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mercoledì 30 settembre 2015

Il disegno che una bambina siriana ha consegnato ad un poliziotto tedesco

Il Post
In Germania sta circolando molto sui social network un disegno diffuso dall’account Twitter della polizia federale. Il disegno è stato fatto da una bambina siriana mentre si trovava nel centro di registrazione per rifugiati politici di Passavia, città bavarese ai confini con l’Austria: mostra da una parte la situazione in Siria con sangue, morti, persone ferite, macerie e un teschio sulla bandiera siriana, dall’altra un cuore con la bandiera tedesca e una casa.

Il disegno è stato consegnato dalla bambina (di cui non si conosce il nome) a un agente di polizia che aveva dato fogli e colori ai bambini presenti al centro, per passare il tempo in attesa dello svolgimento delle pratiche per la registrazione. L’immagine, con gli hashtag #sprachlos e #Fluechtlingskrise (“crisi dei rifugiati”, “senza parole”) è stata condivisa finora più 8 mila volte.

Pakistan: impiccato Ansar Iqbal, la condanna per un omicidio compiuto a 15 anni

Adnkronos
È stato impiccato ieri mattina in Pakistan Ansar Iqbal, il pakistano condannato a morte con l'accusa di aver commesso un omicidio 16 anni fa quando, secondo la difesa, aveva 15 anni. 

Per le autorità era invece un ventenne. Iqbal, che si dichiarava innocente, è stato impiccato nel carcere di Sargodha, nella provincia del Punjab, secondo un funzionario del dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, Muhammad Akmal, citato dall'agenzia di stampa Dpa. "Il corpo è già stato consegnato alla famiglia per la sepoltura", ha aggiunto.

L'ong per i diritti umani Reprieve aveva lanciato un appello al presidente Mamnoon Hussain affinché concedesse la grazia a Iqbal. In un comunicato l'ong ha denunciato come "tutte le prove documentate presentate in tribunale durante il processo indichino che era un bambino all'epoca del presunto reato" e come "tuttavia i tribunali abbiano deciso di credere alle stime degli ufficiali di polizia secondo cui era un ventenne".

All'inizio di agosto aveva suscitato sdegno la notizia dell'impiccagione, sempre in Pakistan, di un giovane condannato a morte per l'omicidio nel 2004 di un bambino di sette anni, un reato commesso quando - secondo la difesa - aveva 14 anni. In Pakistan non è prevista l'applicazione della pena di morte nei confronti dei minori di 18 anni.

Dopo il sanguinoso attacco dello scorso dicembre contro una scuola di Peshawar, in cui sono rimaste uccise 150 persone (per lo più bambini), le autorità pakistane hanno deciso la revoca della moratoria sulla pena di morte per i sospetti terroristi. A marzo, poi, è stata annunciata la revoca totale della moratoria, che era in vigore dal 2008.

Secondo l'ultimo Rapporto sulla pena di morte nel mondo di Nessuno Tocchi Caino, lo scorso anno in Pakistan sono state eseguite sette condanne a morte per impiccagione. Quest'anno da gennaio a giugno, stando allo stesso rapporto, almeno 174 condanne a morte sono state eseguite per impiccagione. Dallo scorso dicembre le esecuzioni sono state più di 200.

USA - pena di morte: uccisa Kelly Renne Gissendaner prima donna negli ultimi 70 anni in Georgia

AGI/AFP
Washington - L'appello di papa Francesco non ferma il boia in Georgia. E' stata eseguita la condanna a morte di Kelly Renne Gissendaner. La donna, 47 anni, e' stata giustiziata con una iniezione letale. 

Lo riferiscono i media americani. L'esecuzione, prevista per le 19 (l'una in Italia) nel carcere della Jackson County era stata ritardata da tre appelli presentati dai legali della donna, respinti dalla Corte Suprema.
Gissendaner, prima donna condannata a morte nello stato di Georgia negli ultimi 70 anni, era accusata di aver progettato l'omicidio del marito, che fu assassinato dal suo amante, condannato all'ergastolo. 

L'uomo sara' liberato tra otto anni, dopo aver testimoniato contro la 47enne. Il Pontefice, con una lettera scritta dal nunzio Carlo Maria Vigano', aveva cercato di fermare l'niezione letale.

martedì 29 settembre 2015

Passo importante verso la cittadinanza per 700 mila bambini di famiglie straniere che sono nati e studiano in Italia

Avvenire
È arrivato giovedì il via libera dalla commissione Affari costituzionali della Camera alla proposta di legge sulla cittadinanza che introduce il principio dello Ius soli e dello Ius culturae. 

Ha votato a favore la maggioranza, contro la Lega, mentre i membri di Forza Italia e Movimento 5 Stelle? a quanto è stato riferito dalla commissione ? non erano presenti al momento del voto. Il provvedimento arriverà in Aula domani per la discussione generale. Relatore del provvedimento sarà Marilena Fabbri del Pd.
L’iter della proposta di legge si è sbloccato grazie a un accordo di maggioranza che si è concretizzato in due emendamenti firmati da Scelta civica e Nuovo centrodestra. Con gli emendamenti è stato inserito il cosiddetto Ius soli temperato e sono state modificate le regole per lo Ius culturae, con l’obbligo di frequenza di un ciclo scolastico di 5 anni per i minori.

«È una svolta importante, un cambiamento epocale che riguarderà quasi 700 mila persone, sui 986 mila minori che sono nati o studiano in Italia ». Mario Marazziti, deputato di Per l’Italia-Democrazia solidale, è soddisfatto per il via libera arrivato giovedì in commissione Affari costituzionali al ddl sulla cittadinanza agli stranieri. «Così – dice – si crea una 'generazione- ponte'. È la cultura italiana che crea cittadinanza. E i minori diventano elemento di integrazioni per gli adulti. È prevenzione contro la ricerca di identità culturali radicali: mantenere un milione di persone in uno stato di marginalità non crea sicurezza, anzi. Non è un cedimento, ma la prevenzione delle tragedie alla Charlie Hebdo». 

Marazziti, presidente della commissione Affari sociali, racconta che lo stralcio della parte sugli adulti non è stato un passo a cuore leggero, ma è servito «a convincere Ncd e Scelta civica a non rinviare sine die una riforma così importante». Alla vigilia dell’approdo in aula del disegno di legge, Marazziti fa un bilancio del lavoro svolto. Domani la discussione generale, la settimana successiva probabilmente l’approvazione alla Camera.

Alcune associazioni però sono rimaste deluse dall’esclusione dal testo della riforma della cittadinanza degli adulti. È stato difficile l’accordo nella maggioranza?
La relatrice Milena Fabbri del Pd ha fatto un grande lavoro, unificando 29 proposte. Ma il punto chiave politico è stato decidere di discuterla, calendarizzarla e portarla in aula. Per fare un po’ di memoria storica ricordo che il 3 febbraio 2004 veniva presentato alla Camera un primo testo sulla cittadinanza dei bambini figli di immigrati, costruito con la Comunità di Sant’Egidio. Allora parlare di ius culturae era fantascienza. Ci sono voluti 11 anni. Decidere di portarla in aula è stata già una decisione gigantesca. A dire il vero il mio ddl, come altri del Pd e del M5S, comprendeva anche la nuova disciplina della cittadinanza degli adulti, perché quella in vigore è la legge più antiquata d’Europa, con percorsi a ostacoli: dieci anni, più tre per le pratiche, che diventano anche 17 perché, in attesa di documenti dall’estero, succede che la pratica italiana scade. E questo, sommato con la crisi, ci sta facendo perdere gli stranieri più stabilizzati: vanno via famiglie in Italia da 8 o 10 anni. Perdiamo anni di frequenza a scuola, di integrazione, di stranieri che parlano bene l’italiano. Tuttavia la decisione di stralciare la parte sugli adulti è stato un compromesso necessario.

Per quale motivo?
È partita la grande campagna populista e allarmista legata alla vicenda dei migranti. La crescita brutale dei toni poteva portare ad allontanare il più possibile una decisione sulla cittadinanza. C’è stata una richiesta ufficiale del Ncd di non discuterla. Così anche Scelta civica. Il rischio di perdere un’altra legislatura era molto alto. E allora col Pd abbiamo preso a malincuore la decisione di stralciare la parte sugli adulti. Ma come 'zio', in quanto membro di Sant’Egidio, di questa riforma , giudico questo risultato in modo molto positivo.

