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mercoledì 26 agosto 2020

Libia, per i disperati del Mediterraneo non c'è pace, 260 morti in una settimana, continua la brutalità e la violenza nelle prigioni "lager"

Globalist
“Sospinti dalla risacca, i cadaveri vengono trascinati sulle spiagge non lontano da Tripoli. Pescatori e operatori della Mezzaluna Rossa li rinchiudono pietosamente nelle sacche di plastica nera. Anche stavolta ne sono servite diverse di piccole e bianche. Quattro stragi in meno di una settimana: più di 100 morti e altre 160 persone sparite dopo aver preso il largo. Mentre dal Dipartimento di Stato Usa arriva un dossier che accusa ancora una volta il governo centrale di aver chiuso un occhio e non di rado perfino di cooperare con i trafficanti...”.

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I volontari del servizio telefonico di emergenza dopo varie chiamate avevano ascoltato le urla disperate. Il racconto dei sopravvissuti è filtrato attraverso le carceri libiche. Hanno raccontato di essere stati avvicinati da un motoscafo con cinque uomini armati a circa 30 miglia da Zuara. Hanno chiesto la consegna del telefono satellitare e del motore, con la promessa che li avrebbero trainati in salvo.

Ma al momento di sganciare il motore sarebbe nata una colluttazione. Così dal motoscafo hanno sparato contro le taniche di carburante provocando un incendio e l’affondamento del gommone. Alla fine si conteranno oltre 40 morti annegati. Non è la prima volta che a Zuara le milizie, che fungono anche da polizia marittima e sorvegliano le piattaforme petrolifere, usano motoscafi veloci per colpire i migranti che si erano affidati ai trafficanti delle cosche concorrenti. Così sarebbero partiti dei colpi in direzione del gommone, facendo finire in acqua decine di persone.
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“Per l’ennesima volta ripetiamo che la Libia non può essere considerata un luogo sicuro dove portare le persone intercettate in mare - è invece un luogo in cui violenza, brutalità, repressione e privazioni sono condizione quotidiana per migliaia di migranti, rifugiati e richiedenti asilo"
 – afferma Sacha Petiot di Medici senza frontiere

"aspettiamo da tempo che vengano bloccate le politiche di rimpatrio forzato in Libia. L’Ue deve supportare un meccanismo di ricerca e soccorso efficace nel Mediterraneo e un sistema sostenibile di sbarco in porti sicuri, invece che incoraggiare respingimenti illegali, e vanno riattivate urgentemente vie legali e sicure come il programma di evacuazione e reinsediamento dell’Unhcr”.
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“La soluzione di riportare o utilizzare la Libia come frontiera esterna dell’Europa, così come la Turchia per i siriani, non è rispettosa dei diritti delle persone. Con tante altre associazioni chiediamo da tempo di procedere all’evacuazione dei centri di detenzione libici ed elaborare percorsi alternativi e in sicurezza, come i corridoi umanitari, per sottrarre le persone ai trafficanti”, gli fa eco, in una intervista al Sir, padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli di Roma, il servizio dei gesuiti in aiuto ai richiedenti asilo e rifugiati.
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“Nel Mediterraneo si sta consumando da anni una tragedia che - nessuno può più ignorare. Decine di migliaia di migranti morti nel tentativo di raggiungere le coste europee o intercettati dalla guardia costiera libica e rinchiusi in veri e propri lager, sottoposti a terribili violenze e torture, quando non venduti come una qualsiasi mercanzia ai trafficanti di esseri umani.
L'indignazione, da sola, non basta più. 
E' il tempo di agire, chiedendo con tutti i mezzi di cui disponiamo l'annullamento dei famigerati accordi con la Libia, a partire dalla fine dei finanziamenti agli aguzzini della c.d. guardia costiera libica, dalla chiusura dei lager, trasferendo i migranti lì detenuti in paesi che garantiscano il rispetto dei diritti umani, alla individuazione di corridoi umanitari per attraversare senza pericoli il Mediterraneo. Avevamo sperato che il nuovo governo cambiasse radicalmente le proprie politiche sui migranti che fuggono da fame, violenze, guerre. Così ancora non è. Di fronte alle tragedie che continuano a consumarsi è tempo di dire basta, adesso".

