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domenica 31 maggio 2015

Siria - Sale a 75 il numero dei morti nei bombardamenti di Aleppo con barili bomba

Internazionale
Sale a 75 il numero dei morti causati dall’esplosione di barili bomba ad Aleppo, in Siria. Secondo fonti mediche e quanto riportato dall’ong vicina ai ribelli siriani, l’Osservatorio siriano per i diritti umani, i barili bomba sarebbero stati sganciati in due diversi episodi dagli elicotteri dell’esercito siriano. 

I barili bomba sono contenitori pieni di esplosivo, proiettili, ferraglia, chiodi e combustibili lanciati da elicotteri, che producono effetti devastanti. Secondo alcuni testimoni il regime siriano ha fatto ampio uso di queste armi, ma Bashar al Assad lo ha sempre negato. L’uso dei barili bomba è vietato dal diritto internazionale.

Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, un barile bomba ha colpito un quartiere controllato dai ribelli ad Aleppo, uccidendo almeno venti persone. Mentre in un secondo attacco contro un mercato nella città di Al Bab, a quaranta chilometri da Aleppo, sarebbero morte almeno 55 persone. Al Bab è controllata dal gruppo jihadista Stato islamico.

Svizzera: due nuove prigioni per i richiedenti asilo che devono lasciare il paese

rsi.chConfederazione e cantoni vogliono creare tra i 500 e i 700 nuovi posti in due nuove strutture carcerarie riservate soprattutto a richiedenti l'asilo che non hanno ottenuto il permesso di rimanere in Svizzera. Ciò anche alla luce della riforma nell'ambito della politica d'asilo con l'accelerazione dell'esame delle procedure.
Il progetto, riferisce la trasmissione della SRF "10vor10", in cantiere da un paio d'anni, ha registrato una decisa accelerazione negli scorsi giorni allorquando i direttori di Giustizia di nove cantoni (Berna, Argovia, Soletta, Lucerna, Obvaldo, Nidvaldo, Zugo, Uri e Svitto) hanno deciso di sostenere la realizzazione delle due nuove strutture. 

Uno dei nuovi carceri dovrebbe quindi sorgere a Stans in canton Nidvaldo. La seconda struttura è prospettata a cavallo tra i cantoni Argovia e Soletta nella zona di Härkingen/Oftringen. Il costo delle due nuove carceri è stimato in circa 125 milioni di franchi, il 75% a carico della Confedrazione, i restanti circa 30 milioni sarebbero finanziati dai novi cantoni che sostengono il progetto che dovrebbe essere realtà entro 5 anni.

Sri Lanka: ancora violazioni dei diritti umani nel Tamil sei dopo la fine della guerra

MISNA
Lo Sri Lanka continua a violare i diritti umani delle minoranze religiose ed etniche, anche sei anni dopo la fine della lunga guerra che ha portato alla sconfitta delle Tigri di Liberazione del Tamil Eelam (Ltte). 

Lo afferma un nuovo rapporto indipendente, pubblicato dal centro studi californiano Oakland Institute. Intitolato “La lunga ombra della guerra: lotta per la giustizia nel dopo-guerra dello Sri Lanka”, lo studio sottolinea che la tradizionale patria dei tamil è ancora sotto pesante occupazione militare, con circa 160.000 soldati per lo più cingalesi, uno per ogni sei civili tamil.

In questi ultimi anni, secondo i dati raccolti dai ricercatori tra il gennaio 2014 e l’aprile 2015, nella regione tamil l’esercito dello Sri Lanka ha avviato progetti di sviluppo immobiliare su larga scala, realizzando opere in località turistiche di lusso e progetti imprenditoriali su terreni sequestrati alle popolazioni locali, mentre migliaia di famiglie tamil si trovano ancora sfollate sulla propria terra. “La cultura e la storia della popolazione Tamil sono stati sistematicamente soppressi dalla volontà del governo di creare monumenti della vittoria e templi buddisti (anche oggi i buddisti sono pochi nella zona) che parlano della dominazione singalese sulle rovine della patria tamil.

Nonostante le ripetute affermazioni del neo-presidente Maithripala Sirisena che ha fatto della riconciliazione nazionale una priorità del suo programma, il suo governo sta trovando difficoltà a ridurre la presenza militare nella regione del nord, dove i tamil vivono in gran numero, anche a causa del permanere di una “vecchia mentalità” sulle questioni relative alla sicurezza.

Sulla garanzia data da Sirisena, lo scorso gennaio, sul rilascio di tutti i prigionieri politici, il rapporto afferma che dal 2009 l’assenza di dati ufficiali sul numero di detenuti tamil continua a tormentare le famiglie dei dispersi. Il governo stima che circa 300 persone sono detenuti senza accusa sotto il Decreto sulla prevenzione del terrorismo ma i leader tamil offrono cifre molto diverse.

sabato 30 maggio 2015

Scontro Nazioni Unite Birmania sui profughi Rohingya. Concedere la cittadinanza. Sono 2621 ancora alla deriva

Internazionale
La Birmania si è scontrata con le Nazioni Unite durante un vertice in corso a Bangkok, la capitale della Thailandia, sulla crisi umanitaria dei profughi rohingya nel mar delle Andamane e nel golfo del Bengala.


L’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) ha chiesto alla Birmania di concedere la cittadinanza alla minoranza musulmana rohingya, vittima di discriminazioni e persecuzioni, per eliminare alla radice la causa dell’esodo di migliaia di rohingya che si affidano ai trafficanti di uomini per fuggire dalla Birmania. 

Ma il ministro degli esteri birmano Htin Lynn ha risposto dicendo: “Su questa questione del traffico illegale di esseri umani non potete dare la colpa esclusivamente al mio paese”. Precedentemente Volker Turk, delegato dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, aveva detto che la crisi umanitaria dei migranti non può essere risolta se “la Birmania non si assume la responsabilità di tutte queste persone, garantendo loro la cittadinanza, come ultimo obiettivo”.

Secondo l’Unhcr, sono almeno 2.621 i migranti birmani e bangladesi ancora alla deriva su imbarcazioni in difficoltà nel mare delle Andamane, soprattutto al largo delle coste della Malesia. Mentre altri 3.600 rohingya e migranti dal Bangladesh sono arrivati sulle coste di Indonesia, Malesia e Thailandia dal 10 maggio.

Kenya - Per aumento delle violenze Msf costretta a evacuare personale da campo rifugiati di Dadaab

Vita
Medici senza Frontiere lancia un appello ai gruppi armati affinché garantiscano il rispetto delle strutture mediche. La decisione di ridurre il personale nata dall'escalation di violenze nella provincia nord-orientale del Kenya. Il campo ospita 350mila rifugiati per lo più somali
Evacuati 42 operatori di Medici senza Frontiere dal campo rifugiati di Dadaab a Nairobi.L’organizzazione medico umanitaria è stata spinta a questa decisione dall’escalation di violenze e minacce nella provincia nord-orientale del Kenya. Questa misura cautelare ha già avuto un impatto diretto sulla capacità di Msf di fornire assistenza medica ai rifugiati di Dadaab in prevalenza somali.

Msf lavora a Dadaab da 20 anni ed è attualmente l'unica organizzazione a fornire cure mediche nel campo di Dagahaley uno dei cinque campi che compongono il complesso di Dadaab, dove gestisce un ospedale da 100 posti letto e due centri sanitari, diretti e gestiti da personale keniota.

Due delle quattro postazioni sanitarie di Msf sono state chiuse, l’assistenza prenatale nell’ospedale è stata sospesa, e altri servizi medici rischiano di essere compromessi dalla drastica riduzione del personale.

«I rifugiati e il personale medico stanno pagando il prezzo più alto del peggioramento delle condizioni di sicurezza», spiega Charles Gaudry, capo missione di Msf in Kenya. «L'attuale situazione sta gravemente limitando la capacità delle nostre équipe mediche di fornire aiuti umanitari alle persone che più hanno bisogno».

Msf lancia un appello ai gruppi armati affinché garantiscano il rispetto delle strutture mediche, dei pazienti e del personale in modo da poter riprendere tutte le attività al più presto.
Sono circa 350mila le persone ospitate a Dadaab, il più grande campo rifugiati al mondo. Per oltre 20 anni, è stata la casa per generazioni di somali fuggiti da un paese martoriato dal conflitto.

L'assistenza umanitaria nei campi si è ridotta negli ultimi anni a causa della crescente insicurezza e dei minori finanziamenti ricevuti da molte organizzazioni umanitarie. Ciononostante - sottolinea in una nota Msf -, Dadaab rimane un rifugio più sicuro della Somalia.

