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sabato 31 maggio 2014

Sudan - Meriam: rinviata di due anni l'esecuzione della condanna a morte per apostasia

Blasting News
Meriam partorisce in carcere la sua bimba: il tribunale rinvia di due anni l'esecuzione della condanna a morte.
Apostasia: un termine altisonante che deriva dalle parole greche "apo"(lontano) e "stasis" (restare) e indica l'abbandono volontario, il ripudio della propria religione, del proprio credo. Un termine che, a primo impatto, richiama alla mente altri tempi, altri luoghi, altre società e che contrasta con i moderni ideali di pluralismo culturale, di libertà religiosa, di diritti umani.

L'apostasia è, invece, ancora oggi, considerata dalla legge islamica tradizionale come un reato, punibile con la pena di morte. Per la Sharia, infatti, un non musulmano è libero di accettare o meno l'Islam e le sue leggi, ma un musulmano non può abbandonare la sua religione: il rifiuto del modello di vita islamico, dopo averlo accettato, è considerato un vero e proprio crimine, una rivolta che comporta una propaganda negativa nei confronti della religione islamica e una minaccia per l'ordine sociale e morale.

Meriam Yahia Ibrahim Ishag, ragazza sudanese di 27 anni, è stata arrestata nel mese di febbraio e condannata a morte per impiccagione qualche settimana fa: l'accusa è, appunto, quella di apostasia. Secondo il giudice che ha emesso la sentenza, la giovane, anche se regolarmente sposata con Daniel Wani, sudanese cristiano con cittadinanza americana, si sarebbe macchiata del reato contestato in quanto avrebbe rinnegato la religione del padre, musulmano. Meriam è stata condannata anche a cento frustate per adulterio: il matrimonio con un cristiano, infatti, non è ritenuto valido dalla Sharia.

Alla ragazza è stata concessa, per tre giorni, la possibilità di rientrare tra i fedeli islamici e, quindi, di evitare la pena capitale. Meriam ha rifiutato, confermando la sua posizione: "sono cristiana e mai ho commesso apostasia". In effetti, la giovane, abbandonata dal padre all'età di 6 anni, è stata cresciuta nelle fede cristiana (la madre è un'etiope ortodossa): nonostante ciò, poiché il padre è di religione musulmana, il diritto sudanese ritiene tale anche lei e considera nullo il suo matrimonio con un non musulmano.

Meriam è stata messa in carcere nonostante fosse in attesa di un bambino: in prigione con lei, già da febbraio, il piccolo Martin, figlio della coppia. Martedì 27 maggio è nata Maya: la notizia del parto è stata comunicata da Antonella Napoli, presidente di Italians for Darfur, l'ONG promotrice di un appello per la liberazione della giovane. Intanto, anche la neonata, dovrà rimanere in carcere con la mamma. Secondo le notizie pervenute, dopo aver partorito, in catene, nell'ala ospedaliera del carcere di Khartum in cui è reclusa, la donna è stata riportata nella sua cella. Daniel Wami è riuscito ad incontrare i suoi cari, ma la sua sofferenza per una situazione così tragica rimane assolutamente invariata.

Il tribunale ha preso la decisione di rinviare l'esecuzione della pena capitale per due anni, a far data dalla nascita della bimba. La vicenda della giovane ha dato luogo ad una vera e propria mobilitazione internazionale, che sui social networks ha avuto e continua ad avere una grande risonanza: si chiedono la liberazione di Meriam, il rispetto dei diritti umani e la garanzia della libertà di religione, sanciti dal Diritto Internazionale e dalla stessa Costituzione Sudanese. Gli avvocati di Meriam hanno presentato ricorso alla Corte d'Appello: se tale ricorso dovesse essere infruttuoso, si sta già pensando di portare il caso davanti alla Corte Suprema del Sudan. Intanto, sempre dal Sudan, arriva la notizia di un'altra donna in prigione da aprile per aver dichiarato di essere cristiana.

Migrazioni e contrabbando - L’incubo dei migranti nello Yemen HRW fa luce sui campi di detenzione e tortura

L'Indro
Ogni anno, più di diecimila migranti attraversano il territorio dello Yemen per raggiungere l’Arabia Saudita. Human Rights Watch, l’organizzazione internazionale che si propone di difendere i diritti dei popoli nel mondo, ha fatto luce sul traffico illegale da milioni di dollari sviluppatasi intorno alla presenza e al passaggio dei migranti nello Yemen. 

Human Rights Watch, a seguito di attente e scrupolose ricerche effettuate in loco, ha rilasciato la scorsa settimana il suo rapporto shock dal titolo “Torture Camps in Yemen – The abuse of migrants by human traffickers in a climate of imputinity." Il quadro è chiaro nella sua gravità: nello Yemen, le migliaia di migranti africani che partono per cercare fortuna nella ricca Arabia Saudita, sono vittime di organizzazioni criminali che gestiscono un traffico illegale di forza lavoro in un clima di impunità.

Lo Yemen, paese situato lungo la direttiva che unisce il Corno d’Africa ai ricchi emirati del Golfo, accoglie una migrazione definibile come ‘mista’. Un melting-pot di persone che fuggono dall’Africa per i più svariati motivi. 

Non sono soltanto le persecuzioni politiche in Somalia e in Etiopia la ragione che spinge migliaia di uomini e donne a fuggire, ma anche le gravi condizioni socio-economiche legate alle ondate di siccità che disidratano le risorse dei villaggi africani. 

Un altro fattore da tenere in considerazione, è che ormai non tutti coloro che approdano nello Yemen godono dello status di rifugiati. Negli anni passati, i somali che richiedevano il riconoscimento della condizione di rifugiati, venivano accolti nei campi dedicati, gestiti dalle organizzazioni delle Nazioni Unite e messi a disposizione dalle autorità yemenite.

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Lunid - Al via "Osservatorio di Testimonianze di Successi" nei diritti umani

ANSA
Raccogliere e diffondere esperienze positive e di successo in tema di diritti umani. 

E' l'obiettivo dell''Osservatorio di Testimonianze di Successi' che nasce oggi a Roma per iniziativa della Libera Universita' dei Diritti Umani (Lunid)

L'Osservatorio, che punta quindi a potenziare le risorse positive esistenti, prevede la costituzione di una specifica Anagrafe e vuole, fra l'altro, acquisire 'storie' di protagonisti, individuali e collettivi; divulgare esperienze di lavoro e di vita che presentino coerenza fra obiettivi e risultati; promuovere concorsi, rivolti in particolare alle scuole, su produzioni audiovisive, multimediali e di scrittura che documentino la memoria dei testimoni di ieri e le buone pratiche di oggi. 

"La finalita' complessiva dell'Osservatorio - ha spiegato Gioia Di Cristofaro Longo, presidente della Lunid - e' quella di essere strumento di visibilita' e comunicazione di quanto viene considerato e proposto come eccellenza a tutti i livelli". L'iniziativa - ha aggiunto - vuole quindi "far conoscere esperienze a livello micro e macro che possano essere percepite e lette come successi nell'accezione di esito positivo". 

In contrasto percio' alla sola e diffusa visibilita' di eventi e fatti negativi che puo' "compromettere gravemente la costruzione dell'identita' culturale". La finalita' indiretta, ma altrettanto importante dell'Osservatorio - ha concluso Di Cristofaro Longo - "e' quella di costruire 'reti', che partendo dall'elemento primo della conoscenza siano in grado di operare attraverso collaborazioni nuove che, a mo' di di cerchi concentrici, raggiungano un numero sempre piu' esteso di interlocutori".


Egitto: sciopero della fame di massa nelle carceri, partecipano 23 mila detenuti politici

Ansa
I Fratelli musulmani hanno annunciato che "piu' di 23 mila detenuti politici cominceranno oggi uno sciopero della fame e un sit-in all'interno delle celle in segno di protesta contro la propria detenzione". 

L'annuncio dello sciopero della fame di massa viene riportato da Ikhwan online, il sito ufficiale della Confraternita egiziana costretta alla clandestinità dal dicembre scorso dopo gli attentati seguiti alla defenestrazione del presidente Mohamed Morsi, espressione del loro movimento.