Il permesso Ue che deve avere un genitore non è un criterio un troppo rigido? Non bastava il lungo soggiorno italiano?
La durata è la stessa, il problema semmai è che i requisiti per il permesso Ue non sono ancora del tutto omogenei in tutte le questure. Alcune guardano con più attenzione alle dimensioni della casa. E in tempi di crisi c’è chi, pur da molti anni qui, ha difficoltà. Abbiamo chiesto al ministero dell’Interno una omogeneizzazione.

Critiche anche sulla discriminante del reddito, non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale. Non è dichiarato nella legge, ma è legato al permesso Ue.
Io infatti avrei preferito il lungo soggiorno, il permesso Ue in qualche misura è una restrizione: ci sarà chi rischia di non avere il permesso Ue perché ha un lavoro peggiore di altri.

Per i non nati in Italia servono cinque anni di frequenza scolastica. In commissione c’era chi ne voleva otto e due titoli di studio.
C’era una forte spinta in questa direzione. Ma i cinque anni di frequenza non sono un dato meno forte del titolo di studio: un diploma si può anche comprare, la frequenza no, è legato a un progetto di vita dei genitori. La scuola crea integrazione, la cultura crea italianità. Anche se è dalla terza elementare alla seconda media.

Sarà possibile recuperare la parte sugli adulti in aula con voti di Sel e M5S?
Sì, ma ci perdiamo tutto il resto, perché si sfalda la maggioranza sulla cittadinanza ai minori: verremmo meno all’accordo che ha permesso la legge. Sugli adulti ripartiremo, appena la legge sarà definitivamente approvata al Senato.

Insomma: intanto portiamo a casa la legge, grazie a questo compromesso.
Un compromesso, lo ripeto, che consentirà un cambiamento epocale. Quello che invece si potrà emendare è sul nodo di quelle decine di migliaia di stranieri che hanno già i requisiti previsti dalla legge, ma hanno già raggiunto la maggiore età e verrebbero esclusi. Serve una norma transitoria, cui sto lavorando e su cui registro consensi. Sarebbe paradossale escludere chi ha maturato più ius culturae.

Burundi: rapporto Onu denuncia aumento delle violenze nel carcere di Bujumbura

Nova
L'Alto commissario delle Nazioni unite per i diritti umani, Ràad Zeid Al Hussein, ha riferito di un allarmante aumento del numero di arresti, detenzioni e uccisioni in Burundi dall'inizio di settembre. 

In una dichiarazione rilasciata a Ginevra, Zeid ha indicato che quasi ogni giorno i corpi senza vita dei detenuti vengono lasciati lungo le strade di alcuni quartieri della capitale Bujumbura. In molti casi, le vittime sembrano essere state uccise da colpi sparati a distanza ravvicinata. I cadaveri spesso mostrano segni di torture e vengono trovati con le mani legate dietro la schiena. Queste morti inspiegabili hanno lo scopo di "instillare una profonda paura tra la popolazione, in particolare nei quartieri noti per il loro sostegno alle forze politiche di opposizione", spiega il rappresentante Onu.

L'Alto commissario riferisce che l'Onu ha registrato 134 omicidi dallo scorso aprile, così come centinaia di arresti e detenzioni arbitrarie, in particolare 704 dall'inizio di settembre. I detenuti vengono solitamente rilasciati dopo pochi giorni, ma a volte alcuni rimangono in carcere per mesi, ha aggiunto Zeid. Il diplomatico infine ha indicato che finora, gli autori di torture e omicidi non sono stati puniti dalla giustizia del paese e ha sottolineato l'importanza della cooperazione, già in corso, con le autorità del Burundi esortandole a combattere contro l'impunità.

lunedì 28 settembre 2015

Rep. Centrafrica - Violenze a Bangui, in aumento gli sfollati

MISNA
“Centinaia di profughi hanno raggiunto i campi allestiti presso il convento di Notre Dame du Mont Carmel e il Seminario maggiore di Bangui”: lo riferiscono alla MISNA fonti nella capitale centrafricana in seguito a scontri e violenze che nel fine-settimana hanno provocato oltre 30 vittime e un centinaio di feriti.

“Tanta gente è fuggita in cerca di un riparo – dicono da Bangui - mentre nelle strade si sparava ed erano erette barricate di pneumatici in fiamme; era da almeno un anno che i campi si svuotavano ma nel fine-settimana è avvenuto esattamente il contrario”.

Le violenze sono cominciate sabato mattina, pare a seguito dell’uccisione di un conduttore di moto-taxi nel Pk-5, quartiere perlopiù musulmano nel centro della città. Nelle ore successive rappresaglie ed esecuzioni sommarie, con roghi di abitazioni e perfino di una chiesa protestante.

Secondo le fonti della MISNA, a ogni modo, le violenze potrebbero non esser riconducibili solo alle contrapposizioni degli ultimi anni tra combattenti musulmani della Seleka e unità Anti-Balaka, milizie perlopiù cristiane. “Negli scontri – dicono da Bangui – un ruolo sembra aver assunto anche il malcontento per l’inerzia della missione di pace delle Nazioni Unite, la Minusca, accusata di non essere in grado di garantire la sicurezza”. Stando alle fonti, ancora ieri sera, un gruppo di giovani armati stazionavano di fronte alla sede della missione presidiata dai "caschi blu".

Le violenze si sarebbero ridotte di intensità nel corso della serata di ieri, in seguito all’entrata in vigore di un coprifuoco imposto dai peacekeeper con il sostegno dei militari francesi della missione Sangaris. “Un appello al rispetto delle restrizioni e a cessare ogni violenza – dicono da Bangui - è stato rivolto alla popolazione dal primo ministro Mahamat Kamoun: speriamo possa essere ascoltato”.

[VG]

Migranti, la Merkel chiede ai tedeschi per l'integrazione dei profughi lo stesso spirito del 1990 per la riunificazione

Askanews
Berlino - Tornare allo spirito del 1990, l'anno della storica riunificazione delle due Germanie. E' così, secondo la Cancelliera Angela Merkel, che i tedeschi possono aiutare il Paese a far fronte alla sfida odierna di integrare centinaia di migliaia di migranti e rifugiati. 

"L'unità della Germania fu naturalmente molto speciale", ha detto Merkel nel suo tradizionale intervento settimanale alla vigilia del 25esimo anniversario della riunificazione, il 3 ottobre. Pur riconoscendo che la gestione dell'attuale ondata di migrazione e la riunificazione rappresentano due cose molto diverse, il cancelliere ha sottolineato che l'integrazione delle persone che stanno fuggendo da guerra e povertà richiede uno sforzo ugualmente importante da tutta la società tedesca. "Quella sensazione generale, quando dobbiamo fronteggiare un compito importante che possiamo raggiungere, quella, credo, ci può ricordare come fare", ha detto Merkel. Il loro ricordo del processo di riunificazione dell'est e ovest della Germania è ciò che ha incoraggiato "molte, molte persone a essere coinvolte oggi... Il loro approccio al loro compito è accompagnato dall'idea che 'vogliamo farcela e possiamo farcela'". La Germania è diventata la principale destinazione per centinaia di migliaia di persone in fuga da guerra e povertà in Medio Oriente e in Africa, che vogliono raggiungere l'Europa. E questo sta costando alla Merkel un calo di popolarità, almeno secondo quanto emerge da un sondaggio pubblicato dal settimanale Der Spiegel.

"L'impegno per i rifugiati le ha portato soltanto della generica simpatia", analizza Der Spiegel nel suo ultimo numero. La Cancelliera conservatrice si ritrova così in quarta posizione di questa inchiesta dello Spiegel, realizzata giorni fa dall'istituto TNS Forschung. Il primo posto va al suo ministro degli Esteri, il socialdemocratico Frank-Walter Steinmeier con il 67%, mentre il 64% si è pronunciato a favore di Merkel, con un calo del 5% rispetto alla precedente inchiesta, a giugno. E' la prima volta di questa legislatura, cominciata nel 2013, che un membro del partito socialdemocratico è in resta nei sondaggi. Il ministro delle Finanze di Merkel, Wolfgang Schaeuble, è secondo, seguito dal presidente della Repubblica federale Joachim Gauck. Gli intervistati erano invitati a dire su quali politici confidavano per l'avvenire.

USA - Papa Francesco: "penosi i sistemi carcerari che non recuperano, creare reinserimento"

Askanews
"È penoso riscontrare a volte il generarsi di sistemi penitenziari che non cercano di curare le piaghe, guarire le ferite, generare nuove opportunità". Così Papa Francesco ai detenuti dell'Istituto di Correzione Curran-Fromhold di Philadelphia, criticando auspicando che il tempo di reclusione non sia "sinonimo di espulsione" ma favorisca il "reinserimento" nella società. 