Mediterraneo, 4 mila migranti soccorsi nelle ultime ore. Trovati 17 morti nelle imbarcazioni

Redattoe Sociale
Non sono vittime di un naufragio: i loro corpi senza vita trovati a bordo dei barconi soccorsi, forse morti di stenti o per la grande calca. In acqua anche unità navali europee. Sul sistema delle quote Ue arriva il giudizio negativo del Vaticano: “Poco umano, ci vuole un programma”
Roma – Ancora morti in mare, ma stavolta sulle imbarcazioni e non in acqua. Diciassette le persone morte che gli uomini della nave “Fenice” della Marina militare hanno trovato su vari natanti in difficoltà e alla deriva al largo delle coste libiche. Si trattava di nove barconi e tredici gommoni, a bordo dei quali sono state soccorse 217 migranti e recuperati i cadaveri di altri 17. Non si è trattato dunque di un naufragio, ma le persone – secondo le prime informazioni – potrebbero essere morte di stenti o forse soffocate o calpestate a causa del sovraffollamento a bordo dei barconi. Nelle ultime ore sono state complessivamente diciassette operazioni di soccorso, sotto il coordinamento del centro nazionale di soccorso della Guardia costiera, che ha portato al salvataggio di circa 4 mila persone. 

Le richieste di aiuto sono state effettuate da telefoni satellitari e le unità impegnate nei soccorsi fanno capo alla Guardia costiera, alla Marina militare italiana, alla Guardia di finanza, ma anche alle marine militari irlandese e tedesca, inquadrate nel dispositivo Triton. Anche alcuni mercantili sono stati dirottati nel luogo dei soccorsi dal centro nazionale di soccorso.

Frattanto, il cardinale Antonio Maria Vegliò, presidente del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, alla Radio Vaticana ha definito non umano il sistema della ripartizione dei rifugiati tra i Paesi della Ue secondo quote: "L'Europa – ha affermato - non ha mai avuto un programma. Adesso hanno fatto le quote per i rifugiati e io trovo questa decisione veramente poco umana e poco cristiana. L'immigrazione è un problema che bisogna affrontare non nell'emergenza: bisogna avere un programma. E' una realtà che c'è e ci sarà sempre di più. Quali sono le cause delle immigrazioni e le cause dei rifugiati? Per le migrazioni, la povertà. Per i rifugiati, le guerre. Finché ci saranno povertà e guerre nulla cambierà". Anche papa Francesco ha nuovamente fatto riferimento alle tragedie del mare Mediterraneo: incontrando l’associazione Scienza & Vita ha parlato dei tanti attacchi al valore della vita affermando che “è un attentato alla vita lasciar morire i nostri fratelli sui barconi nel Canale di Sicilia".

Papa Francesco incontra i figli dei detenuti: "non smettete di sognare per combattere l'infelicità"

La Repubblica
Bergoglio ai figli dei detenuti: "Non smettete di sognare". Papa Francesco ha incontrato i figli di detenuti e detenute arrivati oggi in Vaticano con il Treno dei Bambini. 


Un dialogo di una ventina di minuti nell'androne della Sala Nervi. "Adesso vi rivolgo una domanda difficile - ha detto il Papa - una ragazza che non riesce a sognare, com'e?". Quasi in coro i bambini seduti per terra davanti a lui hanno risposto: "Infelice". "Infelice - ha ripetuto il Papa - perché sognare fa aprire le porte della felicità mentre chi non sogna ha il cuore chiuso. E com'è il cuore chiuso?", ha domandato. Alcuni hanno risposto "di ghiaccio", altri "di pietra". Quindi il Papa ha chiesto: "Quando è che un cuore è di ghiaccio o di pietra?". Alcuni hanno risposto "quando si viene delusi", altri "quando non sogniamo o non preghiamo". Poi una bambina ha detto: "Quando non ascoltiamo la Parola di Dio e di Gesù". A questo punto il Papa l'ha chiamata e ha detto: "Tu hai detto una cosa bella, sei stata brava, ripetiamola: non smettete mai di sognare e di ascoltare la Parola di Gesù, perché Gesù allarga il cuore e ama tutti". 

Al Papa sono stati quindi consegnati diversi regali tra cui braccialetti fatti in carcere dalle madri dei detenuti, aquiloni, disegni. Quindi il Papa si è alzato per salutare uno per uno i bambini con i loro accompagnatori e familiari e ha ricevuto l'abbraccio di tanti di loro così come moltissime richieste di farsi un selfie con lui. L'incontro si è concluso con la preghiera del Padre Nostro e la benedizione del Papa.

Papa Francesco: "attentato alla vita lasciar morire i nostri fratelli sui barconi nel Canale di Sicilia"

La Repubblica
Il Pontefice incontra l'associazione Scienza & Vita. "Una società giusta riconosce come primario il diritto alla vita dal concepimento al suo termine naturale. Aborto, morte sul lavoro, denutrizione, terrorismo, guerra ed eutanasia" facciano riflettere la comunità scientifica: "Sia al servizio dell'uomo, non l'uomo al servizio della scienza"

Città del Vaticano - E' un "attentato alla vita lasciar morire i nostri fratelli sui barconi nel Canale di Sicilia". E' la denuncia di papa Francesco nel corso dell'udienza ai partecipanti all'incontro promosso dall'Associazione Scienza & Vita, nella Sala Clementina, a cui si unisce l'affondo del cardinale Antonio Maria Vegliò, presidente del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, che alla Radio Vaticana definisce "non umano" il sistema della ripartizione dei rifugiati tra i Paesi della Ue secondo quote: "L'Europa - rincara il cardinale - non ha mai avuto un programma. Adesso hanno fatto le quote per i rifugiati e io trovo questa decisione veramente poco umana e poco cristiana. L'immigrazione è un problema che bisogna affrontare non nell'emergenza, bisogna avere un programma. E' una realtà che c'è e ci sarà sempre di più. Quali sono le cause delle immigrazioni e le cause dei rifugiati? Per le migrazioni, la povertà. Per i rifugiati, le guerre. Finché ci saranno povertà e guerre nulla cambierà".

"Il grado di progresso di una civiltà si misura proprio dalla capacità di custodire la vita, dal concepimento al suo termine naturale, soprattutto nelle sue fasi più fragili, più che dalla diffusione di strumenti tecnologici" ha detto il Papa ricevendo in udienza l'associazione. Per questo "è attentato alla vita la piaga dell'aborto, è attentato alla vita lasciar morire i nostri fratelli sui barconi nel canale di Sicilia, è attentato alla vita la morte sul lavoro perché non si rispettano le minime condizioni di sicurezza, è attentato alla vita la morte per denutrizione, il terrorismo, la guerra, la violenza. Ma anche l'eutanasia".

"Amare la vita - ha ricordato il Papa - è sempre prendersi cura dell'altro, volere il suo bene, coltivare e rispettare la sua dignità trascendente. Riconoscendo il valore inestimabile della vita umana, dobbiamo anche riflettere sull'uso che ne facciamo. La vita è innanzitutto dono. Ma questa realtà genera speranza e futuro se viene vivificata da legami fecondi, da relazioni familiari e sociali che aprono nuove prospettive". "Quando parliamo dell'uomo - ha scandito Bergoglio, rivolgendosi idealmente a tutta la comunità scientifica -, non dimentichiamo mai tutti gli attentati alla sacralità della vita umana. E' una sfida impegnativa, nella quale vi guidano gli atteggiamenti dell'apertura, dell'attenzione, della prossimità all'uomo nella sua situazione concreta".

"Per questo - ha concluso il Pontefice - vi invito a mantenere alto lo sguardo sulla sacralità di ogni persona umana. La scienza sia veramente al servizio dell'uomo, e non l'uomo al servizio della scienza - l'esortazione del Pontefice -, il miracolo della vita sempre mette in crisi qualche forma di presunzione scientifica, restituendo il primato alla meraviglia e alla bellezza". Mentre, "quando il sapere dimentica il contatto con la vita, diventa sterile".

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venerdì 29 maggio 2015

Corridoi umanitari per i rifugiati. Parte a breve il progetto Marocco di FCEI e Sant'Egidio

NEV
Espressioni di apprezzamento per "Mediterranean Hope" da chiese in Europa

Roma - In Marocco partirà a breve il progetto degli "Humanitarian Desk" copromosso dalla Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI) nell'ambito del suo programma "Mediterranean Hope" e dalla Comunità di Sant'Egidio. Si tratta di un progetto pilota per l'istituzione di corridoi umanitari, indirizzato a profughi particolarmente vulnerabili, che vogliano avanzare una richiesta di asilo in Europa.
Una delegazione congiunta FCEI-Sant'Egidio nel paese Nordafricano con lo scopo di consolidare i rapporti intessuti in loco con i partner ecumenici del progetto, e per mettere a punto i dettagli tecnici e diplomatici. Il progetto, finanziato dall'otto per mille delle chiese metodiste e valdesi e dalla Comunità Sant'Egidio, giuridicamente si rifà al Codice comunitario dei visti, che all'art. 25 prevede la possibilità di concedere visti “per motivi umanitari o di interesse nazionale o in virtù di obblighi internazionali”, in deroga alle condizioni generali di ingresso.