La protesta scatta due giorni dopo la conclusione delle elezioni presidenziali vinte da Abdel Fattah al Sisi. Il sito precisa che "nel quadro dell'escalation della loro protesta, i detenuti eviteranno di uscire durante l'ora d'aria, di ricevere visite o di comparire davanti ai tribunali". "L'Alleanza dei centri dei diritti dell'Uomo" ha sostenuto di aver ricevuto circa 5.000 messaggi di famiglie di detenuti che dichiarano la propria partecipazione alla protesta la quale durerà una settimana in 114 carceri sparsi in 24 dei 29 governatorati egiziani. 

L'Organizzazione, sul proprio sito internet, annuncia inoltre la formazione di squadre di medici che seguiranno lo stato di salute degli scioperanti e interverranno in caso di necessità. Le richieste della protesta sono la "cessazione immediata della tortura nelle prigioni", la scarcerazione anch'essa "immediata di tutti i detenuti politici e la formazione di commissioni giudiziarie per la revisione di tutti i processi aperti dal 3 luglio ad oggi". Il riferimento, implicito, è al giorno della deposizione di Morsi.

venerdì 30 maggio 2014

Africa - Al via la campagna dell’Unione Africana (Ua) contro i matrimoni di bambine

Misna
Interventi legislativi mirati e un più generale impegno di sensibilizzazione: sono i due pilastri sui quali si regge una nuova campagna dell’Unione Africana (Ua) che mira a contrastare il fenomeno delle bambine spose.
“La cultura o la religione – ha sottolineato Olawale Maiyegun, direttrice della Commissione affari sociali dell’Ua – non possono essere in alcun modo una scusa: bisogna porre fine a questa pratica che viola i diritti dei bambini”.

Secondo dati delle Nazioni Unite, ogni anno circa 14 milioni di ragazze sono costrette a sposarsi prematuramente. Molte di loro vivono in Africa. A sud del Sahara la situazione appare particolarmente critica in Niger e in Ciad, paesi dove i tassi di matrimoni in età precoce sfiorerebbero il 70%.

Press release of ICEGA concerning the death sentences against 683 Citizen in Egypt




Iran: allarme per l'esecuzione imminente del detenuto politico Gholamreza Khossravi

www.ncr-iran.org
Appello a Onu, Usa, Unione Europea e difensori dei diritti umani per impedire l'esecuzione di Gholamreza Khossravi.
La Resistenza Iraniana lancia l'allarme per l'imminente esecuzione del prigioniero politico e operaio Gholamreza Khossravi Savadjani, trasferito mercoledì mattina, 28 Maggio, dalla sezione 350 della prigione di Evin a quella per l'esecuzione delle condanne a morte nella stessa prigione e chiede alla comunità internazionale, in particolare all'Unione Europea, al Governo degli Stati Uniti, al Segretario Generale dell'Onu all'Alto Commissariato per i Diritti Umani, agli inviati dell'Onu competenti e a tutte le organizzazioni ed associazioni che difendono i diritti umani e la libertà di espressione, di intraprendere azioni immediate ed efficaci per impedire la criminale esecuzione di questo prigioniero politico.

giovedì 29 maggio 2014

Sudan: un'altra donna arrestata apostasia, accusata di essersi convertita al cristianesimo da Islam

ANSA
Dopo il caso di Meriam, un'altra donna si trova in carcere in Sudan per apostasia. 

Lo scrive il Morning Star. Faiza Abdalla, 37 anni, è stata arrestata il 2 Aprile dopo aver dichiarato all'anagrafe di essere cristiana. Secondo i funzionari si sarebbe convertita dall'Islam. 

Una fonte del Morning Star riferisce che la sua famiglia era già cristiana prima che lei nascesse. Le accuse sarebbero quindi infondate. In seguito all'arresto, una corte ha annullato il suo matrimonio con un cristiano.

Rep. Centrafrica - Bangui - Assalto ad una chiesa che offriva rifugio a migliaia di sfollati

MISNA

Assalto di miliziani armati alla chiesa di Nostra Signora di Fatima, a Bangui: lo dice alla MISNA padre Cyriaque Gbate Doumalo, segretario generale della Conferenza episcopale del Centrafrica.

All’interno e nelle vicinanze del luogo di culto, non lontano dal quartiere perlopiù musulmano Pk-5, avevano trovato rifugio migliaia di sfollati. Secondo il segretario della Conferenza episcopale, “i feriti sono molti e tra le vittime c’è anche un sacerdote diocesano, padre Paul-Emile Nzale, che assisteva i più vulnerabili”.

L’assalto, cominciato ieri pomeriggio, sarebbe stato condotto da ribelli della coalizione Seleka. “Per difendere gli sfollati in fuga sono intervenuti militanti Anti-Balaka – sottolinea padre Cyriaque – e scontri a fuoco sono in corso ancora questa mattina”.

“La parrocchia Nostra Signora di Fatima si è svuotata e il quartiere è deserto: circa 3000 sfollati hanno trovato rifugio in altre chiese vicine. Molte strade di Bangui sono vuote, la gente è rintanata dentro casa. Ci sono barricate un po’ ovunque mentre i giovani protestano contro i soldati burundesi della Misca per non aver impedito l’attacco di ieri”: a descrivere alla MISNA la situazione nella capitale sono fonti locali della Conferenza episcopale centrafricana contattate nella parrocchia attaccata “da non meglio identificati musulmani”.

Il bilancio dell’assalto, ancora provvisorio, è di 17 morti e una trentina di feriti da proiettili vaganti. A destare preoccupazione è la sorte di un numero imprecisato di giovani portati via dagli assalitori, giunti dal vicino quartiere del km 5 (Pk5), abitato per lo più da cittadini musulmani ma forse infiltrato da ex ribelli della coalizione Seleka.

“Speriamo di riuscire ad impedire vendette e rappresaglie. La rabbia è tantanei confronti dei caschi verdi burundesi ma anche dei francesi della Sangaris che non hanno fatto nulla per proteggere civili indifesi” aggiungono le fonti della MISNA.

Intanto il primo ministro di transizione André Nzapayéké ha denunciato un “complotto orchestrato da uomini politici, sia nel governo che nell’ufficio della presidenza, per destabilizzare il potere”. Ousmane Abakar, portavoce della comunità musulmana del Pk5, ha invece puntato il dito contro le milizie di autodifesa Anti-Balaka, responsabili di un “piano macabro”. All’attacco avrebbero partecipato circa 200 uomini armati.

USA: le prigioni nuovi ospedali psichiatrici, ridotti fondi per la salute mentale

Tm News
Negli Stati Uniti le prigioni sono diventate i nuovi ospedali psichiatrici. Chi si occupa di salute mentale non ha una laurea in psicologia o in psichiatria, né ha fatto studi approfonditi sui problemi legati alla schizofrenia. Chi tutti i giorni si confronta con persone colpite da patologie psicologiche non è un medico, ma uno sceriffo. 

Un caso emblematico è quello del carcere della contea di Cook (Illinois), il più grande del Paese: qui il 30% dei 10.000 detenuti soffre di gravi disturbi psichici. L'esplosione di questo fenomeno è legata al fatto che negli Stati uniti i fondi destinati alla salute mentale sono sempre meno. Secondo la non profit National Alliance on Mental Illness, dal 2009 al 2012 gli Stati americani hanno ridotto i finanziamenti per la cura dei pazienti con disturbi mentali di 1,6 miliardi di dollari, cioè quasi il 10% in meno in tre anni. Oltre a questo, i tagli a livello locale e federale sono sempre di più incisivi, così quando i servizi sanitari specifici smettono di essere erogati da strutture specializzate, subentrano le carceri. Qui l'assistenza che viene garantita a questo tipo di detenuti, pagata con i soldi dei contribuenti, lascia molto a desiderare.

