Pagine

domenica 26 febbraio 2023

Migranti - Tragico naufragio in Calabria - Decine di morti tra cui un neonato, molti dispersi.

Corriere della Sera
I cadaveri sono stati trovati stamattina sulla spiaggia in località «Steccato», a venti chilometri da Crotone

Sale a 33 il numero dei migranti morti stamattina a «Steccato» di Cutro, a 20 chilometri da Crotone, dopo che il peschereccio sul quale si trovavano si è spezzato in due. Un bilancio che è destinato certamente ad aggravarsi. Secondo quanto si apprende dalle operazioni di soccorso, erano circa 250 i migranti ammassati sul vecchio barcone che non ha retto al moto ondoso. 


Per questo l’ipotesi che viene fatta da investigatori e soccorritori è che le vittime del naufragio siano dunque molte di più delle 33 accertate fino adesso. Tra le vittime numerosi bambini (anche un neonato).

Al momento sono circa un centinaio le persone tratte in salvomentre continuano le ricerche. Fonti della prefettura di Crotone parlano di 33 morti, 70 dispersi e 58 sopravvissuti, di cui quattro sono stati trasferiti in ospedale.

Il sindaco di Crotone, Vincenzo Voce, ha posto il problema delle salme: «Crotone era già in sofferenza, ma ci organizzeremo, anche nei vari paesi. Ci vuole solidarietà anche in questo».

L’imbarcazione partita dalla Turchia - su cui viaggiavano migranti in arrivo da Iran, Afghanistan e Pakistan - sarebbe finita contro gli scogli a causa del mare agitato. Secondo quanto si apprende, dai racconti fatti dai superstiti ai soccorritori, erano almeno 250 i migranti ammassati sul vecchio barcone che non ha retto al moto ondoso. Sul posto polizia, carabinieri, vigili del fuoco, 118 ed istituzioni civili locali. 

Secondo le fonti, i migranti «non hanno fatto in tempo a chiedere aiuto» e alcuni dei sopravvissuti avrebbero raggiunto la costa con i propri mezzi. Sono ancora molti i cadaveri da recuperare. In mare si notano tantissimi pezzi di legno. È quello che rimane dell’imbarcazione. In una zona della spiaggia, accuditi dai volontari, ci sono i sopravvissuti e poco distante una lunga file di sacchi bianchi. 

Un elicottero della Guardia Costiera sorvola la zona, mentre di fronte alla costa pattuglia una motovedetta della Capitaneria di Porto, che però non si può avvicinare a causa delle onde alte.

domenica 19 febbraio 2023

Pennsylvania - Il Governatore Josh Shapiro vuole abolire la pena di morte e dichiara che comunque non firmerà nessuna condanna a morte

nodeathpenalty.santegidio.org 

Può il futuro della Pennsylvania essere senza la pena di morte?
Il 17 febbraio 2023 il Governatore Josh Shapiro ha invitato l’Assemblea generale dello Stato ad abolire la pena di morte, dichiarando, che, comunque, non firmerà alcun mandato di esecuzione.
 
Governatore della Pennsylvania Josh Shapiro

Parlando alla Mosaic Community Church di West Philadelphia ha detto: “Ogni volta che ne arriverà uno sulla mia scrivania, firmerò una moratoria”e ha aggiunto che: “Il Commonwealth non dovrebbe occuparsi di mettere a morte le persone. Punto. Lo credo nel mio cuore. Questa è una dichiarazione fondamentale di moralità”. E infine l’ex procuratore generale ha concluso dicendo: «Lavorate con me per cancellarla una volta per tutte».

Si è dunque accesa una nuova speranza nel lungo cammino per l’abolizione della pena di morte nel mondo.