Sono previsti due sportelli umanitari, uno a Tangeri, l'altro a Rabat. "Le ambasciate avranno un ruolo fondamentale con il compito di ricevere le richieste e riconoscere dei visti in regime di protezione umanitaria - spiega Massimo Aquilante, presidente della FCEI, a capo della delegazione ecumenica insieme a Daniela Pompei di Sant'Egidio -. Una volta ottenuto il visto, il soggetto richiedente potrà imbarcarsi su un vol

o regolare e, all’arrivo in Italia, richiedere asilo". Senza la pretesa di risolvere l’annosa questione delle stragi in mare e del business degli scafisti, la proposta assume un significato politico: “La nostra è una proposta immediatamente praticabile e a costo zero per lo Stato. E con il contributo di 500mila euro dell'otto per mille valdese, sicuramente assai meno onerosa di Triton”, ha sottolineato Paolo Naso della Commissione studi della FCEI, membro della delegazione.

E intanto dall'Europa, alcune chiese hanno espresso apprezzamento per l'impegno della FCEI su questo fronte. Per la presidente della Chiesa evangelica della Westfalia (EKvW), pastora Annette Kurschus - convinta che ai profughi vadano garantiti passaggi sicuri e legali dall'Africa verso l'Unione Europa - quello dei corridoi umanitari è "un progetto che può essere preso a modello da altri stati europei". Mentre il recente Sinodo della Chiesa protestante unita di Francia (EPUdF), nella discussione in aula sul tema delle migrazioni, ha fatto cenno proprio al progetto FCEI "Mediterranean Hope", operativo da un anno a Lampedusa con un osservatorio sulle migrazioni mediterranee, e a Scicli (RG) con una "Casa delle culture", e ora anche in Marocco.

Pakistan: altre 7 esecuzioni, sul patibolo anche 3 responsabili di un dirottamento aereo

Aki
Altre sette persone, fra le quali anche tre prigionieri responsabili nel 1998 del dirottamento di un volo della Pia, sono state impiccate in Pakistan, dove solo questa settimana sono state eseguite almeno 20 condanne a morte. Lo riferiscono i media locali.
Il 24 maggio di 17 anni fa i tre tentarono di dirottare un volo partito da Turbat e diretto a Karachi con 38 persone a bordo, intimando al pilota di raggiungere l'India. L'obiettivo era costringere il governo pakistano a rinunciare al progetto di test nucleari in Baluchistan dopo gli esperimenti dell'India, ma il piano dei tre fallì, il pilota riuscì ad atterrare a Hyderabad, i tre vennero arrestati e il 28 maggio del 1998 vennero effettuati i test nel Baluchistan.

I tre, si legge sul giornale pakistano Dawn, sono saliti sul patibolo in due diverse prigioni di Karachi e Hyderabad. Altri quattro prigionieri, condannati a morte per omicidio, sono stati impiccati oggi a Sahiwal, Haripur, Sargodha e Karachi. Secondo dati del ministero dell'Interno di Islamabad, nel braccio della morte in Pakistan ci sono almeno 8.000 detenuti. Dopo il sanguinoso attacco dello scorso dicembre contro una scuola di Peshawar, in cui sono rimaste uccise 150 persone (per lo più bambini), le autorità pakistane hanno deciso la revoca della moratoria sulla pena di morte per i sospetti terroristi. A marzo, poi, è stata annunciata la revoca totale della moratoria.

Libia, condizioni penose per i migranti nei centri di detenzione: "meglio tornare a casa"

AKI
Mesi in un centro di detenzione per migranti illegali hanno fatto sì che, per molti, si infrangesse il sogno di raggiungere l'Europa scegliendo piuttosto quello di "tornare a casa". Lo raccontano alcuni degli uomini che hanno tentato di lasciare la Libia sperando in una vita migliore in Europa e che hanno incontrato maltrattanti e abusi nei centri di detenzione del Paese nordafricano.
"Non voglio più andare in Europa, voglio solo tornare a casa" racconta uno di loro, Charles, all'agenzia dell'Onu Irin. Dopo aver attraversato il deserto del Sahara, dopo aver subito violenze da parte dei contrabbandieri, i migranti che riescono a raggiungere la Libia rischiano l'arresto e un lungo periodo di detenzione in uno dei 20 centri ufficialmente riconosciuti nel Paese. Uno di questi, il centro Krareem, si trova alla periferia di Misurata e detiene oltre 1.100 migranti.

"Qui ci sono centinaia di persone e alcuni di loro sono stati picchiati", racconta Abu, 24 anni, proveniente dalla Somalia. "Nei nostri Paesi si combatte per cui ce ne siamo andati in cerca di un futuro migliore, ma qui va molto male, le nostre vite sono state spente. Aiutateci per favore", aggiunge. Una delle guardie carcerarie spiega che il centro di Krareem è sovraffollato, per cui 219 uomini e 31 donne sono stati trasferiti in un altro alla periferia di Tripoli.

"Spesso spariamo in aria per mantenere il controllo", racconta il responsabile del centro di detenzione, Mohamed Ahmed al-Baghar, che parla di 34 guardie incaricate di gestire più di mille e cento migranti. "È un centro piccolo, per cui ho mandato molte persone ad altri centri. La situazione peggiora perché continuano ad arrivare immigranti irregolari", spiega.

"La situazione qui è molto dura. Ci sono scontri ogni giorno per usare il bagno, perché ogni giorno centinaia di persone usano gli stessi servizi", spiega Alaji, 25 anni dal Gambia, detenuto da cinque mesi. "Ci picchiano con le catene - spiega Alaji - Ieri qualcuno ha provato a fuggire, così ci hanno picchiato tutto il giorno".

Molti migranti sono costretti a fare lavori duri. "Ci usano come asini da lavoro. Potrebbe usare le macchine, ma usano esseri umani. E se ci lamentiamo, ci picchiano. Ci trattano come criminali", spiega Alaji, che per sei mesi ha lavorato a Tripoli come pittore e decoratore prima di essere arrestato perché senza documenti. Solo un piccolo numero di detenuti è tornato a casa con un programma di rimpatrio volontario gestito dall'Organizzazione internazionale per le migrazioni, ora attivo in Tunisia, in collaborazione con alcuni governi dei Paesi d'origine. Ma si parla di sole 400 persone rimpatriate in questo modo dal luglio 2014.

giovedì 28 maggio 2015

Burundi: 70 mila rifugiati in Tanzania - Allarme Oxfam, servono più aiuti per gestire l'accoglienza

ANSA
Roma - L'esodo di 70.000 rifugiati dal Burundi alla Tanzania sta mettendo a dura prova le capacità del governo e delle associazioni umanitarie di rispondere all'emergenza. 


"I profughi sono distrutti dalla sete e dalla fatica e molti di loro sono malati. Si contano già migliaia di casi di colera - spiega in una nota la responsabile Africa di Oxfam Italia, Silvia Testi - Hanno bisogno di acqua potabile, cibo e un riparo. Oxfam è pronta a incrementare la sua risposta, ma servono maggiori aiuti".

L'immigrato-eroe che salva un turista caduto nell'Arno rischia l'espulsione. L'appello al prefetto di Firenze

Tiscali News
Venerdì scorso Toufik Chtouki, 28 anni, immigrato irregolare marocchino, si è gettato nell'Arno per salvare la vita di un turista francese
"Sei un eroe", gli hanno gridato venerdì scorso decine di fiorentini affacciati sull'Arno. Poco prima Toufik Chtouki, 28 anni, immigrato irregolare marocchino, si era gettato nel fiume e aveva salvato la vita di un turista venticinquenne francese che, mentre scattava una foto, era caduto in acqua. 

Ma adesso l'eroe Toufik rischia di essere espulso. E', appunto, un irregolare. E ha anche un piccolo precedente per spaccio di stupefacenti. La sua sorte è nelle mani del prefetto di Firenze al quale, poco fa, è stato lanciato un appello tramite Charge.org.
Succede proprio nel giorno in cui la Commissione europea decide sulle "quote" (anche se si preferisce non chiamarle così) di rifugiati da distribuire tra i Paesi dell'Unione. "Quote" nelle quali Toufik e tutti quelli nella sua condizione non possono rientrare e non rientreranno mai. Si tratta, infatti, di persone che non hanno alcun titolo per poter essere riconosciute come rifugiati.
Toufik non fuggiva da alcuna guerra quando quattro anni fa giunse in Italia dopo aver raggiunto l'Europa sbarcando da una carretta del mare approdata in Grecia. Cercava, come ha spiegato, "una vita normale, senza miseria". E anche la possibilità immediata di guadagnare un po' di soldi da inviare a Kelaa des Sraghna, una città a 70 chilometri da Marrakech, dove vivono il padre, la madre e quattro fratelli più piccoli. 