Umberto De Giovannangeli

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martedì 25 agosto 2020

Ricordo di Jerry Essan Masslo morto 31 anni fa di razzismo in Italia. Allora ci fu profondo sdegno e una forte reazione nel paese.

Blog Diritti Umani - Human Rights

L'uccisione a Villa Literno di Jerry Essan Masslo, rifugiato sudafricano, divenne simbolo della violenza razziale nel nostro Paese, tanto da segnare il dibattito politico in corso negli anni '90

Jerry Essan Masslo
Arrivato in Italia nel 1988 dal Sudafrica dove esisteva ancora l'apartheid, Jerry Essan Masslo ebbe riconosciuto lo status di rifugiato solo dalle Nazioni Unite e non dall'Italia (all'epoca era previsto solo per i migranti dell’Europa dell’Est). Dopo essere stato accolto alla Tenda di Abramo, centro della Comunità di Sant'Egidio a Roma, dove frequentò la Scuola di lingua italiana, la mensa della Comunità e la Chiesa battista, Jerry Masllo nell'estate del 1989 andò a Villa Literno per la raccolta dei pomodori. Qui la sera tra il 24 e il 25 agosto, nella casupola abbandonata dove viveva con i suoi amici, si oppose all'aggressione di alcuni giovani che volevano derubarli, e per questo fu sparato e ucciso. 

Il funerale di Jerry Essan Masslo a Villa Literno
"La sua morte sconvolge l'Italia - ricorda Daniela Pompei della Comunità di Sant’Egidio - Per la prima volta i funerali di un nero sono trasmessi dalla Rai: alle esequie sono presenti il vicepresidente del Consiglio dei ministri Claudio Martelli e altre autorità. Le associazioni e i sindacati si mobilitano. Nell’ottobre del 1989 si svolge a Roma la prima grande manifestazione antirazzista con la partecipazione di oltre 150 mila persone". 

Oggi che l'Europa è meta di tanti uomini, donne e bambini che fuggono da guerra e persecuzioni da tanti angoli della terra, Jerry Masslo con la sua morte contribuì in modo rilevante a cambiare la legislazione italiana nel merito e iniziò a far capire all'opinione pubblica i problemi che si portavano con se i profughi che chiedono ospitalità in terre che vivono nella pace e nella sicurezza.

Dopo la morte di Jerry Masllo la legge Martelli, tra le altre cose, eliminò la clausola geografica e in Italia si poté chiedere asilo provenendo da qualsiasi Paese del mondo. Lunedì 24 agosto è stato  ricordato in una Villa Literno .

Ma oggi si cerca di rinnegare questi passi avanti della coscienza civile e della legislazione che l'Italia ha fatto in questi anni.
Questo anniversario si colloca nei giorni in cui in Italia è ancora aperta la vicenda della nave Diciotti: 150 rifugiati che sono già su una nave italiana, in un porto italiano non vengono fatti scendere, continuando ad aumentare le loro sofferenze, usati come ostaggi in una vicenda politica che non li riguarda. 
In tanti attoniti guardano e non riescono a reagire con un sobbalzo di coscienza civile per ridare all'Italia la legalità e la dignità di un paese che rispetta e difende i diritti di ogni uomo e donna a partire dai più fragili.

ES

venerdì 7 agosto 2020

Cina - Innocente dopo 27 anni di carcere per aver confessato un omicidio sotto tortura. Xi Jinping : "Non è mai troppo tardi per correggere gli errori"

Il Dubbio
"Non è mai troppo tardi per correggere gli errori". Con queste parole il presidente Xi Jinping ha messo fine alla drammatica vicenda che ha visto protagonista un carpentiere cinese, oggi 52enne, finito in carcere per ben 27 anni, condannato per un assassinio avvenuto nel 1993 del quale però non esistevano prove sufficienti per detenere l'uomo.

