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sabato 31 ottobre 2015

Arabia Saudita: Premio "Sakharov" a Raif Badawi, il blogger condannato a 1000 frustate e 10 anni di carcere

Il Manifesto
Il riconoscimento dell'Europarlamento potrebbe salvare il blogger saudita da altre frustate e, forse, spingere le autorità a lasciarlo raggiungere la famiglia in Canada. Intanto si teme per la sorte del 21enne sciita Ali Mohammed an Nimr, arrestato quando era ancora minorenne, condannato a morte per decapitazione e crocifissione.

Raif Badawi come Nelson Mandela e Malala Yousafzai. Il blogger saudita condannato dai giudici del suo Paese a mille frustate, dieci anni di prigione e ad una multa di 266mila dollari per aver offeso le monarchia Saud e le gerarchie religiose, si è visto assegnare ieri il Premio Sakharov, il "Nobel" del Parlamento europeo creato nel 1988 per gli alfieri dei diritti umani e della libertà di espressione. Un riconoscimento che potrebbe salvarlo da altre frustate e, forse, spingere i sauditi a lasciarlo partire e a raggiungere la moglie e i figli che hanno ottenuto l'asilo politico in Canada. Quella delle frustate è "la più brutale delle condanne, una vera tortura", ha detto il presidente dell'Europarlamento Martin Schulz, "faccio appello al re dell'Arabia Saudita affinché conceda la grazia lo liberi immediatamente".

Schulz ha ricordato che i rapporti della Ue con i partner sono regolati anche sul rispetto dei diritti umani. Bene per Badawi ma quanta ipocrisia nelle parole del presidente Schulz. L'Ue che premia il blogger è quella che da decenni tace di fronte alle sistematiche violazioni in Arabia saudita dei diritti umani e politici, ai diritti negati alle donne, alle migliaia di prigionieri politici, alla negazione dei diritti delle minoranze religiose ed etniche e all'assenza di democrazia e di elezioni. È la stessa Europa che reclama democrazia e libertà in Siria e una dura punizione per il "brutale dittatore Bashar Assad" che deve uscire di scena, con le buone o con le cattive. I Saud al contrario sono intoccabili, perché fedeli alleati dell'Occidente in una regione strategica e perché comprano, grazie ai petrodollari, assieme agli altri monarchi del Golfo, armi statunitensi ed europee per decine di miliardi di dollari. Barack Obama qualche mese fa ha accolto con grande calore alla Casa Bianca il re saudita Salman.

Raid Badawi rischia di tornare davanti alle centinaia di spettatori che lo scorso gennaio accanto alla moschea Al-Jafali di Gedda hanno assistito alle prime 50 frustate della sentenza che prevede altre 19 serie da 50. Il 30 luglio 2013 Badawi era stato condannato a sette anni di prigione e "soltanto" a 700 frustate ma l'anno successivo la pena in appello è stata aumentata a 1.000 colpi e dieci anni di prigione. La Corte suprema sino ad oggi ha rinviato la seconda sessione di frustate per le pressioni dei centri internazionali per i diritti umani e di alcuni Paesi. Ma la macchina della "giustizia" sarebbe pronta ad ordinare la ripresa della punizione. Ensaf Haidar, la moglie del blogger, ha saputo da fonti attendibili che a breve riprenderà il ciclo di frustate. Non ci sono per ora conferme ufficiale ma l'allarme non è infondato. Le autorità saudite non hanno mai indicato di voler rinunciare alla punizione di Badawi, anzi, hanno denunciato con irritazione le "ingerenze straniere" volte, affermano, ad imporre modelli estranei alla "cultura" del regno dei Saud.

Badawi è colpevole di aver dibattuto, sul suo sito "Free Saudi Liberals", temi politici e religiosi. Già nel 2008 è stato condannato per apostasia e per aver denunciato che le università e le scuole religiose del paese sono laboratori dell'estremismo wahabita, corrente tra le più rigide del sunnismo. Badawi non è l'unico attivista in carcere. Molti altri sono dietro le sbarre e scontano pene persino più dure della sua. La condizione più critica è quella del 21enne sciita Ali Mohammed an Nimr, arrestato quando era ancora minorenne per aver partecipato a una protesta contro il regno. Lo attende una sentenza di morte per decapitazione e crocifissione.

A complicare la posizione di an Nimr, che ha confessato le sue "colpe" sotto tortura, affermano gli attivisti dei diritti umani, è la sua stretta parentela con lo sceicco Nimr Baqr an-Nimr, un famoso imam sciita e oppositore della casa reale. Si teme anche per l'avvocato Waleed Abulkhair, arrestato e condannato lo scorso anno per "incitamento dell'opinione pubblica". Abulkhair era il legale di Raif Badawi e il suo arresto è strettamente legato al caso del blogger.

Inizialmente era stato condannato a cinque anni di reclusione, pena prima sospesa e poi, a sorpresa, inasprita da un altro tribunale, specializzato in "terrorismo", che a inizio 2015 lo ha condannato a 15 anni. Il pugno di ferro delle autorità saudite si è inasprito durante la "primavera araba". Nel regno non ci sono state rivolte ma il timore che il malcontento tra i sudditi più giovani sfoci in azioni concrete ha spinto la monarchia a usare il bastone con i dissidenti politici e gli attivisti delle riforme. Di fronte a tutto ciò Bruxelles finge di non vedere. Non sarà il Premio Sakharov assegnato a Raif Badawi a cancellare l'ipocrisia europea.

di Michele Giorgio

Maldive - La Corte Suprema ribalta la condanna alla lapidazione di una donna adultera

Corriere della Sera
Nel paradiso del turismo che attrae più di un milione di visitatori all’anno i diritti umani sono spesso messi in discussione. Ma questa volta la Corte Suprema delle Maldive ha voluto segnare un punto fermo ribaltando una sentenza di condanna a morte per lapidazione inflitta a una donna accusata di adulterio e di aver avuto un figlio fuori dal matrimonio.

La condanna era la prima di questo tipo pronunciata nel Paese ed aveva suscitato un’ondata di reazioni di proteste e di critiche da parte di gruppi che si battono per il rispetto dei diritti umani. La donna, che ha un figlio di 5 anni, era stata giudicata il 18 ottobre in un’isola sperduta dell’arcipelago, a Gemanafushi, 250 miglia a sud di Male. Per la Corte Suprema il giudice ha mancato di considerare tutti gli aspetti della procedura islamica.

Nel 2013 aveva fatto scalpore il caso di una ragazza di 15 anni condannata a 100 frustate dopo essere stata stuprata dal patrigno. Anche in quel caso la Corte Suprema aveva quindi ribaltato la sentenza.

Le Maldive, popolate da circa 400mila musulmani sunniti, applica un codice penale che è un misto tra sharia islamica e diritto inglese. Il sesso al di fuori del matrimonio è proibito ma il divieto non si applica ai turisti che possono anche girare per le isole a loro destinate in costume e bere alcolici.

La sentenza di lapidazione era stata l’ennesimo colpo alla reputazione internazionale della nazione che ha visto la destituzione del primo presidente democraticamente eletto, Mohamed Nasheed, condannato a 13 anni di prigione dopo un processo farsa per aver ordinato l’arresto di un giudice corrotto nel 2012.

All’inizio di quest’anno le Nazioni Unite ne hanno ordinato il rilascio immediato ma il governo del presidente Abdulla Yameen si è rifiutato di raccogliere l’invito.

Andrea Riccardi sulla Siria rilancia l'appello: “Aiutiamo Aleppo a non morire” #savealeppo

www.santegidio.org
Il fondatore di Sant’Egidio rilancia l’appello #SaveAleppo per corridoi umanitari e protezione dei civili: “Imporre la pace in nome di chi soffre”

Bambini nel quartiere Sakhour di Aleppo formano insieme l'hashtag #savealeppo
Le notizie che, in questi giorni, arrivano dalla martoriata città di Aleppo ci parlano di una città sconvolta dai combattimenti e dai bombardamenti. Aleppo e i villaggi vicini sono contesi tra le forze del regime, il Free Syrian Army, l’Isis e lo YPG.
L’escalation degli scontri sta causando la fuga di migliaia di siriani dalla zona a sud della città. Si stima che solo nell’ultima settimana 70.000 abitanti siano stati costretti a lasciare la regione.

Grande preoccupazione desta la situazione umanitaria nella città vecchia. I combattimenti tra Isis e il regime lungo l’asse Khanasser–Athrayya, hanno di fatto interrotto il collegamento tra la città e le altre zone controllate da Damasco con l’interruzione degli approvvigionamenti per la popolazione. A peggiorare la già grave situazione è l’interruzione delle forniture di acqua ed elettricità che mancano in città da 8 giorni.

La violenza non risparmia i quartieri cristiani e i luoghi di culto. Tre giorni fa, ad Azizieh, una granata ha colpito la chiesa cattolica durante la messa. La cupola ha miracolosamente resistito all’impatto risparmiando così la vita dei numerosi fedeli riuniti.

Gli sforzi della diplomazia internazionale non sono stati ad oggi sufficienti a salvare Aleppo.

Il segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki-Moon dichiarava il 28 settembre scorso che: “Quattro anni di paralisi diplomatica del Consiglio di Sicurezza hanno fatto sì che la crisi siriana sia diventata fuori controllo, la responsabilità è innanzitutto in capo alle parti del conflitto in Siria, ma guardare solo all’ interno del Paese mediorientale per trovare una soluzione non è sufficiente, la battaglia è guidata anche da poteri e rivalità regionali”.

