchi potrebbero, prima o poi, volere colpire anche quelli irakeni. Con lo scopo di eliminare per sempre la possibilità che al confine turco si formi uno Stato curdo indipendente capace di attrarre anche i curdi di Turchia. Non mancherebbero i complici, ossia gli Stati che ospitano minoranze curde: Iran, Irak, Siria. Nell'operazione ora in corso Erdogan gode dell'appoggio dei russi.

Gli americani, fin qui, hanno solo balbettato. Sono alleati dei curdi ma sono anche alleati (o meglio: credono di essere ancora alleati) della Turchia che è tuttora un Paese membro della Nato. Donald Trump sembra disposto, sia pure con titubanza e fatta qualche protesta di rito, a lasciare mano libera a Erdogan. 

Il presidente francese Macron ha protestato ma, nel complesso, sembra che per gli europei la questione curda sia priva di interesse. È lecito domandarsi se gli americani (e gli europei al seguito) non stiano per commettere un errore permettendo ai turchi di fare i loro comodi contro i curdi. Un errore così grave da ritorcersi, in pochi anni, contro gli uni e gli altri.

La difesa dei curdi non è solo una questione di giustizia. È nell'interesse degli occidentali. Per almeno due ragioni. I diplomatici sono spesso restii ad accettare le novità. Ma sul fronte turco la "novità" (purtroppo) c'è. Fin quando la Turchia era ancora sotto l'influenza dell'eredità di Ataturk, il fondatore della Turchia moderna, che egli volle europea, essa era alleata degli occidentali. Era un pilastro della Nato, amica di Israele, desiderosa di entrare nell'Unione europea. Tutto ora è cambiato. 

La ri-islamizzazione della Turchia era cominciata da tempo, il contro-colpo di stato di Erdogan del 2016 ne ha solo accelerato i tempi: l'eredità di Ataturk è ormai in soffitta.

[...]L'alleanza con la Russia è un tassello della sua nuova politica estera.

Si ricordi che Erdogan ebbe un ruolo nel far nascere e nel sostenere lo Stato islamico. In questo momento, per giunta, l'operazione contro i curdi di Siria non è condotta solo da truppe turche e da mercenari siriani. Stanno dando una mano a Erdogan anche le milizie armate di Al Qaeda. Non si può restare a lungo con la testa sotto la sabbia. 

Bisogna prendere atto di ciò che è diventata la nuova Turchia. Occorre che essa si trovi finalmente a fare i conti con la fermezza (fin qui inesistente) degli occidentali. I dittatori, infatti, capiscono solo il linguaggio della fermezza.
La seconda ottima ragione per difendere i curdi è che, in caso contrario, si manderebbe un messaggio demoralizzante a tutti coloro che in Medio Oriente sono impegnati, come i curdi, contro l'islamismo radicale tanto nella variante sunnita dello Stato islamico e di Al Qaeda quanto in quella sciita (Iran e i suoi alleati). 

La sfida islamista sia contro i non-islamisti del Medio Oriente sia contro gli occidentali non finirà con la sconfitta dello Stato islamico. È probabilmente destinata a durare per decenni. Appoggiare e difendere i gruppi nemici dell'islamismo radicale è nell'interesse degli occidentali. Prima lo capiremo e prima ci troveremo a disporre di una strategia di contenimento del fanatismo.

Angelo Panebianco

domenica 28 gennaio 2018

Golfo di Aden - OIM - Strage in mare di migranti diretti a Gibuti: «Almeno trenta le vittime»

Avvenire
Almeno 30 persone tra rifugiati e migranti africani sono affogati al largo delle costa dello Yemen mentre cercavano di raggiungere Gibuti a bordo di un'imbarcazione gestita da alcuni trafficanti, che hanno sparato ad alcuni passeggeri. A riferirlo è stata l'Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim). 


"I sopravvissuti all'incidente hanno riferito all'Oim e ai membri del personale delle Nazioni Unite che un'imbarcazione con un carico superiore alla sua capacità, con a bordo almeno 152 somali ed etiopi, è partita il 23 gennaio dalla costa di Al Buraiqa ad Aden in direzione di Gibuti, attraverso il golfo di Aden", si legge in un comunicato dell'Oim.

"L'imbarcazione si è capovolta, mentre sono state riportate notizie di spari indirizzati contro i passeggeri dai trafficanti che guidavano l'imbarcazione".

Bangladesh - La metà dei 655.000 rifugiati Rohingya sono donne e ragazze vulnerabili a rischio violenze e matrimoni precoci

Globalist
Donne e ragazze rappresentano il 51% degli oltre 655.000 profughi che sono scappate nel Bangladesh. Le ragazze temono i matrimoni precoci.