Secondo il Treatment Advocacy Center, in 44 Stati su 50 sono le prigioni a prendersi cura di persone con gravi patologie mentali che invece dovrebbero essere curate in aree degli ospedali psichiatrici dedicate o in strutture carcerarie con personale specializzato: il numero di persone con disturbi psichici che attualmente si trova dietro le sbarre è dieci volte superiore a quello dei pazienti assistiti nei centri di igiene mentale. Nella maggior parte dei casi, si trovano in carcere perché accusati di reati minori, come furto, violazione di domicilio e possesso di droga. Restano in prigione perché non possono permettersi di pagare la cauzione o perché non hanno nessun altro posto dove andare. Il governo ha stimato che a gennaio 2013 le persone senza fissa dimora erano quasi 388.000 in tutto il Paese, il 20-25% dei quali ha problemi psichiatrici.

Bari: detenuto 29enne suicida, era in attesa di giudizio

Ansa
Un detenuto di 28 anni, in attesa di giudizio per reati contro il patrimonio e la persona, si è suicidato impiccandosi nel carcere di Bari. 

Lo rende noto la segreteria generale del Cosp (Coordinamento sindacale penitenziario), secondo cui dall'inizio dell'anno sono sei i suicidi avvenuti in Puglia e otto i tentativi di suicidio sventati. Il suicidio, secondo quanto riferisce il Cosp, si è verificato attorno alle 15 nel settore protetti della sezione promiscua del carcere. A Bari, secondo il coordinamento, "ci sono situazioni al limite con sovraffollamento detentivo, gravi criticità strutturali e sanitarie, grave carenza di dipendenti di polizia penitenziaria.

Italia - carcere: don Balducchi (Cappellani); gli sforzi fatti non bastano, politica vada avanti

Adnkronos
Sul sovraffollamento delle carceri è stato fatto "qualche sforzo in più, ma non basta". Don Virgilio Balducchi, ispettore generale dei cappellani che operano nelle carceri, riconosce che qualche cosa dopo il monito di Strasburgo è stato fatto in materia di sovraffollamento carcerario, ma molto resta "ancora da fare".
In particolare, oggi è il giorno della scadenza dopo che la Corte europea, con la sentenza Torreggiani (uno dei sette detenuti che hanno fatto causa per trattamento inumano vedendosi riconoscere un risarcimento di 100 mila euro), ha intimato all'Italia di intervenire dimostrando di aver cambiato rotta e di aver individuato uno strumento per risarcire i carcerati che hanno vissuto in spazi del tutto insufficienti e inadeguati. "Sicuramente - afferma all'Adnkronos l'ispettore dei cappellani - un po' di sforzi sono stati fatti, sia in relazione alla normativa, sia in relazione al sovraffollamento".

Tuttavia, a modo di vedere di don Balducchi, l'Italia non ha fatto completamente i compiti a casa. "Bisognerà, prima di tutto, vedere se Strasburgo giudicherà sufficienti le migliorie fatte nel frattempo, ma quando penso alle carceri delle grandi città è evidente che la situazione non è ancora risolta". E la soluzione, avverte l'ispettore dei cappellani delle carceri, non sta nella costruzione di nuove celle: "Basterebbe non usarle come luogo dove scaricare il disagio della società".

Ecco allora l'appello: "Mi auguro che i politici vadano avanti, facendo però in modo che il carcere sia l'estrema ratio". Don Balducchi ha in mente in particolare i tossicodipendenti, gli stranieri, chi ha malattie mentali. "Il nostro Paese - prosegue - sta cercando di migliorare l'emergenza e ha messo in moto dei cambiamenti. Bisogna però non fermarsi e andare avanti su questa strada. Un po' tutti continuano a chiedere trattamenti più umani per i detenuti e allora si continui in tal senso, senza far cadere nel vuoto i tanti appelli".

Israele: ricoverati 40 detenuti palestinesi in sciopero fame, almeno 240 protestano

Tm News
L'amministrazione penitenziaria israeliana ha ricoverato in ospedale 40 detenuti palestinesi che sono in sciopero della fame da oltre un mese per protestare contro la detenzione amministrativa, ovvero senza incriminazione, né processo. 

Lo ha annunciato la sua portavoce, Sivan Weizman, assicurando che lo stato di salute dei prigionieri ricoverati, ripartiti in nove strutture diverse, sono "ragionevoli". Secondo Weizman, 240 prigionieri palestinesi partecipano alla protesta, lanciata cinque settimane fa per chiedere la fine della incarcerazione amministrativa. Secondo fonti ufficiali palestinesi i detenuti che rifiutano il cibo sono invece 300.

Manifestazioni e sit-in a favore dei prigionieri si sono svolti oggi a Ramallah e Gaza davanti alla sede dell'Onu e della Croce rossa. Circa 5.000 palestinesi sono incarcerati nelle prigioni israeliane, la maggior parte per motivi di sicurezza. La detenzione amministrativa è una controversa disposizione ereditata dal mandato britannico sulla Palestina che permette di incarcerare dei sospetti senza incriminazione e né processo per periodi di sei mesi rinnovabili indefinitamente. Israele vi ricorre per tenere segreti i dossier dei sospetti e proteggere la sua rete di informatori, considerati dei "collaborazionisti" dai palestinesi.

The War Against Education in Pakistan - Girls away from education

The Huffington Post
Throughout the years of turmoil and instability in Pakistan, the education sector has remained a central target of all parties engaged in armed conflicts. Enraged over thethreats from an underground Islamic extremist organization that led to the forceful closure of girls' schools in Pakistan's largest province of Balochistan earlier this month, the public has come out on roads to expostulate over the ban.
The government's response to the extremist group's warnings has been totally unsatisfactory which has, in a way, sent a message of encouragement to those who want to keep girls away from education. Dozens of girls' schools remain shut in the Pakistan-Iran border town of Panjgur simply because the government is either unwilling or unable to provide them security from armed religious fanatics. Pakistan's federal and provincial governments' response is inadequate to push back theopponents of girls' education and inculcate a sense of security among the threatened young female students.

Increasing public protests in Balochistan demanding the continuity of girls' education and elimination of extremist groups challenges Pakistan's state-sponsored narrative about the resource-rich province. For years, Pakistan's civil and military rulers have cleverly skirted their responsibilities with regards to educating Balochistan. Islamabad has absurdly created this impression that the people of Balochistan are not interested in sending their children to schools. Now that thousands of parents and students are marching on the roads asking for uninterrupted education for the daughters of Balochistan, the government is missing.

The Pakistani media, with the help of the central government, has promoted this perception across the board about Balochistan that the tribal chiefs of the province oppose construction of schools and the promotion of education among the people because the tribal chiefs fear losing control over the local population once everyone starts going to school. In theory, it makes a logical argument but in reality the landscape in Balochistan isn't black and white.

The tribal chiefs, who oppose the promotion of education in Balochistan, are actually permanent members of the Pakistani ruling establishment. In spite of not enjoying ample support among the masses, these pro-Islamabad tribal chiefs have been aided by the Pakistani intelligence services from generation to generation to get elected to public office and then guard Islamabad's interests in Balochistan. As long as Islamabad continues to patronize these tribal chiefs, Balochistan's legislature will comprise of politicians who will refrain from imparting education among the local population. An informed population will most likely rise against the central government's excessive exploitation of Balochistan's mineral resources. Hence, there is a need to halt and annihilate the factory that churns out and imposes pro-establishment politicians on Balochistan.

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mercoledì 28 maggio 2014

Australia - La Chiesa: urge rivedere la politica di detenzione dei profughi a Manus Island

Agenzia Fides
Sydney – La Chiesa australiana chiede al governo di riconsiderare la sua politica di detenzione e reinsediamento dei rifugiati a Manus Island, isola dove esiste il più grande centro di raccolta e detenzione dei profughi che si accostano alle acque australiane da diversi paesi, soprattutto dal Sudest asiatico. 