Mentre la comunità internazionale si riunisce, proprio in queste ore, a Vienna, di fronte a tanta sofferenza e alla lenta agonia di una città un tempo simbolo di armoniosa coesistenza tra genti e fedi diverse, ripropongo con forza all’attenzione di tutti il mio appello #SaveAleppo, lanciato il 22 giugno 2014, in cui si invocava un’iniziativa con queste parole, valide ancor di più oggi: “Salvare Aleppo vale più che un’affermazione di parte sul campo! Si debbono predisporre corridoi umanitari e rifornimenti per i civili”. Rimaniamo convinti che “bisogna imporre la pace in nome di chi soffre ” e ricostruire un futuro per questa città, storico crocevia per tanti popoli e luogo di millenaria coabitazione fra musulmani e cristiani. Bisogna aiutare Aleppo a non morire: presto e con decisione.

di Andrea Riccardi

venerdì 30 ottobre 2015

Stranieri criminali? Meno degli italiani e con reati di lieve entità Pregiudizi smontati dai dati

L'Unità
Aumentano invece le denunce contro autoctoni. La Lega, spiazzata, insorge. Numeri che fanno giustizia dei pregiudizi. E che raccontano un'Italia impaurita, incapace di distinguere tra campagne mediatiche e realtà quando si tratta di accostare migranti e criminalità.

Accostamento strumentale, appunto, se come testimonia il rapporto Idos gli stranieri nel Belpaese commettono in proporzione meno reati degli italiani e meno gravi. E a sfatare un altro luogo comune che li vuole "liberi subito" nonostante i crimini commessi, lo studio evidenzia anche come in caso di accuse o condanne, i migranti vengano "più facilmente fermati e arrestati" rispetto agli autoctoni. Un quadro che il leghista Roberto Calderoli bolla subito come "un concentrato di falsità".

Facile capire il perché Calderoli accosti quasi 500 pagine fitte di dati alla "Pravda di Lenin" che dipinge "un mondo fantastico". È lo stesso vice presidente del Senato del resto a spiegare cosa trova inconcepibile: uno dossier "che descrive gli immigrati come brava gente, che non delinque, vittima di stereotipi, che contribuisce in modo determinante al Pil".

Ad essere precisi, lo studio non sostiene ovviamente che i migranti non delinquono, ma appunto che non lo fanno in misura maggiore degli autoctoni, e che anzi si verifica il contrario. Uno schiaffo comunque a uno dei punti cardine della fortuna politica del Carroccio, nel la lotta senza esclusione di colpi per la leadership del centrodestra.

Non solo, il dossier nota in premessa come "in questi anni di crisi è crescente, secondo Eurostat. la preoccupazione dei cittadini, sia in Italia che negli altri Stati dell'Ue, nei confronti degli immigrati e della loro criminalità, spesso enfatizzata sui media. Siamo di fronte a un complesso fenomeno di psicologia sociale che nel passato ha riguardato l'atteggiamenti di molti paesi esteri verso gli immigrati italiani. Una metodologia in grado di ridimensionare le reazioni infondate consiste nel corretto utilizzo delle statistiche".

Ed ecco allora i dati. Il dossier allarga lo sguardo alle denunce di reati di tutta l'Europa a 28 Stati. E si sofferma su un punto: tra il 2004 e 2013 le denunce contro italiani, a fronte di una popolazione in leggera diminuzione, sono cresciute del 28% (da 513.618 a 657.443), mentre quelle contro stranieri risultano in calo del 6,2% (da 255.304 a 239.701), nonostante una popolazione più che raddoppiata. E ancora, in questo stesso arco di tempo si può mettere a fuoco l'incidenza percentuale delle denunce contro stranieri sul totale di quelle contro autore noto: anche questa voce registra un calo, e di ben un terzo, dal 32,5% al 26,7%, con una maggior incidenza nel Centro (32,5%) e nel Settentrione (Nord Est 36,3% e Nord Ovest 37,2%) rispetto alle Isole (12,0%) e anche al Sud (13,2%).

Un paragrafo è dedicato anche ai detenuti stranieri. Al 30 giugno 2015, l'amministrazione penitenziaria ne ha rilevati 17.207, pari al 32,6% dei 52.754 reclusi delle 198 carceri italiane. A fronte di un calo delle presenze carcerarie negli ultimi anni, il numero dei reclusi stranieri è diminuito in misura maggiore di quel lo dei detenuti italiani, e cioè del 4% in cinque anni. Il dossier rileva poi come "i detenuti stranieri commettono - o sono accusati di avere commesso - i reati meno gravi dal punto di vista dei beni o degli interessi costituzionalmente protetti.

Ma nei loro confronti maggiormente opera l'azione di repressione di polizia: essi più facilmente vengono fermati o arrestati rispetto agli autoctoni". In cifre: negli istituti di pena il 29,3% dei condannati in via definitiva è straniero, come lo è il 39,5% dei detenuti non ancora condannati ma in attesa di giudizio e il 40,7%di quelli in attesa di primo giudizio.

Altissima poi la percentuale degli stranieri condannati a pene lievi, cioè a meno di tre anni di carcere: è del 43%. Quanto ai reati commessi, il 76,9% dei detenuti stranieri è in carcere per reati legati alla prostituzione, il 34,7% per violazione della legge sulle droghe, il 27% per reati contro il patrimonio.

di Adriana Comaschi

Zimbabwe: tre ricorsi alla corte costituzionale possono ottenere l'abolizione della pena di morte

MISNA
Tre ricorsi potrebbero portare la corte costituzionale dello Zimbabwe ad abolire la pena di morte nel paese. A presentarli di fronte ai giudici sono stati altrettanti gruppi di detenuti in attesa di esecuzione, tramite l’organizzazione locale per i diritti umani Veritas.

Secondo i rappresentanti legali dei prigionieri, infatti, la pena di morte non è coerente con la costituzione nazionale che afferma il diritto alla vita di tutti i cittadini e li protegge da “punizioni degradanti” per la dignità umana. In passato, anche l’attuale vicepresidente del paese, Emmerson Mnangagwa - sfuggito all’esecuzione durante l’epoca coloniale solo in quanto minorenne al momento del reato - si era pronunciato contro la pena capitale.

Oltre che contro la pena di morte, Veritas ha depositato davanti alla corte costituzionale anche ricorsi contro la possibilità di essere condannati all’ergastolo: in questo caso, a violare la dignità umana dei prigionieri, sostengono gli avvocati, è l’impossibilità di ottenere un rilascio anticipato o qualsiasi misura alternativa al carcere.

[DM]

Etiopia: oltre 4,6 milioni di bambini rischiano la fame per una carestia senza precedenti

Save the Children
Quasi 5 milioni di bambini rischiano di soffrire la fame a causa del peggioramento della crisi alimentare in Etiopia, carestia dovuta a una forte siccità che ha colpito zone del paese normalmente verdi e fertili. Un disastro senza precedenti nella storia recente.

Secondo Save the Children, l’Organizzazione internazionale che dal 1919 lotta per salvare i bambini e tutelarne i diritti, 350 mila bambini sono già gravemente malnutriti e rischiano, se non curati, di avere, ritardi mentali e fisici o addirittura morire.

La siccità di quest’anno, causata da una forma particolarmente violenta del fenomeno El Nino, ha colpito direttamente più di 8,2 milioni di etiopi in un’area geografica molto vasta, paragonabile all’Italia, creando insicurezza alimentare o dipendenza per l’approvvigionamento dal Governo o dalle associazioni umanitarie internazionali. Inoltre, i miglioramenti significativi ottenuti negli ultimi anni in merito alla sicurezza alimentare, all’educazione e alla sanità rischiano di essere completamente vanificati a causa di questo evento climatico estremo.

“L’assenza delle piogge all’inizio dell’anno, così come quelle estive, ha avuto un impatto devastante sui raccolti in Etiopia: intere famiglie hanno perso il proprio reddito e le proprie scorte di cibo, e la vita di milioni di persone, in particolare quelle dei bambini, è in bilico”, ha dichiarato John Graham, Direttore per l’Etiopia di Save the Children.

Il governo etiope ha stanziato una somma senza precedenti pari a 192 milioni di dollari come parte di un’enorme mobilitazione nazionale per combattere la crisi e ridurre gli effetti della siccità. Tuttavia, c’è bisogno di un maggiore sostegno da parte dei donatori e un maggiore sforzo da parte della comunità internazionale per impedire il peggioramento della situazione.

“Stiamo fronteggiamo gli effetti di un raccolto scarso in tutto il paese, e il prossimo, molto scarso, è atteso non prima del giugno 2016”, aggiunge Graham. “Il Governo dell’Etiopia sta facendo quello che può per fronteggiare la situazione, riallocando risorse economiche dalla costruzione di strade e da altri progetti. Ma i donatori internazionali devono fornire maggiore aiuti ora, per portare sostegno alla popolazione e soprattutto ai bambini prima che sia troppo tardi”.

Save the Children è presente in oltre il 70% dei distretti più colpiti. Fornisce cibo, acqua, medicine e sostegno di base alle famiglie che hanno perso il reddito. L’Organizzazione sta inoltre formando operatori sanitari in loco per trattare i casi di malnutrizione e per aiutare le famiglie che hanno perso averi e bestiame attraverso programmi cash-for-work.

USA - L'esecuzione di Jerry Correl ha avuto luogo in Florida dopo 30 anni dalla condanna

Blog Città per la Vita
Washington - Circa trent'anni dopo la condanna a morte, ieri sera lo stato della Florida ha proceduto con l'esecuzione capitale di Jerry Correll di 59 anni attraverso una iniezione letale.


Jerry Correll
I vescovi della Florida avevano presentato un appello per salvare la vita di Jerry Correll, come Comunità di Sant'Egidio avevamo aderito alla loro petizione inviando numerose richieste al governatore Scott per la salvezza di Jerry.
Quella di Jerry Correl è la venticinquesima esecuzione capitale negli Usa nel 2015. Lo stato della Florida sta accelerando la ripresa delle esecuzioni. Negli ultimi anni, la pena di morte è stata utilizzata meno frequentemente a livello nazionale, ma il governatore Rick Scott ha contrastato questa tendenza. Come governatore, ha firmato più condanne a morte di tutti i suoi predecessori da quando la pena di morte è tornato in uso nel 1977.