Il Papa ha incentrato il suo discorso attorno all'immagine evangelica di Gesù che lava i piedi dei discepoli: "Egli viene incontro a noi per calzarci di nuovo con la dignità dei figli di Dio.

Vuole aiutarci a ricomporre il nostro andare, riprendere il nostro cammino, recuperare la nostra speranza, restituirci la fede e la fiducia. Vuole che torniamo alle strade, alla vita, sentendo che abbiamo una missione; che questo tempo di reclusione non è stato mai sinonimo di espulsione", ha detto Francesco. "Vivere comporta sporcare i nostri piedi per le strade polverose della vita, della storia. Tutti abbiamo bisogno di essere purificati, di essere lavati. Tutti siamo cercati da questo Maestro che ci vuole aiutare a riprendere il cammino. Il Signore ci cerca tutti per darci la sua mano. È penoso riscontrare a volte il generarsi di sistemi penitenziari che non cercano di curare le piaghe, guarire le ferite, generare nuove opportunità.

È doloroso riscontrare come a volte si crede che solo alcuni hanno bisogno di essere lavati, purificati, non considerando che la loro stanchezza, il loro dolore, le loro ferite sono anche la stanchezza, il dolore e le ferite di una società. Il Signore ce lo mostra chiaramente per mezzo di un gesto: lavare i piedi per andare a tavola. Una tavola alla quale Egli vuole che nessuno rimanga fuori. Una tavola che è stata apparecchiata per tutti e alla quale tutti siamo invitati".
"Questo momento nella vostra vita - ha detto il Papa, seduto su una sedia costruita per lui dai carcerati - può avere un unico scopo: tendere la mano per riprendere il cammino, tendere la mano che aiuti al reinserimento sociale. Un reinserimento di cui tutti facciamo parte, che tutti siamo chiamati a stimolare, accompagnare e realizzare.

Un reinserimento cercato e desiderato da tutti: reclusi, famiglie, funzionari, politiche sociali e educative. Un reinserimento che benefica ed eleva il livello morale di tutta la comunità". Hanno ascoltato il Papa, all'interno di questo carcere notoriamente turbolento e sovraffollato, anche detenute donne, a cui il Papa ha inviato un saluto toccandosi il petto con la mano.

domenica 27 settembre 2015

Democracy in Africa: Challenges ahead as elections draw near - Tanzania, RD Congo, Congo Brazzaville, Rwanda,

GLOBAL RISK INSIGHTS
In the next months, a number of African nations will be going to the polls as current leaders reach their term limits.
Over the last two decades, Africa has seen major advances in democracy. Tanzania, Ghana, South Africa, and Nigeria are some countries that have proven the continent has come of age and can transit peacefully from one administration to another.
Sadly, attempts by sitting presidents to extend their stay in power via amending the constitution are still a common occurrence in African democracy. Worse still are democracies without term limits. The following are some of the countries where elections will be held in coming months.



Tanzania
Although it is one of the poorest countries in the world with few exportable minerals, Tanzania has managed to avoid the ‘typical’ political violence of most Africa countries. Tanzania has not only been peaceful; it continues to maintain its status as one of African’s strongest democracies. With more than 100 tribes, tribalism is almost non-existent during elections.

The upcoming presidential and parliamentary elections – expected to be the closest contested since independence – are due to be held on October 25th. Although the ruling Chama Cha Mapinduzi (CCM) party has won all four elections since the end of the one-party system in 1995, opposition has made remarkable improvements.

No doubt CCM has a strong advantage, but it has lost seats to opposition in the two previous national elections and may lose more in next month’s elections. However, it is rather too soon to conclude which party will win in October. Despite current economic setbacks, political stability will help maintain investor confidence in Tanzania’s economy.

Democratic Republic of Congo
In Democratic Republic of Congo, no less than 40 people were killed in January protests, which were sparked by plans to revise electoral laws. Opposition parties had called for mass protests against the new electoral bill being debated in parliament, a draft law that would allow President Joseph Kabila to extend his stay in power beyond 2016.

Fortunately, the parliament actually amended the controversial census bill following the four-day nationwide protests, and now election officials have announced that the next presidential election will be held in November 2016.

President Kabila is yet to state whether or not he will leave office when his term ends in 2016, though his spokesperson has stated that Kabila does not intend to flout the constitution. After many years of war, democratic progress will only be consolidated by free and fair elections in November 2016. Failure to respect civil liberty and honour the constitution of Africa’s fourth most-populous country threatens investment and economic growth.

Congo – Brazzaville
Although Congo-Brazzaville is one of the major oil-producing states on the continent, much of its population continues to live in extreme poverty following decades of instability. In 2009, an investigation by France alleged President Denis Sassou-Nguesso and his family of acquiring assets in France using public funds, including 112 bank accounts and an automobile worth $224,492.

Under the 2002 constitution of Congo-Brazzaville, the president can be re-elected only once and must be under the age of 70 years. Sassou-Nguesso’s second term in office ends in 2016, when he will turn 72 years old.

On March 27th, Sassou-Nguesso announced his government’s plan to hold a referendum to change sections of the constitution so he can stand for a third consecutive term in office. In July, he announced a national forum to discuss series of constitutional reforms, including scrapping the two-term limit and removing the maximum age limit for presidential candidates.

To make matters worse, Sassou Nguesso replaced two of his cabinet ministers in August after they participated in an opposition-led consultation against the government’s attempts to review the constitution. He is also soon expected to announce a commission that will propose a new draft constitution ahead of the proposed referendum.

In a country that currently enjoys fragile peace, such moves may cause agitation, political crisis, and investor flight in Congo-Brazzaville.

Rwanda
Rwanda is a small non-coastal state in the process of recovering from a major ethnic strife and civil war in the mid-1990s. Although poverty remains widespread, Rwanda appears stable and efforts to rebuild the economy under the leadership of President Kagame have yielded remarkable development and reduced poverty and inequality.

Similar to the constitution of Congo-Brazzaville, article 101 of the 2003 Rwandan constitution limits the number of presidential terms to two seven-year terms. President Kagame ends his second term in 2017, and is therefore banned by the constitution from standing for re-election.

Although Kagame has not yet declared an intention to remain in power beyond 2017, possible attempts at abolishing term limits would serve to overshadow benefits from previous economic gains.

African challenges and successes
These upcoming elections are tainted by proposed constitutional amendments that not only undermine democracy, but may also result in political and economic tensions that create a risky scenario for investors. Unfortunately, things could be much worse.

Ongoing events in Burkina Faso – as well as human rights violations, arbitrary arrests, and alleged murder of activists in Burundi – make a mockery of democracy on the continent and have tragic outcomes. Leaders must understand there is no one ‘saviour’ in any nation.

On the bright side, some African nations have gotten things right. Nigeria’s robust and decisive response to Ebola (which attracted commendations from the international community) and the peaceful transition from a civilian administration to another following the 2015 elections are evidence that there are African states that have what it takes to uphold the value of democracy.

FAO: sicurezza alimentare e crisi migratoria sono correlati

Impronta Unika
Le milioni di persone costrette a scappare dalla guerra, dalla povertà e da altre avversità ci ricordano tragicamente di quanto sia urgente il bisogno di soluzioni pacifiche basate sulla giustizia sociale e su migliori opportunità economiche per tutti. Cruciale per raggiungere tale scopo è proteggere ed investire nei mezzi di sussistenza rurali, ha dichiarato oggi il Direttore Generale della FAO José Graziano da Silva.
Sviluppo rurale e sicurezza alimentare sono centrali nella risposta globale alla crisi dei rifugiati. La guerra causa la fame e la fame, a sua volta, uccide e spinge le persone ad abbandonare le proprie case” ha affermato. “Sia che vivano nei campi sia che si stiano spostando, queste persone si trovano in una situazione di particolare vulnerabilità. Il mondo deve dare una risposta esaustiva che offra speranza e soluzioni concrete ai rifugiati. E questa risposta deve tenere in considerazione la loro sicurezza alimentare presente e futura e il ripristino dei loro mezzi di sussistenza rurali.”

“Sostenere i mezzi di sussistenza basati sull’agricoltura può contribuire sia ad aiutare le persone a rimanere nelle proprie terre quando si sentono sicure, sia a creare le condizioni per il ritorno dei rifugiati, dei migranti e degli sfollati,” ha aggiunto Graziano da Silva. “La maggioranza degli sfollati spera di tornare nelle propria terra non appena il conflitto sia finito, ma gli effetti del conflitto sulla sicurezza alimentare durano spesso ben oltre il placarsi delle violenze,” ha affermato.