Lo riferisce una nota inviata all’Agenzia Fides dall’Ufficio per i migranti e i rifugiati, della Conferenza Episcopale australiana.
Il Vescovo Gerard Hanna, delegato dell’Episcopato per il settore dei migranti, dichiara: “Una analisi indipendente ha evidenziato che l'attuale politica dell'Australia su migranti e rifugiati porta a conseguenze tragiche. Tale politica, che ha un approccio punitivo verso i rifugiati in cerca di protezione, sta mettendo a rischio la vita di molte persone: per questo ne auspichiamo una profonda revisione”. Secondo i Vescovi, ci si potranno aspettare continui disordini a Manus Island, “se migranti e rifugiati non avranno alcuna speranza di un cambiamento della situazione”.
L’Australia, con la sua determinazione di adottare misure deterrenti, “sta allontanando molti veri rifugiati. Il mancato riconoscimento dei diritti umani fondamentali e questa politica costituiscono un disprezzo per quanti arrivano sulle nostre coste in cerca di protezione” aggiunge Mons. Hanna.
Ma, su tale delicata situazione umanitaria, nota, “il nostro governo continua a chiudere gli occhi verso coloro che lasciano la loro patria a causa di violenze e persecuzioni”, nella speranza di una vita migliore. Secondo la Chiesa australiana, dato che quello dei rifugiati è un fenomeno globale in crescita, “i paesi sviluppati sono chiamati ad accettare la cura per i rifugiati, senza adottare misure che infliggono danno e sofferenza”.

USA - Corte Suprema pone nuovi limiti all'applicazione della pena di morte per i disabili

Giornale del Popolo - Svizzera
La Corte Suprema degli Stati Uniti ha posto nuovi limiti a tutela dei condannati a morte considerati disabili mentali. In particolare, con una sentenza approvata a stretta maggioranza, 5 contro 4, il 'Club dei Nove' ha abrogato le leggi in vigore in Florida, Kentucky e Virginia, secondo cui un detenuto che avesse ottenuto un quoziente d'intelligenza superiore a 70 punti, automaticamente non poteva dimostrare di essere disabile mentale, e quindi era destinato al boia.

Ai quattro giudici 'progressisti' s'è unito Anthony Kennedy, decidendo che imporre per legge, come unico criterio per stabilire le condizioni di un condannato a morte, il cosiddetto IQ-test è "incostituzionale" perché "crudele".

"La pena di morte è la sanzione più grave che la nostra società può imporre", ha scritto Kennedy. "Le persone che affrontano la pena capitale devono avere l'opportunità di dimostrare che la Costituzione proibisce la loro esecuzione.

Leggi come quella della Florida sono in contrasto con l'impegno della nostra Nazione a favore della dignità e il dovere di insegnare la decenza umana come il segno di un mondo civile". Assieme a Kennedy, hanno votato contro queste leggi Ruth Bader Ginsburg, Stephen Breyer, Sonia Sotomayor e Elena Kagan.

Riccardi al Convegno "Medì": "Sento la vergogna di come la questione dei rifugiati del sud del mondo e' gestita in questi mesi"

La Nazione
Livorno - "Sento la vergogna di come la questione dei rifugiati del sud del mondo e' gestita in questi mesi".
Lo ha detto, si legge in una nota, Andrea Riccardi, fondatore della Comunita' di Sant'Egidio ed ex ministro nel Governo Monti, aprendo il primo convegno internazionale 'Medi'. Le citta' vogliono vivere', in corso a Livorno su iniziativa di Sant'Egidio.


Per ottenere lo statuto di rifugiato, fuggendo da contesti di guerra, ha ricordato Riccardi "devi prima superare la prova del deserto, poi quella del mare. Se riesci a non morire durante il viaggio e arrivi a Lampedusa allora puoi richiedere questo status. L'Italia deve pretendere in sede europea una corresponsabilita': i rifugiati devono poter presentare le domande nei Paesi in cui arrivano".

La convenzione di Dublino "e' da rivedere" ha aggiunto. Anche di fronte a questi problemi, che possono diventare opportunita', continua la nota, le citta' del Mediterraneo rinnovano il loro essere plurali nella globalizzazione, ora che piu' della meta' della popolazione mondiale vive nelle citta'.

"La citta' e' la piu' grande espressione umana di volere vivere e di vivere con gli altri - ha proseguito Riccardi - Le citta' possono contare ma si debbono dare una vocazione. Non si sta in una citta' senza un'idea larga, senza un'idea del mondo", altrimenti esse diventano periferiche. Ma il problema diventa drammatico nelle megalopoli. Obiettivo del convegno e' creare un punto di vista mediterraneo delle citta' da portare in Europa e nel mondo arabo.

Al convegno sono intervenuti tra gli altri, lo scrittore turco Nedim Gursel, Jaume Castro, della Comunita' di Sant'Egidio di Barcellona e l'architetto Jeremie Hoffmann di Tel Aviv.

Sudanese woman sentenced to death for apostasy gives birth

The Telegraph
Meriam Ibrahim, the Sudanese woman awaiting the death penalty for refusing to convert to Islam, has given birth to a baby girl
The Sudanese woman who has been sentenced to hang for refusing to renounce Christianity has given birth to a baby girl named Maya, her lawyers told The Telegraph.

Meriam Ibrahim, 27, gave birth to the girl – her second child – in the early hours of Tuesday morning, in the hospital wing of the prison.
"They didn't even take Meriam to a hospital - she just delivered inside a prison clinic," As Elshareef Ali Elshareef Mohammed, her lawyer, told The Telegraph.
"But neither her husband nor I have been allowed to see them yet."
Mr Elshareef said he and Daniel Wani, Ms Ibrahim's husband, were still waiting outside the prison at 2pm in Khartoum (12.00 in the UK).

Her son, 20-month-old Martin, has been with her inside the cell since she was first charged in February. Ms Ibrahim’s husband, Daniel Wani, who is in a wheelchair, said last week that she was being kept shackled by the ankles in her cell.

She was sentenced to death on May 15 by a court in the Sudanese capital, Khartoum.

Ms Ibrahim denied the charges of apostasy and adultery - the court did not recognise her 2011 marriage to Mr Wani, a Christian - because she said her Muslim father abandoned the family, and she was raised a Christian.

She is to be allowed to nurse her child for two years before the sentence is carried out.

A petition to quash Ms Ibrahim’s sentence, organised by Amnesty International, has been signed by 660,000 people so far – but the rights group has been barred from Sudan since 2005.

“Apostasy and adultery should not even be crimes,” Manar Idriss, Sudan researcher at Amnesty, told The Telegraph. “It’s a personal choice who to marry and what to believe.

“The human rights situation has been deteriorating for the past few years. It’s an extremely repressive regime, with opposition activists tortured, and the targeting of anyone who dares to defy the regime.”

On Thursday her lawyers filed an appeal at the Appeal Court of Bahri and Sharq Al Nil. If the appeal is unsuccessful, they are planning to explore further avenues, and take the case to Sudan’s Supreme Court and Constitutional Court.

The crime of apostasy – for which Ms Ibrahim has been sentenced to death – is defined as the renouncing of your religion.

Some divisions of Christianity – among them Roman Catholics, Eastern Orthodox, Baptists – believe apostasy is a sin. But it is mainly seen as an Islamic crime, based on a Hadith – saying - from Prophet Muhammad who said, “Whoever changes his religion kill him.” But many scholars point out that numerous verses in the Koran guarantee freedom of belief.

Nina Shea, director of the Centre for Religious Freedom at New York’s Hudson Institute, said that apostasy from Islam is criminalised in many, though not all, Muslim-majority states. Turkey does not criminalise it, but Iran and Saudi Arabia do imprison converts. Actual executions by governments for conversion are virtually unheard of today.

“In the case of Meriam Ibrahim, the government of Sudan is adopting the practice of Islamic extremist groups like Boko Haram, al-Shabab, and the Islamic State of Iraq and Syria,” she told The Telegraph. “All of those groups do put Christian converts to death.”

martedì 27 maggio 2014

Uganda, la persecuzione dopo gli omosessuali si estende alle ONG. Paura a farsi curare dall'AIDS

Il Referendum
I primi risultati della legge contro gli omosessuali promulgata a febbraio dal presidente ugandese Museveni si stanno rendendo noti: incremento di omofobia e violenza nei confronti della comunità LGBT. E ora il governo sta studiando una legge per allontanare le Organizzazioni Non Governative (ONG) che operano nel paese a favore dei diritti umani.
Le forti critiche mosse dalle ONG a favore dei diritti LGBT in Uganda hanno infatti infastidito le principali forze politiche nazionali, spingendole a studiare nuove norme per evitare «l’ingerenza straniera nella politica interna del Paese», non considerando l’apporto fornito alla società ugandese nella lotta all’AIDS/HIV.