Nell'insediamento di rifugiati di Balukhali, almeno 116 vedove e orfani hanno trovato rifugio in un affollato insediamento di 50 tende rosse dove non sono ammessi uomini o ragazzi di età superiore ai dieci anni.



Donne e ragazze rappresentano circa il 51% degli oltre 655.000 profughi musulmani Rohingya che hanno attraversato il confine dal Myanmar verso il Bangladesh.
Ma anche se sono fuggite dalla guerra e dalle persecuzioni non si può dire siano al sicuro: le donne rischiano di diventare vittime della tratta di esseri umani e fatte diventare schiave. 

Rischiano anche stupri e abusi sessuali. 
Le le adolescenti tra i 13 ei 20 anni devono affrontare la prospettiva di essere costrette ai matrimoni precoci e forzati.

Non c’è pace.

Venezuela, UNICEF: "con la crisi economica è aumentata la malnutrizione dei bambini"

Blog Diritti Umani - Human Rights
L'UNICEF ha riferito a Ginevra che un numero crescente di bambini soffre di malnutrizione in Venezuela a causa della prolungata crisi economica che colpisce il paese.

Sebbene i dati precisi non siano disponibili perché i dati ufficiali sulla salute e la nutrizione sono piuttosto limitati, vi sono chiare indicazioni che la crisi sta limitando l'accesso dei bambini a servizi sanitari di qualità, medicine e cibo.

"L'UNICEF chiede una rapida implementazione di una risposta a breve termine e coordinata con il governo ei suoi partner per combattere questo flagello, e ribadire il nostro sostegno alla società venezuelana per mitigare il suo impatto", ha detto Christophe Boulierac, portavoce per l'UNICEF.

I dati più recenti sulla malnutrizione nel paese sono stati rivelati dal National Institute of Nutrition nel 2009, quindi la prevalenza di un basso rapporto tra il peso e l'altezza nei bambini sotto i 5 anni è stata del 3,2%. Dati non ufficiali rivelano che questa cifra è aumentata considerevolmente: la ONG Caritas ha rivelato nel 2017 che il rapporto è stato del 15,5%.

"I risultati di questo studio sono localizzati e non rappresentano l'intera popolazione, ma sono un'indicazione del continuo deterioramento dello stato nutrizionale dei bambini", ha aggiunto Boulierac.

Il governo della Repubblica Bolivariana del Venezuela ha avviato misure per aiutare i bambini, compresa la fornitura di pacchetti mensili di cibo a prezzi accessibili per le famiglie più vulnerabili, trasferimenti di denaro e servizi di nutrizione, tuttavia, è necessario fare di più per invertire il preoccupante declino del benessere nutrizionale dei bambini, ha detto il Fondo per l'infanzia delle Nazioni Unite.

sabato 27 gennaio 2018

Rosarno, incendio nella tendopoli dei migranti: una donna morta, due ferite e diversi ustionati

La Repubblica
Una donna di soli 26 anni è morta e altre due ragazze sono rimaste ferite nel vasto incendio scoppiato questa notte alla tendopoli di San Ferdinando, vero e proprio ghetto di tende e capanne che d'inverno ospita i braccianti che arrivano nella Piana di Gioia Tauro per la stagione delle arance.


L'allarme è scattato attorno alle 2, ma quando i vigili del fuoco sono arrivati, per la donna non c'era più nulla da fare. Becky Moses è morta imprigionata nella tenda in cui da soli tre giorni aveva trovato riparo. Secondo quanto racconta chi dalle fiamme si è salvato, l'incendio sarebbe scoppiato poco lontano dalla tenda in cui la ragazza dormiva, ma quando se ne è resa conto era già troppo tardi per tentare di uscire.

Arrivata due anni fa dalla Nigeria, la ragazza per lungo tempo è stata ospite dei progetti Sprar di Riace, il paese divenuto famoso per i progetti di accoglienza diffusa divenuti un modello nel mondo. Qualche settimana fa però Becky si è vista rifiutare la richiesta di asilo politico ed ha dovuto lasciare il paesino in cui aveva trovato casa e stava imparando una lingua e un mestiere. 

Per legge, nonostante avesse immediatamente fatto ricorso contro il "no" della commissione territoriale, è stata costretta a lasciare Riace e i progetti in cui era integrata. 

Sola, espulsa dalla realtà in cui si era integrata, ha cercato l'appoggio di alcuni connazionali, che stabilmente vivono nella tendopoli di San Ferdinando. E lì ha trovato la morte. Altre due ragazze sono rimaste gravemente ferite. Una di loro, una ventisettenne nigeriana, in mattinata è stata trasferita al centro grandi ustioni di Catania a causa delle gravi ferite riportate. Diverse persone invece sono state smistate fra gli ospedali calabresi per trattare ustioni più o meno gravi e per intossicazione da fumo. Le fiamme hanno consumato oltre 200 ripari di fortuna e i pochi averi che i braccianti vi conservavano.