“Abolite la pena di morte!" speriamo che queste parole di Papa Francesco rivolte al Congresso Usa nel suo recente viaggio siano ascoltate, ricordiamole:

"Sono convinto che questa sia la via migliore, dal momento che ogni vita è sacra, ogni persona umana è dotata di una inalienabile dignità, e la società può solo beneficiare dalla riabilitazione di coloro che sono condannati per crimini. Recentemente i miei fratelli vescovi qui negli Stati Uniti hanno rinnovato il loro appello per l’abolizione della pena di morte. Io non solo li appoggio, ma offro anche sostegno a tutti coloro che sono convinti che una giusta e necessaria punizione non deve mai escludere la dimensione della speranza e l’obiettivo della riabilitazione”.

Migranti: l'ennesima strage, 11 bambini morti in naufragi. Altri 15 ricoverati a Lesbo.

Ansa
E' di 11 bambini morti il bilancio di diversi naufragi avvenuti tra mercoledì e giovedì notte nelle acque dell'Egeo: la annuncia il ministero della Marina greco citato dai media di Atene. Il precedente bilancio era di 5 minori morti. Altri 15 piccoli sono stati ricoverati a Lesbo e 3 trasportati con un C-130 militare nella capitale per essere posti in terapia intensiva.

Almeno 21 migranti sono morti nel naufragio di due barconi al largo della Grecia nel corso della notte. Nei pressi dell'isola di Kalymnos i morti sono stati 18, 138 le persone messe in salve. Altri tre morti e sei soccorsi davanti a Rodi.

Un altro naufragio al largo della Spagna, 4 morti 35 dispersi - E' di almeno 4 morti e 35 dispersi il bilancio del naufragio di un barcone partito dal Marocco avvenuto ieri sera davanti alle coste spagnole di Malaga. Lo riferiscono i soccorritori spagnoli. 15 migranti sono stati salvati. Le operazioni di ricerca dei dispersi sono riprese stamani.

giovedì 29 ottobre 2015

Turchia: presidente imbavaglia ogni voce dell'opposizione, dopo le Tv, chiusi anche due quotidiani anti-Erdogan

Julie News
Ankara (Turchia) - Non si chiude l'uso della forza da parte del Presidente turco Recep Tayyip Erdogan per silenziare ogni voce dell'opposizione. E così, dopo aver chiuso mercoledì due Tv, ieri è toccato a due quotidiani considerati vicini alle opposizioni. La scusa utilizzata è stata la stessa usata per le TV: appartengono ad un gruppo di media e di ong che appoggiano e finanziano una cellula terroristica. 

E così ieri sera la Polizia è entrata nelle sedi dei quotidiani Bugun e Millet, impedendo ai giornalisti di lavorare e di far uscire nelle edicole i quotidiani. I dirigenti sono stati cacciati e al loro posto sono stati messi due amministratori nominati dal Tribunale. Il che non dice nulla sulla loro neutralità: dopo il repulisti fatto da Erdogan tra i magistrati che indagavano sul figlio e sui suoi ministri, ormai nessun magistrato osa dirgli di no per paura di fare la stessa fine.

Ormai della libertà di stampa in Turchia non rimane un gran che. Ed è significativa questa foto, che viene postata da tutti i giornali occidentali: la tessera di uno dei giornalisti sporca del sangue del proprietario, picchiato dalla Polizia durante l'incursione in una delle due Tv. I giornalisti hanno cercato di difendere il loro posto di lavoro, ma hanno potuto far poco contro i gas lacrimogeni.

Adesso l'unica domanda è: riuscirà la censura imposta da Erdogan con la violenta a fargli raggiungere quel 60% di voti che gli servono per trasformare la Costituzione da laica a fortemente religiosa?

Brasile - Consiglio missionario denuncia: nuovo attacco ai diritti dei popoli indigeni

MISNA
Si chiama Pec, Proposta di emendamento alla Costituzione 2015, il nuovo nemico dei popoli indigeni del Brasile. A Palmas, capitale di Tocantins, la prima edizione dei Giochi mondiali dei popoli indigeni è l’occasione per rilanciare una battaglia storica, quella per il diritto al possesso e all’utilizzo esclusivo dei territori ancestrali dei popoli nativi che sopravvivono agli interessi politici ed economici in un contesto da sempre ostile.
“La nuova stesura della Pec 2015 minaccia di essere ancora peggio della precedente” scrive Egon Heck, del segretariato nazionale del Consiglio indigenista Missionario (Cimi). “Originariamente l’emendamento mirava ad assegnare al Congresso la facoltà di decisione sulla demarcazione delle terre indigene che spetta oggi al governo. In realtà – sottolinea Heck – le terre indigene, in base all’articolo 231 della Costituzione appartengono originariamente a questi popoli e al governo spetta stabilirne i limiti e tutelarle”.

Ma l’ultima bozza della Pec 2015 si spinge anche oltre: ritira agli abitanti ancestrali l’usufrutto esclusivo delle risorse naturali presenti nei territori indigeni – su cui ricadono gli appetiti della grande industria estrattiva e dell’agrobusiness – e dà al Congresso il potere di imporre i nuovi criteri a tutte le terre indigene, anche quelle già demarcate, ‘regolarizzate’ o in processo di ‘regolarizzazione’.

Ovvero: le terre indigene del presente, del passato, del futuro saranno sotto il giogo dei parlamentari, in larga maggioranza anti-indigeni, così come la definizione di qualsiasi diritto degli indios sui loro stessi territori” evidenzia l’esponente del Cimi.
Ma i popoli indigeni brasiliani non si arrendono e sono pronti a intraprendere una nuova lotta per la delimitazione e la protezione delle loro terre tradizionali “che sono sacre per i nostri popoli – ripete il dirigente nativo Antonio Apinajé - e necessarie per l'equilibrio e la sostenibilità del clima sul pianeta Terra".

[FB]

Europa - Rifugiati: nuove barriere crescono, anche all’interno di Schengen

Il Manifesto
Unione europea. L'Austria alza una barriera al confine con la Slovenia, Lubiana "costretta ad adottare misure per fermare il flusso di migranti" se non verrà rispettato l'accordo del summit con i Balcani. Poco per volta, la Ue si barrica, non solo più alle frontiere esterne, ma ormai anche nello spazio Schengen



Nuove bar­riere cre­scono, poco per volta l’Europa si bar­rica non solo più alle fron­tiere esterne, ma per­sino al suo interno, nello spa­zio Schen­gen. L’Austria ha pre­ci­sato ieri le “misure strut­tu­rali” evo­cate la vigi­lia dalla mini­stra degli Interni, Johanna Mikl-Leitner: dovrebbe venire costruita una dop­pia bar­riera alla fron­tiera con la Slo­ve­nia, paese dell’Unione. 

Si tratta di assi­cu­rare un ingresso ordi­nato e con­trol­lato nel nostro paese – ha affer­mato Mikl-Leitner – non di chiu­dere la fron­tiera”, per “adot­tare tutte le pre­cau­zioni” di fronte a dei migranti con­si­de­rati “più impa­zienti, aggres­sivi e emo­tivi” negli ultimi tempi. La scorsa set­ti­mana, Mikl-Leitner aveva evo­cato la neces­sità di un’ “Europa for­tezza”. Il primo mini­stro, il social-democratico Wer­ner Fay­mann, ha pre­ci­sato che non ci saranno fili spi­nati, come in Unghe­ria, ma che la bar­riera si limi­terà ad essere una “porta con parti late­rali” chiuse. 
Non cre­diamo che il pro­blema attuale dei rifu­giati, che riguarda tutta l’Europa, possa venir risolto con la costru­zione di bar­riere e di muri”, ha rea­gito il por­ta­voce di Angela Mer­kel. 

Ma di fronte alla scelta austriaca, anche la Slo­ve­nia si pre­para ad alzare bar­riere al con­fine con la Croa­zia. Il paese è in affanno, dal 17 otto­bre circa 90mila rifu­giati hanno tran­si­tato per la nuova rotta dei Bal­cani, che passa per la Slo­ve­nia (dopo la chiu­sura dell’Ungheria). “Se gli accordi di dome­nica”, al mini-vertice di Bru­xel­les con i Bal­cani, “non ver­ranno rispet­tati, la Slo­ve­nia sarà costretta a adot­tare nuove misure per fer­mare il flusso di migranti”, ha affer­mato il primo mini­stro slo­veno Miro Cerar. E ha aggiunto: “se neces­sa­rio siamo pronti a costruire una bar­riera anche subito”. In Ger­ma­nia, l’accoglienza si raf­fredda. Il mini­stro degli Interni, Tho­mas de Mai­zière, ieri ha accu­sato l’Austria di man­dare migranti verso il con­fine tede­sco “nelle ore not­turne”, in modo che entrino in Ger­ma­nia senza essere notati. 
In Ger­ma­nia, le scelte di Angela Mer­kel sono sem­pre più cri­ti­cate e nel suo par­tito cre­scono ambi­zioni che fanno leva su un’inversione di ten­denza dell’accoglienza (anche il mini­stro delle finanze, Wol­fgang Schäu­ble, che nel pas­sato è stato agli Interni, sem­bra stia scal­dando i motori).
La lunga mar­cia verso l’Europa-fortezza era ini­ziata in Spa­gna nel ‘93, nelle enclave nor­da­fri­cane di Ceuta e Melilla, oggi ormai pro­tette da un tri­plice muro di metallo. Ha fatto seguito la Gre­cia nel 2012, con la prima bar­riera al con­fine turco. Poi l’anno scorso la Bul­ga­ria ha alzato uno sbar­ra­mento di 160 km, in parte finan­ziato dalla Ue. L’Ungheria fa figura di “modello” con i due muri innal­zati, prima al con­fine con la Ser­bia poi con la Croa­zia. 
Con una scelta con­tra­ria a que­sto pro­cesso di chiu­sura, ieri l’Europarlamento ha votato a favore di 1,16 miliardi di euro aggiun­tivi nel bilan­cio Ue 2016 a favore di misure per i rifu­giati, con­tro la posi­zione del Con­si­glio (che rap­pre­senta gli stati, ma sul bilan­cio Ue c’è la co-decisione).