Nel mentre, Amnesty International e Human Rights Watch hanno pubblicato le conseguenze della tanto criticata legge in vigore da un paio di mesi. La nuova disposizione del codice penale e l’incremento di atti violenti a sfondo omofobico hanno spinto diversi cittadini apertamente omosessuali a lasciare il paese, presentando una richiesta d’asilo altrove, mentre altri si ritrovano ad affrontare disarmati un clima sempre più teso e violento. Molte associazioni che promuovono la protezione degli atti sessuali sono state costrette a chiudere, e ormai sono poche quelle che continuano ad operare nell’illegalità.

L’istituzionalizzazione della discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale va a minare l’irrisolto problema delle malattie a trasmissione sessuale, particolarmente HIV/AIDS. I cittadini omosessuali ugandesi infetti sono scoraggiati a rivolgersi alla sanità pubblica, in quanto le nuove norme del codice penale obbligano i cittadini che siano a conoscenza o che abbiano sospetti sull’orientamento sessuale di un individuo a riportare tale informazioni alle forze dell’ordine. Inoltre molti medici si rifiutano di trattare con persone omosessuali per evitare di essere incriminati a loro volta.

La Banca Mondiale ha espresso il suo rammarico nei confronti di questa decisione politica e ha sospeso gli aiuti economici per il Paese, che costituiscono il 20% del budget sanitario ugandese. A febbraio Jim Yong Kim, presidente del World Bank Group, ha espresso che «è evidente che quando un paese adotta leggi che impediscono la piena partecipazione al lavoro di individui produttivi, l’economia soffre».

Secondo Rebecca Kadaga, portavoce del Parlamento dell’Uganda, la decisione della Banca Mondiale costituisce un precedente pericoloso per la sovranità e auto-determinazione dei paesi in via di sviluppo.

Sanità: UNCHR, rifugiati siriani affetti da cancro senza cure per mancanza di fondi

AGENPARL
Il numero di rifugiati affetti da cancro grava sui sistemi sanitari in Giordania e in Siria, ha dichiarato il massimo esperto medico dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNCHR), un’emergenza che costringe l’UNHCR e i suoi partner a prendere difficili decisioni su chi debba ricevere o meno le cure. 
In un nuovo studio pubblicato oggi domenica 25 maggio sulla rivista The Lancet Oncology, il Dott. Paul Spiegel ha documentato i casi di centinaia di rifugiati in Giordania e in Siria a cui sono state negate le terapie oncologiche a causa dei fondi limitati e sollecita l’urgente adozione di nuove misure nella lotta contro il cancro nelle crisi umanitarie. “Possiamo curare tutti i pazienti con il morbillo, ma non siamo in grado di far fronte a tutti i casi di cancro” dichiara il Dott. Spiegel. “Dobbiamo respingere i malati di cancro con poche prospettive di vita perché curarli è troppo costoso. Dopo aver perso tutto nel proprio paese, i malati di cancro devono affrontare sofferenze ancora peggiori all’estero, spesso con enormi costi emotivi e finanziari per le loro famiglie”. 

Secondo lo studio del The Lancet Oncology, che ha preso in esame i rifugiati in Giordania e in Siria tra il 2009 e il 2012, il numero dei casi documentati di cancro tra i rifugiati nella regione sono aumentati sia perché il numero dei rifugiati è complessivamente cresciuto, sia perché sempre più persone fuggono da paesi a medio reddito come la Siria. 

Il cancro è anche un problema crescente tra i rifugiati provenienti da paesi a basso reddito, dove l’attenzione si è tradizionalmente concentrata sulle malattie infettive e sulla malnutrizione. La forma tumorale più comune tra i rifugiati è il cancro al seno, che rappresenta quasi un quarto di tutte le richieste di cura presentate in Giordania al Comitato per le Cure Eccezionali dell’UNHCR (ECC), preposto a decidere se finanziare o meno trattamenti costosi

In Giordania, ad esempio, l’ECC ha potuto accogliere solo 246 su 511 richieste (48%) di cure oncologiche presentate dai rifugiati tra il 2010 e il 2012. Il principale motivo di rifiuto era una prognosi negativa, vale a dire un paziente con poche possibilità di recupero, motivo che ha indotto il Comitato a decidere di investire la limitata quantità di denaro in altri pazienti. 

Raramente, l’ECC si trova costretto a dover respingere anche i pazienti con prognosi favorevoli a causa degli elevati costi delle cure. Il Dott. Adam Musa Khalifa, medico dell’UNHCR e membro dell’ECC in Siria, racconta di una paziente irachena, madre di due figli, affetta da una rara forma di tumore al seno che ha dovuto interrompere la terapia in Iraq a causa della situazione di instabilità del paese, senza poter continuare le cure in Siria in quanto troppo costose. I costi delle cure possono infatti in alcuni casi sfiorare i 21mila USD. “Dobbiamo prendere decisioni terribili su chi aiutare”, afferma il Dott. Khalifa. 

Alcuni pazienti hanno una prognosi favorevole, ma i costi delle terapie sono troppo elevati. Queste decisioni hanno un profondo impatto psicologico su tutti noi”. I sistemi sanitari statali in Siria e Giordania sono stati travolti dalla situazione e le strutture private si stanno rivelando insufficienti. e dei farmaci, ma non basta, denuncia lo studio. 

I rifugiati ammalati di cancro spesso devono interrompere le terapie a causa del clima di insicurezza nel loro paese d’origine. In Siria, ad esempio, molti ospedali sono stati distrutti o chiusi e i medici sono fuggiti. “Lo studio del Lancet non lascia alcun dubbio sul fatto che il cancro è un problema di salute importante tra i rifugiati” afferma il Dott. Spiegel. “Dobbiamo trovare soluzioni migliori, insieme ai paesi ospitanti, per finanziare la prevenzione e il trattamento”. I nuovi approcci potrebbero includere campagne di informazione itineranti e online incentrate sulla prevenzione sanitaria e nuovi sistemi di finanziamento come il crowd-funding e un’eventuale assicurazione sanitaria. 

Qualsiasi misura che verrà adottata dovrà tener conto dei Sistemi sanitari dei paesi d’asilo nel loro complesso, al fine di evitare disparità tra le comunità ospitanti e i rifugiati.

lunedì 26 maggio 2014

'Disappeared civilians' face ongoing torture in Egyptian military prison's

The Middle East Monitor
Dozens of civilians have been forcibly disappeared and held for months in secret detention at an Egyptian military camp, where they have been subjected to torture and ill-treatment in order to make the
m confess to crimes, according to shocking new evidence gathered by Amnesty International.

Egyptian lawyers and activists have a list of at least 30 civilians who are reportedly being held in secret at Al Azouly prison inside Al Galaa Military Camp in Ismailia, 130km north-east of Cairo. Former detainees there have told Amnesty International that many more - possibly up to 400 - could be held in the three-storey prison block. The detainees have not been charged or referred to prosecutors or courts, and have had no access to their lawyers or families.

Hassiba Hadj-Sahraoui at Amnesty international said, "these are practices associated with the darkest hours of military and Mubarak's rule. Egypt's military cannot run roughshod over detainees' rights like this."

Lawyers and activists have reported that enforced disappearances have been on the rise in Egypt since November 2013. It is expected that the detainees being held in secret will be brought before state security prosecutors after they have "confessed" under torture. In some cases, it appears that individuals have been secretly detained for months, during which time they were tortured to extract "confessions".

"Torture is absolutely prohibited under all circumstances and is a crime under international law. Prosecutors, courts and other Egyptian authorities must never use 'confessions' or statements extracted through torture or other ill-treatment in any proceedings. Imprisonment on such a basis constitutes arbitrary detention," said Hassiba Hadj-Sahraoui.