La storia della pena capitale in Pennsylvania è complessa. Nel 1972 la Corte Suprema statale dichiarò che la pratica, in uso sin dal 1600 con aggiustamenti sulle modalità di esecuzione, era incostituzionale. Fu ripristinata nel 1974 ma sospesa di nuovo tre anni dopo. È tornata in vigore nel 1978 nella formula tutt’ora in uso ma di fatto è inapplicata da 25 anni. Shapiro vuole andare oltre la moratoria delle esecuzioni firmata dal predecessore Tom Wolf nel 2015 e licenziare definitivamente il boia. Il Governatore ha raccontato di aver cambiato idea sulla pena capitale dopo aver sentito parlare di «grazia» tra i parenti delle vittime della sparatoria alla sinagoga di Pittsburgh del 2018. I sondaggi segnalano, tra l’altro, che il favore degli statunitensi verso la pena di morte (legale in 27 Stati su 50) è in calo.

Nel braccio della morte in Pennsylvania, oggi, ci sono 101 prigionieri. Certamente questa posizione del governatore non convince i conservatori che la ritengono troppo frettolosa e può significare diventare sordi alle preoccupazioni dei cittadini sulla sicurezza, oltre che «irrispettoso nei confronti delle vittime dei crimini più gravi». Ma in fondo proprio i parenti delle vittime hanno convinto Shapiro a eliminare la morte per mano dello Stato!

sabato 18 febbraio 2023

Focus - In Italia sono 728 i detenuti al 41 bis e sono 1.298 quelli a non sono concessi i benefici.

Wired
Il caso dell'anarchico Alfredo Cospito ha aperto il dibattito sul carcere duro. I numeri del ministero della Giustizia sulle persone alle quali viene applicato


Sono 728 le persone detenute al 41 bis, il carcere duro per i mafiosi introdotto dopo la strage di Capaci in cui venne ucciso il giudice Giovanni Falcone nel 1992. I numeri arrivano dall'edizione 2022 della Relazione sull'amministrazione della giustizia elaborata dal'omonimo ministero.

Una questione, quella del cosiddetto carcere duro, entrata nel dibattito politico in relazione al caso di Alfredo Cospito. Ovvero l'anarchico condannato per terrorismo che più di tre mesi fa ha iniziato uno sciopero della fame per protestare contro il 41 bis e contro l'ergastolo ostativo, la formula che nega la concessione di benefici che vanno dai permessi premio per uscire dal carcere fino al trasferimento agli arresti domiciliari.

Il primo è il regime al quale il membro della Federazione anarchica informale è attualmente sottoposto, il secondo è quello che rischia di vedersi applicare. Il caso di Cospito, rispetto al quale la Corte costituzionale, ha quindi riacceso il dibattito politico rispetto a questi due regimi detentivi. Wired ha così chiesto al ministero i dati per capire quante siano le persone che si trovano in questa situazione.
I detenuti al 41-bis

Si tratta di un regime carcerario che viene riservato in modo particolare ai mafiosi. Ovvero agli affiliati ad un'organizzazione criminale di stampo mafioso. Ci sono però anche 4 personecondannate per terrorismo, una di queste è Cospito, che si trovano in questa condizione. Ecco quello che dicono i numeri del ministero guidato da Carlo Nordio, aggiornati al 31 ottobre 2022.

La prima parte del grafico mostra la suddivisione complessiva delle affiliazioni dei detenuti al 41 bis. Si tratta di 242 camorristi, 232 membri della Cosa nostra siciliana e 195 ‘ndranghetisti. La parte in giallo è resa più in chiaro nella seconda parte del grafico: 20 i membri della Sacra Corona Unita e 3 quelli della Stidda. La prima è un’organizzazione criminale attiva in Puglia, la seconda nelle province siciliane di Agrigento, Caltanissetta e Ragusa.

Non ci sono strutture carcerarie nel Sud che ospitino persone detenute al 41 bis. Si trovano tutte nel centro nord. Tra le maggiori ci sono quello dell'Aquila, dove le persone al carcere duro sono 143 e si trovano tutte le 12 donne sottoposte a questo regime, e quello di Opera, a Milano. Ovvero la struttura dove è detenuto Cospito insieme ad altre 94 persone che condividono la sua condizione.