Un’inchiesta dell’istituto Ifop, rea­liz­zata in sette paesi euro­pei, rileva che i cit­ta­dini euro­pei hanno sguardi dif­fe­renti sulla crisi dei rifu­giati, ma al di là delle diver­genze nazio­nali per­mane comun­que all’interno di ogni paese una divi­sione tra elet­to­rato di destra e di sini­stra. In media gene­rale, la Fran­cia e la Gran Bre­ta­gna, che sono tra i paesi meno toc­cati dalle ultime ondate di arrivi, sono i più reti­centi (per 46% di fran­cesi e bri­tan­nici non è un dovere acco­gliere, opi­nione con­di­visa solo dal 21% dei tede­schi e dal 32% degli ita­liani). Fran­cia e Ger­ma­nia, seguiti dall’Olanda, si oppon­gono in mag­gio­ranza (rispet­ti­va­mente solo 46% e 44% di favo­re­voli) alla ripar­ti­zione dei rifu­giati, pro­po­sta dalla Com­mis­sione con il pro­gramma che riguarda per il momento 160mila persone. 

La mag­gior parte dei paesi, Ita­lia com­presa, riten­gono di non avere i mezzi neces­sari per far fronte all’arrivo dei rifu­giati (men­tre per il 55% dei tede­schi sono “un’opportunità” per l’economia). Fran­cia e Gran Bre­ta­gna sono anche in testa nello scet­ti­ci­smo verso l’aiuto allo svi­luppo per evi­tare gli arrivi, ini­zia­tiva con­si­de­rata effi­cace invece dal 55% dei tede­schi, men­tre danno la pre­fe­renza al raf­for­za­mento dei con­trolli alle fron­tiere e, soprat­tutto in Fran­cia (29%), all’intervento mili­tare in Siria.

Anna Maria Merlo            

Malesia, il governo punisce la libertà d'espressione. Hrw: Professori, attivisti, scrittori portati in tribunale

La Repubblica
Il dibattito pubblico e le manifestazioni pacifiche non sono viste di buon occhio dal palazzo di Kuala Lumpur. Professori, attivisti, scrittori sono portati in tribunale grazie a una legislaslazione approssimativa. Human rights watch: "Bisogna fare pressioni per cambiare le leggi draconiane"
Roma - Libera espressione e dibattiti pubblici non piacciono al governo di Kuala Lumpur. Negli ultimi due anni, da quando i vertici sono stati colpiti da un'ondata di dissenso e scandali politici, lo Stato ha messo in atto un giro di vite che mira a zittire crititci, giornalisti e attivisti dei diritti umani. Per farlo, ricorre a delle leggi che lasciando ampio margine all'interpretazione diventano mezzi per portare in tribunale le voci scomode.

Processi sommari. Nel rapporto: "Basta trattare la critica come un crimine", Human rights watch denuncia la chiusura del governno nei confronti della libera espressione. Raccogliendo testimonianze e anaizzando le leggi del paese, il quadro che si evince è di un paese che sta pericolosamente regredento verso la repressione delle libertà individuali. Un percorso che si fa beffe degli obblighi internazionali di un paese democratico.

Dalle stelle alle stalle. All'epoca della sua elezione, nel 2009, il presidente Najib Razak si era defiito uno strenuo difensore delle libertà civili. Purtoppo le cose non sono andate come sperava. Nel 2013 infatti corruzione e scandali legati alla 1MDB, la compagnia nata per favorire lo sviluppo del paese e tacciata di essere usata per far confluire i fondi nei conti correnti del presidente e di altre personalità legate al governo, hanno innescato un'ondata di malcontento popolare che si è tradotta in manifestazioni e attacchi da parte dei media all'operato di Razak. Dal palazzo di Kuala Lumpur il presidente malese ha deciso di reprimere critici e oppositori sfruttando leggi che lasciano molto spazio all'interpretazione. Nel giro di pochi mesi attivisti, giornalisti, tipografi, professori e testate mediatiche sono stati presi di mira con l'intento di mettere a tacere le voci scomode. "Il primo ministro Najib Razak e il governo malese - afferma Brad Adams, direttore Hrw per l'Asia - hanno ripetutamente infranto la promessa di rivedere le leggi che criminalizzano l'espressione pacifica. Al contrario in Malesia si moltiplicano i processi contro gli oppositori. Il governo si sta facendo beffe della democrazia e dei diritti fondamentali".

Dal professore al fumettista. I processi contro i critici del governo Razak non risparmiano nessuno. Uno dei casi più eclatanti riguarda il professore di legge della Malaya University, Azmi Sharom. La sua colpa è di aver definito "illegale"l'azione del governo nella regione del Perak. Per Quest'affermazione è costata all'uomo non solo la sospensione dal suo incarico, ma anche un processo per sedizione che a oggi è ancora in corso. Ma il professor Sharom non è il solo a esser preso di mira dal governo. Anche il noto fumettista Zulkiflee Anwar Ulhaque, conosciuto come Zunar deve rispondere per nove accuse di sedizione: una per ogni Tweet che il fumettista ha condiviso contro la condanna a cinque anni di carcere dell'ex vice primo ministro Anwar Ibrahim con l'accusa di sodomia. In questo caso il governo oltre al diretto interessato si è scagliato anche contro tipografi, distributori e collaboratori del vignettista e ricorrendo anche al sequestrato di fumetti e libri. Due casi simbolo che nascondono centinaia di processi mossi dalle autorità contro civili accusati di criticare l'operato del governo.

Nessuno risponde. Apprendendo della situazione a dir poco preoccupante nel paese, Hrw ha chiesto spiegazioni a diversi organi governativi coinvolti in queste vicende, ma nessuno ha risposto. "Nel marzo 2014 - conclude Adams - il governo malese ha ribadito di fronte al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite il suo impegno nel migliorare il rispetto delle norme internazionali sui diritti umani. Ma per essere preso sul serio come il paese deve onorare questo impegno e fermare la criminalizzazione in atto contro i dissidenti e i critici del govero".

Di Chiara Nardinocchi

mercoledì 28 ottobre 2015

Ahead of Florida execution, bishops renew calls against death penalty

CNA
Tallahassee, Fla.- Stressing that capital punishment is not necessary in the modern-day U.S., Florida’s Catholic bishops have asked the state governor to commute the death sentence of inmate Jerry Correll, who is scheduled to be executed Thursday.
“Everyone, even people who have caused great harm, possess a human dignity that is sacred. State-sanctioned killing is unwarranted, promotes vengeance rather than justice, and reinforces a growing disrespect for the sacredness of all human life,” the Florida Conference of Catholic Bishops said Oct. 27.

They appealed to Florida Gov. Rick Scott to commute the sentence to life in prison without parole.

“Spending the remainder of one’s life in prison is a severe punishment, which allows for the prospect of conversion for the sinner and the opportunity to forgive the aggressors wrong doings.”

Correll was convicted in the 1985 murders of his ex-wife, their five-year-old daughter, and his ex-wife’s mother and sister.

His execution had been scheduled for February but was delayed pending a U.S. Supreme Court decision about the use of the drug midazolam in executions, the Orlando Sentinel reports. The court approved the use of the drug in July.

Florida’s bishops said Correll deserved “a just punishment” but not execution. They cited Pope Francis’ call for an end to the death penalty in his Sept. 24 address to a joint meeting of Congress during his U.S. visit.

The Pope had said “a just and necessary punishment must never exclude the dimension of hope.”

The bishops added: “through advances in our penal system, the state can keep society safe from an aggressor and justice can be served without resorting to the deliberate taking of a person’s life.”

Twenty-two inmates have been executed since Gov. Scott took office, the most executions under any Florida governor since 1976.

Florida’s bishops also announced multiple Catholic and interfaith prayer vigils against the death penalty in the week ahead of the scheduled execution.

They said Catholics and others will pray for both the victims and the aggressor, as well as for their families. They will pray “for our society which continues to impose violence in return for violence, and for an end to the use of the death penalty.”

Attentato al Bardo, giudici: "No all'estradizione di Touil in Tunisia, rischia la pena di morte".

ANSA
I giudici della V Corte d'Appello di Milano hanno negato l'estradizione verso la Tunisia di Abdel Mayid Touil, il marocchino accusato dalle autorità tunisine dell'attentato al Museo del Bardo. I giudici hanno così automaticamente revocato la misura cautelare per il giovane e disposto la sua scarcerazione.

Touil era stato arrestato lo scorso maggio su richiesta delle autorità giudiziarie tunisine in vista dell'estradizione. A comunicare il no alla 'consegna' del giovane alla Tunisia è stato il presidente della Corte d'appello di Milano Giovanni Canzio con una nota ufficiale. "Con sentenza del 26 ottobre 2015, depositata in data odierna, - si legge nel comunicato stampa - la Quinta sezione penale della Corte d'appello di Milano, su conforme requisitoria del procuratore generale, ha negato l'estradizione verso la Tunisia di Touil (...), accusato di essere coinvolto nell' attentato al museo del Bardo di Tunisi avvenuto il 18 marzo 2015".

"I fatti più gravi contestati all'estradando - continua la nota - sono puniti dal codice penale tunisino con la pena di morte. La pena capitale è ostativa all'estradizione, non essendo ammessa nell'ordinamento italiano (Costituzione, art. 27, quarto comma)". D'altra parte la convenzione bilaterale di estradizione Italia-Tunisia non prevede alcun meccanismo di conversione della pena di morte in altra sanzione detentiva. Né l'autorità tunisina ha fornito alcuna assicurazione sulla non esecuzione della pena capitale". "Al diniego di estradizione - conclude Canzio nel comunicato - consegue automaticamente la revoca delle misure cautelari e la scarcerazione dell'estradando".

La Procura di Milano ha chiesto l'archiviazione dell'inchiesta in cui Abdel Mayid Touil, il marocchino arrestato lo scorso maggio su richiesta delle autorità tunisine per l'attentato al Museo del Bardo. E' accusato di strage e di terrorismo internazionale. Per i pm milanesi non ci sono elementi sufficienti per ritenerlo responsabile.