Al momento, non si sa cosa abbia scatenato l'incendio, scoppiato nella parte centrale del campo e rapidamente propagatosi alle altre tende e baracche, che attualmente ospitano circa mille migranti. Secondo le prime ipotesi però, non sarebbe di natura dolosa.

Alessia Candito

Contro ogni razzismo! Giornata della Memoria nel ricordo del 27 gennaio 1945 quando Auschwitz fu liberata.

Blog Diritti Umani - Human Rights
In giorni dove in Italia con orrore ascoltiamo discorsi che rievocano in concetto di razza, questa giornata rinnovi in noi lo sdegno per ogni forma di razzismo.



La data del 27 gennaio non è certo casuale, e il Giorno della Memoria si celebra da 18 anni in Italia il 27 gennaio, perchè nel 1945 proprio in quel giorno le Forze Alleate liberarono Auschwitz dai tedeschi. 

Da quel giorno per la prima volta, varcata la scritta d'ingresso "Arbeit macht frei" (il lavoro rende liberi) si venne a conoscenza di quanto era accaduto e del dramma di quello sterminio.

venerdì 26 gennaio 2018

Dichiarazione dell'Unione europea contro due recenti condanne a morte in Bielorussia

Blog Diritti Umani - Human Rights
Bruxelles, 23 gennaio 2013 - Il 20 gennaio, il tribunale della città di Minsk ha condannato a morte Vyachaslaw Sukharka e Alyaksandr Zhylnikaw dopo il loro nuovo processo. Inizialmente sono stati condannati all'ergastolo nel dicembre 2015, prima che la Corte Suprema concedesse il ricorso al pubblico ministero il 14 luglio 2017.
L'Unione europea mantiene una ferma opposizione di principio alla pena di morte, che è una punizione crudele, inumana e degradante e costituisce una violazione del diritto alla vita. La pena di morte non ha alcun effetto deterrente sul crimine e rende inevitabili errori irreversibili in qualsiasi sistema giudiziario.

Siamo in attesa che siano immediatamente commutare le condanne a morte già pronunciate in Bielorussia, l'unico paese europeo che applica ancora la pena di morte, e l'applicazione di una moratoria sulla pena di morte come primo passo verso la sua abolizione.


Fonte: Unione europea

Iran - Il Senato conferma la sospensione della pena di morte per Ahmadraza Djalali

La Voce di Novara
La sospensione della pena di morte per Ahmadraza Djalali, il ricercatore iraniano che ha lavorato per quattro anni all’Università del Piemonte Orientale, è stata confermata oggi durante la conferenza stampa che si è tenuta a Roma in sala “Caduti di Nassirya” di Palazzo Madama.


La situazione del medico sarà riconsiderato da un’altra sala della Corte Suprema del tribunale della rivoluzione iraniano. Una notizia che apre uno spiraglio di speranza per tutti coloro che si sono mossi per la liberazione Ahmad, per un giusto processo e per garantire il diritto alla conoscenza salvaguardando la mobilità scientifica.

«E’ certamente – ha spiegato la senatrice Elena Ferrara – questo il momento per rafforzare ogni azione da parte della comunità internazionale e gli appelli al Governo iraniano in particolare alla luce delle precarie condizioni di salute del ricercatore: oltre alla liberazione si chiede, infatti, al più presto il ricovero in una struttura sanitaria proprio per verificare la situazione. Con la senatrice Elena Cattaneo e il Presidente Luigi Manconi continueremo a seguire passo passo gli sviluppi della vicenda e a tenere alta l’attenzione del Governo e delle istituzioni».

USA - Alabama - Stop pena di morte per Vernon Madison 30 muniti prima dell'esecuzione.

Blog Diritti Umani - Human Rights
Vernon Madison, uno dei detenuti più longevi del braccio della morte di Alabama, doveva essere giustiziato alle sei del pomeriggio. A 30 minuti dall'esecuzione la Corte Suprema degli Stati Uniti ha emesso una sospensione temporanea.
Vernon Madison

Madison, 67 anni, è stato nel braccio della morte per oltre 30 anni dopo essere stato condannato nell'aprile 1985 per aver omicidio. Doveva morire per iniezione letale all'Holman Correctional Facility di Atmore giovedì sera, ma è sfuggito all'esecuzione per la seconda volta tramite un ordine del tribunale.

giovedì 25 gennaio 2018

Bangladesh - Apre la scuola con i primi 300 bambini rohingya nel campo rifugiati di Jamtholi.

www.santegidio.org
Per rispondere al grande bisogno dei bambini, che ormai costituiscono più della metà della popolazione Rohingya nei campi - si parla oggi di 520.000 bambini – Sant’Egidio ha aperto una Scuola per 300 bambini, nel campo rifugiati di Jamtholi.