Sempre alla data del 31 ottobre, l'età media delle persone sottoposte al 41 bis è di 58 anni, contro i 56 dell'anno precedente. Il 46,7%, anche questo dato in crescita rispetto al 40% del 2021, ha almeno 60 anni.
L'ergastolo ostativo

In totale sono 1.298 i detenuti cui viene applicato l'articolo 4 bis dell'ordinamento penitenziario, ovvero quella norma che impedisce la concessione di benefici. Tra questi, ci sono 16 donne. Come si intuisce dai numeri, non si tratta esclusivamente di persone detenute per associazione mafiosa. Che pure è un reato ben rappresentato tra i soggetti con l'ergastolo ostativo: sono 1.113 quelli che sono stati ritenuti colpevoli.

Il numero è maggiore rispetto a quello dei mafiosi al 41 bis perché questi ultimi sono quelli che, potendo comunicare con l'esterno, potrebbero continuare a dirigere l'organizzazione. Circostanza che non vale per tutti gli ostativi, i quali non possono uscire dal carcere nemmeno in permesso premio, ma sono autorizzati a comunicare con i famigliari senza censure.

venerdì 17 febbraio 2023

L’Alto commissario Onu sui diritti umani chiede al governo di non approvare il decreto sulle ong - "Saranno a rischio più vite. Non demonizzare azioni umanitarie"

Askanews
“Osserviamo tutti con orrore la difficile situazione di coloro che attraversano il Mediterraneo, e il desiderio di porre fine a questa sofferenza è profondo. Ma questo è semplicemente il modo sbagliato per affrontare la questione”. Così l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Volker Türk, il quale ha rivolto un appello al governo Meloni a non approvare il dl Ong con la stretta per le Navi che salvano i migranti in mare.


“Più persone in difficoltà soffriranno e saranno a rischio più vite in assenza di un aiuto tempestivo, se questa legge verrà approvata. Secondo il diritto internazionale, un capitano ha il dovere di prestare immediata assistenza a persone in pericolo in mare e gli Stati devono proteggere il diritto alla vita. Ma con questa proposta, una nave Sar nelle vicinanze sarebbe obbligata a ignorare le chiamate di soccorso semplicemente in virtù di aver già salvato altri” naufraghi, costringendo “anche vittime di tortura, violenza sessuale e altre violazioni dei diritti umani” a “ulteriori ritardi nell’accesso a cure mediche e riabilitazione adeguate”, ha sottolineato Türk.

“La legge punirebbe sia i migranti che coloro che cercano di aiutarli”, una demonizzazione delle azioni umanitarie che “potrebbe trasformarsi in un deterrente per il lavoro cruciale delle organizzazioni impegnate nella tutela dei diritti umani”, ha aggiunto l’Alto Commissario, ricordando il pericolo di incremento dei respingimenti verso la Libia, luogo che “non può essere considerato un porto sicuro di sbarco”.

Türk ha quindi esortato il governo italiano a ritirare la proposta di legge, consultare i gruppi della società civile, in particolare le Ong di ricerca e soccorso, affinché si assicuri che il decreto sia “pienamente conforme al diritto internazionale dei diritti umani, al diritto d’asilo e alle altre norme in materia, inclusa la Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del mare e la Convenzione internazionale sulla ricerca e il salvataggio in mare”.

martedì 14 febbraio 2023

In aumento chi vive per strada, tra loro molti italiani - 2.500 a Roma - L'impegno del Terzo settore

Corriere della Sera

Aumenta il numero di chi vive in strada o si adatta a soluzioni d’emergenza. I senza dimora concentrati nelle metropoli. FioPsd: “Bisogna superare le politiche emergenziali”. L’impegno del Terzo settore.