Turchia, polizia occupa due tv di opposizione in diretta. Rischiano il carcere 2 ragazzi di 12 e 13 anni per aver strappato un manifesto di Ergogan

La Repubblica
Disperso con i lacrimogeni il presidio dei dipendenti che difendeva la sede. Le due emittenti 'commissariate' a pochi giorni dalle elezioni con l'accusa di fare "propaganda terroristica" per conto dell'imam-finanziere Fethullah Gulen. Due ragazzi di 12 e 13 anni arrestati per aver strappato poster con la foto del presidente
Roma - Nuovo attacco alla libertà di espressione e ai media in Turchia. A quattro giorni dalle elezioni, la polizia ha preso il controllo - in diretta televisiva - della regia di due emittenti vicine all'opposizione, Bugun tv e Kanalturk, di proprietà del gruppo Koza-Ipek. Gli agenti hanno disperso con i lacrimogeni e gli idranti giornalisti e dipendenti che cercavano di difendere l'ingresso della sede che ospita le due televisioni. Poi hanno occupato la redazione e la sala regia, malgrado il tentativo di resistenza da parte del direttore di Bugun Tv, Tarik Toros. La polizia ha fermato nove persone e una volta dentro l'edificio, ha staccato i cavi per interrompere le trasmissioni tv. A quel punto sono stati insediati i nuovi 'amministratori' delle due emittenti, nominati dalla magistratura.

Già la scorsa settimana era stato annunciato lo stop alle trasmissioni di 7 canali di opposizione dall'operatore satellitare di Stato, Turksat. Il gruppo Koza-Ipek - che controlla anche i quotidiani Bugun e Millet e il canale Kanalturk fortemente critici verso Erdogan - è stato messo sotto 'tutela' dalla magistratura perché accusato di "finanziare, reclutare e fare propaganda" per conto dell'imam-finanziere Fethullah Gulen, ex amico di Erdogan diventato il suo nemico numero 1 e accusato di guidare dagli Stati Uniti, dove è espatriato, una rete di ong e mezzi di comunicazione definita dalle autorità di Ankara una "organizzazione terroristica". 

Il presidente turco lo accusa di aver creato uno “stato parallelo” con l'intenzione di rovesciarlo attraverso false rivelazioni su presunte tangenti intascate da vari ministri poi costretti alle dimissioni nel dicembre 2013.Per le opposizioni si tratta però di una decisione tutta politica per mettere il bavaglio ai media critici in vista delle elezioni di domenica. 

Tra i tanti giornalisti giunti nella sede del gruppo in segno di solidarietà c'era anche Can Dundar, direttore del quotidiano di opposizione laica Cumhuriyet, per cui Erdogan invocò addirittura l'ergastolo prima del voto del 7 giugno scorso per alcuni scoop su una sospetta collaborazione e fornitura di armi dei servizi segreti turchi con l'Isis. "Questa è una censura dei media per cercare di influenzare le elezioni" anticipate di domenica prossima in cui il partito spera di riconquistare la maggioranza assoluta, ha accusato in diretta il direttore di Bugun tv.

Negli ultimi 25 giorni il 90% delle trasmissioni dal vivo della tv di Stato Trt sono state dedicate al presidente o al suo partito Akp (59 ore su 66), lasciando le briciole all'opposizione e appena 18 minuti al partito filo-curdo Hdp, che anche domenica prossima sarà l'ago della bilancia. Superando ancora per la seconda volta la soglia record di sbarramento al 10% dopo lo storico successo di giugno, quasi certamente impedirebbe all'Akp di recuperare la maggioranza parlamentare che Erdogan vuole a tutti i costi. Non solo. Impedirebbe a Erdogan di trasformare la Repubblica parlamentare in una presidenziale, vero obiettivo del presidente in carica.

Ma Recep Tayyip Erdogan non si ferma. I tentativi di reprimere la libertà di espressione si susseguono insistentemente. La giustizia turca ha aperto un fascicolo a carico di due ragazzi di 12 e 13 anni, accusati di "insulto" al presidente. Avevano "strappato un poster" con la sua immagine, riferisce il quotidiano Hürriyet. Ora rischiano da quattordici mesi a quattro anni e otto mesi di carcere. Erano stati sorpresi il primo maggio mentre strappavano un poster con la foto del capo di Stato per strada, a Diyarbakir, città del sud-est a maggioranza curda nel paese. "Strappavamo i manifesti per vendere la carta. Non prestavamo attenzione a chi c'era nella foto. Non sapevamo neanche chi era", si è difeso davanti al magistrato il più giovane dei due. La prima udienza è stata fissata per l'8 dicembre.

I due ragazzi sono perseguiti ai sensi dell'articolo 299 del codice penale turco che punisce chiunque "mina l'immagine" del capo dello Stato che prevede una pena massima di quattro anni di reclusione. Lo scorso dicembre, un minore di 17 anni è stato arrestato nella sua classe con la stessa accusa e condannato a 11 mesi.

Marocco - Torturato a morte un detenuto, poliziotti in arresto

MISNA
La giustizia marocchina ha ordinato l’arresto di otto poliziotti accusati da aver torturato a morte un detenuto. La vicenda – riportata con risalto dalla stampa nazionale – ha assunto i contorni di uno scandalo e sollevato diversi interrogativi sul clima di impunità all’interno del quale agiscono le forze dell’ordine nel paese.
Secondo quanto riportano i quotidiani Al sabah e Al Ahdath il procuratore della Repubblica di Casablanca ha ordinato per gli otto agenti in questione la detenzione provvisoria dopo che un giovane prigioniero marocchino, arrestato per possesso di stupefacenti, è stato ricoverato in fin di vista in un ospedale della città, dove è morto poche ore dopo.

Gli agenti sarebbero stati incriminati per “tortura a morte” di un detenuto. Il caso sta sollevando tanto più clamore tra l’opinione pubblica in quanto sono poche le vicende simili di cui si parla e che vengono denunciate in Marocco. In un rapporto pubblicato a maggio, con il titolo ‘L’ombra dell’impunità, la tortura in Marocco e in Sahara Occidentale’ l’ong Amnesty International aveva denunciato 173 casi di tortura tra il 2010 e il 2014 tra le cui vittime figuravano studenti, militanti politici di sinistra o di tenenze islamiste, sostenitori dell’autodeterminazione del Sahara Occidentale e criminali comuni.

[AdL]

martedì 27 ottobre 2015

Iran: appello per salvare dalla pena di morte 4 detenuti minorenni all'epoca del loro arresto

ncr-iran.org
Il regime iraniano ha condannato a morte quattro giovani detenuti nella prigione di Sanandaj, minorenni quando commisero i loro reati. La Resistenza Iraniana chiede a tutte le agenzie internazionali per i diritti umani, ed in particolare al Segretario Generale dell'Onu, all'Alto Commissario per i Diritti Umani, ai competenti inviati dell'Onu, all'Unione Europea e al Governo degli Stati Uniti, di prendere provvedimenti urgenti per impedire queste crudeli esecuzioni che violano molte leggi e trattati internazionali.

Yousef Mohammadi, 20 anni e Heeman Oraminejad, 18 anni, avevano entrambi 14 anni quando commisero i loro reati e ora sono stati condannati a morte. Siavosh Mahmoudi e Amanej Hosseini (Oveissi) arrestati a 17 anni, rischiano anche loro di essere impiccati. Un altro giovane, di nome Kiomars Nasseiri, detenuto anch'egli nella prigione di Sanandaj e arrestato quando era ancora minorenne, viene minacciato di essere condannato a morte.

Amnesty International ha detto che con l'esecuzione di due detenuti (Fatemeh Salbehi e Samad Zahabi), che avevano meno di 18 anni quando commisero i loro reati "ci si è fatti beffe della giustizia minorile". AI ha aggiunto: "L'utilizzo della pena di morte è crudele, disumano e degradante in qualunque circostanza, ma è assolutamente rivoltante quando viene inflitta come pena per un crimine commesso da una persona minore di 18 anni".

Anche il Segretario Generale dell'ONU Ban Ki-moon ha espresso la sua "profonda tristezza", il 19 Ottobre 2015, per l'esecuzione di due detenuti minorenni ordinata dal regime iraniano. Il comunicato del Unsg precisa: "Sembra che oltre 700 esecuzioni siano avvenute finora quest'anno" e le ha definite "il numero più alto registrato negli ultimi 12 anni". Ha poi chiesto al regime iraniano di stabilire una moratoria sulle esecuzioni in previsione di abolire del tutto la pena di morte. Ma il regime iraniano, che costantemente aumenta la catastrofica portata della repressione per creare un clima di terrore soprattutto verso i giovani, è incapace di fermare o persino di attenuare questa ondata di repressione ed in particolare il numero delle esecuzioni che mirano a contrastare le sempre maggiori proteste e la rabbia del popolo. In risposta alla condanna mondiale per le vergognose e sistematiche violazioni dei diritti umani in Iran, il capo della magistratura del regime, Sadeq Larijani, ha dichiarato: "Noi non abbandoneremo mai la legge della Sharia. La questione dei valori islamici riguarda la qualità del governo delle nazioni e gli altri non hanno alcun diritto di intervenire". E tutto questo nonostante il regime iraniano abbia sottoscritto i patti internazionali, come la Convenzione sui Diritti del Bambino, che vietano l'esecuzione di minorenni.

Segretariato del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana

UNHCR relief operations for thousands of refugees buffeted by the first winter storms

UNHCR
Geneva – The UN refugee agency said today it had begun distributing raincoats, blankets and other relief items to tens of thousands of refugees buffeted by the first winter storms that have already struck many parts of Central and South Eastern Europe, along with freezing temperatures.



The packages are to be distributed to the most vulnerable refugees up to February 2016. Their contents will vary depending on needs and circumstances, but the standard packages include sleeping bags, thermal blankets, raincoats, socks, clothes, and footwear.

The winter plans also include targeted provision of emergency shelters including family tents, refugee housing units and emergency reception facilities, and supporting efforts to improve reception and waiting areas and preparing or adapting them to winter conditions.