Arrivato a Firenze ha cominciato ad arrangiarsi col commercio ambulante, vendendo selfie stick, poster e ombrelli ai turisti. E, in un'occasione, violando la legge. "Ho sbagliato - ha ammesso - ma a volte si sbaglia per fame".
Dopo essersi buttato nell'Arno, Toufik ha raggiunto il ragazzo francese, l'ha afferrato e l'ha portato in salvo, fino a un pilone dove assieme hanno atteso l'arrivo dei vigili del fuoco. Sono anche arrivati i carabinieri che gli hanno stretto la mano, si sono complimentati. Ma poi, perché la legge è legge, l'hanno condotto in caserma dove è risultato che l'eroe non aveva le carte in regola. In casi come questi l'espulsione è automatica.

Una vicenda imbarazzante. Una dimostrazione emblematica del fatto che, a volte, l'applicazione della legge non corrisponde alla giustizia sostanziale. Ma forse, in un caso del genere, il prefetto può trovare una scappatoia. Ed è quanto chiede l'appello. "Il gesto di questo ragazzo – sostengono i suoi autori - non deve passare inosservato: al di là dell'eroismo dimostrato, la sua azione può servire a rappacificare i cuori in questi giorni di grandi problemi relativi ai flussi migratori. Come si è visto in questo caso, conta sempre l'uomo e non la nazionalità. Diamogli una possibilità per ricominciare".

La morte di Paula Cooper - Il ricordo degli amici della Comunità di Sant'Egidio

Blog - Città per la vita - Comunità di Sant'Egidio

Il ricordo della nostra amica Paula Cooper che ci ha lasciato
Al storia di amicizia con Paula Cooper ci spinge a ricordarla con grande affetto, assieme a tutti coloro che le hanno voluto bene come Bill Pelke.
La tragica notizia è arrivata nella serata di martedì 26 maggio, dai nostri amici di Indianapolis che la aiutavano da quando era uscita dal carcere due anni fa. La polizia sta indagando sulle cause della sua morte.

Due anni fa Paula era uscita dal carcere dopo quasi 30 anni ed aveva iniziato una nuova vita. Aveva un lavoro che le piaceva e di cui era orgogliosa, una casa tutta sua, che non aveva mai avuto. Certo le difficoltà non mancavano. Non è facile reinserirsi dopo tanti anni di reclusione, durante i quali aveva studiato, si era laureata.Il suo sogno era quello di avere una vita normale, una famiglia. E voleva anzitutto "sparire" dalla circolazione. Non voleva che i giornali ritirassero fuori il suo caso, come invece avevano ricominciato a fare da un po' di tempo, da quando si parlava della sua liberazione.
La storia di Paula si è incredibilmente intersecata e legata a quella di diverse persone della Comunità di Sant'Egidio in maniera inattesa, particolarmente negli ultimi 3 anni, ma anche da molto prima. Da quando il mondo, ed in particolare l'Italia, si mobilitò per salvarla, nel 1985. La sua vicenda venne a scuotere l’opinione pubblica in Europa, in un mondo che non era ancora globalizzato e che ancora faceva a meno di internet.

Anche in Italia i giornali si occuparono dell’assassinio di Ruth Pelke, avvenuto nel 1985 a Gary, cittadina del Nord Indiana, ai confini con l’Illinois. Tre ragazzine di colore sotto l’effetto di sostanze, decisero di compiere una rapina ad un’anziana catechista di 78 anni (che conosceva una delle tre). Mentre una faceva da palo, le altre due rovistavano nelle cose dell’anziana, ma poi forse perché temeva di essere stata scoperta, una delle tre uccise la poveretta, senza pietà. 

Il frutto della rapina: pochi dollari e la vecchia auto della signora. La polizia in poche ore trovò le tre ragazzine, ma poi al processo delle tre solo Paula fu condannata a morte, mentre le altre scontarono diversi anni in carcere. Si creò un legame stretto con l’Italia, dove ci fu un’ampia mobilitazione per salvare Paula, in gran parte grazie all’iniziativa di don Germano Greganti (fondatore di “Non uccidere”) e di P. Vito Braconi. Alla raccolta di firme parteciparono anche diverse persone della comunità di Sant’Egidio. 

Arrivò poi anche il decisivo intervento di Giovanni Paolo II, che intercesse perché quella quindicenne non finisse sulla sedia elettrica. Alla fine, molti anni prima che la Corte Suprema degli S.U. abolissero la pena capitale per i minorenni, la Corte commutò la condanna a morte in 60 anni, poi ridotti a 30, in considerazione della buona condotta. Diverse persone della Comunità all'epoca parteciparono alla raccolta delle firme per salvare la vita di Paula e grazie anche all'intervento diretto di Giovanni Paolo ebbe salva la vita e la condanna commutata prima a 60 anni, pena poi ridotta a 30 per buona condotta. Abbiamo conosciuto Paula soprattutto attraverso la nostra amicizia personale con Bill Pelke. 

Da quando abbiamo conosciuto quest’uomo un po' eccezionale (quindi almeno dal 1998), abbiamo atteso – assieme a lui – di vedere Paula libera, dopo aver scontato una pena molto lunga di quasi 30 anni, nei quali è riuscita a laurearsi, ma soprattutto ha maturato una vocazione ad aiutare altri giovani, che hanno vissuto esperienze di grande violenza.Il giorno della sua liberazione Bill Pelke, dopo aver perdonato Paula ha lottato strenuamente (anche andando contro alcuni suoi familiari) affinchè le fosse salvata a vita. Disse Bill il giorno della liberazione di Paula: “E’ la realizzazione di un sogno, frutto del perdono e della riconciliazione. 

Mia nonna morì che aveva in mano la Bibbia e piangeva. Sono certo che quelle lacrime erano il segno del suo perdono. Nanà (la nonna) non avrebbe mai voluto la morte di nessuno, neanche del suo assassino. Oggi – prosegue Bill - Paula non ha niente a che fare con quella ragazzina, è diversa, ha studiato, vuole aiutare i giovani in difficoltà, per dimostrare che si può davvero ricominciare. No alla pena di morte.”

Il nostro intento era anzitutto quello di aiutare Paula nel momento così difficile della liberazione, ma il nostro sogno sarebbe stato quello di portarla a Roma dal Papa, per poi incontrare i giovani, ai quali Paula voleva trasmettere un forte messaggio di speranza e riconciliazione. Così decisi di andarla a trovare un mese prima della sua liberazione, a maggio del 2013. In Indiana mi accorsi subito che le cose non affatto così semplici come pensavamo.In effetti in quei giorni erano usciti diversi servizi e interviste sui media nei quali Le interviste nella prima parte riassumono i dettagli dell’omicidio, mostrando anche il coltello, le immagini d’epoca dell’arresto di P. che piange e l’intervista a Bill. 

Nella seconda c’è una breve intervista a P., in cui le racconta dei cambiamenti che l’hanno portata in questi anni a prendere un diploma in gastronomia ed a diventare il capo dei corsi dei cucinieri del carcere, lavoro a cui tiene molto. Paula mi chiarì subito cosa avrebbe voluto fare: anzitutto “sparire” dai clamori delle TV e dei media, uscire dal carcere nel più completo anonimato. 

Non voleva che nessuno la potesse ricordare per il male compiuto 30 anni prima. Mi disse: "Chi commette un crimine deve scontare una pena, anche di molti anni. Ma poi ognuno merita di avere una seconda chance. Anche io."Voleva una nuova vita, dedicata all'educazione dei giovani a rischio, come era stata lei. Questa sarebbe stata la sua seconda chance.. Dopo quel lungo ed intenso colloquio ebbi la sensazione – poi confermata dall'evidenza dei fatti - che se Paula fosse tornata a Gary, cioè nella sua cittadina (ghetto nero tra i più problematici degli S.U.) avrebbe corso seri pericoli di vita. Infatti molti promettevano di ucciderla. 

Ciò emerse con chiarezza dando un’occhiata al blog di commenti all’intervista che aveva rilasciato alla CBS: toni molto accesi e preoccupanti – di chiara fama razzista - che inneggiavano alla vendetta contro una nera che ha ucciso un bianco. Dal blog: (“Merita la morte!, Ha ucciso uno di noi!”, ed un altro: “Che direte poi quando dopo essere uccisa ucciderà ancora, magari un vostro familiare?”. “Perché difendete gli assassini? E alle persone oneste chi ci pensa? Se lo Stato non ci difende, ci difenderemo da soli….”.). 

E poi a Gary sarebbe andata a vivere con la madre, che soffriva di gravi problemi psichici.Grazie all'aiuto ed all'interessamento della Chiesa cattolica locale fu possibile farla uscire dal carcere in maniera del tutto riservata e senza clamore e trovarle un lavoro ed una casa. Dopo alcuni mesi tornai a trovarla a Indianapolis e sembrava felice della nuova vita.
La notizia della sua tragica fine è un epilogo inatteso di un'esistenza assai difficile e segnata sin dalla sua infanzia, ma anche di una vita salvata più volte dalla morte.

Fonte: Blog Città per la vita

mercoledì 27 maggio 2015

Russia: allarme rifugiati, da Ucraina oltre 500-600 richieste asilo al giorno

Il VelinoLa dimostrazione dell'evidente situazione di catastrofe umanitaria nel Sud-Est ucraino è l'altissimo numero di rifugiati che varca il confine con la Russia. Ne è convinto Konstantin Romodanovskiy, capo del Servizio Federale per l'immigrazione russo (Sfi). 