L’agricoltura continua a costituire la spina dorsale dei mezzi di sussistenza per la gran parte delle persone in situazioni di conflitto o post-conflitto. In questo contesto, la FAO incentra il proprio lavoro sul fornire sostegno per la protezione dei mezzi di sussistenza agricoli durante il conflitto, creando al tempo stesso le condizioni per la ricostruzione e la resilienza di lungo termine del settore agricolo, come strategia cruciale per la costruzione della pace, la riduzione della povertà e lo sviluppo in generale nei paesi che si trovano in situazioni di crisi prolungate.

In Siria, ad esempio, il conflitto sta avendo un impatto devastante sull’agricoltura, con interruzioni dei mercati alimentari e delle catene di produzione, gran parte delle strutture di irrigazione e della altre infrastrutture distrutte, e contadini e allevatori lasciati senza altra scelta se non quella di abbandonare i loro campi e i loro animali. I pochi che rimangono non hanno accesso ai mercati e non possono permettersi sementi, fertilizzanti o altri input. Nel frattempo il flusso di rifugiati siriani sta avendo effetti anche sull’agricoltura dei paesi limitrofi ospitanti. La FAO sta lavorando con i propri partner per rafforzare la sicurezza alimentare e costruire la capacità di resilienza di famiglie e comunità in Siria e nei paesi limitrofi. Tali sforzi mirano a salvaguardare i mezzi di sussistenza e al tempo stesso aiutare le comunità a gettare le fondamenta per la loro stessa ripresa nel lungo termine.

A livello pratico la FAO sta dando priorità ad aiutare le famiglie più vulnerabili a migliorare il loro accesso al cibo, alla nutrizione e al reddito.

Questo comprende la fornitura di sementi per permettere agli agricoltori siriani di avere un raccolto cerealicolo sufficiente a sfamare le proprie famiglie; programmi di denaro-contro-lavoro per creare opportunità di reddito ripristinando al tempo stesso le infrastrutture agricole fondamentali; supporto veterinario e campagne di vaccinazioni in Iraq, Giordania, Libano e Siria per preservare la salute del bestiame e le fonti essenziali di nutrimento; la distribuzione di kit per la produzione agricola casalinga che diano agli sfollati e alle famiglie ospitanti i mezzi per produrre cibi ricchi di nutrienti, come uova, latte e verdure.

Papa Francesco all'Onu: "Qualsiasi danno all'ambiente è un gravissimo attentato ai diritti umani"

Adnkronos
Francesco all'Onu rivendica il 'diritto dell'ambiente'
"L'esclusione economica e sociale è una negazione totale della fraternità umana e un gravissimo attentato ai diritti umani e dell'ambiente". 

E' la forte denuncia che il Papa fa parlando all'Onu. Il Papa, citando l'enciclica 'Laudato si'', ricorda che esiste "un vero 'diritto dell’ambiente' per una duplice ragione. In primo luogo perché come esseri umani facciamo parte dell’ambiente. Viviamo in comunione con esso, perché l’ambiente stesso comporta limiti etici che l’azione umana deve riconoscere e rispettare. L’uomo, anche quando è dotato di 'capacità senza precedenti' che 'mostrano una singolarità che trascende l’ambito fisico e biologico', è al tempo stesso una porzione di tale ambiente".

"Qualsiasi danno all’ambiente, pertanto, è un danno all’umanità - avverte il Papa - In secondo luogo, perché ciascuna creatura, specialmente gli esseri viventi, ha un valore in sé stessa, di esistenza, di vita, di bellezza e di interdipendenza con le altre creature. Noi cristiani, insieme alle altre religioni monoteiste, crediamo che l’universo proviene da una decisione d'amore del Creatore, che permette all’uomo di servirsi rispettosamente della creazione per il bene dei suoi simili e per la gloria del Creatore, senza però abusarne e tanto meno essendo autorizzato a distruggerla. Per tutte le credenze religiose l’ambiente è un bene fondamentale". L'applauso dell'assemblea.

Denuncia ancora il Papa come "l’abuso e la distruzione dell’ambiente, allo stesso tempo, sono associati ad un'inarrestabile processo di esclusione. In effetti, una brama egoistica e illimitata di potere e di benessere materiale, conduce tanto ad abusare dei mezzi materiali disponibili quanto ad escludere i deboli e i meno abili, sia per il fatto di avere abilità diverse (portatori di handicap), sia perché sono privi delle conoscenze e degli strumenti tecnici adeguati o possiedono un’insufficiente capacità di decisione politica. L’esclusione economica e sociale è una negazione totale della fraternità umana e un gravissimo attentato ai diritti umani e all’ambiente".

Il Papa ribadisce il forte no alla 'cultura dello scarto': "I più poveri sono quelli che soffrono maggiormente questi attentati per un triplice, grave motivo: sono scartati dalla società, sono nel medesimo tempo obbligati a vivere di scarti e devono soffrire ingiustamente le conseguenze dell’abuso dell’ambiente. Questi fenomeni costituiscono oggi la tanto diffusa e incoscientemente consolidata 'cultura dello scarto'".

USA - Georgia, fissata per il 29 settembre la prima esecuzione di una donna dal 1945

Corriere della Sera
Dopo la sospensione dell’esecuzione avvenuta in extremis alla fine di febbraio, Kelly Renee Gissendaner (nella foto WXIA) ha un nuovo appuntamento con la morte, fissato per il 29 settembre.
Kelly Renee Gissendaner 
Gissendaner è stata condannata a morte nel 1998 per aver spinto l’anno prima il suo fidanzato, Gregory Owen, a uccidere il marito per incassarne la polizza assicurativa sulla vita. Owen ha collaborato alle indagini, assumendosi la responsabilità dell’omicidio e chiamando in causa la mandante. Per questo, gli è stata risparmiata la pena capitale ed è stato condannato all’ergastolo.

Gissendaner rischia di essere la prima donna messa a morte in Georgia dal 1945. Le poche altre esecuzioni di donne nello stato risalgono addirittura al XIX secolo.

Il 5 marzo 1945 Lena Baker, un’afroamericana di 44 anni, finì sulla sedia elettrica per aver ucciso il suo datore di lavoro, un bianco di nome Ernest Knight. Il verdetto venne emesso da una giuria di uomini bianchi, al termine di un processo durato un solo giorno.

Sessant’anni dopo, lo stato della Georgia ha riconosciuto che Lena Baker non avrebbe dovuto essere messa a morte, avendo agito per autodifesa contro Knight, che l’aveva imprigionata e minacciata di morte se lo avesse lasciato.

Gissendaner è una delle 59 donne in attesa dell’esecuzione nei bracci della morte di 18 degli stati degli Usa.

La prima esecuzione documentata di una donna negli Usa risale al XVII secolo: dal 1632 al 2014 ve ne sono state 574 di cui 15 dal 1977 (su un totale di 1402), l’anno del ripristino della pena di morte dopo un quinquennio di moratoria.

Le ultime tre esecuzioni di donne (una nel 2013 e due nel 2014) hanno avuto luogo tutte in Texas.

Usa. Pena morte, Texas consegna a Virginia cocktail letale iniezioni e nasconde identità fornitori

Bliz Quotidiano
USA, Austin – Il Texas – primo stato Usa per il numero condanne a morte eseguite – ha fornito alla Virginia il cocktail di sostanze letali usato nelle esecuzioni con iniezione. 

La notizia e’ stata confermata dal dipartimento di giustizia penale del Texas che ha però rifiutato di rivelare da dove provengano le sostanze. Leggi che proteggono l’anonimato dei fornitori sono state approvate da vari stati dove è in vigore la pena di morte per evitare eventuali proteste o rappresaglie mirate. 

Non è quindi chiaro se il cocktail mortale a base di pentobarbitol fornito dal Texas, sia stato preparato da laboratori o farmacie nei confini dello Stato o se provenga dall’esterno. Il rallentamento delle esecuzioni in Usa è stato attribuito proprio alla carenza dei prodotti per le iniezioni, dopo che le aziende farmaceutiche europee hanno rifiutato di inviarli negli Stati Uniti a questo scopo. Ora però, vista l’ammissione del Texas, gli Stati Usa potrebbero cominciare a scambiarsi i composti. 

Secondo i legali, che difendono i condannati a morte, la mancanza di trasparenza sulle fonti delle sostanze impedisce di controllare che i prodotti usati non siano stati in qualche modo adulterati. 