UNHCR is also seeking to identify people who might be more vulnerable to the cold, including the elderly and children, both unaccompanied or traveling with their families, and refer them to where they can receive the care they need.

So far this year, more than 644,000 refugees and migrants have arrived in Europe by sea. Thousands making an onward journey by foot, on buses and trains have been exposed to cold and rain at frequent bottlenecks in transit countries.

UNHCR is also preparing to help some 15 million displaced people survive the coming winter across the Middle East, in countries such as Jordan, Lebanon, Egypt, Iraq and Syria where temperatures in some areas frequently drop below freezing and snow storms are common. Vulnerable internally displaced people in Iraq and Syria will also receive aid.

A US $236 million UNHCR aid programme seeks to help 2.5 million Syrians and 700,000 Iraqis particularly exposed to winter conditions, is already underway. It includes a mix of extra cash, high thermal blankets, plastic tarpaulins and other shelter insulation ranging from tent liners to polystyrene foam boards and insulated floor mats.

In Lebanon, where more than half the country's 1 million plus refugees live in sub-standard shelters, preparations are in full swing to protect the most vulnerable families from possible winter storms. UNHCR has doubled the number of people receiving cash grants for winter in Lebanon this year because of this increased vulnerability among the refugee population.

The agency is giving four consecutive months of cash grants to more than 151,000 families (750,000 people) starting in November. This will allow refugees to stagger purchases such as fuel for heating. Among these, 75,000 Syrian families living above 500 metres will receive US $147 per month, while 76,000 families below 500 metres will receive US $100 per month.

Last winter hit Lebanon early in November and continued until late March, with several villages experiencing waves of snowfall, strong winds and heavy rain making access difficult, especially in locations above 1,600 metres.

In neighbouring Jordan, meanwhile, UNHCR's winter plan will support 229,400 vulnerable Syrians, representing 37 per cent of the population, through cash assistance, provision of relief items, and reinforcing shelters. For urban refugees, it will give cash to allow refugees to buy heating, blankets, clothing, shoes and other items.

In Syria itself, where temperatures dived to -13 degrees centigrade in many parts of the country last winter, UNHCR's aid programme aims to help almost a million refugees by distributing kits including thermal blankets, extra plastic sheets and winter clothes.

In Egypt, where 128,000 Syrian refugees have sought safety, UNHCR will give a one-off cash grant of US $28 to 48,000 of the most vulnerable Syrian refugees living mainly in Greater Cairo, Alexandria and Damietta to help them survive the winter.

These grants are distributed through the post office system across Egypt, and refugees typically spend the money on buying winter clothes, blankets or electric heaters.

lunedì 26 ottobre 2015

Turchia - Pugno duro su Gezi Park, 244 manifestanti condannati. Pene per medici che curarono feriti

ANSAmed
Istanbul - Una raffica di condanne per i manifestanti di Gezi Park alla vigilia delle elezioni anticipate in Turchia. Quasi due anni e mezzo dopo l'esplosione delle proteste contro la distruzione dell'area verde di piazza Taksim a Istanbul, trasformatesi poi in rivolta contro il governo allora guidato da Recep Tayyip Erdogan, la condanna di massa di 244 persone piomba sulla campagna elettorale lampo per il voto del primo novembre. 


Nel maxi-processo che vedeva imputati un totale di 255 manifestanti, tra cui 7 stranieri, un tribunale di Istanbul ha inflitto pene che variano da 2 mesi e mezzo a 1 anno 2 mesi e 16 giorni, tutte per reati legati alle proteste di Gezi Park. 

Una sentenza che ha risparmiato solo 7 attivisti, mentre la posizione di altri 4 è stata stralciata. I reati contestati vanno dal danneggiamento della proprietà pubblica alla partecipazione a manifestazioni non autorizzate, dall'interruzione di pubblico servizio alla protezione di sospetti criminali. 

Fino a una delle accuse più discusse, quella di "danneggiamento di un luogo di preghiera", per cui sono stati condannati 4 medici che avevano prestato un primo soccorso ad alcuni manifestanti feriti in una moschea del quartiere di Besiktas, non lontano da piazza Taksim. 

Un episodio che divenne simbolo della retorica usata contro le proteste dal governo Erdogan, che accusò gli imputati di aver portato e consumato alcool all'interno del luogo di preghiera. Una versione poi smentita dagli stessi imam e muezzin responsabili della moschea, che sono successivamente stati trasferiti con un provvedimento che molti osservatori giudicano punitivo. 

La decisione del tribunale arriva mentre restano ancora aperti molti dei processi contro le forze dell'ordine per la violenta repressione delle manifestazioni, in cui morirono otto persone e oltre ottomila rimasero ferite. Per settimane, milioni di dimostranti scesero in strada in tutto il Paese nella maggiore ondata di proteste vissuta negli ultimi decenni. 

Quella di Gezi Park resta insomma una ferita aperta nella società turca. Salvato finora lo spazio verde dalla distruzione, i progetti di rinnovamento urbanistico fortemente contestati a piazza Taksim e nel resto di Istanbul vanno avanti. Come gli scontri sulle politiche del governo di Ankara, considerate repressive dal popolo di Gezi e dalle opposizioni in parlamento. La sentenza di oggi giunge proprio mentre la Turchia si appresta a vivere le sue seconde elezioni politiche in 5 mesi, dopo che l'Akp di Erdogan ha perso la maggioranza parlamentare in quelle del 7 giugno. 

A fine agosto, passato senza risultati il periodo previsto per la formazione di un governo di coalizione, il presidente turco ha deciso un ritorno alle urne il cui esito sarà cruciale per il futuro del Paese. Un voto a cui i turchi giungono con la strage di Ankara ancora negli occhi e circondati da allarmi sempre più forti sulla libertà di espressione. Ora, negli ultimi giorni di campagna elettorale, anche Gezi torna al centro della scena.

di Cristoforo Spinella

domenica 25 ottobre 2015

Biram Abeid, il Madiba di Mauritania che sta morendo in carcere

Il Manifesto
Antischiavismo. Il leader dell'Initiative de résurgence du mouvement abolitionniste (Ira) sta scontando nella famigerata "Guantanamo dell'Africa occidentale" una condanna a due anni di carcere. Per aver preso parte a una manifestazione non autorizzata, recita la sentenza. Per aver sfidato il presidente Mohamed Ould Abdel Aziz alle scorse presidenziali, dicono invece i suoi seguaci.
Biram Dah Abeid
Rischia di morire in carcere Biram Dah Abeid, il Madiba di Mauritania. Il leader antischiavista dell'Initiative de résurgence du mouvement abolitionniste (Ira) è rinchiuso da quasi un anno nel penitenziario di Aleg, la famigerata "Guantanamo dell'Africa occidentale". E le sue condizioni di salute stanno peggiorando rapidamente. "Biram Abeid soffre di diabete, ernia del disco e ipertensione - la denuncia, lanciata dall'Osservatorio per la protezione dei difensori dei diritti umani - lamenta forti dolori addominali, vertigini, difficoltà di movimento e gravi disturbi del sonno".

"Siamo davvero preoccupati per la situazione - ci spiega Ivana Dama, portavoce di Ira in Italia - da qualche mese le autorità mauritane stanno negando a Biram l'accesso alle cure mediche e hanno inspiegabilmente limitato le visite in carcere. L'unica a venire ammessa, per sole due volte la settimana, è sua moglie. Che è anche l'unica a portargli del cibo decente".

Nel 2012 Abeid era finito in cella per aver dato fuoco in pubblico ad alcune presunte pagine del Corano, mediante le quali venivano indottrinati gli schiavi ad essere fieri della loro condizione. Oggi sta scontando una condanna a due anni di carcere. Per aver preso parte a una manifestazione non autorizzata, recita la sentenza. Per aver sfidato il presidente Mohamed Ould Abdel Aziz alle scorse presidenziali, dicono invece i suoi seguaci.

Il popolo degli ex schiavi haratine che alle elezioni del 21 giugno 2014 lo ha premiato con il 9% dei consensi. Una sorta di piccola rivoluzione in un paese dove si calcola che siano ancora 700 mila gli abd che vivono alle dipendenze di un padrone arabo-berbero (bidane, bianco), malgrado la schiavitù sia stata formalmente abolita per legge nel 1981.

Lo hanno arrestato pochi mesi dopo il voto, l'11 novembre, a seguito di una carovana di protesta organizzata a Rosso, al confine con il Senegal. A dicembre è giunta la prevedibile sentenza nei confronti suoi, del suo braccio destro Ould Brahim Bilal Ramdane e di Djiby Sow, leader di un'altra ong abolizionista, la Kawtal ngam Yellitaare. Resistenza alla forza pubblica, manifestazione non autorizzata e appartenenza a un'organizzazione non riconosciuta, i capi d'accusa per Abeid e Ramdane cui, lo scorso 20 agosto, è stata negato un ricorso in appello.

Poi nuovi arresti e nuove intimidazioni. Lo scorso 18 luglio l'attivista Yacoub Diarra, marito di Ivana Dama e anch'egli rappresentante di Ira Italia, è stato prelevato dalle forze dell'ordine, in piena notte, trascinato al commissariato di Dar-Naïm, poi rilasciato. Era tornato in Mauritania per celebrare la fine del Ramadan e far visita a Biram. "Oggi Biram ha bisogno di cure urgenti - aggiunge Ivana Dama -. Lanciamo un appello a politica e istituzioni perché intervengano. Non facciamo di lui l'ennesimo eroe postumo".

di Gilberto Mastromatteo

Ennesima tragedia. Migranti, decine di cadaveri sulle spiagge della Libia

La Repubblica
Quaranta i corpi recuperati sul litorale fra Tripoli e Khoms; altri trenta sarebbero i dispersi in seguito al naufragio
Roma - Una nuova tragedia dei migranti nel Mediterraneo, stavolta sulle coste della Libia. I corpi senza vita di 40 persone sono stati ritrovati sulla battiglia delle spiagge di Zliten, una città a est della capitale Tripoli. La croce rossa libica ha detto che i corpi erano sparsi a distanza sulla costa tra Tripoli e Khoms. Secondo Mohamed al-Masrati, portavoce dell'organizzazione umanitaria, nella maggior parte si tratterebbe di migranti provenienti da paesi dell'area subsahariana. La stessa fonte ha riferito che le autorità marittime sono

alla ricerca di altri trenta profughi che sarebbero dispersi in mare in seguito al naufragio del barcone che li trasportava. La Libia resta la base operativa delle maggiori organizzazioni criminali del traffico di esseri umani, aumentato a dismisura dopo il caos seguito alla caduta di Gheddafi.