One prisoner recently released from Al Azouly military prison described their experience, "the military arrested me in January [2014]...and took me on the same day to Al Azouly prison after they beat me in a military camp in my town for four hours. I was held in Al Azouly prison for 76 days without seeing a judge or a prosecutor, I was not even allowed to talk to my family. They put me on the third floor of the prison in solitary confinement. The authorities there interrogated me six times. They took off my clothes and gave me electric shocks all over my body during the investigations, including on my testicles, and beat me with batons and military shoes. They handcuffed me from behind and hung me on a door for 30 minutes.

They always blindfolded me during the investigations. In one interrogation they burned my beard with a lighter. The investigations were held in another building inside the camp...the soldiers call it S1 and S8 buildings [which are military intelligence buildings]. I could not see the investigators because I was blindfolded in all investigations and handcuffed from behind. They wanted to know information about protests and demonstrations, they asked about the active members in the university. They wanted to know who funds protests, who holds weapons and who buys them. They also asked me about my affiliation and whether I belong to the Muslim Brotherhood...

"After 25 days I was transferred to another cell with another 23 prisoners. Most of the persons in this cell were from Sinai. One of the prisoners had burns on his body...he mentioned that they put out cigarettes on his body. We were allowed out of the cell once a day to the bathroom before sunrise, and for five minutes for all the 23 persons in the cell. The food was very poor. I was then released without a prosecutor's order or investigations ...they took me from prison and put me outside gate 2 of the military camp."
Amnesty International have not been able to determine exactly how many people are being held in Al Azouly prison. Released prisoners say that up to 200 people can be detained on each floor, and estimate that there are 200 to 400 prisoners in total. Prisoners said that the torture method used against individual detainees depends on the suspect's profile. Those accused of killing soldiers or police are given electric shocks, hung on doors, burned, and sometimes whipped. The interrogations are held in a building 10 minutes away from the prison. Detainees are blindfolded and driven in a military vehicle to the investigation building before being taken to the first floor. The investigations take place from 3 pm until 10 or 11 pm. Since they were blindfolded, prisoners were not able to know whether the interrogations were being conducted by Military Intelligence or National Security officers.

Sudan, minacce all'avvocato di Meriam che sta per partorire in catene

HuffingtonPost 
Meriam Yahia Ibrahim Ishag è in catene. Il tempo della gravidanza è quasi al termine, le caviglie sono gonfie, le gambe pesanti. Difficilmente riesce ad alzarsi dalla branda dove insieme a Martin, il figlio di 22 mesi in prigione con lei a Khartoum dal 17 febbraio, passa gran parte delle sue giornate.
Eppure sulla vicenda di questa 27enne cristiana sta calando un pericoloso silenzio.

Il suo avvocato, Mohamed Abudlnabi, sfidando le minacce ricevute da chi voleva impedirglielo, ha presentato l'appello contro la condanna a morte per apostasia e a 100 frustate per adulterio emessa nei confronti della donna.

Meriam, pur essendo regolarmente sposata, è considerata un'adultera in quanto il matrimonio con Daniel Wani, sud sudanese cristiano con cittadinanza americana, non è riconosciuto dalle leggi islamiche.

La sentenza era attesa nonostante i numerosi appelli di diplomatici al governo sudanese affinché garantisse il rispetto della libertà di religione.

Il giudice che l'ha emessa, Abbas Mohammed Al-Khalifa, leggendo il dispositivo a fine dibattimento ha affermato che erano stati concessi tre giorni all'imputata per abiurare, ma avendo deciso di non riconvertirsi all'islam meritava l'impiccagione.

La giovane, nata da padre mussulmano, è stata però cresciuta nella fede cristiano-ortodossa dalla madre etiope dopo l'abbandono del genitore. Ms per la Sharia anche la religione viene tramandata, di diritto, dalla linea paterna.

La condanna non è definitiva: Meriam avrà un nuovo processo, sarà la Corte suprema del Sudan ad affrontare il suo caso. Lo ha confermato anche l'ambasciatrice in Italia, Amira Daoud Gornass, la cui posizione può essere considerata rilevante essendo anche moglie del ministro degli Esteri sudanese.

Intanto Meriam sta male. E anche il bambino è sofferente. Ha avuto febbre per giorni.
Il rischio che sorga qualche complicazione è sempre più alto. Non ha dubbi al riguardo il fratello del marito, Gabriel Wani, che ha raccontato di come la cognata abbia avuto un travaglio difficile per il primo figlio. Le condizioni in cui versa in carcere fanno temere per la sua sopravvivenza.


Dal primo giugno ogni giorno potrebbe essere utile per il parto. I suoi legali e il marito hanno chiesto che venga trasferita, sotto sorveglianza, in un ospedale o in una clinica privata. Una sorta di 'arresti domiciliari'. Ma sembra che non ci siano molte speranze che la richiesta sia accolta. A meno che non sia necessario un cesareo. La situazione è drammatica.

E' per questo che alcune organizzazioni per i diritti umani hanno ritenuto opportuno scrivere al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

La lettera, promossa da Italians for Darfur e sottoscritta anche dai missionari salesiani di El Obeid, dall'ex inviato Onu in Sudan, Mukesh Kapila, dall'associazione Articolo 21 e dai rifugiati sudanesi in Italia, è diretta a riportare alta l'attenzione sulla vicenda che ha suscitato grande indignazione in tutto il mondo che si è subito mobilitato.

In prima fila il nostro Paese, con l'appello che ha raccolto finora 25mila firme che vanno ad integrare le 600 mila richieste di libertà per Meriam già arrivate a Khartoum da ogni latitudine del pianeta.
Anche se il giudizio finale spetterà a un organo politico più che giuridico islamico, che dovrebbe pertanto escludere la pena di morte, abbassare la guardia ora sarebbe un errore.

Per questo è fondamentale continuare a fare pressioni sulle autorità del Sudan, magari con un intervento diretto del presidente Napolitano: la richiesta al suo omologo sudanese, Omar Hassan al-Bashir, di compiere un atto di clemenza in favore di una donna, una moglie, una madre che ha la sola 'colpa' di essere cristiana.

domenica 25 maggio 2014

Eritrea: The Homeless Eritreans Refugees in the streets of Yemen

Geeska Afrika Online
Djibouti (HAN)- According to the Eritrean Refugee voice: Geeska Afrika Online received this note with pictures from Eritrean refugees living in the streets of Sana’a, Yemen; with English error, we decided to publish online, exactly the way we received their letter. Idris Lahda  said, ‘to deliver a message to the international community, to show the suffering of Eritrean refugees  in Sana’a.’


Why hundreds of Eritrean Refugees in Sana’a Live in the Streets! Eritrea, ruled by an extremely repressive government, requires all citizens under 50 to serve in the military for years. Anyone of draft age leaving the country without permission is branded a deserter, risking five years in prison

Having no shelter or a place to go to; they had to be rough sleepers, just spending the night in the open without a home. Since April 29, more than 200 Eritrean refugees -including women and children- have been living in the streets of Taiz in the capital city Sana’a after the United Nation High Commission for Refugees (UNHCR) decided to be devoid of every sense of empathy -as the Eritrean refugees put it- and abandon them and cover no longer their expenses after paying for Three months for their stay in the hotels of Sana’a as a part of providing a temporary shelter until after the completion of the resettlement procedures in a third country, but for their surprise, the Eritrean refugees found themselves ,without a prior notice, homeless. 

The story of (Refugees of Taiz Street) can be traced back to the year 2011, after the influx of hundreds of Eritrean refugees in the Yemeni coasts; fleeing from the suppression- as they put it – practiced by the Eritrean regime and the persecution of the security forces. The Yemeni authorities detained the Eritrean refugees in the Central Prison of Hodeida until the UNHCR considers/examines their situation and grants them a refugee status. Eritrean refugees- after years of waiting- were granted refugee status by the UNCHR and then it lodged them in hotels in Sana’a, however, they were soon informed that the UNCHR doesn’t recognize them as refugees anymore, claiming that its mission was accomplished as they got Yemeni refugee cards, and it didn’t take long for Eritrean refugees to recognize their new status as homeless.

The 216 Eritrean refugees- including women and children- claim their right of asylum, and demand to be provided with the most basic needs of a respectful life, especially that they are living now as homeless receiving no support or care. In the meanwhile, some local organizations deprecated the cruel treatment of the Commission, and appealed with sense of urgency for saving the lives of the destitute women and children who are in the Streets that don’t keep them safe from below freezing temperatures or high heats, and they can’t help but to wait for the procedures of the Commission to complete.