Ruanda: Human Rights Watch denuncia: "emarginati reclusi in modo deplorevole senza alcun processo"

thepostinternazionale.it
Un rapporto realizzato dall'organizzazione per i diritti umani Human Rights Watch (Hrw) ha rivelato che il governo della Repubblica del Ruanda starebbe trattenendo illegalmente all'interno di un centro di detenzione non ufficiale la parte più emarginata della popolazione che vive a Kigali, la capitale del Paese. I detenuti vivrebbero in condizioni deplorevoli e di forte disagio, sottoposti anche a maltrattamenti e abusi da parte delle autorità del posto.

Il centro, comunemente conosciuto con il nome di Kwa Kabuga, si trova a Gikondo, uno dei sobborghi della capitale. La struttura ha cominciato a essere utilizzata come centro di detenzione almeno dal 2005. Il rapporto condotto da Human Rights Watch si basa su ricerche condotte nel sobborgo di Kigali tra il 2011 e il 2015 e fa seguito a diverse ricerche realizzate dalla stessa organizzazione nel 2006.
Dal report emerge che la maggior parte delle persone trattenute all'interno del centro provengono da situazioni di povertà e emarginazione. Le politiche adottate dal governo ruandese mirano ad allontanare dagli occhi dell'opinione pubblica tutti coloro che sono considerati come scomodi ai fini dell'immagine positiva della città che il presidente del Ruanda Paul Kagame sta cercando di diffondere al mondo: poveri, senzatetto, bambini di strada, venditori ambulanti, prostitute e presunti criminali sono le principali prede delle ronde della polizia locale.

Il ministro della Giustizia Johnstone Busingye ha spesso definito la struttura come "un centro di transito", in cui le persone sarebbero trattenute "per brevi periodi prima di eventuali misure correttive a lungo termine". Ma una dichiarazione di questo tipo si scontra in pieno con i dati diffusi da Hrw, che ha documentato, invece, casi in cui le persone sono state trattenute illegalmente all'interno del centro anche per un periodo di nove mesi. In media, dalle persone intervistate risulta che siano state trattenute nella struttura per un periodo di circa 40 giorni.

Nei 57 casi documentati dall'organizzazione per i diritti umani, inoltre, risulta che le autorità ruandesi hanno bloccato queste persone violando le leggi in vigore nel Paese. Tutti i detenuti sono stati trattenuti senza un'accusa precisa e senza alcuna aspettativa di essere sottoposti a regolare processo.

Il contesto sociale all'interno delle stanze di Kwa Kabuga non appare migliore. Ex detenuti hanno raccontato di abusi quotidiani da parte della polizia o delle altre persone ospitate. Stando alle dichiarazioni di alcuni di loro basterebbe parlare a voce troppo alta o non essere in fila per andare al bagno per scatenare l'ira delle autorità lì presenti. Dal rapporto risulta che 41 dei detenuti intervistati hanno affermato di essere stati percossi, altri sette invece hanno rivelato di aver assistito ad abusi su alcuni dei loro compagni. Le autorità si difendono dalle accuse dichiarando che le condizioni di vita a Gikondo sono del tutto positive.

Ma ancora una volta dalle pagine diffuse da Human Rights Watch emerge tutt'altro. Gli intervistati parlano di condizioni deplorevoli e degradanti e di una totale insufficienza dei beni di prima necessità: fornitura di cibo e acqua potabile non adeguata e mancanza di luoghi e mezzi per un pernottamento quanto meno dignitoso. I detenuti dormivano sul pavimento, spesso senza neppure il materasso. Quando fornito erano costretti a condividerlo per necessità con altri ospiti della struttura e la maggior parte delle volte anche con pidocchi e pulci.

Il governo, dal suo canto, quando parla di Kwa Kabuga continua a descriverlo come un "centro di riabilitazione", ma, anche qui, gli intervistati sostengono che l'assistenza necessaria alla loro riabilitazione è inesistente. Per di più, anche presumendo che il centro sia rifornito di personale sanitario, risulta che l'accesso ai trattamenti medici non rispetta in alcuna maniera gli standard minimi. Questo tipo di detenzioni arbitrarie sembrano riflettere le politiche non ufficiali adottate dal governo ruandese che cerca ad ogni costo di diffondere un'immagine della città distante da quella reale. "Kigali viene spesso elogiata per la sua pulizia e il suo ordine, ma la parte più povera dei suoi abitanti sta pagando il caro prezzo di questa immagine positiva", sostiene Daniel Bekele, direttore della sezione Africa di Hrw.

Il presidente della Repubblica del Ruanda, Paul Kagame, è stato più volte celebrato per il progresso economico che il suo paese ha compiuto a partire dal genocidio del 1994, in cui furono uccise 800mila persone, ma se il prezzo da pagare dalla maggior parte della popolazione che solitamente è relegata ai confini della società di Kigali è così alto, sarebbe opportuno che il governo ruandese rivedesse gran parte delle sue politiche di risanamento in atto nella capitale. Anche perché, da quanto risulta dalle informazioni fornite da Hrw, i detenuti di Gikondo, una volta rilasciati sono spesso riabbandonati per strada e costretti dalle autorità a lasciare la capitale.

di Andrea De Pascale

sabato 26 settembre 2015

USA: la polizia crivella di colpi 38enne afroamericano paralizzato

Il Manifesto
L'unica differenza rispetto ad altri casi simili è che questa volta la vittima è un disabile. Per il resto sembra di leggere un copione già conosciuto in un'America che non riesce proprio a lasciarsi alle spalle rigurgiti di violenza e razzismo. Un afroamericano d 38 anni è stato ucciso mercoledì pomeriggio dalla polizia di Wilmington, nello Stato del Dalaware, dopo che un anonimo aveva segnalato al 911 la presenza di un uomo ferito dopo essersi sparato un colpo di pistola.

L'afroamericano si chiamava Jeremy McDole. Aveva alle spalle una serie di precedenti per possesso di droga e nel 2005 era rimasto paralizzato dopo che un amico gli aveva sparato alle spalle. Secondo il capo della polizia di Wilmington, Bobby Cummings, l'uomo sarebbe stato armato nel momento in cui sono arrivati gli agenti. Una ricostruzione smentita dalla famiglia di McDole, con la madre che ha accusato la polizia di aver ucciso il figlio. La sequenza dell'uccisione è stata ripresa con il cellulare da un passante che ha postato il video su Youtube.

Tutto comincia mercoledì verso le tre del pomeriggio quando al 911, il numero di pronto intervento della polizia arriva una telefonata che denuncia la presenza di un uomo sanguinante dopo che si era sparato. Sul posto si recano tra agenti e trovano McDole in mezzo alla strada sulla sua sedia a rotelle. È chiaramente disarmato, come si vede anche dal video, ma gli agenti avanzano pistola in pugno probabilmente perché allertati della presenza di un'arma. "Metti giù la pistola e alza le mani", intima uno di loro a McDole.

Non è chiaro se l'uomo è consapevole di quanto sta accadendo intorno a lui. Muove la testa, cerca di alzarsi sulle braccia, poi si rimette seduto e sposta le gambe con le mani. Nel video non si vede mai impugnare un'arma né inveire contro gli agenti ma solo portare le mani alla cintura. E forse proprio questo gesto gli è costato la vita, con gli agenti che potrebbero aver pensato che stesse per impugnare un'arma. E sparano uccidendolo. Più tardi hanno dichiarato di aver trovato una pistola calibro 38 vicino al corpo dell'uomo. "Mio figlio non era armato e adesso voglio risposte sulla sua morte", ha detto la madre di McDole mente un'altra parente ha parlato di "esecuzione".

È stata aperta un'inchiesta per verificare che gli agenti si siano comportati secondo la legge, ma la vicenda è seguita anche dell'Ufficio diritti civili, un nuovo ufficio creato dal Dipartimento delle giustizia proprio per evitare che casi del genere alimentino sfiducia verso e istituzioni. Di certo l'ennesima uccisione di un afroamericano da parte della polizia rischia di riaccendere le proteste nei confronti di forze dell'ordine accusate troppe volte di razzismo.

"Resta molto ancora molto da fare sul tema del razzismo e per assicurare che tutti gli americani si sentano al sicuro nella loro comunità" ha detto Hillary Clinton, candidata democratica alla Casa Bianca, il 9 agosto scorso, primo anniversario dell'uccisione da parte di un poliziotto di Michael Brown a Ferguson, nel Missouri. Proprio quest'ultimo caso dimostra quanto la Clinton abbia ragione. La strada è ancora lunga perché l'America bianca capisca che "Black lives matter", le vite dei neri sono importanti, come ha voluto chiamarsi un movimento nato proprio dopo i fatti di Ferguson.

di Marina Dalla Croce

venerdì 25 settembre 2015

Tunisia: grazia per 859 detenuti per Festa del Sacrificio, si pensa a riforma legge su droghe

Ansa
In occasione della festività religiosa dell'Eid al Adha (festa del Sacrificio) che ricorre oggi, una delle più importanti del calendario musulmano, il Presidente della Repubblica tunisina, Beji Caid Essebsi, ha deciso, dopo una riunione con il ministro della Giustizia e il direttore delle Case circondariali del paese, di concedere una grazia speciale in favore di 859 detenuti.
Lo rende noto un comunicato della presidenza che specifica che l'incontro è stato anche l'occasione per fare il punto sulla situazione carceraria tunisina e sulla questione della revisione della legge sul consumo degli stupefacenti leggeri al fine di ridurre la sovrappopolazione delle carceri.