Saharawi, i campi profughi cancellati dall'alluvione ale porte del deserto algerino

La Repubblica
Gli aiuti dalla Cooperazione italiana nei campi profughi di Tindouf. Una crisi complicata e difficilissima da risolvere con un muro lungo 2.700 chilometri che attraversa il deserto, emblema della mancanza di volontà del governo marocchino di riprendere i colloqui sulle rivendicazioni ultra quarantennali del popolo saharawi
ROMA - Guardando la distesa di fango che si estende per centinaia e centinaia di metri si fa fatica a credere che, solo poche ore prima, lì ci fosse un insediamento abitato. L'alluvione alle porte del deserto algerino che si è abbattuta nell'ultima settimana sui campi profughi Saharawi di Tindouf, ha letteralmente sciolto le case di mattoni di sabbia e abbattuto le tende, causando gravissimi danni, provocando ferite a decine di persone e coinvolgendo oltre 25mila sfollati.

Centinaia di famiglie senza riparo. Il bilancio della bomba d'acqua che il 20 ottobre ha investito le tendopoli del Sahara occidentale è drammatico. Centinaia di famiglie sono improvvisamente rimaste senza riparo. Scuole, asili, centri sanitari sono stati distrutti o seriamente danneggiati. Una situazione che ha generato un grave allarme anche in Italia, dove decine di nuclei familiari ospitano bambini saharawi nei mesi estivi. Ai danni materiali, si è aggiunta la perdita di ingenti quantità di cibo e di equipaggiamentI, aggravando una condizione già difficile.

Le risposte all'emergenza. Per fronteggiare questa emergenza, in accordo con la Rappresentanza del Fronte Polisario in Italia, le associazioni che si occupano da anni della causa hanno lanciato una raccolta di fondi e rivolto un appello ai Comuni, alle Regioni e all'intergruppo parlamentare di amicizia con il popolo saharawi, presieduto dal senatore Stefano Vaccari, che ha inviato una lettera ai colleghi per invitarli ad aderire ad una sottoscrizione. Il senatore si è inoltre attivato per chiedere al ministero degli Esteri italiano, attraverso l'ambasciata ad Algeri, un intervento urgente ed immediato per aiutare la popolazione colpita.

Il ruolo della Cooperazione Italiana. Le case con i muri fatti di mattoni di fango secco, impregnate di acqua, continuano a crollare anche dopo giorni. La gente si riversa nelle strade, allontanandosi da quanto resta delle loro abitazioni e monta vecchie tende fuori dagli accampamenti, dove tutti sono intenti a scavare fossati per fare defluire l'acqua dalle strutture rimaste miracolosamente in piedi. Per contribuire a ricostruire l'insediamento la Cooperazione italiana ha approvato la concessione di 200.000 euro in favore dell'Alto Commissariato Onu per i Rifugiati. In particolare, grazie all'Italia, sarà possibile assicurare la fornitura di beni di prima necessità ai rifugiati Saharawi e si potrà far fronte agli ingenti danni materiali causati dalle violente piogge nei cinque campi di accoglienza di Tindouf.

Sono 165 mila i profughi. Le alluvioni di questi giorni aggravano una situazione già drammatica che ormai da decenni costringe migliaia di persone ad un'esistenza al limite della sopravvivenza. La crisi del Sahara Occidentale resta una delle più complicate e difficili da risolvere per la comunità internazionale. E il muro di 2700 chilometri che attraversa il deserto dell'Algeria e del Marocco, emblema della mancanza di volontà del governo marocchino di riprendere i colloqui sulle rivendicazioni ultra quarantennali del popolo saharawi, è lì a testimoniarlo ogni giorno. Sono oltre 165mila, secondo le stime di UNHCR, i rifugiati che vivono nei campi allestiti dalla Repubblica araba democratica saharawi nel deserto algerino. Accampamenti fatti di tende e piccole costruzioni di sabbia che all'arrivo della stagione delle piogge, come avvenuto anche quest'anno, si sgretolano come castelli sul bagnasciuga.

La dignità di un popolo. Il popolo saharawi sopravvive con dignità, da oltre 40 anni, a condizioni di vita precarie. Gli aiuti umanitari permettono alla popolazione di sopperire alle carenze del luogo ostile che li ospita. L'organizzazione della vita quotidiana, dalle attività scolastiche, all'assistenza sanitaria, sono per lo più affidati alle donne. Dalle ministre che compongono il governo della Rasd, alle insegnanti, dalle operatrici sanitarie alle tante volontarie che operano nei campi. Loro, come i compagni e figli, nonostante le grandi difficoltà non smetteranno mai di combattere per far prevalere i loro diritti. Il popolo Saharawi considera come propria terra il Sahara Occidentale e non l'abbandoneranno mai. Qualsiasi costo questo implichi.

Classifica dei maggiori Paesi di provenienza dei rifugiati in Italia. Nigeria, Mali, Gambia i primi tre paesi

WEST
Secondo gli ultimi dati diffusi dal Ministero dell’interno, nel 2014, sul totale dei richiedenti asilo presenti in Italia, la maggior parte arriva della Nigeria: 10.138, con un aumento del 188% sul 2013 quando erano 3.519. Al secondo posto, tra i Paesi di provenienza, il Mali: 9.771 (+441% rispetto al 2013). Medaglia di bronzo al Gambia: 8.556 (+386%). 

Da notare che, nel periodo di tempo considerato, a diminuire sono stati quelli provenienti dall’Eritrea (-77%), dalla Somalia (-71%), dall’Egitto (-26%), dalla Siria (-20%), dalla Turchia (-17%), dalla Tunisia (-5%) e dall’Iran (-1%).


Emerge, inoltre, che a livello UE 28, la nostra Penisola si colloca in terza posizione per numero di richiedenti asilo: 64.625; +142,8 rispetto al 2013. Ci precedono solo la Germania (202.815; +59,7%) e la Svezia (81.325; +49,6%).

sabato 24 ottobre 2015

USA - Obama: "profondamente preoccupato" dal modo in cui viene applicata la pena di morte

TG Com 24
ll presidente Usa, Barack Obama, torna a parlare della pena di morte, dicendosi "profondamente preoccupato" dal modo in cui viene applicata. 

"E' proprio nel momento in cui discutiamo di come rendere il sistema più equo, più giusto, che dobbiamo includere un esame della pena di morte", ha detto in un'intervista a 'The Marshall project', insistendo su una profonda revisione del sistema.

Immigrazione - L’importanza della legge sullo «ius culturae» La scuola come fonte di cittadinanza

Avvenire
La questione migratoria è affrontata oggi in Italia con maggiore realismo. Le immagini drammatiche di migliaia rifugiati in fuga dalla guerra, ma anche i dati sul positivo impatto produttivo e demografico della presenza degli immigrati in Italia, non ci lasciano inerti e bloccati in visioni irrealiste. Un segno è l’approvazione alla Camera della riforma della legge in materia di acquisizione della cittadinanza. Si sono aggiornate norme pensate quando l’Italia era ancora solo marginalmente Paese d’immigrazione, per sanare l’ambigua situazione di quella 'seconda generazione' che, pur non essendolo de iure, è e si considera italiana in tutto e per tutto. 


Chi, in questi anni, si è fatto interprete delle esigenze di migliaia di giovanissimi che aspiravano alla normalizzazione della loro posizione, chi ha lavorato per l’integrazione di quanti contribuiscono alla nostra crescita produttiva, al nostro progresso civile, non può che gioirne. E sperare che il testo licenziato dalla Camera sia presto approvato dal Senato. La nuova legge – se ne è parlato anche su 'Avvenire' – è sfuggita alla tenaglia ius sanguinis-ius soli, per approdare a un’interpretazione originale della questione 'cittadinanza' che fa perno sul concetto che già l’allora ministro per l’Integrazione Andrea Riccardi aveva definito di ius culturae.

È italiano non solo chi è nato tale, ma anche chi lo diventa. E lo si diventa, tra l’altro, frequentando regolarmente, per almeno cinque anni, uno o più cicli presso istituti del sistema nazionale d’istruzione. La cittadinanza diviene un processo in cui la nostra lingua, la nostra tradizione culturale, il nostro umanesimo, forgiano un individuo rendendolo indistinguibile, se non per il cognome e forse per i tratti somatici da tanti altri concittadini. È impressionante vedere come a scuola bambini, ragazzi, adolescenti figli di stranieri, vivano già da italiani, parlino già da italiani, sognino già da italiani.

La riforma della cittadinanza pone la scuola al centro del processo di formazione dell’identità nazionale e, così facendo, non solo rende giustizia al lavoro appassionato di decine di migliaia di lavoratori dell’istruzione, ma continua quella 'mission' che la scuola medesima ha sempre avuto, nel nostro giovane Stato: 'fare gli italiani'. Alla scuola è riconosciuta quella centralità che dimostra giornalmente nel tessere connessioni e conoscenze nel vivo del contesto sociale, quella centralità che lo stesso presidente Mattarella ha di recente voluto sottolineare insignendo di onorificenze prestigiose diversi insegnanti o ex insegnanti.