Head of “Ard Al Sedq Association Charitable” -Idris Lahda- said that some local organizations undertook a comprehensive assessment on the Eritrean refugees’ situation and came up with an integrated aid plan requiring immediate support to enter into force. He noted that the UN Commission and its partners have some options, such as: providing temporary shelter and livelihood opportunities, and housing Eritrean refugees in the camps located across the cities of Yemen, like other refugees in Yemen.
Lahda also explained that the “Refugees of Taiz Street” was actually an outcome of a grave legal mistake done by the Commission; it first recognized those Eritrean in Yemen as refugees, then it showed a complete turn about as it abandoned its mission and later explained that with illegal justifications. Taiz Street could witness a humane catastrophe if the Commission remains unmoved in regard to saving those helpless refugees, who left their countries fleeing from persecution to suffer another one of a different kind.

Source

Filippine - Urge fermare le esecuzioni extragiudiziali, attentato alla democrazia

Agenzia Fides
Manila – Il governo filippino non fa abbastanza per fermare le esecuzioni extragiudiziali, che da troppo anni restano impunite: è la denuncia lanciata dall’Ong “Human Rights Watch” (HRW) che segnala un pericolo, sembra che “funzionari della città e agenti di polizia appoggino gli omicidi mirati come una forma perversa di controllo del crimine”. 

Alcuni sindaci di città filippine, infatti, sono accusati di “favoreggiamento delle uccisioni”. Secondo un recente rapporto pubblicato da HRW, nel periodo tra il 2008 e il 2013 nelle Filippine si sono registrati 298 esecuzioni extragiudiziali, tutte impunite. 

La maggior parte delle vittime sono presunti spacciatori, piccoli criminali, bambini di strada, ma ci sono anche attivisti per i diritti umani, avvocati, sindacalisti, sacerdoti. Tra i casi di religiosi e missionari, vi è quello di p. Fausto Tentorio, PIME, ucciso nel 2011 a Mindanao, e del sacerdote cattolico Cecilio Lucero, ucciso nel settembre 2009 nella provincia di Nord Samar, a sud di Manila. Il fenomeno, nota l’Ong, continua a danneggiare l'immagine internazionale delle Filippine. HRW afferma: “Il presidente Benigno Aquino ha in gran parte ignorato le uccisioni extragiudiziarie operate dagli squadroni della morte soprattutto nelle aree urbane”.


La lunga scia di omicidi impuniti affligge il paese da oltre un decennio. Secondo i gruppi della società civile, la responsabilità di tali atti va addossata agli “squadroni della morte” che agiscono nel paese, composti da ex militari o da unità paramilitari. Nel 2010 l’organizzazione “Karapatan” (“Alleanza per il miglioramento dei diritti del popolo”) segnalava esecuzioni extragiudiziali soprattutto di avvocati, giudici, attivisti per i diritti umani, religiosi e giornalisti. In otto anni di governo di Gloria Macapagal Arroyo – presidente prima di Benigno Aquino jr – sono state accertate 1.118 vittime di esecuzioni sommarie, 1.026 casi di torture, 1.946 arresti arbitrari, oltre 30.000 aggressioni e 81.000 episodi di intimidazioni. (PA)

Egitto, 5 anni di carcere a 20 studenti islamisti per proteste pro Morsi

La Presse
Il Cairo (Egitto) - Un tribunale del Cairo ha condannato venti studenti dell'università islamica al-Azhar per i disordini durante le proteste a sostegno del presidente egiziano deposto Mohammed Morsi. 

Diciannove dovranno scontare cinque anni di carcere ciascuno, un altro tre anni. Ai primi sono stati anche inflitti 2.860 dollari di multa per danni alle proprietà, riportano fonti ufficiali. 

Gli studenti dell'università islamica hanno manifestato quasi quotidianamente contro la destituzione del leader dei Fratelli musulmani per mano dell'esercito, avvenuta nel luglio scorso. Diversi universitari sono stati uccisi durante le proteste, spesso degenerate in scontri con le forze di sicurezza.

sabato 24 maggio 2014

Guinée - A Conakry, visite ministérielle dans une prison jugée indigne

RFI
La prison civile de Conakry ne rempli plus les normes de détention légales, selon le ministre guinéen des Droits de l'homme, Kalifa Gassama Diaby, qui a y a effectué cette semaine une visite surprise. Parmi les abus qu’il a constatés : des détentions prolongées sans jugement.


Au terme d’une visite surprise qui a duré quatre heures dans cette maison de détention, le ministre guinéen des Droits de l’Homme et des Libertés publiques Kalifa Gassama Diaby n’en croyait pas ses yeux. Il a été profondément marqué par les abus, les conditions de détention et la situation de délabrement avancé de ce centre de détention, dont il juge qu’il n’est pas digne d’un état de droit. « C’est une prison qui ne répond pas aux conditions de dignité ! C’est quelque chose de très regrettable. Nous sommes engagés à tout mettre en œuvre pour changer cette réalité qui n’est pas digne de la condition humaine », martèle le ministre.

« Un véritable mouroir »
Il a notamment souligné l’existence de détentions prolongées sans jugement, dans ce centre où les droits les plus élémentaires sont quotidiennement bafoués. «Nous avons effectivement constaté dans cette prison une réalité qui est problématique en matière de droits de l’homme, en matière d’Etat de droit : ce sont des détentions excessives. Vous avez des gens qui sont détenus depuis des années ! »

Un ancien pensionnaire de cette prison témoigne des conditions de vie des détenus : « Des êtres humains sont abandonnés en cellule. C’est un véritable mouroir. Vous voyez des gens squelettiques dormir à même le sol, à côté des bêtes, des cancrelats... Il y en a même qui en mangent, juste pour survivre… »

Yemen, migranti rinchiusi nei campi di tortura, complici i poliziotti e il governo chiude gli occhi

La Repubblica
Trafficanti di uomini detengono gruppi di migranti nei campi di tortura, estorcendo denaro alle loro famiglie, complici le autorità locali. Oggi l'Osservatorio dei Diritti Umani ha pubblicato un report dove mostra l'orrore di questi campi e sollecita il governo a fare qualcosa.
SANA'A - Vicino al confine, presso la città di Haradh, esistono dozzine di campi di tortura e lì, gli agenti di sicurezza favoriscono in traffico di migranti. "Quando si vedono rinchiudere gruppi cospicui di persone alla luce del sole, senza che nessuno dica niente, allora significa che il governo sta chiudendo gli occhi", dice il direttore dell'Osservatorio di Human Rights Watch (HRW) Eric Glodstein. Attraverso i lavori per produrre il report, l'Osservatorio è riuscito a portare al centro del dibattito il traffico umano nel parlamento Yemenita. La conseguenza è stata una proposta di legge conforme agli standard internazionali per i traffici criminali.

Le promesse, i soprusi. I trafficanti hanno costruito i campi in anni recenti. L'iter è sempre lo stesso: vite in cambio di promesse. I trafficanti recuperano i migranti sbarcati sulla costa o addirittura li comprano. Gli immigrati si affidano completamente a qualcuno che dice loro di portarli in Arabia Saudita o in altri influenti Paesi del Golfo. Si prestano anche ad accettare il fermo nel campo, dal quale poi non usciranno più in realtà. Nelle interviste rilasciate ai redattori del report, i migranti raccontano il campo degli orrori. Le torture avvenivano in una stanza comune ed era una scena quotidiana veder cavare un occhio con una bottiglia al proprio compagno. Non solo punizioni corporali per tener buoni i migranti, ma anche violenze sessuali. I trafficanti obbligavano queste persone detenute illegalmente a spogliarsi davanti a tutti e stupravano le donne, riempiendo i loro corpi di bruciature da sigaretta.