La situazione delle carceri tunisine è tuttora deprecabile: sovraffollamento, condizioni igieniche precarie, mancanza di cure per i detenuti malati, e spesso è stata oggetto di critiche e rilievi da parte di associazioni umanitarie internazionali. La maggior parte dei detenuti è composta da semplici consumatori di droghe leggere, l'uso personale di stupefacenti in Tunisia è infatti punito con la reclusione. Da lungo tempo è in atto nel paese un dibattito sulla riforma della legge sugli stupefacenti e, secondo molteplici dichiarazioni di politici, sarebbe già pronto un disegno di legge per sostituire la famigerata legge 52 del 1992 su consumo e spaccio di stupefacenti, giudicata da molti troppo severa.

Azerbaijan: Journalist Shirin Abbasov Illegally Detained

Human Rights Watch
Berlin – Azerbaijani authorities illegally detained a TV journalist on September 16, 2015, and have neither allowed him to see a lawyer nor brought him before a judge, Human Rights Watch said today.
Azerbaijani journalist Shirin Abbasov, 19,
is being held incommunicado
Colleagues fear for the safety and well-being of the journalist, Shirin Abbasov, a regular contributor to independent online television station Meydan TV. The authorities should release Abbasov immediately and take swift action against those responsible for the violations of his right to liberty and security and basic detainee rights.

“Holding Shirin Abbasov in incommunicado arbitrary detention is outrageous and raises real concern that he may be ill-treated,” said Jane Buchanan, associate Europe and Central Asia director at Human Rights Watch. “This is an escalation in the Azerbaijan government’s campaign to silence independent media.”

Officials involved in Abbasov’s unlawful arrest should be investigated for abuse of power, misconduct, and potential criminal offenses, Human Rights Watch said.

A person close to Abbasov’s family with knowledge of the case told Human Rights Watch that officials from the Interior Ministry’s organized crime unit have confirmed that Abbasov is being held at their headquarters, known as “Bandhotel.” Azerbaijani law only allows authorities to hold detainees in temporary detention facilities such as police stations for 72 hours.

The source said that despite his lawyer’s repeated attempts to see Abbasov, officials have not allowed anyone to see him since a brief meeting with his mother on September 17.

A Meydan TV staff member said that Abbasov, 19, went missing at about 2 p.m. on September 16 on his way to university. His family and colleagues grew concerned when they could not reach him and began to search for him. Shortly after midnight, officials from the Interior Ministry’s organized crime unit confirmed to Abbasov’s family that he was in their custody. They refused to explain the reason for Abbasov’s arrest, saying they would tell his parents at a meeting the next morning. At the meeting, Interior Ministry officials claimed that Abbasov did not want to see them or anyone else.

Officials also told Abbasov’s lawyer that Abbasov refused his assistance. Under Azerbaijani law, a detainee must be allowed to meet with his lawyer and refuse legal assistance in writing.

According to Meydan TV, on September 17 officials claimed that they took Abbasov to the Nurmanski district court in Baku, which sentenced him to 30 days in administrative detention allegedly for resisting police. However, the individual with knowledge of the case said that Abbasov’s lawyer had requested documentation of the proceedings, but the court responded that it had no record of administrative or criminal cases against Abbasov.

Abbasov’s lawyer told Meydan TV that he was concerned that authorities could use Abbasov’s isolation and detention to put pressure on him to confess to trumped-up charges. Incommunicado detention, as well as violating due process rights, places detainees at an enhanced risk of ill-treatment.

Access to an independent lawyer and contact with relatives are critical safeguards against torture and other ill-treatment, Human Rights Watch said. Failure to bring Abbasov before a judge to rule on his continued custody is a clear violation of protections against arbitrary detention guaranteed under the European Convention on Human Rights, to which Azerbaijan is a party.

“There is absolutely nothing that justifies denying Shirin Abbasov contact with his lawyer or holding him in the police station for days beyond the legal limit,” Buchanan said. “This leaves the strongest impression that the Azerbaijan government has no actual reason for detaining Abbasov and in fact has something to hide.”

Abbasov’s detention is the latest attack on Abbasov and other Meydan TV staff and contributors, Human Rights Watch said.

In early September, prosecutors questioned Abbasov, allegedly in connection with a death of a local man in the city of Mingechevir after he had been questioned by police. The incident sparked protests that Meydan TV covered, although Abbasov did not go to Mingechevir. Meydan TV reported that Abbasov said that while he had been officially summoned in relation to the Mingechevir case as a witness, he was also questioned about Meydan TV’s activities. Officials also questioned several other Meydan TV journalists in early September about the Mingechevir events.

In June, authorities prevented Abbasov and three other Meydan TV journalists from leaving Azerbaijan as they attempted to attend an international event abroad. Officials reportedly told them they were on a blacklist and barred from exit, although later said that it was an administrative error.

In the last week, authorities have twice taken other Meydan TV journalists, Ayten Farhadova, Izolda Aghayeva, and Sevinc Vaqifqizi, into custody, interrogated them, and then released them, on September 20 at the Baku airport and again on September 22.

The journalists told another Meydan TV staff member that the officers interrogated them about Meydan TV’s activities, management, salary structure, and the coverage of clashes between police and protesters in Mingachevir. Authorities did not permit the journalists to contact their families, despite a requirement under Azerbaijani law allowing those detained to make a phone call after three hours in custody.

According to the Committee to Protect Journalists, on September 18 police searched the Baku apartment of another Meydan TV contributor, Javid Abdullayev, and confiscated computers and cameras. On September 16, the same day as Abbasov’s detention, police from the organized crime unit also detained Aytaj Akhmedova, a freelance journalist and regular Meydan TV contributor, and a friend of hers, and questioned them for five hours, then released them. Akhmedova told colleagues that investigators also asked her about Meydan TV’s activities, management, and salaries.

These attacks are the latest in the government of Azerbaijan’s relentless crackdown against dissenting voices.

On September 1, a court in Baku sentenced leading investigative journalist Khadija Ismayilova to seven-and-a-half years in prison in a trial that violated international standards and was in retaliation for her critical reporting on corruption. Ismayilova is a 2015 recipient of Human Rights Watch’s Alison Des Forges award for extraordinary activism, in recognition of her exemplary courage as a journalist and human rights activist in the face of the unprecedented crackdown on freedom of expression in Azerbaijan.

The government should immediately release all wrongfully imprisoned journalists and human rights defenders and end its crackdown on free speech, Human Rights Watch said.

“The attacks on journalists working with Meydan TV, one of the last sources of independent news about Azerbaijan, shows that the government is going to great lengths to stamp out any remaining critical voices,” Buchanan said. “The European Union and Azerbaijan’s other international partners should call for Abbasov’s urgent release and make clear that there is a price to pay for trampling fundamental freedoms.”

Thailandia tratta di profughi Rohingya, indagati altri ufficiali

MISNA
Un colonnello e due capitani dell'esercito e uno della marina militare sono gli ultimi esponenti delle forze armate finiti sotto inchiesta per la tratta di profughi di etnia rohingya e fede musulmana in fuga dalla persecuzione in Myanmar. Per tutti il tribunale ha emesso un mandato di arresto per traffico di esseri umani.

Finora, nonostante le denunce locali e internazionali di un coinvolgimento di elementi delle forze armate thailandesi in una estesa rete di trafficanti che sfrutta le necessità dei Rohingya in transito dalla Thailandia verso la musulmana Malesia, finora un solo ufficiale dell'esercito (un maggiore) era stato ufficialmente indagato. Il mandato di ieri è il primo a carico di un ufficiale della marina e conferma che le accuse avanzate in passato hanno un fondamento nonostante la stessa marina militare abbia mandato sotto processo per calunnia due giornalisti di un media online locale – dichiarati innocenti dal tribunale a inizio settembre scorso - che avevano riportato parte di un esteso servizio delle Reuters su questo coinvolgimento.