La scuola funziona da oggi per sei giorni la settimana, dal sabato al giovedì, dalle 9.00 alle 15.00, in tre turni di 100 bambini.

Gli insegnanti sono quattro rifugiati Rohingya, che erano maestri nel Rakhine prima di fuggire. Si tiene per ora in una baracca provvisoria, in attesa di avviare una costruzione più ampia e stabile su un terreno individuato per il quale si ha già l’autorizzazione. E’ realizzata in partnership con i volontari dei Dreamers e della Muhammadiyah, che gestiscono anche un piccolo centro nutrizionale.

Contro Trump la rivolta dei sindaci. De Blasio: "No al nuovo attacco razzista alle nostre comunità di immigrati"

La Repubblica
Da New York a Chicago, da New Orleans a Los Angeles, gli amministratori disertano l'incontro alla Casa Bianca contro l'intenzione di Trump di tagliare fondi alle "città santuario" che proteggono le identità dei clandestini. Si presentano solo i texani. Più volte il primo cittadino di New York ha definito il presidente "un disastro"
Bill de Blasio, sindaco di New York (reuters)
New York - La rivolta dei sindaci americani contro Donald Trump: dal primo cittadino di New York, Bill de Blasio al collega che guida New Orleans, Mitch Landrieu, che è anche capo della conferenza dei sindaci, a decine hanno deciso di boicottare l'incontro previsto per oggi alla Casa Bianca che sarebbe dovuto servire a rilanciare le infrastrutture del paese e onorare una delle promesse fatte da The Donald in campagna elettorale.

Una presa di posizione forte presa per protestare contro l'intenzione dell'amministrazione Trump di tagliare fondi alle "città santuario", quelle municipalità che hanno scelto di proteggere le identità dei clandestini contenute nei loro registri, rifiutando di consegnarli agli agenti federali per evitarne i rimpatri. Così, all'appuntamento che doveva precedere la partenza del presidente per Davos previsto per questa sera, alla fine si sono presentati solo i sindaci texani - Mike Rawlings di Dallas per primo. Tanto più che il Texas non sarà toccato dal provvedimento visto che non ha città santuario ed è uno stato rosso (cioè repubblicano) che ha scelto per l'ultima volta un democratico nel lontano 1976, quando fu vinto da Jimmy Carter.

È stato proprio de Blasio, che ha appena giurato per il suo secondo mandato come sindaco della Grande Mela, a cancellare per primo la sua partecipazione nonostante fosse già arrivato a Washington, annunciandolo su Twitter: "Non intendo incontrare Donald Trump dopo che il Dipartimento di Giustizia si è reso responsabile di un nuovo attacco razzista alle nostre comunità di immigrati".

Una decisione che arriva in un momento molto delicato, nel pieno dei negoziati sulla questione dei dreamers, i figli dei clandestini arrivati in America da bambini, tornata sul tavolo delle trattative dopo l'accordo bipartisan per sospendere lo shutdown stretto lunedì.

E pazienza se più d un osservatore legge l'attivismo del sindaco di New York, che ha 56 anni, come un modo per tastare il terreno di una possibile candidatura alle presidenziali del 2020. Di certo de Blasio non è nuovo agli scontri con il concittadino Trump, definito in più di un occasione "un disastro" e contro il quale ha sfilato anche sabato, partecipando con la moglie afroamericana Chiraine alla marcia delle donne indetta in occasione del primo anniverasio di Trump presidente.

La Casa Bianca si è definita delusa della scarsa partecipazione di sindaci, dopo che anche i primi cittadini di altre importanti città come Chicago a Los Angeles hanno scelto di non farsi vedere. Ma la presenza dei sindaci di Fort Worth, Denton, Arlington e altre città texane hanno permesso di dire che l'incontro è stato comunque un successo: "Non hanno potuto impedirlo, visto che non erano loro ad organizzarlo" come ha detto la portavoce della Casa Bianca, Lindsay Walters.

"Quando il Presidente s'impegnerà a partecipare ad un'onesta conversazione sul futuro del paese saremo onorati di incontrarlo" ha commentato il primo cittadino di New Orleans, Landrieu, parlando anche a nome degli altri colleghi. "Fino ad allora lavoreremo per assicurare la sicurezza di tutti i cittadini, comprese le comunità di migranti. E lo faremo con o senza l'aiuto di Washington".