“Ci sono moltissimi rifugiati qui che ricevono lo stato d'asilo temporaneo – ha detto Romodanovskiy a margine dell'incontro con i rappresentanti dell'Alto commissario Onu per i rifugiati - non perché lo voglia la Russia ma perché altrimenti non avrebbero dove andare”. 

Stando alle parole della direttrice del Sfi per la cittadinanza, circa 1 milione di abitanti del Sud-Est ucraino si trovano sul territorio russo, di cui 330mila già in possesso dello status temporaneo di rifugiati, mentre sono circa 500-600 richieste d'asilo che il Sfi riceve ogni giorno

Kazakova ha inoltre riferito che altri 195mila ucraini che hanno abbandonato la zona del conflitto hanno richiesto asilo temporaneo in Russia, altri 40mila hanno richiesto un permesso di soggiorno, mentre 88mila persone hanno chiesto ufficialmente la cittadinanza russa. 

Sono poi oltre 105 mila i cittadini ucraini che hanno presentato richiesta di adesione al programma di riacquisto della cittadinanza per presenza radici russe nella famiglia. In tutto, secondo i dati diffusi dall'Onu, il conflitto in Ucraina ha coinvolto in totale 5 milioni di persone e spinto a cercare una nuova residenza all'interno del paese a 1,2 milioni di abitanti dell'est Ucraina.

L'Unione Africana, dopo il silenzio, cerimonia commemorativa per le ultime morti di migranti africani

MISNA
Ricordare le vittime del Mediterraneo con la promessa di una risposta “di ampio respiro”, sul piano della lotta alla tratta e su quello del contrasto alle emergenze economico-sociali e ai conflitti all’origine delle migrazioni: è il senso di una cerimonia commemorativa in corso ad Addis Abeba, su iniziativa dell’Unione Africana.
Nella Nelson Mandela Hall, all’interno del grattacielo sede dell’organismo continentale, sono riuniti ambasciatori dei paesi africani membri, rappresentanti di organizzazioni internazionali e della società civile, studenti e capi religiosi, migranti e loro familiari. “Le recenti tragedie nel Mediterraneo con la morte di oltre 2000 migranti dall’inizio dell’anno, le aggressioni mortali a migranti in Sudafrica e i disumani e assurdi assassinii di migranti non musulmani in Libia, tra i quali cristiani ortodossi etiopici e copti egiziani – si legge in una nota – hanno rinnovato l’attenzione per le sofferenze dei migranti, perlopiù rifugiati, richiedenti asilo, lavoratori, vittime di tratta e minori non accompagnati che cercano salvezza e opportunità migliori altrove”. 

Secondo l’Unione Africana, a determinare un aumento del numero delle persone che abbandonano i propri paesi stanno contribuendo “un peggioramento dei conflitti politici, economico-sociali, ambientali e soprattutto armati, le minacce alla pace e alla sicurezza nonché la povertà e altri fattori esterni”.

La commemorazione di oggi segue settimane drammatiche, segnate anche da alcune critiche all’indirizzo dell’organismo continentale e dei dirigenti africani. Tra le accuse rivolte all’Unione Africana anche quella di non aver convocato alcun vertice straordinario dopo la morte il mese scorso di oltre 800 migranti nel Canale di Sicilia. 

Delle morti nel Mediterraneo e del destino dei richiedenti asilo si occuperà oggi la Commissione dell’Unione Europea. Attesi i dettagli di un piano che prevede il trasferimento di decine di migliaia di richiedenti asilo giunti in Italia e in Grecia dall’Africa e dal Medio Oriente.

[VG]

Amnesty International "Hamas ha ucciso e torturato cittadini palestinesi e oppositori politici"

Il Manifesto
Amnesty denuncia una serie di violazioni tra le quali l'esecuzione extragiudiziale di 23 palestinesi oltre all'arresto di decine di persone tra le quali anche membri del partito rivale Fatah. Dopo aver messo sotto accusa Israele per la devastante offensiva militare "Margine Protettivo" del 2014 che ha ucciso e ferito migliaia di palestinesi e distrutto decine di migliaia di abitazioni civili a Gaza, Amnesty International ora punta l'indice contro Hamas.
In un rapporto che sarà diffuso oggi, "Strangling Necks: Abduction, torture and summary killings of Palestinians by Hamas forces during the 2014 Gaza/Israel conflict", Amnesty denuncia una serie di violazioni tra le quali l'esecuzione extragiudiziale di 23 palestinesi oltre all'arresto di decine di persone tra le quali anche membri del partito rivale Fatah. "Constatare che mentre le forze israeliane seminavano morte e distruzione a Gaza, le forze di Hamas ne approfittavano per regolamenti di conti spietati, con una serie di uccisioni extragiudiziali e altre gravi violazioni, fa inorridire", ha dichiarato Philip Luther di Amnesty.

Un numero di questi omicidi, ha aggiunto Luther, è stato presentato come attacchi contro collaborazionisti che avevano aiutato Israele durante "Margine Protettivo", ma almeno 16 delle persone uccise erano state fermate dal movimento islamico prima che esplodesse il conflitto. Molti erano in attesa della fine del loro processo quando sono stati messi a morte. 

Le forze di Hamas, secondo il rapporto, hanno pure rapito e torturato militanti di Fatah. Nessuno è stato chiamato a rendere conto di questi crimini, un fattore che, sottolinea Amnesty, indica che sono stati ordinati o tollerati dalle autorità.

di Michele Giorgio

Iran: esecuzione di massa a Karaj, impiccati 22 detenuti condannati per droga

Aki
Nuova esecuzione di massa in un carcere iraniano. Ventidue detenuti, condannati a morte per traffico di droga, sono stati impiccati nel carcere di Ghezel Hesar, la più grande prigione della Repubblica islamica situata a Karaj, 20 chilometri a nord di Teheran. Secondo Iran Human Rights (Ihr), organizzazione che si batte contro la pena di morte in Iran, le esecuzioni sono state eseguite ieri, anche se è possibile che alcuni dei detenuti possano essere stati impiccati domenica. 

I 22 detenuti erano stati trasferiti nella quarantena della prigione a seguito di una manifestazione non autorizzata alla quale venerdì avevano preso parte decine di prigionieri rinchiusi nell'Unità 2 di Ghezel Hesar, il braccio della morte del carcere, dove al momento sono detenute circa duemila persone. I detenuti avevano rivolto un appello alla Guida Suprema dell'Iran, l'ayatollah Ali Khamenei, chiedendo la commutazione della pena di morte nell'ergastolo. La manifestazione - ha riferito Ihr - è stata pacifica.

Secondo Ihr, nelle ultime tre settimane sono stati 44 i detenuti giustiziati nel solo carcere di Karaj. Altre due esecuzioni di massa, infatti, hanno avuto luogo il 6 e il 21 maggio. In entrambe le occasioni 11 prigionieri accusati di narcotraffico sono stati impiccati. Alcuni di loro erano stati protagonisti di una rivolta scoppiata a Ghezel Hesar lo scorso anno. La notizia delle esecuzioni di massa - ha precisato Ihr - non è stata confermata da alcun media ufficiale della Repubblica islamica. "La maggior parte di questi prigionieri è stata sottoposta a processi irregolari e le loro condanne a morte sono state emesse sulla base di confessioni estorte sotto tortura", ha affermato in una nota il portavoce di Ihr, Mahmood Amiry-Moghaddam. "Ci appelliamo alle Nazioni Unite e alla comunità internazionale - ha concluso - perché agiscano per fermare queste esecuzioni di massa".

martedì 26 maggio 2015

Pakistan, Lahore nuovo attacco a quartiere cristiano per un ragazzo malato di mente accusato di blasfemia

Misna
Resta grave la situazione dei cristiani residenti nel quartiere di Dhoop Saari, a Lahore, Punjab, dopo gli attacchi e i saccheggi subiti ieri pomeriggio da parte di un folto gruppo di musulmani. 


Secondo i media locali, la folla ha incendiato una chiesa e una quindicina di case a causa di un caso di blasfemia in cui sarebbe stato coinvolto un giovane cristiano, Humayon Masih, malato di mente, che, secondo gli accusatori, avrebbe bruciato pagine contenenti versetti del Corano. Sayed Zeeshanul Haq, una delle persone che ha accusato Humayon, ha detto al quotidiano The Express Tribune che il proprietario di una bancherella di tè gli ha indicato il giovane mentre bruciava pagine del Corano e lui, preso atto del fatto, ha consegnato il giovane cristiano alla polizia. “Molte persone si sono radunate sul posto bloccando la strada e alcuni di loro hanno tentato di bruciarlo vivo, ma io lo ho salvato e consegnato alla polizia ” ha detto Haq ai giornalisti.