Fanno notizia quando muoiono di stenti o di freddo per strada, ma per ogni vita persa ce ne sono migliaia salvate da enti e associazioni che si prendono cura degli invisibili. Roma è la capitale dei senza dimora: quasi un quarto di tutti quelli che in Italia non hanno un tetto sotto cui dormire vivono nell’area metropolitana capitolina. “In città sono circa ottomila - racconta Augusto D’Angelo della Comunità di Sant’Egidio - e un terzo di loro vive nelle strutture del Comune o della rete delle parrocchie e associazioni, un altro terzo dimora in alloggi impropri e di fortuna. Un terzo sta per strada”. 

Non sono soli, ma stanno aumentando. “Tante cose migliorano - aggiunge D’Angelo - sul versante dei servizi e dell’accoglienza anche grazie a una nuova sensibilità delle amministrazioni e all’aumento del 42 per cento dei posti letto in strutture più piccole e disseminate sul territorio. Negli ultimi cinque anni la Sant’Egidio ha strappato dalla strada, accompagnandole, più di 300 persone. Ma la crisi cronica che stiamo vivendo ne sta spingendo molti altre nella spirale della povertà”.

Non esiste un numero preciso dei senza dimora in Italia: l’ultima stima dell’Istat, datata 2021, è di oltre 96mila, ma nel computo ci sono anche quelli che pur non avendo una abitazione fissa non vivono comunque in condizioni di indigenza e possono tornare ogni sera sotto un tetto dignitoso, magari da parenti, amici o in strutture mobili. Nel 2015, il dato più recente specificatamente dedicato ai senza dimora in condizioni di marginalità, la stima fatta sempre da Istat con il supporto delle associazioni era di oltre 50mila.

Una parte consistente è composta da stranieri con o senza permesso di soggiorno, ma gli italiani sono in forte crescita. “È allarmante - spiega Caterina Cortese, responsabile dell’Osservatorio di FioPsd, la federazione nazionale in cui sono riunite circa 146 realtà che si occupano del fenomeno - l’aumento delle donne in genere e dei giovani problematici fuoriusciti da percorsi istituzionali che hanno perso rapporti con le famiglie di origine. 

E sta crescendo il numero degli italiani: oltre a quelli che hanno una storia di marginalità risalente nel tempo, c’è un’accelerazione dello scivolamento di nuclei che con la perdita del lavoro e poi della casa si ritrovano per strada”. 

di Giulio Sensi

lunedì 13 febbraio 2023

Suicida in carcere a 21 anni al San Vittore. Era da un mese in carcere per furto.

Fanpage.it
Detenuto di 21 anni suicida nel carcere di San Vittore: si è impiccato in cella
Il detenuto 21enne era recluso dal 31 dicembre a San Vittore, dopo un arresto per furto aggravato: è il primo suicidio in carcere del 2023 a Milano. Proprio nelle celle del penitenziario milanese, la scorsa estate, si erano tolti la vita altri due detenuti ventenni.


Ancora un suicidio nelle carceri nazionali. Quello di un detenuto 21enne, recluso nell'istituto penitenziario di San Vittore a Milano, è solo il primo del 2023 nel capoluogo lombardo: si chiamava Luis Fernando Villa Villalobos, peruviano, senza fissa dimora. Trovato impiccato in cella il 2 febbraio e trasportato in ospedale in gravissime condizioni, è morto nella notte di venerdì 10 febbraio.

A portare il 21enne dietro le sbarre di San Vittore, un arresto per furto aggravato e un processo per direttissima. Poi, dopo poco tempo, la morte dentro la sua cella. Per fare chiarezza sulla vicenda il caso è al vaglio del magistrato di turno Angelo Renna che, come da prassi, ha aperto un fascicolo necessario a svolgere gli accertamenti. Dalle prime ricostruzioni non emergerebbero comunque responsabilità da parte di terze persone.