Anna Lombardi

#2ANNISENZAGIULIO - Due anni fa il sequestro, la tortura e l’omicidio di Giulio Regeni. L'Italia si mobilità per chiedere verità.

Amnesty.it
Il 25 gennaio 2016 il nome di Giulio Regeni si aggiungeva a quelli dei tanti egiziani e delle tante egiziane vittime di sparizione forzata.



Pochi giorni dopo, il 3 febbraio, il nome del ricercatore italiano si aggiungeva al lungo elenco delle persone torturate a morte in Egitto.

Sono trascorsi due anni da quel 25 gennaio e ancora le autorità egiziane si ostinano a non rivelare i nomi di chi ha ordinato, di chi ha eseguito, di chi ha coperto e ancora copre il sequestro, la tortura e l’omicidio di Giulio Regeni.

“Noi proseguiamo a coltivare una speranza: che quell’insistere giorno dopo giorno a chiedere la verità, quelle iniziative che quotidianamente si svolgono in Italia e non solo producano il risultato che attendiamo: l’accertamento delle responsabilità per la sparizione, la tortura e l’uccisione di Giulio. Quella verità la deve fornire il governo egiziano e deve chiederla con forza quello italiano” 
ha dichiarato in una nota ufficiale Antonio Marchesi, presidente di Amnesty International Italia.

#2ANNISENZAGIULIO: UNISCITI A NOI

Alle 19.41 del 25 gennaio in decine di piazze italiane mille luci saranno pronte ad accendersi per ricordare la sparizione di Giulio Regeni. A Roma l’evento si svolgerà in piazza di Montecitorio.
Tutti possono partecipare alle iniziative organizzate per il 25 gennaio: scuole, associazioni, istituzioni, università, singole persone!
Guarda la mappa e scopri l’evento più vicino a te. Se vuoi organizzare anche tu un evento invia la tua richiesta a  action@amnesty.it.

mercoledì 24 gennaio 2018

Morti congelati al confine con il Libano 17 rifugiati in fuga dalla Siria. 4 sono bambini.

Blog Diritti Umani -Human Rights
Il numero di rifugiati siriani che si sono congelati a causa di una tempesta di neve nel Libano orientale è salito a 17 in tre giorni, secondo la fonte della Difesa Civile libanese.
Le cause sono condizioni climatiche estremamente fredde e le abbondanti nevicate che hanno colpito recentemente diverse parti del Libano .


Domenica i soldati libanesi hanno trovato i corpi, identificati come una donna di 30 anni e un bambino di 3 anni, nella zona montuosa al confine con la Siria.

Sabato, altri 6 rifugiati inclusi 3 bambini sono morti mentre tentavano di entrare il Libano.

Venerdì scorso, l'esercito libanese ha dichiarato che nove rifugiati hanno avuto la stessa sorte lungo il confine libanese-siriano a causa del clima rigido.

Diverse parti del Libano - tra cui la valle di Beqaa, che ospita migliaia di rifugiati siriani - sono state colpite di recente da un clima estremamente freddo e abbondanti nevicate.

Il mese scorso, l'agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) ha affermato che il numero di rifugiati siriani registrati in Libano è sceso a circa 998.000 da un precedente numero di milione e mezzo.

ES

Fonte: Anadolu Agency

In Honduras c’è un movimento di lotta che si batte per salvare il popolo Lenca e la sua terra

Lifegate
Dopo la morte di Berta Cáceres, la lotta per tutelare i territori e i diritti delle popolazioni indigene dall’industria mineraria e idroelettrica non si ferma. È il caso del popolo Lenca, in Honduras.
L'indigena lenca Julia Francisco Martínez: il marito è stato ucciso
per aver difeso le terre ancestrali © Giles Clarke/Global Witness
Nonostante l’attenzione internazionale per il caso dell’omicidio dell’attivista Berta Cáceres, leader del Consiglio delle organizzazioni popolari e indigene dell’Honduras (Copinh) rimasto impunito a due anni di distanza, continuano nel paese dell’America centrale le violazioni dei diritti dei popoli indigeni e le concessioni a compagnie straniere di porzioni di territorio indigeno senza rispettare il consenso libero, preventivo ed informato delle comunità. 

In occasione della maratona di Amnesty International Write for rights che ha fatto tappa in Italia dal 4 al 10 dicembre scorso, abbiamo intervistato gli attivisti Martin Gómez Vasquez e Margarita Pineda Rodriguez, leader dei Milpah, il Movimento indipendente degli indigeni Lenca di La Paz, in Honduras.