Sebbene durante la notte pesanti contingenti di polizia e delle forze speciali per la sicurezza siano stati dispiegati nella località, per evitare incidenti peggiori, i media locali di oggi, riferiscono che la maggior parte dei residenti non sono ancora tornati alle loro case, temendo una ripetizione degli attacchi avvenuti nel marzo scorso, nel quartiere cristiano di Youhanabad, sempre a Lahore, quando oltre duecento case cristiane sono state devastate, causando decine di feriti.

I leader dei gruppi per i diritti umani, Life for all Pakistan e Masihi Foundation, hanno condannato con forza quello che hanno definito “un altro atto di abuso della legge sulla blasfemia”. “E’ triste vedere che una folla attacca i deboli e chiede di dar fuoco a un uomo che è mentalmente instabile. Non vogliamo testimoniare un altro omicidio extragiudiziale in nome della religione. (…) Abbiamo già visto abbastanza sangue e abbiamo già portato via abbastanza corpi” ha detto ai giornalisti locali il portavoce delle due organizzazioni per i diritti, aggiungendo che quest’anno la violenza settaria e gli attacchi contro le minoranze nel paese hanno superato ogni previsione.

Tanzania, 46 mila rifugiati dal Burundi. Le donne partoriscono durante la fuga

Blog Diritti Umani - Human Rights
Kigoma -  Gli operatori umanitari che cercano di offrire un aiuto alla crisi del Burundi affermano che le donne stanno dando alla luce i loro figli sui traghetti, in rifugi temporanei e in viaggio verso campo profughi Nyarugusu della Tanzania. 

La crisi burundese ha fatto fuggire decine di migliaia di persone attraverso le frontiere del paese. 
C'è urgente bisogno di personale sanitario e farmaci salvavita. E' necessario mettere in atto interventi di protezione per le donne e le ragazze.

I numeri hanno oscillato,  l'Agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite (UNHCR) stima a oltre 46.000 rifugiati che hanno cercato riparo in Tanzania, a seguito di violenze e disordini nella capitale del Burundi, Bujumbura.

Le stime fatte il  18 maggio hanno indicato più di 26.000 rifugiati fuggiti in Ruanda, e più di 9.000 rifugiati nella Repubblica Democratica del Congo.

Fonte: UNFRA

Brasile: rivolta nel penitenziario di Feira de Santata, 9 persone morte

Ansa
Nove persone sono morte, di cui una decapitata, nel corso di un ammutinamento in un carcere brasiliano. "Dopo 18 ore di trattative l'ammutinamento è cessato", ha riferito un portavoce della polizia dal penitenziario di Feira de Santata, a circa 100 da Salvador de Bahia, precisando che sono stati rilasciati 70 ostaggi. Durante la rivolta, scattata mentre erano in corso le visite dei familiari, i detenuti hanno ucciso 8 carcerati mentre uno è morto in seguito alle ferite riportate.

I prigionieri hanno preso in ostaggio i visitatori chiedendo di poter parlare delle loro condizioni con i rappresentanti dell'associazione dei diritti umani. Il direttore del carcere, Cleriston Leite, ha detto invece che si è trattato di una disputa tra fazioni rivali. Le associazioni per i diritti umani hanno più volte denunciato le condizioni delle prigioni brasiliane definendole "medievali".

lunedì 25 maggio 2015

Malaysia: fosse comuni in campi migranti, in tutto sono 139 con resti di Rohingya e bengalesi

Ansa
Qui sarebbero tenuti in ostaggio Rohingya in fuga da Myanmar

Le autorità malaysiane hanno detto di aver scoperto un gran numero di fosse comuni in campi abbandonati da trafficanti di immigrati al confine con la Thailandia, dove passano i musulmani Rohingya in fuga dal Myanmar. La scoperta segue una simile fatta dalle autorità thailandesi. I trafficanti terrebbero ostaggio i migranti in questi campi, nella speranza di ottenere un riscatto dalle loro famiglie.

In totale sono 139 le fosse contenenti resti umani - con ogni probabilità di migranti Rohingya e bengalesi - trovate dalla Malaysia. Lo ha comunicato questa mattina la polizia di Kuala Lumpur, dopo l'iniziale annuncio del ritrovamento.

Siria, Iraq: emergenza rifugiati. 15 milioni di persone hanno abbandonato le loro case

EuroNews
L’emergenza umanitaria scatenata dall’autoproclamato Stato Islamico è gigantesca. Un appello alla comunità internazionale per un maggiore impegno viene dal Forum economico mondiale per il Medio Oriente e il Nord Africa che si svolge in Giordania. L’Alto Commissario dell’Onu prer i rifugiati descrive la situazione.
“Penso che nel mondo non ci sia sufficiente consapevolezza del dramma a cui stiamo assistendo – dice Antonio Guterres -. Ci sono attualmente 4 milioni di rifugiati siriani, ma se si considerano Siria e Iraq insieme si contano circa 15 milioni di persone che hanno dovuto abbandonare le loro case e molte di loro vivono in assoluta miseria”.

Il campo di Zaatari a Mafraq, in Giordania, è stato aperto nel 2012 ed ospita attualmente circa 85 mila rifugiati.

“I problemi più grossi qui a Zaatari sono l’acqua e l’elettricità – dice Abu Eissa, un rifugiato -. Per qualche tempo i servizi sono stati forniti. Ma l’elettricità è mancata per cinque o sei mesi. Ci sono persone che soffrono di asma, qui c‘è molta polvere e ci sono tempeste di sabbia. Tutti viviamo in condizione di pericolo”.

Gli aiuti forniti attualmente dalla comunità internazionale per affrontare questa crisi umanitaria non sono sufficienti.

Venezuela: 2 leader opposizione iniziano sciopero fame in carcere

AGI
Caracas - Due leader in carcere dell'opposizione venezuelana, Leopoldo Lopez e Daniel Ceballos, hanno annunciato attraverso un video clandestino di aver iniziato uno sciopero della fame e hanno lanciato un appello a manifestare contro il governo chavista di Nicolas Maduro. 

Leopoldo Lopez
Nelle stesse ore Lopez e' stato punito perche' trovato in possesso di un telefonino e Ceballos e' stato trasferito in un carcere per delinquenti comuni a Guarico. Lopez, l'ex sindaco di Caracas rinchiuso dal febbraio 2014 nel carcere militare di Ramo Verde per il suo ruolo nelle proteste antigovernative dello scorso anno, e' apparso in un video di quattro minuti girato in cella, fatto uscire clandestinamente e postato su YouTube. 

Nelle immagini annuncia lo sciopero della fame suo e dell'ex sindaco di San Cristobal, Ceballos, accusa Maduro di essere corrotto e incompetente e di aver fatto uccidere decine di persone durante le proteste del 2014, in cui ci furono 43 morti. Poi ha lanciato un appello per manifestazioni e cortei pacifici da tenere sabato prossimo, il 30 maggio, per chiedere il rilascio dei detenuti politici, la fine della repressione e una data certa per le elezioni legislative, che il governo ha promesso di tenere fra novembre e dicembre, con la presenza di osservatori internazionali.

domenica 24 maggio 2015

UNHCR e OIM: necessario dare priorità a operazioni di ricerca e soccorso in mare dei rifugiati

Articolo 21
«Salvataggio di vite umane una priorità assoluta». La richiesta congiunta di Unhcr, Ohchr e Oim
Gli alti commissariati delle Nazioni unite per i Rifugiati e per i Diritti umani, l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni e il rappresentante speciale del segretario generale delle Nazioni Unite per le Migrazioni e lo Sviluppo si uniscono in un appello che chiede di dare priorità al salvataggio di vite umane in mare. Di seguito il comunicato congiunto.

Esortiamo fortemente i leader di Indonesia, Malaysia e Thailandia, affinché proteggano i migranti e i rifugiati bloccati a bordo di imbarcazioni nel Golfo del Bengala e del mare delle Andamane, ne facilitino uno sbarco sicuro, e diano priorità al salvataggio di vite umane, alla protezione e al rispetto dei diritti e della dignità umana.

I gravi eventi verificatisi nei giorni scorsi nel Golfo del Bengala e nel Mare delle Andamane, che hanno coinvolto migranti e rifugiati – Rohingya e altri – provenienti dal Bangladesh e dal Myanmar, confermano che le persone più vulnerabili nel mondo si muovono alla ricerca di sicurezza e dignità, in fuga da persecuzioni, povertà, privazione, discriminazioni e abusi. Tali pericolose traversate, siano esse via terra, mare o aria, sono diventate un fenomeno globale.

Dal 2014, nel sud-est asiatico, più di 88.000 persone hanno intrapreso la pericolosa traversata via mare, 25.000 di loro nei primi tre mesi di quest’anno. Si stima che quasi 1.000 persone siano morte in mare a causa delle precarie condizioni del viaggio, ed altrettante siano decedute a causa di maltrattamenti e privazioni per mano dei trafficanti e contrabbandieri. Nella baia del Bengala, migranti e rifugiati ricevono solo riso bianco da mangiare e sono soggetti a violenze, compresi abusi sessuali. Le donne vengono violentate. I bambini vengono separati dalle loro famiglie e subiscono abusi. Gli uomini vengono picchiati e gettati in mare.