Emergenza suicidi in carcere
Il primo suicidio dell'anno nelle carceri di Milano, coda di un 2022 che ha visto l'esplosione del fenomeno nei penitenziari di tutta Italia: ben 80 casi accertati nei 12 mesi dell'anno appena trascorso, ovvero il numero più alto degli ultimi 10 anni, mentre nel solo distretto della corte d'Appello di Milano (che comprende anche Busto Arsizio, Como, Lecco, Lodi, Monza, Pavia, Sondrio e Varese) l'anno scorso si sono uccisi 15 detenuti. 

Con oltre il 60 per cento di morti avvenute nei primi mesi di detenzione, molto probabilmente a causa dell'impatto traumatico contro la durezza della vita dietro le sbarre, e la stragrande maggioranza di vittime con condanne lievi, spesso con la prospettiva di uscire a breve dal carcere.
[...]

A cura di Francesca Del Boca

domenica 12 febbraio 2023

Jihadismo in Africa, emarginazione e povertà cause decisive che spingono i giovani a unirsi a gruppi terroristici

La Repubblica
Uno studio dell’Undp, il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, riportato da Nigrizia, individua difficoltà economiche e impossibilità di inserimento in contesti lavorativi come cause che spingono i giovani ad unirsi ai gruppi jihadisti armati.


Che hanno contato su un aumento del 92% di nuove reclute nel 2021. Insomma, nel caso ancora persistesse la convinzione che il fattore principale dell’adesione a gruppi terroristici sia la religione e il fondamentalismo religioso, questa analisi delle Nazioni Unite mostra invece come siano soprattutto altri fattori a determinare il coinvolgimento, soprattutto dei giovani, in gruppi armati. Parliamo di Viaggio nell’estremismo in Africa, un lavoro cominciato nel 2017 e che nella nuova e aggiornata edizione appena pubblicata mostra le reali motivazioni che spingono i giovani subsahariani a scegliere la strada della violenza.

L’emarginazione produce radicalismo islamico. L’estremismo violento nell’Africa subsahariana ha raggiunto punte record, tanto che l’area è ormai considerata l’epicentro del radicalismo islamista violento con quasi la metà delle morti per terrorismo a livello mondiale (48%) registrate nel 2021. Ma il fattore trainante non è, come dicevamo, la convinzione religiosa. Solo il 17% ha infatti identificato la religione come fattore chiave - una diminuzione del 57% rispetto ai risultati del 2017 -, e solo il 6% ha indicato l’influenza degli capi religiosi. Il pull factor è piuttosto l’emarginazione sociale e la difficoltà (se non l’impossibilità) di inserirsi in un contesto lavorativo. Difficoltà economiche (personali e del paese in cui si vive), marginalità sociale, situazioni familiari di degrado e mancanza di attenzione, sono i motivi che non lascerebbero a molti giovani alcuna speranza.

Mancanza di reddito e opportunità di lavoro. E sono tutti motivi che li rendono possibili vittime di reclutamento dei gruppi armati. E se dal rapporto risulta che ci sia stata una diminuzione del 57% nel numero di persone che si uniscono a gruppi estremisti per motivi religiosi, nel contempo si è registrato un aumento del 92% delle nuove reclute attirate dalla garanzia di un guadagno e migliori mezzi di sussistenza. Tutto questo sarebbe peggiorato nel periodo della pandemia e delle misure di isolamento, dal picco dell’inflazione che ha colpito praticamente in tutti i paesi subsahariani, ma anche dagli effetti e dalle crisi provocate dal cambiamento climatico. La mancanza di reddito, di opportunità di lavoro e mezzi di sussistenza, portano alla disperazione ed è questa - ha affermato Achim Steiner dell’Undp, “che sta essenzialmente spingendo le persone a cogliere qualsiasi opportunità, chiunque sia ad offrirle”.