Quali sono gli obiettivi del movimento, Milpah?
L’obiettivo del Milpah è tutelare il territorio, i diritti del popolo indigeno e l’ambiente. La visione del Milpah considera l’uomo in armonia con il pianeta e la natura in generale. Questo portare rispetto e tutelare la madre terra ci ha purtroppo portato esclusione, incarcerazione, miseria ed estrema povertà. Al momento siamo di fatto esclusi da qualsiasi progetto amministrativo del governo dell’Honduras, solo in quanto Lenca.
Qual è la situazione che vive il vostro popolo in Honduras?
Da anni ormai siamo vittime di persecuzioni, torture, assassini da parte delle aziende e del governo honduregno che vende il nostro fiume, le nostre terre e tutto ciò che è al loro interno come minerali e fauna, senza il nostro consenso. Ci sono leggi internazionali che tutelano le nostre terre e poi leggi nazionali che, in contraddizione alle prime, le concedono a compagnie straniere. In questi anni è stato venduto circa il 35 per cento del nostro territorio per creare nuove infrastrutture. Ad esempio il progetto idroelettrico Aurora 1 è situato all’interno di una riserva naturale Lenca. Non c’è interesse da parte del governo nel rispetto dei diritti dei popoli indigeni. Abbiamo dovuto adire i tribunali internazionali affinché il diritto interno venisse rispettato. Ci siamo appellati alla Convenzione 169 dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo), alla Convenzione americana sui diritti umani per denunciare la nostra condizione.
Se il diritto nazionale non vi tutela come mai rivolgervi alle organizzazioni internazionali?
Anche se la nostra contestazione non avrà alcun effetto immediato, vogliamo creare una base per poter intraprendere una denuncia dipartimentale, poi nazionale ed infine internazionale. Ed è grazie alle organizzazioni internazionali a tutela diritti umani che alcuni di noi possiedono la protezione internazionale come difensori dei diritti umani validata dalla Corte interamericana dei diritti umani. Si tratta per noi di in un periodo di grande tensione dove rischiamo la vita ogni giorno.

Il governo non vi ha dato alcun tipo di compensazione, una riparazione per i territori sottratti?
Ci hanno promesso tanto, soprattutto progetti di natura sociale, ma alla fine non è stato fatto nulla. L’ho vissuto con un’esperienza diretta all’interno del mio municipio, quello in cui si trova il progetto idroelettrico Aurora 1. Avevano promesso di portare l’acqua potabile in quattro municipi, sono passati cinque anni ma nessun progetto a vantaggio della comunità è stato realizzato Alcuni sindaci che si sono opposti ai progetti sono stati inoltre minacciati, feriti e imprigionati.

Cosa può fare ognuno di noi per supportare la causa del Milpah?
Chiediamo alle organizzazioni internazionali, soprattutto europee, che finanziano abitualmente progetti in Honduras di vincolare il loro sostegno economico al rispetto dei diritti umani e della Convenzione 169 dell’Ilo. Chiediamo invece alle organizzazioni non governative come Amnesty International di continuare a monitorare la situazione in Honduras, venire a visitare il nostro Paese per confermare che ciò che raccontiamo è reale, è vero, e di aiutarci a diffonderlo. Ogni cittadino poi, può supportare i Lenca e tutte quelle popolazioni cui diritti non vengono rispettati informandosi e sostenendo maratone e campagne che aumentino la pressione internazionale facendo luce sulle violazioni e sui soprusi. La maratona di Amnesty, ad esempio, grazie alla mobilitazione internazionale è riuscita a raccogliere oltre 150mila firme per sostenere i difensori dei diritti umani che ogni giorno rischiano la vita.

Egitto, EuroMed Rights: violazioni diritti umani senza precedenti, appello alla UE

ANSAmed
Bruxelles - Un appello all'Ue e agli Stati membri affinché "chiedano all'Egitto di rispettare i suoi obblighi internazionali e garantisca che le elezioni siano eque e libere". A Lanciarlo è la ong EuroMed Rights che "condanna fermamente la deriva del regime egiziano verso l'autoritarismo", sottolineando che "le violazioni senza precedenti dei diritti umani e gli attacchi contro i difensori dei diritti umani avvengono quotidianamente".


L'ong ricorda le "molestie contro le organizzazioni per i diritti umani", ma anche "l'aumento del numero di sparizioni forzate, uccisioni extragiudiziarie e i casi di tortura".

"L'Ue non può permettersi di rafforzare le relazioni con un regime che sopprime la propria società civile", aggiunge EuroMed Rights, esprimendo enorme preoccupazione anche per "lo stato di emergenza recentemente esteso che sacrifica le libertà fondamentali in nome della sicurezza". Ciò, conclude la ong, "sta portando il Paese a una situazione peggiore rispetto a prima, quando i cittadini erano scesi in strada chiedendo pane e dignità".