Esprimiamo profonda preoccupazione per le notizie riguardanti barche piene di donne, uomini e bambini vulnerabili che non possono sbarcare e sono bloccati in mare senza accesso a cibo, acqua e assistenza medica. Esortiamo gli Stati della regione a proteggere la vita di tutte le persone a bordo, consentendo alle persone a bordo di queste barche sovraffollate di sbarcare in condizioni di sicurezza.

Rivolgiamo un appello urgente ai leader affinché si impegnino, con il supporto dell’ASEAN, a:

1.Fare del salvataggio di vite umane una priorità assoluta, rafforzando in modo significativo, inoltre, le operazioni di ricerca e soccorso (SAR);

2.Fermare i respingimenti e le misure volte ad “aiutare” le barche a lasciare le acque territoriali, garantendo al contempo che i nuovi interventi risultino strettamente conformi al principio di non-refoulement e ad altre norme fondamentali sui diritti umani;

3.Garantire sbarchi prevedibili ed efficaci in località sicure e condizioni di accoglienza adeguate e umane;

4.Evitare la detenzione degli immigrati e altre misure punitive, e garantire che i diritti umani di tutti i migranti e rifugiati siano protetti, e che tutte le azioni riguardanti i bambini siano guidate dal principio dell’interesse superiore del minore.

5.Impostare delle procedure di screening gestite congiuntamente dal governo e dal personale dell’organizzazione internazionale di competenza per valutare la condizione delle persone che arrivano, ed identificare: a) persone che necessitano di protezione come rifugiati, richiedenti asilo, o apolidi, b) vittime di tratta o persone a rischio tortura o altri trattamenti crudeli, inumani o degradanti se fatti tornare al paese di origine, c) migranti con condizioni di salute precarie e che necessitano cure di emergenza e primo soccorso, e d) migranti o altre persone interessate al rimpatrio volontario.

6.Aumentare le alternative sicure e legali di migrazione, anche per i lavoratori migranti a tutti i livelli di specializzazione.

7.Aumentare l’impegno nel contrasto ai crimini di trafficanti e contrabbandieri, in piena conformità con gli standard internazionali per i diritti umani e nel pieno rispetto dei diritti delle vittime.

8.Raddoppiare gli sforzi, a livello nazionale ed incrementando le attività di cooperazione internazionale, per affrontare i “fattori di spinta” e le cause all’origine dei flussi di migranti e rifugiati, tra cui discriminazione, povertà, persecuzione, e violazioni dei diritti umani.

9.Introdurre provvedimenti atti a combattere la xenofobia e la discriminazione verso qualsiasi gruppo sulla base di razza, sesso, lingua, religione, etnia, nazionalità e nazionalità di origine, o di altra condizione.

India - La Chiesa in Orissa riflette su sfruttamento minerario e migrazione

Agenzia Fides
New Delhi – “E 'estremamente importante per noi conoscere la situazione attuale, al fine di portare la pace, la giustizia e la dignità nella società. Industrie e grandi compagnie minerarie si insediano nelle zone tribali. Questa è la principale causa di maggiore preoccupazione per lo sviluppo delle popolazioni indigene”: è quanto ha detto S. Ecc. Mons Niranjan Sual Singh, Vescovo di Sambalpur, in Orissa, inaugurando un seminario organizzato in Orissa dalla Commissione per la Giustizia, la Pace e lo Sviluppo della Conferenza episcopale dell'India. 


Come riferito a Fides, il seminario, promosso da p. Charles Irudayam, Segretario della Commissione episcopale, si è tenuto il 19 e 20 maggio incentrato sul tema “Sfruttamento minerario e migrazione”. Vi hanno preso parte circa 60 delegati provenienti da diverse diocesi dell'Orissa.
Una società può avere buone strade, ferrovie, abitazioni, ma i poveri e gli oppressi devono ricevere una maggiore attenzione per il loro sviluppo integrale” ha ricordato il Presule, focalizzando il discorso su due fenomeni: lo sfruttamento minerario e la migrazione.
Il primo “ha un impatto rovinoso sulle popolazioni tribali, in quanto porta degrado ambientale e l'inquinamento. Le popolazioni tribali sono completamente dipendenti dalla loro terra per il sostentamento”,ha notato. Il fenomeno interessa l’intera nazione. 

Dayamani Barla, attivista per i diritti dei dalit e tribali, ha ricordato che “ i popoli indigeni sono i coloni e gli abitanti originari della terra. La loro vita, i comportamenti, il linguaggio e l’etica hanno un collegamento diretto con l'acqua, la terra e la giungla. La cultura adivasi (tribali indiani ndr) muore dal momento in cui essi sono costretti a lasciare il loro ambiente: i popoli indigeni sono sfollati in nome dello sviluppo”.
P. Charles Irudayam, nel suo discorso, ha spiegato ai partecipanti perché la Chiesa è preoccupata per i diritti umani e perché i cattolici si coinvolgono in questioni sociali: “Dio ha dato a ogni essere umano una dignità intrinseca e inalienabile, che comporta diritti fondamentali. La Chiesa ha il compito di proteggere i diritti umani e di educare i suoi membri sulla dignità, libertà e uguaglianza di tutti gli esseri umani. Il rispetto dei diritti umani è il requisito per la pace”.

P. John Kerketta, direttore dei servizi sociali della diocesi di Sambalpur, ha concluso affermando che “la Chiesa ha svolto un ruolo significativo in Orissa nel campo dell'istruzione, della sanità e del lavoro sociale”, ribadendo che continuerà ad impegnarsi per la difesa della dignità di ogni uomo. (PA)

sabato 23 maggio 2015

Iraq: drammatico SOS di una famiglia di cristiani rifugiati

Aleteia
Dopo aver lasciato il proprio Paese, si trovano in Georgia senza possibilità di lavorare o di insediarsi lì e cercano di ottenere un visto per la Francia
“Dovete sapere quello che ci succede”, dicono presentando il piatto che hanno preparato per la Pasqua: biscotti fatti con frutta secca e uova sode dipinte a colori vivaci.

L'anno scorso hanno celebrato questa festa insieme ai parenti e ai vicini in Iraq. All'epoca nessuno si preoccupava troppo dell'organizzazione dello Stato Islamico.

Quest'anno i genitori e i loro quattro figli vivono esiliati in Georgia in una sistemazione temporanea, senza sapere cosa succederà domani.

Fuga disperata
La famiglia viveva ad Ankawa, nei dintorni di Erbil (Kurdistan iracheno), quando nell'agosto 2014 ha visto all'improvviso il suo quartiere invaso dai soldati curdi. Questo significava che i combattenti stavano arrivando da loro: gli jihadisti dello Stato Islamico non erano lontani.

Hanno riempito in fretta la macchina con vestiti e qualche gioco per il bambino più piccolo, di 6 anni, e sono scappati. La maggior parte dei loro vicini cristiani ha fatto lo stesso, e si sono ritrovati tutti all'aeroporto di Erbil.

“Una settimana prima eravamo al matrimonio di un cugino, senza sospettare minimamente che saremmo dovuti fuggire”, ha spiegato il padre di famiglia, un ingegnere di 49 anni che fino all'agosto 2014 lavorava per il Governo iracheno. La moglie è professoressa di aramaico, la lingua nativa di questa comunità caldea.

Partire senza che conti la destinazione
All'aeroporto di Erbil erano tutti terrorizzati. Il padre ha cercato di trovare sei biglietti per fuggire, e solo grazie a un amico che lavorava in un'agenzia di viaggi è riuscito a trovare sei posti su un aereo in partenza per Tbilisi, in Georgia.

La famiglia non sapeva quasi niente di quel Paese, ma si vedeva costretta ad andarci dalle notizie terribili che giungevano dall'Iraq. La paura più grande era che le donne della famiglia venissero sequestrate.

Una volta atterrati si sono visti costretti a vivere in un hotel, il che ha prosciugato i loro risparmi già messi alla prova dall'acquisto dei biglietti: mille dollari, cinque volte più del prezzo normale!

Si sono resi rapidamente conto del fatto che non avrebbero potuto fermarsi lì. Gli stessi georgiani cercano di lasciare il proprio Paese per trovare lavoro, visto che la Georgia sta vivendo una grave crisi economica caratterizzata da un altissimo tasso di disoccupazione.

La famiglia irachena era del tutto perduta. “Siamo depressi”, diceva la madre, “soli, senza nessuno che ci aiuti, nessuno parla aramaico, né curdo, neanche arabo o inglese”.

Un giorno, prendendo un taxi, l'autista li ha sentiti parlare tra loro in aramaico e ha chiamato uno dei suoi amici caldei, che conosce quella lingua. Nonostante la differenza di dialetti riuscivano a capirsi, e la famiglia irachena si è resa conto che esisteva una comunità caldea in Georgia.