Zhang Yuhuan al momento della liberazione
Zhang Yuhuan ha così scontato metà della sua vita, 9.778 giorni, ingiustamente in una cella. È l'errore riconosciuto dalla giustizia che molto probabilmente non risarcirà mai abbastanza l'uomo. 

In realtà la vicenda è importante per diversi aspetti. Il calvario di Zhang iniziò nell'ottobre 1993 quando i corpi di due ragazzi furono scoperti in un bacino idrico del villaggio a Jinxian, una contea di Nanchang, capitale del Jiangxi. Immediatamente i sospetti si appuntarono su Zhang, vicino di casa delle vittime. 

Nel gennaio 1995, un tribunale di Nanchang lo ha dichiarato colpevole condannandolo a morte, poi la pena è stata commutata in ergastolo dopo due anni. Zhang ha sempre urlato la sua innocenza sostenendo di essere stato torturato dalla polizia durante gli interrogatori. 

A marzo 2019, sotto la spinta di innumerevoli appelli pubblici l'Alta Corte ha riaperto il caso e a luglio scorso i procuratori provinciali hanno raccomandato l'assoluzione del sig. Zhang sulla base di prove insufficienti.

Implicitamente si è riconosciuto che le confessioni del condannato erano state estorte con la forza. Quella della tortura non è una pratica inusuale in Cina, già nel 2015 un rapporto di Amnesty International aveva messo in evidenza come su 127mila verdetti emessi in quell'anno ben 1898 potevano essere ricondotti a confessioni ottenute illecitamente, tra queste solo in 16 casi la Corte aveva deciso di non accogliere le dichiarazioni dell'imputato anche se ciò era dovuto solo all'emergere di altre prove. 

Si tratta di cifre ottenute tramite il lavoro di 40 avvocati, spesso i primi a subire le conseguenze delle loro denunce. Nel mirino delle autorità poi finiscono attivisti per i diritti umani, oppositori e i rappresentanti di minoranze etniche in lotta per il proprio riconoscimento.

Malgrado fin dal 2010 il sistema cinese abbia iniziato uno sforzo serio per sradicare l'uso delle confessioni forzate. Attualmente infatti, come nel caso Zhang, la condanna a morte deve essere approvata dalla Corte suprema cinese. Ma tali riforme sono ostacolate dal potere per due principali motivi. La polizia in molte province è sottoposta a forti pressioni da parte delle autorità centrali per risolvere i casi, inoltre spesso vengono detenuti imputati definiti "politicamente sensibili" come nel caso dei musulmani Uiguri. È molto probabile quindi che un possibile miglioramento della giustizia cinese riguarderà solo la criminalità comune lasciando fuori chi viene considerato una minaccia per il partito Comunista.

Alessandro Fioroni

giovedì 6 agosto 2020

Pena di morte. L'Iran esegue Mostafa Salehi, arrestato a seguito delle proteste del 2017, accusato di omicidio di un soldato paramilitare.

Reuters
L'agenzia di stampa della magistratura iraniana mercoledì ha annunciato che Mostafa Salehi, uno dei manifestanti arrestati dopo le proteste nazionali del dicembre 2017-gennaio 2018, è stato messo a morte a Najafabad, nella provincia di Isfahan.


Mostafa Salehi è stato arrestato a seguito delle proteste a Kahriz-Sang nella provincia di Isfahan e è stato accusato di aver sparato a Sajjad Shah-Sanaei, un membro della milizia Basij, con una pistola da caccia.

Si sa molto poco del processo di Salehi, dei procedimenti giudiziari e persino del nome dell'avvocato che lo ha difeso dall'accusa di omicidio. La dichiarazione giudiziaria che annuncia la sua esecuzione non rivela alcun dettaglio tranne le accuse mosse contro di lui.