Paveen Pongsirin, investigatore-capo della polizia sul caso ha indicato che sono 153 i mandati di arresto spiccati finora in connessione con un traffico emerso ufficialmente solo a aprile, con la scoperta di resti di campi clandestini con annesse tombe comuni con un centinaio di cadaveri. Una realtà resa possibile soltanto da connivenze e interessi congiunti di vari gruppi e autorità, data anche la prossimità del confine malese e la militarizzazione della regione, al centro di attività insurrezionali e terroristiche. Solo una novantina gli arrestati, mente gli altri sono probabilmente all'estero.

Dopo anni in cui i dinieghi ufficiali sulla presenza di estesi traffici di esseri umani, interni al paese e parte di network internazionali erano stati accettati o poco contrastati, da qualche tempo la Thailandia è finita nel mirino dei media e delle organizzazioni per i diritti umani, oltre che delle diplomazie. In particolare, la pretesa dal regimi militare in carica dal maggio 2014 di volere portare il paese verso una democrazia più responsabile, moralizzando la vita pubblica ed eliminando la corruzione diffusa, si scontra una realtà ben diversa. Le azioni di contrasto sono perlopiù cosmetiche (pubblici ufficiali e poliziotti vengono solo spostati in altra sede – come i 32 rimossi solo ieri - non incriminati e nessuno è stato finora condannato. Il dipartimento di Stato Usa lo scorso luglio ha confermato il paese al livello più basso quanto a impegno contro il traffico di esseri umani, citando lavoro forzato e sfruttamento sessuale come le conseguenze più vistose. L'Unione europea verificherà questo mese la situazione nel settore della pesca, dove gli abusi sono enormi e coinvolgono decine di migliaia di individui, soprattutto immigrati birmani. Possibile il blocco dell'import di prodotti ittici nella Ue, secondo mercato per la Thailandia con un valore di almeno 800 milioni di dollari l'anno.

giovedì 24 settembre 2015

Marazziti: Straordinario intervento di papa Francesco al Congresso americano, è tempo di abolire la pena di morte!

Blog "Città per la Vita"
Marazziti: straordinario intervento di papa Francesco al Congresso americano.
E’ tempo di abolire la pena di morte anche in tutti gli Stati Uniti.
Una grande democrazia rischia di abbassare tutti al livello di chi uccide quando utilizza la pena capitale.

Mario Marazziti, al termine della Commissione Affari Sociali della Camera dei Deputati da lui presieduta, che ha espresso il parere favorevole sul disegno di legge per la cittadinanza per i bambini stranieri e figli di immigrati, ha commentato a caldo il passaggio del discorso di papa Francesco al Congresso americano sulla necessità di “scelte coraggiose” e di abolire la pena di morte.

“Uno intervento straordinario, che aiuta tutte le democrazie a capire che non c’è giustizia senza vita, e che la pena di morte abbassa l’intera società al livello di chi uccide. C’è una cultura di morte e una sconfitta evidente nel mantenimento della pena capitale. E’ una società che non sa immaginare la riabilitazione, ma solo la punizione. E questo l’ha detto con chiarezza papa Francesco quando detto, anche in termini personali:

"Proteggere e difendere la vita umana mi ha portato, fin dall'inizio del mio ministero, a sostenere a vari livelli l'abolizione globale della pena di morte. Sono convinto che questa sia la via migliore, dal momento che ogni vita è sacra", e che "ogni persona umana - specifica - è dotata di una inalienabile dignità e la società può solo beneficiare dalla riabilitazione di coloro che sono condannati per crimini".

Come co-fondatore della Coalizione Mondiale contro la Pena di Morte ho sottolineato più volte come da quindici anni la pena capitale si stia restringendo negli USA e nel mondo e come gli Stati Uniti siano oggi al numero più basso di esecuzioni e di condanne da 15 anni. Con la Comunità di Sant’Egidio ho lavorato direttamente all’abolizione, avvenuta, della pena di morte in New Jersey, New Mexico, Illinois, Nebraska. E accompagnato i processi che l’anni eliminata anche in Connecticut, Maryland e nello Stato di New York. Ma adesso è il tempo per una moratoria ufficiale delle esecuzioni a livello federale come primo passo verso l’uscita degli Stati Uniti dal numero dei paesi retenzionisti.

Il movimento mondiale di ogni cultura e credo religioso deve essere molto grato a papa Francesco per avere messo al centro della sua azione e del suo messaggio la dignità della vita senza eccezioni e, per questo, anche la necessità di porre fine a una pratica barbara come la pena capitale.

USA - Papa Francesco al Congresso parla all’America: “Abolire la pena di morte”

Blog Diritti Umani - Human Rights


Video

Le parole del Papa:
"Questa convinzione mi ha portato fin dall'inizio del mio ministero a sostenere a vari livelli l'abolizione mondiale della pena di morte. Io sono convinto che questa sia la via migliore, dal momento che ogni vita è sacra, ogni persona umana è dotata di una dignità inalienabile e la società può soltanto beneficiare dalla riabilitazione di coloro che sono condannato per dei crimini.  
Recentemente i miei fratelli vescovi, qui negli Stati Uniti hanno rinnovato il loro appello per l'abolizione della pena di morte. Io non soltanto li appoggio ma offro anche l'incoraggiamento a tutti coloro che sono convinti che una giusta e necessaria punizione non deve mai escludere la dimensione della speranza e l'obiettivo della riabilitazione"

Mondo: 700mila le donne detenute, +50% rispetto al 2000

Adnkronos
Rapporto dell'Institute for Criminal Policy Research di Londra, in Italia numeri in calo. Sono oltre 700mila le donne e le ragazze minorenni detenute nelle carceri di tutto il mondo. Un numero cresciuto del 50% rispetto ai dati registrati nel 2000, con una percentuale di aumento superiore a quella degli uomini. I dati sono raccolti nel rapporto pubblicato dall'Institute for Criminal Policy Research di Londra e si basano sulle informazioni raccolte in 219 Paesi.

Circa un terzo della popolazione carceraria mondiale, sottolinea il rapporto, si trova in appena tre Paesi: Stati Uniti (205.400 detenute), Cina (103.766, oltre a un numero imprecisato di donne in attesa di processo) e Russia (53.304). I ricercatori dell'istituto londinese parlano di una situazione che dovrebbe spingere i governi a "profonda preoccupazione", poiché le donne e le ragazze minorenni che si trovano in carcere "sono un gruppo estremamente vulnerabile e svantaggiato e tendono esser stesse ad essere vittime di reati ed abusi".

Il numero totale delle detenute nel mondo, rileva l'istituto, è probabilmente più altro di quanto indicato nel rapporto, poiché alcuni Paesi non hanno fornito dati, mentre le informazioni relative alla Cina sono incomplete. Per quanto riguarda l'Italia, il rapporto indica che al 31 luglio di quest'anno la popolazione carceraria femminile ammontava a 2.122 detenute, il 4,1% della popolazione carceraria totale. Si tratta di dati in diminuzione rispetto alle 2.235 detenute registrate nel 2000, le 2.843 del 2005 e le 2.995 del 2010.

In Germania i profughi diventano volontari. Sant’Egidio: «L’accoglienza è integrazione»

Corriere Sociale
Monaco di Baviera - Dopo che Angela Merkel ha cambiato rotta aprendo di fatto all’accoglienza di profughi siriani (approvando tra l’altro uno stanziamento di sei miliardi per far fronte all’emergenza), in Germania il tema migranti ha assunto il sapore del caso politico. Pur manifestandosi episodi d’intolleranza – quasi tutti di matrice neonazista – i tedeschi sono capaci di mostrare anche l’altra faccia di sé. Quella solidale e accogliente che fa dell’integrazione uno stile di vita. E’ il caso delle comunità di Sant’Egidio.

Rifugiata siriana con il suo bambino in visita ad anziani soli in istituto
C’è quindi chi tende la mano di fronte alla grande ondata migratoria. La Comunità sta infatti promuovendo e coordinando quella che sempre di più sta diventando una vera e propria mobilitazione popolare. Obiettivo? L’accoglienza di donne, uomini e bambini che fuggono dalla Siria e dall’Iraq.

Accade a Monaco, Mönchengladbach, Würzburg. Qua, nel quartiere periferico di Zellerau, non ci si limita alla distribuzione di generi alimentari. La Comunità anima una scuola della pace per i minori in difficoltà, aiuta gli anziani soli, offre una mensa per i senzatetto e una scuola di lingua per i migranti cui partecipano come volontari attivi anche molti tedeschi. «Tutto questo lo facciamo perché, accanto al primo aiuto e all’accoglienza, per costruire il futuro è necessario avviare subito un percorso di integrazione» spiegano dalla Sant’Egidio, che nelle ultime settimane, a Monaco di Baviera, ha intensificato la propria presenza accanto ai profughi in arrivo alla stazione ferroviaria.