Iran - Sospesa esecuzione di Ahmadreza Djalali, il ricercatore presso l'Università a Novara

Avvenire
Teheran. È stata sospesa la condanna a morte di Ahmadreza Djalali, il ricercatore esperto di Medicina dei disastri e assistenza umanitaria presso l'Università del Piemonte Orientale a Novara che nel 2016, mentre si trovava in Iran per partecipare a una serie di seminari, era stato arrestato con l' accusa di «spionaggio». 

Ahmadreza Djalali
Lo ha fatto sapere l' Università, spiegando che la sentenza avrebbe dovuto essere eseguita venerdì scorso, ma la Sezione 33 della Corte Suprema iraniana ha fermato il procedimento per una revisione, e ha chiesto a un procuratore di esprimere il proprio parere a febbraio. 

Le precarie condizioni di salute di Djalali avrebbero influito sulla decisione della Corte. Lo scorso dicembre, le autorità iraniane avevano fatto forti pressioni sul ricercatore affinché firmasse una dichiarazione in cui «confessava » di essere una spia per conto di un «governo ostile».

La "colpa" di Ahmadreza Djalali è probabilmente solo quella di aver collaborato con ricercatori italiani, israeliani, e americani per migliorare l' operatività delle strutture ospedaliere, specialmente in aree di crisi.

martedì 23 gennaio 2018

Bangladesh, rinviato per ora il rimpatrio forzato dei profughi Rohingya in Myanmar

In Terris
Un "benvenuto sospiro di sollievo". Così Amnesty International ha definito la decisione del governo del Bangladesh di rimandare il rimpatrio dei rohingya in Myanmar, che aveva annunciato nei giorni scorsi.

Rifugiati Rohingya in Bangladesh
L'organizzazione internazionale aveva sottolineato che il ritorno della minoranza etnica nel Paese da cui i rohingya fuggono avrebbe procurato un rischio per l'incolumità di 650mila di loro. 


“Data la dimensione e l’orrore della violenza inflitta ai rohingya, qualsiasi accordo sul loro ritorno in Myanmar dovrebbe anzitutto prendere in considerazione le condizioni di apartheid presenti nel Paese. Molti rifugiati non hanno più case dove andare, poiché i soldati gliele hanno incendiate e non vi sono garanzie che potrebbero essere liberi dalla discriminazione e dalla violenza sotto quel regime di apartheid da cui sono fuggiti”, ha dichiarato Charmain Mohamed, direttore del programma Diritti dei rifugiati e dei migranti di Amnesty International.

Amnesty riconosce come un "fatto positivo" la scelta del Bangladesh di rimandare il programma di rimpatri, ma chiede che prima di procedere venga accertato che il Myanmar compia "un profondo cambiamento" nel modo in cui tratta i rohingya. "L’annuncio di oggi può offrire temporanea protezione ai rifugiati rohingya rispetto al rischio di subire nuova violenza, ma c’è bisogno di una soluzione duratura”, ha aggiunto Mohamed.

Amnesty International sta sollecitando i governi di Bangladesh e Myanmar a non prendere in considerazione il ritorno dei rifugiati rohingya fino a quando non vi saranno le condizioni per un ritorno volontario e in condizioni di dignità e sicurezza e non saranno prese misure per coinvolgere i rifugiati rohingya nelle decisioni che li riguardano.

Migranti: Israele, sopravvissuti Shoah contro espulsioni. "Siamo pronti a nasconderli in casa"

ANSAmed
Tel Aviv - Aumentano le prese di posizione contro l'allontanamento forzato deciso dal governo israeliano di migliaia di migranti africani, originari per lo più di Eritrea e Sudan. Ieri alcuni sopravvissuti alla Shoah hanno organizzato un picchetto di protesta di fronte alla residenza del Capo dello Stato Reuven Rivlin e si sono detti pronti a "nascondere profughi in casa" pur di impedire che siano arrestati ed espulsi.


Contrario alle espulsioni anche il celebre storico della Shoah, Yehuda Bauer. "Non sono migranti in cerca di lavoro - ha detto alla radio militare, polemizzando col premier Benyamin Netanyahu - ma, almeno in maggioranza, profughi che sfuggono a genocidi". 

Da parte sua la rabbina Susan Silverman sta cercando su Facebook di organizzare quello che ha chiamato 'Movimento Anna Frank per la ospitalità in casa' per offrire un riparo a quanti nelle prossime settimane rischiano di essere "allontanati da Israele", secondo la formulazione ufficiale.

Contro le espulsioni si sono pronunciati anche leader delle Chiese cattoliche, scrittori, intellettuali e piloti della compagnia aerea El Al.