Nel dicembre 2017 e all'inizio del 2018 le proteste antigovernative su larga scala hanno travolto il paese che molti credevano fosse una rivolta contro l'intero sistema al potere.

Gli osservatori dei diritti umani hanno ripetutamente affermato che i diritti fondamentali degli imputati, incluso il diritto alla rappresentanza legale, sono gravemente ignorati nella magistratura islamica. Sostengono inoltre che molti verdetti si basano su confessioni forzate estratte attraverso torture psicologiche e fisiche.

La magistratura respinge fermamente tali accuse e ha ripetutamente sottolineato che non "cederanno a tali pressioni".

L'Iran, dopo la Cina, ha il maggior numero di esecuzioni. I giudici passano la pena di morte agli imputati con vaghe accuse come "agire contro la sicurezza nazionale" dopo processi sommari tenuti a porte chiuse.

Nei casi relativi alla sicurezza, spesso gli avvocati scelti dagli imputati non possono partecipare al processo, lasciando il loro ruolo agli avvocati nominati dal tribunale.

Attualmente ci sono serie preoccupazioni riguardo all'esecuzione di altri cinque manifestanti le cui famiglie si sono radunate davanti al Dipartimento di Giustizia di Isfahan il 30 luglio per protestare.

ES

Fonte: Fonte Radio Farda

mercoledì 5 agosto 2020

Lesbo - Un pranzo con 300 rifugiati inaugura la presenza, anche quest'anno, di Sant'Egidio nei campi profughi

www.santegidio.org
Si è aperto con una grande festa per l'Aid el Adha - una cena tradizionale a base di agnello - il primo "ristorante solidale" di Sant'Egidio per i profughi che "sostano", a volte da anni, nell'isola greca.



Circa 350 persone - per lo più famiglie con bambini molto piccoli provenienti dall'Afghanistan, dall'Iran, dalla Siria - hanno ricevuto il permesso di uscire dal campo profughi di Moria, dove vige un severo lockdown da alcuni mesi, per partecipare alla cena.

Sant'Egidio ha ottenuto infatti che nel mese di agosto, ogni giorno una quota di almeno 300 profughi possa uscire dal campo per partecipare alle attività organizzate dai volontari della Comunità, un gruppo di persone provenienti da diversi paesi europei. 


È stato allestito un antico frantoio, una grande costruzione di pietra di fronte al mare, dove, oltre alle cene, si terranno anche il corso di inglese per gli adulti e le attività di Scuola della Pace per i bambini.

Tutto si svolge nel rispetto rigoroso delle norme anti-Covid, ma in un clima davvero festoso: la gratitudine visibile sul volto dei profughi - molti dei quali chiedono di aiutare e collaborano al servizio, indossando con orgoglio la pettorina azzurra con il logo di Sant'Egidio - aiuta a superare le barriere linguistiche.

A Lesbos ci sono attualmente circa 15.000 profughi, molti dei quali "intrappolati" nell'isola da anni, che vivono in condizioni drammatiche nei campi formale e informale di Moria. Molte ONG hanno interrotto le attività e lasciato l'isola negli ultimi mesi, mentre si sono moltiplicati gli episodi di intolleranza e le violenze nei loro confronti. Anche per questo la presenza di Sant'Egidio, segno di una una fedeltà che parla di stabilità a vite drammaticamente instabili, è anche un invito alla speranza.

Fallimento dei fondi italiani ed europei in Libia - Uccisione di 3 rifugiati sudanesi in fuga, richiedente asilo eritreo morto di stenti.

L'Espresso
Le milizie libiche stanno triplicando i guadagni. È la prova che le politiche italiane e europee hanno fallito, come l’Onu continua a denunciare. Invano.