Con l'aiuto del tassista gli iracheni hanno incontrato il vescovo di Tbilisi, padre Benjamin, che ha trovato loro un alloggio accessibile e ha invitato i suoi fedeli ad aiutarli.

Solidarietà caldea
Il caloroso benvenuto dei loro fratelli nella fede, che parlano un aramaico simile al loro, ha salvato gli iracheni dalla depressione. “Ci offrono tutto quello che possono, sono attenti e molto gentili, ma non possono darci ciò di cui abbiamo bisogno”, ha spiegato la madre di famiglia.

La Georgia è povera, e ha un flusso di rifugiati così alto che raramente offre permessi di soggiorno. La famiglia non pensa di tornare in Iraq. Ha troppa paura e non spera in un miglioramento della situazione.

Vedendo che in Georgia non possono lavorare, gli iracheni cercano di ottenere un visto per altri Paesi. Hanno ascoltato la promessa della Francia di accogliere gli iracheni perseguitati; la loro comunità è stata anche visitata dall'ambasciatore francese in Georgia, ma finora senza esito. La situazione resta bloccata.

“Sarebbe stato meglio se ci avessero detto di no fin dall'inizio”, ha detto la madre. “Ci lasciano senza notizie, senza sapere nulla da mesi!”

E allora aspettano, sempre più preoccupati. Alla fine di maggio i loro passaporti scadranno e sarà impossibile rinnovarli. Saranno allora condannati alla clandestinità, e la speranza di partire per altri Paesi europei si allontanerà ancor di più.

Beatificazione Romero, Riccardi: "Simbolo di una Chiesa dei poveri, Chiesa del Vangelo"

 Rai News 24
A San Salvador la messa di beatificazione davanti a 250mila fedeli. Romero diventa, per volere di Bergoglio, il primo della lunga schiera dei nuovi martiri contemporanei -
"Un grande segnale di riconciliazione e speranza. E una grande occasione per il cattolicesimo latino-americano, perché il non riconoscimento della santità di mons. Romero era un macigno con Roma: era inspiegabile che un sacerdote ucciso sull'altare mentre celebrava la messa non fosse riconosciuto martire". 

Così Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant'Egidio, vede la beatificazione di mons. Oscar Arnulfo Romero, l'arcivescovo di San Salvador assassinato il 24 marzo 1980 dagli squadroni della morte per le sue denunce ai soprusi della dittatura militare salvadoregna, e che oggi viene elevato all'onore degli altari dopo una causa a lungo dilazionata e ostacolata. 

"Si diceva: era diventato un'icona della teologia della liberazione e un'icona della lotta politica - commenta Riccardi - Ma Romero è morto martire e il martirio è molto più grande di tutto il resto: il sangue parla da sé. E il mancato riconoscimento era un macigno che papa Francesco ha rimosso". "Era cosciente - sottolinea - che rischiava la vita". E quindi del suo destino di martire. 

Il vescovo dei senza voce 
Monsignor Romero fu ucciso mentre stava celebrando la messa nella cappella dell'ospedale della Divina Provvidenza. Per anni aveva denunciato le ingiustizie in Salvador e le violenze della polizia e dei militari contro i più deboli. Aveva visto cadere, sotto i colpi dei paramilitari uno dei suoi più stretti collaboratori, il sacerdote gesuita padre Rutilio Grande. Nel 1983, in visita in Salvador, Wojtyla si recò a pregare sulla tomba del vescovo. La causa di beatificazione è iniziata nel 1997 ma si era poi bloccata. Fino alla decisione di Papa Francesco. 

In molti osteggiavano la teologia della liberazione
Ma chi è che non voleva Romero beato? Riccardi risponde citando "due fattori". "Romero beato non lo voleva quel settore della Chiesa che osteggiava la teologia della liberazione e che considerava Romero un'icona di questa teologia, quindi da non esaltare - spiega lo storico ed ex ministro - Poi un mondo molto largo di paurosi e di persone che non sono andate a fondo nella realtà di Romero. Un'area molto vasta. E questo ha permesso che la figura di Romero potesse essere manipolata, creando quella del 'santo guerrigliero'". "Giovanni Paolo II non beatificò Romero, ma ebbe rispetto per il suo martirio - osserva Riccardi - Altra cosa è la gravissima opposizione che ci fu da parte di cardinali come il colombiano Alfonso Lopez Trujillo". 

La beatificazione 
La beatificazione "segna una grande identità di sentire tra i cattolici latino-americani e papa Francesco. Sentono riconosciuto il martirio, ma anche il simbolo di una Chiesa dei poveri, una Chiesa del Vangelo, che in America Latina ha attraversato conflitti in tutti i Paesi". Ed è un messaggio che arriva in un momento di nuove gravissime persecuzioni verso i cristiani.

Intervista - Paglia: "Romero, una speranza di giustizia, di amore, di pace" - Oggi la beatificazione in San Salvador

Avvenire
Durante la sua ultima visita a El Salvador, la gente gli si accalcava intorno: tutti volevano salutarlo, toccarlo e, soprattutto, dirgli il loro gracias. Era l’11 marzo e l’arcivescovo Vincenzo Paglia era volato nel Paese più piccolo dell’America Latina per annunciare, come postulatore presso la Congregazione delle cause dei santi, la data della beatificazione di Óscar Arnulfo Romero, arcivescovo martire di San Salvador, assassinato dagli squadroni della morte mentre celebrava la Messa il 24 marzo 1980. Quasi due mesi dopo, l’atteso giorno è arrivato. Il presidente del Pontificio Consiglio per la famiglia, dunque, è tornato nella nazione per la storica celebrazione, in programma domani, sabato 23 maggio.
Eccellenza, è emozionato?
Direi proprio… Monsignor Romero non ha terminato la Messa il fatidico 24 marzo di 35 anni fa. Anche il funerale è rimasto incompiuto a causa di un attentato. Il 23 maggio ci sarà la conclusione di quelle due Messe interrotte sulla terra, che troveranno il loro compimento nel cielo.

Con il riconoscimento del martirio in «odium fidei» di Romero, il 3 febbraio, il Vaticano ha, in qualche modo, "ampliato" il concetto stesso del termine: l’arcivescovo è stato ucciso da persone che si consideravano formalmente cristiane…
Il martirio di monsignor Romero è il compimento di una fede vissuta nella sua pienezza. Quella fede che emerge con forza nei testi del Concilio Vaticano II. In questo senso, possiamo dire che Romero è il primo martire del Concilio, il primo testimone di una Chiesa che si mescola con la storia del popolo con il quale vivere la speranza del Regno. Una speranza di giustizia, di amore, di pace. In tal senso Romero è un frutto bello del Concilio. Un frutto maturato attraverso l’esperienza della Chiesa latinoamericana che, tra le prime nel mondo, ha cercato di tradurre gli insegnamenti conciliari nella storia concreta del Continente, avendo il coraggio di formulare l’opzione preferenziale per i poveri e di testimoniare, in una realtà segnata da profonde ingiustizie, la via del dialogo e della pace. La Chiesa latinoamericana ha regalato al mondo grandi figure. Per questo mi procura una grande gioia l’inizio della causa di beatificazione di un altro salvadoregno e amico di Romero, padre Rutilio Grande, e del brasiliano Helder Câmara.

Romero martire del Regno e della sua giustizia…
La figura dell’arcivescovo, e in generale dei martiri, ci ricorda Gesù Buon Pastore che dà la vita per le sue pecore. In Romero tale somiglianza arriva fino al punto di ricordare la scansione temporale della vita di Cristo. Romero, come Gesù, ha vissuto gli ultimi tre anni del suo ministero predicando il Regno e stando vicino ai deboli e ai poveri. Come Gesù è giunto a offrire la sua vita sulla croce, così Romero è giunto a offrirla sin sull’altare. E, come il Signore, Romero ha avuto il cuore trafitto, nel suo caso da un pallottola.

L’annuncio della beatificazione, a marzo, è stato accolto con una travolgente esplosione di gioia dal popolo salvadoregno. Più volte hanno interrotto i suoi discorsi con grida di gioia e canti spontanei. Che cosa l’ha colpita in quell’occasione?
Mi ha profondamente commosso vedere i contadini salvadoregni recarsi ancora oggi sulla tomba del loro arcivescovo, nella cripta della Cattedrale, e parlare con lui come se fosse presente fisicamente. È stata bellissima l’ondata di entusiasmo generale dell’intero Paese. Romero sembra oggi unirli tutti.

Che cosa rappresenta per i salvadoregni la beatificazione di monsignor Romero?
Romero, come il Buon Pastore, non solo raduna le pecore, ma insegna loro ad abbandonare la violenza. Mi riferisco, in particolare, ai giovani delle maras (gang criminali attuali protagoniste dell’attuale mattanza, ndr) con cui l’arcivescovo, se esercitasse adesso il suo ministero episcopale, cercherebbe di trovare un canale di dialogo per convincerli ad abbandonare la violenza e a impegnarsi per una società più giusta e solidale.