L’indagine in otto Paesi africani. Secondo il rapporto - che si basa su interviste a 2.200 persone in Burkina Faso, Camerun, Ciad, Mali, Niger, Nigeria, Somalia e Sudan - circa il 25% dei giovani che hanno risposto alla chiamata di gruppi jihadisti ha citato la mancanza di opportunità di lavoro come motivo principale, mentre circa il 40% ha affermato di avere “urgente bisogno di mezzi di sussistenza”. Insomma un mix tossico di povertà, indigenza, mancanza di lavoro e di prospettive future. Gli intervistati provengono da vari gruppi armati che operano in tutto il continente. Tra questi Boko Haram in Nigeria, al-Shabaab in Somalia e, ancora in Africa occidentale, Gruppo di sostegno all’islam e ai musulmani (Gsim), alleato del gruppo Stato islamico.

Le campagne militari sono state un fallimento. Nelle pagine del report si legge che dal 2017 sono stati documentati almeno 4.155 attacchi in tutta l’Africa. Attacchi che hanno provocato 18.417 morti. In Somalia il maggior numero delle vittime. Pochi, infatti, i progressi in questo paese nonostante le campagne militari e quella che il governo somalo sta attualmente portando avanti contro al-Shabaab che domina la regione da più di un decennio. Il fatto è che le campagne antiterrorismo, spesso con l’aiuto e la partecipazione di militari stranieri o di operazioni di paesi europei e supportati dall’Onu, non hanno sortito grandi effetti, ma anzi hanno esasperato la situazione e aumentato i sentimenti anti-occidentali.

Gli effetti dannosi dei militari stranieri. Ci sono da considerare, ad esempio, le operazioni a guida francese Barkhane e Takuba, in Mali. Dopo anni le truppe sono state costrette al ritiro lasciando la situazione sul campo più critica di quanto fosse al loro arrivo. L’ondata di estremismo in Africa ovviamente non ha solo un impatto negativo sulla vita, sulla sicurezza e sulla pace, ma minaccia anche di invertire e vanificare i successi e lo sviluppo conquistati a fatica in questi anni. Continuare ad impegnare le forze militari non si è dimostrata, dunque, la risposta migliore. Anzi, tale approccio finisce per esacerbare le situazioni e a farne le spese sono soprattutto i civili. Le operazioni antiterrorismo - si sottolinea - oltre ad essere costose risultano poco efficaci e, nella maggior parte dei casi, controproducenti.

L’ovvio sarebbe ricreare relazioni di fiducia Stato-cittadini. Azioni ovvie sarebbero quelle di ricreare una relazione di fiducia tra lo Stato e i cittadini e, soprattutto, creare condizioni sociali che diano ai giovani opportunità di esprimersi e di emergere. Oltretutto, dal rapporto emerge anche che circa il 71% di coloro che si sono uniti a gruppi estremisti - a volte convincendo anche le loro donne a farlo - sono stati influenzati e hanno personalmente vissuto violazioni dei diritti umani da parte delle forze di sicurezza statali, come l’uccisione o l’arresto di membri della famiglia.

Come emerge la brutalità dei gruppi. Violazioni e violenze a cui hanno assistito e che poi hanno a loro volta messo in pratica. Emerge così, che la brutalità dei gruppi estremisti non è altro che l’altra immagine di un sistema che alla giustizia antepone la forza e che vuole combattere la rabbia e la frustrazione di questi giovani con il pungo di ferro, ma senza venire a capo delle ragioni che stanno seminando tanta insicurezza nei paesi subsahariani. Infine, un aspetto su cui si concentra il report è la necessità di mettere in atto ogni tipo di azione - soprattutto intervenendo attraverso le comunità locali - per portare fuori questi ragazzi dai gruppi a cui hanno aderito dando loro fiducia, opportunità, percorsi sostenibili di crescita e di lavoro. Pare, infatti, che la maggior parte dei ragazzi che rinnega la partecipazione a questi gruppi non vi faccia più ritorno.