La notte tra il 27 e il 28 luglio scorso un’imbarcazione, probabilmente partita da Zuwara, è stata intercettata e riportata indietro dalla Guardia Costiera Libica. A bordo c’erano sessantacinque sudanesi e otto marocchini.La Guardia Costiera li ha portati a Khoms, 120 chilometri a Est di Tripoli. 
Durante le operazioni di sbarco in molti hanno tentato la fuga e le forze libiche hanno aperto il fuoco, uccidendo due ragazzi sudanesi. 
Un terzo è morto nel tragitto verso l’ospedale, altri cinque sono gravemente feriti.Ventitré persone sono state trasferite nel centro di detenzione di Souq al Khamis, le altre sono riuscite a fuggire. 

La settimana prima un richiedente asilo eritreo è morto nel centro diurno dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, a Tripoli. Era arrivato da Beni Walid in cerca di assistenza medica con un gruppo di connazionali dopo aver trascorso mesi nelle mani dei trafficanti.
Era gravemente denutrito, è morto di stenti, senza che nessuno, né un medico né un operatore delle Nazioni Unite potesse fare niente.
Anche lui, come i giovani sudanesi riportati a Khoms, cercava di fuggire.
Fuggire da un paese in guerra, dalla fame e dai ricatti, dagli abusi e dallo sfruttamento, dalla paura. 

Suonano come parole vuote ma sono un destino cui è impossibile sottrarsi.

Dopo l’uccisione dei ragazzi sudanesi a Khoms, Federico Soda, capo missione dell’Iom (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) ha scritto: 
«La sofferenza dei migranti in Libia è intollerabile. L’utilizzo di una violenza eccessiva ha causato ancora una volta delle morti senza senso, in un contesto caratterizzato da una mancanza di iniziative pratiche volte a cambiare un sistema che spesso non è in grado di assicurare alcun tipo di protezione».
[...]
E così ottiene fondi la Guardia Costiera, e ottengono fondi le strutture detentive. E le milizie raddoppiano, triplicano, i guadagni. C’è chi paga per partire - i migranti - chi paga affinché non partano - l’Europa - e ora anche chi paga per sperare che un volo legale li porti via da un’ingiustizia che non ha più testimoni ma solo bandiere sbiadite di opposte tifoserie.

Francesca Mammocchi

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Ecuador. Scontri tra bande rivali in carcere, almeno dieci detenuti morti.

agenzianova.com
È di almeno dieci detenuti morti e sei agenti di pubblica sicurezza feriti il bilancio degli scontri registrati all'interno di un carcere nei pressi della città di Guayaquil, in Ecuador. Sulle cause, la prima ipotesi rilanciata dagli inquirenti è quella di uno scontro tra bande rivali per il controllo della prigione.


In un messaggio pubblicato sul proprio profilo twitter, a procura generale del paese andino ha riferito dell'avvio delle indagini del caso, con agenti della polizia che hanno acquisito le prove sul posto. Secondo quanto riferito da Patricio Carrillo, comandante generale della polizia nazionale, due delle vittime sono state trovate carbonizzate, ci sono circa venti altri detenuti feriti, di cui almeno tre in stato grave.

"La guerra tra bande richiede una revisione della gestione penitenziaria e dei procedimenti interni", ha scritto Carrillo su Twiter. Le autorità, riferisce il quotidiano "El Universo", hanno identificato attività di diverse bande criminali note in città per le loro attività di traffico degli stupefacenti, "Los Lagartos", "Los Choneros", "Los Rusos" e "Los Cubanos".

lunedì 3 agosto 2020

Daniela Pompei (Sant'Egidio): «Basta gridare all’invasione, gli attuali flussi sono gestibili» Ad oggi, nel 2020, sono arrivati 13mila migranti nel 2016 furono 181mila, sono stati gestiti e accolti

Avvenire
«Non c’è nessuna invasione» visto che nel 2016 in Italia sbarcò il decuplo dei migranti di oggi, «e comunque furono gestiti».


Piuttosto, serve cooperazione in Tunisia per rilanciarne l'economia in crisi che spinge la gente a fuggire. In Libia invece servono evacuazioni umanitarie concordate con i partner europei. Ridiscutendo il sostegno italiano a milizie che, invece di salvare i naufraghi, li mitragliano. 