Il sadismo dei trafficanti. Trafficanti sadici nel rompere le ossa dei migranti, nel tagliare loro pezzi di pelle. Ma la più cruda delle immagini che i migranti sopravvissuti raccontano, era quella della morte durante le torture, tra le mani dei trafficanti. Il business del traffico umano. Il giro di soldi del trufficking e dello smuggling (traffico e tratta) equivale, per ogni singolo migrante schiavizzato, ad una somma che va dai 200 ai 1000 dollari. Alcuni trafficanti confessano di aver raggiunto i 13.000 dollari, alzando il prezzo stabilito per il superamento fisico delle frontiere, proprio lì dove in realtà le forze militari erano complici della tratta.

Il business del trasporto. Il guadagno proviene dal trasporto, dallo scavalcamento dei checkpoint e anche dal cibo venduto ai migranti, che lo richiedono per non morire di fame e non solo i trafficanti hanno un profitto. Un migrante racconta all'Osservatorio che un suo amico era riuscito a scappare da un campo di tortura, ma era stato intercettato da un gruppo di soldati vicino la città di Haradh. Mentre due dei soldati offrivano al migrante da mangiare e da bere, gli altri facevano delle chiamate. In brevissimo tempo due uomini in una macchina si era presentati sul posto, avevano pagato i soldati e avevano ricondotto l'uomo nel campo di tortura.

Un traffico che dilaga. La macchina del traffico si allarga ad elementi apparentemente impensabili quali la polizia, le forze militari e paramilitari, l'intelligence. Il Ministro della Difesa sostiene che gli organi di sicurezza non fossero a conoscenza della reale funzione dei campi di tortura e alcuni avvocati difensori dei poliziotti accusati di rientrare nel giro di trafficanti, utilizzano l'argomentazione di un unico ed isolato episodio di stupro.

Le responsabilità del governo. Il governo Yemenita dovrebbe sviluppare una strategia per far chiudere i campi definitivamente e punire tutti gli esecutori di torture. "Il fatto che ci siano delle persone così disperate da essere disposte a pagare per farsi rinchiudere in un campo, non può essere in nessun modo una scusa che permetta a delle persone di torturarne altre." dice Goldstein. Il governo del Paese dovrebbe adottare una tolleranza zero in questa situazione, cooperando con le organizzazioni umanitarie riportare al centro i diritti dei migranti, violati fin ora nei campi.

Marocco: il Re inaugura un centro per l'integrazione socio-professionale dei detenuti

Nova
Il Re del Marocco, Mohammed VI, ha inaugurato ieri il centro di rieducazione socio-professionale del carcere di Bani Mellal, nell'entroterra marocchino. 

Il centro è finalizzato al reinserimento del mondo del lavoro dei detenuti una volta messi in libertà. Con un finanziamento di un milione di euro il centro è stato dotato di macchinari e insegnanti necessari per l'organizzazione di corsi al reinserimento professionale per i detenuti del carcere locale.

Il colpo di stato in Thailandia - Gli USA chiedono “il ritorno alla democrazia e il rispetto dei diritti umani”

Romagna Noi
Il capo dell'esercito Prayut Chan-O-Cha ha ufficializzato ieri il colpo di Stato in Thailandia: “Perché il paese torni alla normalità, le forze armate devono prendere il potere a partire dal 22 maggio alle 16.30”, ha detto davanti alle telecamere della televisione tailandese. L'annuncio del colpo di Stato è arrivato al termine di una riunione tra i principali leader delle fazioni rivali del paese che avrebbe dovuto condurre a un accordo di compromesso. I leader dei manifestanti, che hanno partecipato all'incontro, sono stati portati via dai soldati, caricati su mezzi militari e condotti verso un luogo non specificato. Il generale aveva già dichiarato la legge marziale nel paese dopo i fatti di violenza che avevano causato 28 morti.

Per la Thailandia il colpo di stato non è una novità. In circa 80 anni ne ha vissuti 18, l'ultimo era stato compiuto nel 2006 contro l'ex primo ministro Thaksin Shinawatra. Come sempre all’esterno del paese si sono registrate fibrillazioni. Questa volta i primi ha intervenire sono stati gli Stati Uniti con una nota diffusa dal dipartimento di Stato con John Kerry che si esprime, “deluso e preoccupato per le notizie dell'arresto dei leader politici dei principali partiti della Thailandia” di cui chiede la liberazione. Kerry ha inoltre espresso i suoi timori “per la chiusura di gruppi media”. Il segretario di stato ha esortato “la restaurazione del governo civile, il ritorno alla democrazia e il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali, come la libertà di stampa.”

Laos - Dall'11 maggio in carcere 11 cristiani laotiani perché "colti a pregare"

AsiaNews
Restano in carcere gli 11 cristiani laotiani fermati nella provincia di Savannakhet perché si sono riuniti in un luogo “non autorizzato”. Gli attivisti di Csw invitano i leader Ue a sollevare il tema della libertà religiosa nel Paese asiatico. Colloqui e dialoghi sono “oscurati” dalle violazioni alla pratica del culto


Vientiane - Continuano a rimanere in prigione gli 11 cristiani laotiani arrestati l'11 maggio scorso nella provincia di Savannakhet, con l'accusa di essersi riuniti in un luogo non autorizzato. È quanto denuncia il movimento attivista per i diritti umani e la libertà religiosa Christian Solidarity Worldwide (Csw), secondo cui altri 12 - fra cui donne e bambini - sono stati rilasciati dopo aver firmato un documento in cui si impegnano a "non riunirsi più in quella località". Il nuovo caso di abusi contro una comunità cristiana nello Stato comunista del Sud-est asiatico, giunge in concomitanza con l'incontro periodico fra Unione europea e governo di Vientiane su diritti umani e buon governo, in programma questa settimana a Bruxelles (Belgio).

Gli attivisti di Csw invitano i rappresentanti dell'Ue a sollevare il tema della libertà religiosa nei colloqui con i delegati del governo laotiano. Il gruppo di 23 cristiani appartiene a una comunità del villaggio di Paksong, nel distretto di Songkhone, provincia nel centro-sud del paese, che dal 2012 - su ordine delle autorità - non può celebrare riti e funzioni religiose. Il pastore è stato arrestato e costretto a firmare un atto in cui impegna la chiesa locale a interrompere gli incontri di preghiera.

Secondo quanto raccontano gli attivisti di Human Rights Watch for Laos Religious Freedom (Hrwlrf), per l'attuale capo villaggio i cristiani non hanno il permesso di organizzare riunioni e celebrazioni; la comunità risponde che avevano ricevuto il permesso dall'ex capo villaggio circa un anno fa. Con l'arresto dei 23 cristiani, le autorità di fatto vogliono impedire ai fedeli di trovare anche un "nuovo" luogo dove riunirsi e pregare, adducendo il pretesto della mancanza di autorizzazioni. Tuttavia, il gruppo afferma che da oltre sei anni le celebrazioni si svolgono con regolarità e, finora, non si erano mai registrati problemi.

Sebbene il governo di Vientiane abbia ridotto nell'ultimo decennio il numero di prigionieri di coscienza e detenuti a causa della fede, vicende analoghe a quella della provincia di Savannakhet non sono rari. Mervyn Thomas, capo esecutivo di Csw, apprezza gli incontri Ue - Laos su diritti umani e buon governo, ma essi sono "oscurati" da attacchi alla libertà religiosa; egli auspica il rilascio immediato dei cristiani arrestati e chiede garanzie perché possano praticare la fede senza correre il pericolo di essere arrestati.

Dall'ascesa al potere dei comunisti nel 1975, con la conseguente espulsione dei missionari stranieri, la minoranza cristiana in Laos è soggetta a controlli serrati e vi sono limiti evidenti alla pratica del culto. La maggioranza della popolazione (il 67%) è buddista; su un totale di sei milioni di abitanti, i cristiani sono il 2% circa, di cui lo 0,7% cattolici. I casi più frequenti di persecuzioni a sfondo religioso avvengono ai danni della comunità cristiana protestante: nel recente passato AsiaNews ha documentato i casi di contadini privati del cibo per la loro fede o di pastori arrestati dalle autorità. Le maglie si sono strette ancor più dall'aprile 2011, in occasione di una violenta repressione della protesta promossa da alcuni gruppi appartenenti alla minoranza etnica Hmong.