Pakistan - Ennesima vittima cristiana tra i lavoratori delle fogne

Agenzia Fides
Karachi - Shehzad Mansha Masih era un ragazzo cristiano residente del quartiere di Korangi a Karachi. Come tanti cristiani pakistani, era addetto alla pulizia della rete fognaria. 

Mentre era impiegato per la ripulitura della linea fognaria principale, senza alcuna attrezzatura specifica o altra misura di sicurezza, durante la pulizia di un pozzetto, una fuoriuscita di gas tossico ha riempito la rete. Shehzad ha inalato gas velenoso, ha perso i sensi ed è morto. 

Data la presenza di tali gas, nessuno ha potuto soccorrere Shehzad immediatamente e solo dopo diversi minuti si è potuto recuperare il ragazzo e portarlo in ospedale, dove se ne è constatato il decesso.
Gli addetti alla pulizia delle reti fognarie pubbliche come Shehzad sono spesso esposti a gas mefitici. Shehzad non è la prima vittima: incidenti di questo genere avvengono spesso, ma i dipartimenti competenti non si preoccupano di fornire misure precauzionali per salvare le vite degli operai, quasi tutti cristiani. 

A giugno del 2017 ha fatto scalpore il caso del trentenne cristiano Irfan Masih, anch'egli lavoratore pubblico, tramortito per aver inalato gas tossici nella città di Umerkot nel Sindh, morto in ospedale perchè un dottore musulmano aveva rifiutato di curarlo.

A luglio del 2017 altri tre operai cristiani sono deceduti a Lahore per aver respirato fumi tossici mentre stavano ripulendo un canale ostruito, in un sobborgo della città. Anch'essi erano privi di attrezzature adeguate e le operazioni non rispettavano alcuno standard di sicurezza.
Gli operai sono spesso mal equipaggiati e rimangono esposti a condizioni potenzialmente letali. Il 90% dei lavoratori impegnati nella pulizia dei luoghi pubblici, incluse la fognature, in Pakistan sono cristiani. 

Sono lavori che i musulmani rifiutano. Si tratta di un “doppio standard”, afferma la Commissione “Giustizia e Pace” dei Vescovi pakistani e di “un trattamento discriminatorio riservato alle minoranze religiose”.

“Per i non musulmani, la vita in Pakistan è un doppio smacco. Non sono solo cittadini di seconda classe per il semplice fatto che non sono musulmani - anche se il fondatore della nazione Ali Jinnah non avrebbe mai condiviso questo approccio - ma anche perché un gran parte di loro appartiene alle caste più basse, in una società dove è tuttora presente la discriminazione castale”, spiega all’Agenzia Fides Yaqoob Khan Bangash, docente musulmano all'Università di Lahore.
La Commissione “Giustizia e Pace” della Conferenza dei Superiori Maggiori del Pakistan, a Multan, fornisce assistenza legale gratuita a centinaia di operai cristiani impegnati nel servizio di pulizia e ha contribuito a fondare delle associazioni per tutelare i loro diritti.

 Le società di gestione dei rifiuti o di pulizia dei luoghi pubblici (municipali o provinciali) spesso li assumono con salari giornalieri, negando loro i diritti di un lavoratore a tempo indeterminato. Le paghe sono solitamente ritardate. La legge sulla sicurezza sociale garantirebbe un risarcimento per quanti muoiono “per cause di servizio”, ma spesso questa legge viene aggirata e non rispettata in casi di vittime cristiane. 

Congo-Kinshasa: Francia condanna violenze di ieri, “rispettare diritti umani e libertà fondamentali”

Agenzia Nova
Kinshasa - Il governo francese ha condannato le violenze di ieri nella capitale della Repubblica democratica del Congo (Rdc), Kinshasa, in cui sono stati uccisi sei manifestanti. 


In una dichiarazione diffusa oggi il portavoce del ministero degli Esteri di Parigi ha ribadito il suo appello “per il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali, a cominciare dal diritto alla protesta” e ha chiesto alle autorità congolesi di ricorrere a un “uso proporzionato della forza nel mantenimento dell'ordine pubblico”. 

Almeno sei persone sono morte e 65 sono rimaste ferite negli scontri avvenuti ieri a Kinshasa, dove i manifestanti dell’opposizione sono scesi nuovamente in piazza per chiedere le dimissioni del presidente Joseph Kabila. Secondo quanto riferito dal portavoce della Missione delle Nazioni Unite nella Rdc (Monusco), Florence Marchal, gli scontri sono iniziati a seguito dell’intervento delle forze dell’ordine che hanno usato gas lacrimogeni e proiettili veri. 

Secondo quanto riferito dal portavoce della polizia congolese all’emittente statale “Rtnc”, tuttavia, le vittime sarebbero due mentre nove agenti di polizia sarebbero rimasti feriti, di cui due in modo serio.