Daniela Pompei, responsabile del settore migrazioni della Comunità di Sant'Egidio, tra i promotori dei corridoi umanitari, ragiona delle ultime notizie sull'immigrazione da uno dei fronti più caldi di "Fortezza Europa”, Lesbo. 

Nell'isola greca a 12 miglia dalla costa turca Sant'Egidio da tempo organizza l'accoglienza e l'integrazione dei profughi. Siriani e non solo. «Qui a Mitilene vivono 23mila greci. Il vicino campo di Moria ora ospita 15mila profughi. Ma a gennaio erano 22mila. A onor del vero l'Italia nonostante tutto non registra queste situazioni». 

Di fronte alla crescita di approdi a Lampedusa c'è chi parla di emergenza, invasione, perfino di "furia immigrazionista" del governo. 

Facciamo chiarezza: l'attuale andamento degli sbarchi va ridimensionato e non deve suscitare preoccupazione eccessiva o innescare allarmismi che fanno gridare all'invasione". È normale che d'estate aumentino le traversate, rallentate anche dal Covid-19. 
Ma parliamo di numeri assolutamente gestibili. Da gennaio a luglio il Viminale dice che sono arrivate 13mila persone, nel 2019 erano state 18mila. Ricordo che nel 2015 arrivarono 144mila persone, l'anno dopo 181mila. E comunque l'Italia seppe accoglierli. Per favore, chi parla di invasione oggi non sa quello che dice. 

L'Italia quindi può gestire i numeri attuali? 
Sì, e lo ha già fatto in maniera importante negli anni scorsi. È vero che nel 2019 abbiamo assistito allo smantellamento del sistema di accoglienza. Ora va registrato con favore l'accordo nella maggioranza per la revisione dei cosiddetti decreti sicurezza, che avevano ridotto i diritti, danneggiato le modalità di integrazione creando di fatto le premesse per una crescita dell'insicurezza

Il Viminale ora dice che si volta pagina. Bene, ora va riattivato il sistema dei centri di accoglienza e delle strutture del Siproimi, che già oggi danno ospitalità temporanea a 85mila persone. Non ci vorrà un grande sforzo per aumentare i posti. 

Visto il rischio diffuso del Covid-19, servono interventi specifici, usando alcuni hotel per i controlli e le eventuali quarantene. Lo ha fatto ad esempio la Regione Lazio per persone senza dimora o che abitavano in case molto affollate. Molti alberghi sono vuoti. Lo Stato potrebbe attrezzarli per questa accoglienza, così sostenendoli. Bisogna però andare alle radici del problema. 

È chiaro che i tunisini sono in gran parte migranti economici, non fuggono da una guerra o da una dittatura. Erano emigranti in Libia, ma la guerra ha costretti tantissimi lavoratori tunisini a tornare in patria. C'è una terribile crisi economica. Allora sarebbe saggio e nell'interesse dell'Italia sostenere programmi di cooperazione, per evitare viaggi rischiosi e dal futuro incerto. Questo non ci esime dall'affrontare il nodo della Libia. 

È una instabilità che si sta cronicizzando. 
L'Italia non può affrontare da sola l'emergenza della guerra civile. Ma potrebbe fare da capofila in un'alleanza di Paesi europei. Innanzitutto per attuare un'evacuazione umanitaria dai centri di detenzione libici. Si tratta di alcune migliaia di persone, numeri assolutamente gestibili orchestrando una distribuzione europea come è stato già fatto per altri sbarchi tra "Paesi volenterosi". 

Tre giovani profughi sudanesi riportati in Libia sono stati ammazzati dalla "guardia costiera" libica mentre fuggivano. Eppure l'Italia ha da tempo rinnovato l'intesa con la Libia. 
È un accordo che va profondamente ripensato. La formazione delle forze dell'ordine libiche si può fare, ma seriamente. Insegnando ad esempio che non si spara a chi scappa. L'Italia lo aveva fatto, e bene, in Albania con l’"Operazione Pellicano".


Luca Liverani