Antonella Sinopoli - Nigrizia

sabato 11 febbraio 2023

Mary Lawlor (Onu): l’Italia criminalizza i difensori dei diritti umani impegnati in missioni di salvataggio in mare

Greenport.it
Le nuove norme italiane sulle ONG sono incompatibili con gli obblighi dell'Italia derivanti dal diritto internazionale e devono essere abrogate


Mary Lawlor, relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei difensori dei diritti umani, professoressa di affari e diritti umani al Trinity College di Dublino. fondatrice di Front Line Defenders, ed ex direttrice e presidente dell’ufficio irlandese di Amnesty International, ha condannato «La criminalizzazione e la repressione dei difensori dei diritti umani coinvolti in ONG per il salvataggio in mare in Italia».

In una dichiarazione sostenuta anche da Felipe González Morales, relatore speciale sui diritti umani dei migranti dell’Onu e professore di Diritto internazionale all’Universidad Diego Portales di Santiago del Cile, la Lawlor denuncia che «I procedimenti in corso contro i difensori dei diritti umani delle ONG di ricerca e soccorso sono una macchia che oscura l’Italia e l’impegno dell’Ue per i diritti umani».

La relatrice speciale dell’Onu ha ricordato che «Nel maggio 2022 presso il Tribunale di Trapani è stato aperto un procedimento penale preliminare contro 21 persone – tra cui quattro membri del team di ricerca e soccorso della Iuventa , e difensori dei diritti umani di altre imbarcazioni civili – per presunta collaborazione con trafficanti di esseri umani. Sono accusati di favoreggiamento dell’immigrazione illegale in relazione a diverse missioni di salvataggio condotte nel 2016 e nel 2017. Prima del suo sequestro nel 2017, la nave Iuventa era stata coinvolta nel salvataggio di 14.000 persone in pericolo in mare. Sono stati criminalizzati per il loro lavoro sui diritti umani. Salvare vite non è un crimine e la solidarietà non è contrabbando».

Secondo la Lawlor, «Il procedimento è stato afflitto da violazioni procedurali, tra cui la mancata fornitura di un’adeguata traduzione con interpreti per gli imputati non italiani e la mancata traduzione di documenti chiave».

Il 19 gennaio, la Presidenza del Consiglio dei ministri e il ministero dell’interno italiani hanno presentato istanza di costituzione di parte civile in giudizio, chiedendo il risarcimento dei danni che si asseriscono cagionati dai presunti reati ma la Lawlor fa notare che «Gli Stati che rispettano i diritti umani promuovono il lavoro dei difensori dei diritti umani. La decisione del governo di cercare di unirsi al caso va direttamente contro questo principio: è un segnale molto inquietante».

Nella dichiarazione, la relatrice speciale irlandese dell’Onu sottolinea che «Il procedimento contro l’equipaggio della Iuventa è proseguito sullo sfondo delle nuove restrizioni imposte dalle autorità italiane alla ricerca e al soccorso dei civili. Dal dicembre 2022, le navi delle ONG sono state costantemente istruite a sbarcare le persone soccorse nei porti dell’Italia settentrionale e centrale, a diversi giorni di distanza dai siti di soccorso nel Mar Mediterraneo centrale. La pratica è stata accompagnata da nuove norme per la ricerca e soccorso civile introdotte dal decreto legislativo 2 gennaio 2023. In base alle nuove regole, ai capitani delle ONG è di fatto impedito di effettuare più soccorsi nel corso di una missione e devono navigare verso il porto indicato di sbarco senza indugio, pena pesanti sanzioni».

La Lawlor conclude: «La nuova legislazione e le istruzioni sui porti di sbarco stanno ostacolando le attività essenziali delle navi di soccorso civile. Stanno ampliando il gap di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo centrale, mettendo a ulteriore rischio vite e diritti. La norma è incompatibile con gli obblighi dell’Italia derivanti dal diritto internazionale e deve essere abrogata».

La relatrice speciale dell’Onu si è impegnata ad esprimere le sue preoccupazioni alle autorità italiane.