E poi accade anche che i profughi, andando a trovare gli anziani tedeschi (come avviene a Mönchengladbach) diventino volontari a loro volta. «In molte città i figli dei profughi hanno cominciato a frequentare le Scuole della Pace, mentre i più grandi hanno iniziato ad aiutare altri poveri insieme alla nostra comunità» spiegano i volontari della Sant’Egidio. «Sono tanti gli esempi di come si può gestire quella che tutti chiamano “emergenza” ma che, nonostante i grandi numeri degli arrivi, sta mostrando l’altro volto dell’Europa e della stessa Germania. Sorprendendo tanti, a partire dalle istituzioni».
di Gianluca Testa 

Unicef - Ungheria attivare protezione dei minori rifugiati

Il Faro on line 
L'Unicef è in contatto con la Rappresentanza dell'Ungheria presso l'Onu per valutare come i minori rifugiati possano essere protetti'



L'Unicef è in contatto con la Rappresentanza permanente dell'Ungheria presso l'Onu, a New York, per valutare su come i minori migranti e rifugiati possano essere adeguatamente protetti, in linea con gli impegni assunti dal Paese con la Convenzione sui Diritti dell'infanzia e dell'adolescenza. La Convenzione comporta che gli Stati membri prendano tutte le misure necessarie per tutelare tutti bambini, e per fornire assistenza speciale ai bambini rifugiati o richiedenti asilo. L'Unicef ha inoltre offerto assistenza al Governo ungherese per rafforzare la protezione dei minori migranti e rifugiati, a seguito dei violenti scontri al confine tra Serbia e Ungheria di mercoledì 16 e alla luce delle notizie secondo cui le nuove norme introdotte [il 14 settembre] in Ungheria avrebbero portato alla detenzione, al processo e alla separazione dai propri genitori di minorenni entrati nel paese.

L'aiuto offerto dall'Unicef comprende: sostegno psicologico per i bambini attraverso team mobili e "Spazi a misura di bambino" presso i centri di registrazione e in altri luoghi in cui si raccolgono le famiglie; assistenza per l'identificazione dei minori non accompagnati o separati da parenti adulti, e ricerca delle loro famiglie; supporto tecnico e organizzativo per potenziare quei meccanismi che contribuiscono ad assicurare il superiore interesse dei bambini che si spostano attraverso il paeseL'Unicef fa appello con urgenza al Governo ungherese affinché il superiore interesse dei minori migranti e rifugiati abbia sempre la priorità in ogni decisione che li concerne. 

Nessun bambino dovrebbe essere criminalizzato per il fatto di essere un rifugiato o un migrante, né essere separato dai propri familiari. Questi bambini hanno già fatto esperienza di enormi violenze nel corso del loro viaggio, e ora hanno bisogno di essere trattati con dignità e con tutta l'assistenza, la protezione e la compassione possibili. Nessuno dovrebbe esporre i bambini a situazioni pericolose. Le scene cui abbiamo assistito mercoledì scorso, con bambini coinvolti nel pieno di scontri violenti e caotici, non dovrebbero mai più ripetersi. L'Unicef chiede a tutti gli Stati membri dell'Unione Europea di adoperarsi al più presto per garantire a tutti i minori migranti e rifugiati la protezione e l'assistenza cui hanno diritto. Nessun paese può essere lasciato da solo a farsi carico di una simile responsabilità. 

mercoledì 23 settembre 2015

Filippine - Nuove uccisioni di attivisti dei diritti umani, l’ONU lancia l’allarme

MISNA
L'uccisione questo mese di tre attivisti per i diritti umani da parte di paramilitari in una scuola di Lianga, nella provincia di Surigao del Sur, nell’isola meridionale di Mindanao, ha richiamato l'attenzione di agenzie Onu sulle esecuzioni extra-giudiziarie che troppo spesso colpiscono chi cerca di sostenere le rivendicazioni di gruppi meno favoriti di popolazione contro pressioni e abusi.

In un comunicato congiunto, l'inviato speciale Onu per i diritti dei popoli indigeni, Victoria Tauli-Corpuz, e quello per i difensori dei diritti umani, Michel Forst, hanno espresso seria preoccupazione per quanto accaduto. “Chiediamo alle autorità filippine di assicurare che le indagini su questi tragici fatti siano condotte in modo indipendente al fine di identificare e giudicare i responsabili”, hanno indicato. Un preoccupazione condivisa da Christof Heyns, inviato speciale per le esecuzioni extra-giudiziarie, sommarie o arbitrarie.

Secondo le testimonianze, a uccidere i tre attivisti – tra cui il direttore della scuola destinata alla popolazione tribale locale - sarebbero stati civili addestrati dall'esercito filippino per contrastare ribelli maoisti e musulmani attivi nella regione.
Un uso, quello dei paramilitari, sovente condannato dalla società civile locale e all'estero, in quanto crea di fatto milizie che possono essere assoldate da potenti locali o bande criminali, quando non sono agenti attivi della costante destabilizzazione del meridione filippino che nuoce a molti, a partire dalla popolazione cristiana e musulmana, ma favorisce giochi politici e interessi economici anche nella lontana capitale Manila. Non a caso, forse, indicando l'accaduto come “faida tribale”, l'esercito filippino ha occupato la scuola degli omicidi e costretto 2000 indigeni a spostarsi vero la città più vicina.

Il governo filippino ha inviato a Ginevra, alla sede dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, rappresentanti per difendere la propria posizione su questi e altri casi simili, sottolineando che indagini sono in corso per fare chiarezza su quanto accaduto e portare a giudizio i responsabili.

[CO]

US - Connecticut - Despite ruling abolishing the death penalty, inmates still being housed on death row

Daily Reporter
Hartford, Connecticut — Former death-row inmates in Connecticut may soon be living under less restrictive prison conditions than other inmates convicted of similar crimes, legal experts say.
American Death Row
Connecticut's Supreme Court last month declared capital punishment unconstitutional in the state, striking down part of a 2012 law that had allowed the death penalty only for those already facing execution.

That statute replaced what had been known as "capital felony" with a new crime, "murder with special circumstances." Under the new law, anyone who is convicted of what would have previously been a death-penalty eligible crime is now sentenced to life in prison under conditions mimicking death row.

That means being held in single cell for 22 hours a day, being escorted by at least one staff member and placed in restraints when moving outside that cell. Of the two hours considered "recreation," one would typically be spent indoors, in an area that houses a law library and a phone. The other would be spent alone in a cage outside in a courtyard. There would be no physical contact with other inmates.

Ironically, the 11 inmates currently housed on death row may soon be escaping those conditions.

Those inmates must now be re-sentenced to life without parole under the old capital felony statue, which existed when they were convicted, their attorneys say.

Though the Correction Department has leeway in the conditions imposed on individual inmates, someone sentenced to life without parole under the old statute was typically placed in the general population and allowed to be out of a cell six to seven hours a day with other inmates. They also have access to the prison commissary and gym.

"At some point, the death-row inmates are going to be let into general population," said attorney Mark Rademacher, who successfully argued for the abolishment of capital punishment as the attorney for Eduardo Santiago and currently represents death-row inmate Russell Peeler Jr. "I don't see how the state could oppose that."

So far, none of the death-row inmates has been moved, said Department of Correction spokeswoman Karen Martucci.

"Nothing has changed with the management of the death-row population since their sentence has not been legally changed by a court," she wrote in an email to The Associated Press. "I really couldn't predict when any court action will take place."

The process has been delayed, in part, because prosecutors have asked the court to reconsider the August ruling that declared capital punishment unconstitutional.

The chief state's attorney's office, citing that pending litigation, declined to comment for this story.

Michael Courtney, who heads the capital defense unit for the state's Office of the Public Defender, said the high court typically does not grant motions to reconsider, but the legal maneuver could lead to further delays in abolishing death row.

"I guess (prosecutors) feel like they have to keep swinging," he said. "They have the procedural mechanism to delay this, and they have used it."

The American Civil Liberties Union of Connecticut is also monitoring the proceedings.

ACLU attorney David McGuire said the Correction Department already has the authority to decide where the former death-row inmates belong based on factors such as their age, mental health, disciplinary record while in prison and the security risk they present.

It is possible that some will remain at the Northern Correctional Institution under the state's tightest security, known as level five, while others are sent to other prisons as level four inmates or even to medical units, he said.

"All of those are very restrictive environments," he said. "These are not luxurious settings."