Mi sono andato a rileggere alcune tra le pagine iniziali del libro 'Cuore'. Il protagonista, Enrico annota sul suo diario: «Ottobre 22, sabato - Ieri sera entrò il Direttore con un nuovo iscritto, un ragazzo di viso molto bruno, coi capelli neri, con gli occhi grandi e neri, con le sopracciglia folte e raggiunte sulla fronte, tutto vestito di scuro. Allora il maestro gli prese una mano, e disse alla classe: - Voi dovete essere contenti. Oggi entra nella scuola un piccolo italiano nato […] a più di 500 miglia di qua. Vogliate bene al vostro fratello venuto di lontano. Egli è nato in una terra gloriosa, […] abitata da un popolo pieno d’ingegno, di coraggio. Vogliategli bene, in maniera che non s’accorga di esser lontano dalla città dove è nato; fategli vedere che un ragazzo italiano, in qualunque scuola italiana metta il piede, ci trova dei fratelli. Derossi abbracciò il calabrese, dicendo con la sua voce chiara: Benvenuto! - e questi baciò lui sulle due guancie, con impeto. Tutti batterono le mani. Silenzio! - gridò il maestro, - non si batton le mani in iscuola! Ma si vedeva che era contento. Anche il calabrese era contento». Roba di un secolo e mezzo fa? Quanti ragazzi un po’ più bruni della media la scuola accoglie anche oggi con dedizione, come il piccolo calabrese di fine Ottocento?

Sì, la scuola ha contribuito a farci sentire tutti italiani, la scuola ci ha resi italiani, fratelli d’Italia dalle Alpi a Lampedusa. Ma quel processo non è finito, continua nell’oggi, generando nuovi figli dell’idioma di Dante, nuovi eredi dell’umanesimo di Manzoni, nuovi cittadini di una Repubblica fondata su valori di civiltà e di solidarietà.

Marco Impagliazzo

venerdì 23 ottobre 2015

Migranti, ONU: Praga viola diritti umani. Imposta detenzione degradante per 90 giorni anche a bambini

RSI News
Denunciata la detenzione sistematica dei profughi, anche bambini, in condizioni degradanti

L’Alto commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite, Zeid Ra’ad Al Hussein, ha denunciato mercoledì la "detenzione sistematica" in "condizioni degradanti" dei migranti, anche bambini, in Repubblica Ceca. È il solo fra i paesi di transito che impone in maniera regolare dei periodi di fermo dai 40 ai 90 giorni.

"Il diritto internazionale è chiaro: la detenzione per immigrazione deve essere solo una misura di ultima ratio, e se imposta a bambini e ai loro genitori costituisce una violazione", ha precisato Al Hussein, che interviene per la prima volta in modo così severo e critico contro un Governo.

In particolare il commissario ha citato il centro di Bela-Jevoza, 80 chilometri a nord di Praga, descritto dallo stesso ministro della giustizia del paese, Robert Pelikan, come "peggio di una prigione" e nel quale la mediatrice ceca Anna Sabatova ha contato centinaia di minori detenuti, secondo un rapporto diffuso il 13 ottobre.

Uganda: Alto Commissario Onu per i diritti umani condanna “uso eccessivo della forza” della polizia di Kampala

Agenzia Nova
Kampala - L'Ufficio dell'Alto Commissario delle Nazioni Unite (Ohchr) per i diritti umani in Uganda ha condannato “l'uso eccessivo della forza” da parte della polizia ugandese nei confronti dei sostenitori dell’opposizione, in vista delle elezioni presidenziali in programma nel febbraio del 2016. 

In una dichiarazione diffusa ieri, il rappresentante dell’Ohchr in Uganda, Uchenna Emelonye, ha sollecitato il governo di Kampala ad "avviare immediatamente un'indagine indipendente” e a “perseguire i funzionari che hanno fatto un uso eccessivo della forza sottoponendo dei cittadini a trattamenti crudeli, inumani o degradanti".

Alla Dieta di Tokyo un convegno sui diritti umani e la lotta alla pena di morte #nojusticewithoutlife

www.santegidio.org
Promosso dalla Comunità di Sant'Egidio, raccoglie rappresentanze giapponesi e internazionali del mondo religioso e politico per un comune impegno nell'affermazione del fondamentale diritto alla vita.
Il 22 ottobre nella Dieta del Giappone, con l'alto patronato dell'Ambasciata Italiana in Giappone e la Lega parlamentare per l'abolizione della pena di morte un importante convegno che si inserisce nella serie di eventi "NO JUSTICE WITHOUT LIFE".

Insieme a Mario Marazziti, presidente della Commissione per i Diriti Umani del Parlamento Italiano e ad Alberto Quattrucci della Comunità di Sant'Egidio, sono presenti rappresentanti del mondo politico e religioso giapponese, delegati internazionali, testimoni della condizione dei condannati nelle carceri giapponesi. VEDI IL PROGRAMMA

Mario Marazziti ha invitato il Giappone ad una serie di riforme legislative che gli consentano di occupare anche nel cmapo dei dirittiumani come già in quello dello sviluppo tecnologico, un posto di primo piano tra le democrazie mondiali.

"Perche’ il mondo e anche il Giappone possono essere migliori senza la pena di morte? - ha detto- Perchè quando lo stato uccide in nome della comunità, abbassa tutta la comunità al livello di chi uccide. Perché quando lo stato uccide, uccide dopo anni, a sangue freddo. Allora lo stato compie un’azione ancora più terribile di quella dell’assassino perché aggiunge un calcolo e una scientificità. E’ la differenza tra una prigione normale e un campo di sterminio, dove ogni azione è calcolata per distruggere lo mettano al pari delle moderne democrazie". LEGGI TUTTO IL TESTO

Anche Alberto Quattrucci ha esortato: "Continuiamo a lavorare per costruire ponti politici e culturali tra le isole giapponesi e il resto del mondo. Auspichiamo che il Giappone si misuri con gli standard internazionali, si inserisca con coraggio nel trend mondiale dell’abolizione della pena capitale" LEGGI TUTTO IL TESTO .

giovedì 22 ottobre 2015

Plus de 30 000 personnes risquent de mourir de faim au Soudan du Sud

Le Monde
Sans aide humanitaire « immédiate et d’urgence », plus de 30 000 personnes risquent de mourir de faim au Soudan du Sud, a alerté jeudi 22 octobre, l’Organisation des nations unies (ONU).
3,9 millions de personnes concernées par la crise alimentaire
D’après une étude publiée par le Cadre intégré de classification de la sécurité alimentaire (IPC), quelque 3,9 millions de personnes sont concernées par cette crise alimentaire – soit un tiers de la population du pays –, un chiffre en hausse de 80 % par rapport à la même période l’an passé. D’après l’IPC, si rien n’est fait pour améliorer la situation « va probablement se détériorer jusqu’à évoluer en famine » pour 30 000 personnes avant la fin de l’année.

Dans un communiqué commun, le Fonds pour l’enfance (Unicef), l’Organisation pour l’agriculture et l’alimentation (FAO) et le Programme alimentaire mondial (PAM) tirent la sonnette d’alarme :
« La faim extrême est en train de porter les populations au bord du gouffre dans certaines parties du Soudan du Sud (…) Certaines familles déplacées racontent qu’elles survivent grâce à un repas par jour constitué de poisson et de nénuphars. »

D’après le responsable du PAM dans le pays, Joyce Luma :
« C’est le début de la récolte et nous devrions assister à une amélioration sensible de la situation de la sécurité alimentaire dans tout le pays, mais, malheureusement, ce n’est pas le cas dans des régions comme le sud de l’état d’Unité, où les gens sont au bord d’une catastrophe qui ne peut plus être empêchée. »

Les zones les plus touchées se situent dans l’Etat d’Unité (nord), la principale zone pétrolifère du pays, où se déroulent d’intenses combats, accompagnés d’enlèvements et de viols en grand nombre de femmes et d’enfants.

Pour les trois organisations des Nations unies, « l’aide humanitaire a été entravée par une extrême violence et l’inaccessibilité ces derniers mois ». Elles sollicitent donc « un accès immédiat » aux zones les plus durement touchées afin d’intervenir sur place
Un conflit qui dure depuis près de deux
Le Soudan du Sud est le théâtre depuis décembre 2013 d’une guerre opposant l’armée régulière fidèle au président, Salva Kiir, à une rébellion dirigée par son ancien vice-président et rival, Riek Machar.

La guerre civile, marquée par des massacres et des atrocités d’une violence inouïe attribués aux deux camps, a fait des dizaines de milliers de morts et chassé quelque 2,2 millions de Sud-Soudanais de leurs foyers. La plus jeune nation du monde a proclamé son indépendance en juillet 2011 après des décennies de conflit avec le Soudan.

D’après les Nations unies, la guerre civile a déjà fait près de 50 000 morts et 2,5 millions de déplacés. Les effets du conflit se ressentent même loin du front, les prix des denrées de base (farine, riz, haricot, huile) ayant pour certains triplé en un an.

Le Soudan du Sud est le théâtre depuis décembre 2013 d’une guerre opposant l’armée régulière fidèle au président, Salva Kiir, à une rébellion dirigée par son ancien vice-président et rival, Riek Machar .
Un accord de paix déjà violé ?
Après un conflit qui a duré près de deux ans, le président sud-soudanais, Salva Kiir, signait, le 26 août, un accord censé mettre fin à la guerre civile. Le texte prévoyait un partage du pouvoir, attribuant notamment un poste de « premier vice-président » aux insurgés de Riek Machar durant une période transitoire de trente mois, la démilitarisation de la capitale, Juba, ou encore l’octroi de la majorité des postes ministériels aux rebelles dans l’Etat pétrolier du Haut-Nil.

Mais l’accord n’a finalement jamais été appliqué. Quelques heures seulement après le cessez-le-feu, des combats se sont déroulés autour de Malakal, capitale de l’Etat du Haut-Nil, et à Leer, dans l’Etat d’Unité. Le chef de la rébellion Riek Machar a dénoncé à la fin d’août un accord de paix qui « a été rompu. Le gouvernement est incapable de contrôler ses troupes ».

Face à cette situation, l’ONU est totalement impuissante. En marge de l’Assemblée générale de l’institution, le 29 septembre, son secrétaire général, Ban Ki-moo,n a malgré tout rappelé Salava Kiir et Riek Machar à leurs engagement en faveur d’une cessation des hostilités. Sans résultat jusqu’ici.