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martedì 31 dicembre 2019

Carcere, bilancio 2019: diminuiscono i reati, aumentano i detenuti che sono sopratutto persone povere e vulnerabili.

gruppoabele.org
Cresce ancora il numero delle persone detenute nelle carceri italiane. I dati di fine anno del Ministero della Giustizia fanno registrare dietro le sbarre quasi 11 mila persone in più rispetto alla capienza regolamentare (50.476 posti) nei 190 istituti penitenziari presenti sul territorio italiano. Vivono recluse (dati al 30 novembre 2019) 61.174 persone, per un terzo stranieri, 2.713 donne, 56 bambini detenuti con le proprie madri.

Il sovraffollamento pesa sulle spalle dei carcerati (un detenuto su quattro assume psicofarmaci) e su quello dei 37.411 agenti penitenziari, fino a portare a situazioni estreme. [...]

Quali soluzioni? Secondo le associazioni che si occupano della tutela dei diritti della popolazione carceraria, un primo obiettivo per diminuire la densità carceraria è l'applicazione delle misure alternative per tutti i detenuti che ne abbiano diritto (oltre il 10 percento dei detenuti, circa 5 mila persone, si trova in carcere per reati minori, ha una pena inferiore ai 2 anni, potrebbe usufruire delle misure alternative al carcere e resta comunque in cella). Ma la diminuzione delle disparità sociali, culturali ed economiche resta la vera chimera per evitare di "imprigionare la povertà".

Nel suo report di giugno 2019, l'associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale Antigone denunciava: "Se sommiamo gli stranieri reclusi e i detenuti provenienti dalle quattro regioni meridionali più popolose siamo al 77% del totale della popolazione carceraria. Aggregando il dato con i detenuti provenienti da Sardegna, Basilicata, Abruzzo e Molise siamo oltre l'80%". Tutto il resto del Paese, tendenzialmente più ricco, produce un quinto della popolazione detenuta, pur costituendo circa i due terzi dell'Italia libera".

Una posizione ribadita oggi sulle pagine di Avvenire dal Garante nazionale privati della libertà Mauro Palma: "Tra le persone trattenute in carcere ce ne sono 1.700 che devono scontare una pena inferiore a un anno, e circa 2.000 condannate definitivamente a una reclusione che va da uno a due anni. Si tratta per la maggior parte di gente senza dimora, di poveri che non hanno una casa e un lavoro e non possono permettersi una difesa adeguata, sono soggetti, cioè, che non hanno legami con la società: non si può relegare la povertà esistenziale alla struttura restrittiva, bisogna creare una rete di fiducia fuori dal carcere, perché il sistema sociale oggi non è capace di sanare queste ferite: servono quindi più servizi sul territorio".

Educare, non punire - Inoltre, già nel giugno scorso, con l'uscita del suo annuale report sulle condizioni delle carceri italiani, l'associazione Antigone sottolineava un paradosso, tutto Italiano, spiegabile solo con l'inasprimento delle pene inflitte: sebbene diminuiscano tutti i reati, omicidi compresi, gli ingressi in carcere seguono il trend opposto, continuando a salire. A scapito del significato rieducativo della pena detentiva.


Manuela Battista

UNHCR: La mappa dei migranti del 2019: Grecia sotto pressione, Italia ormai rotta secondaria

Pickline
Lo rileva l’Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati. In tutto il Mediterraneo le partenze sono in calo, ma il baricentro si è spostato dalla Spagna ai Balcani. Come accade ormai da due anni l’Italia è una rotta secondaria
Rifugiati nell'isola greca di Samos
È la Grecia lo stato del Mediterraneo che nel corso del 2019 si è visto sottoposto alla pressione migratoria più forte. La mappa dei flussi migratori è cambiata in maniera significativa rispetto al 2018 ridisegnando le rotte migratorie. In un anno in cui il numero degli sbarchi sulle coste europee ha conosciuto un leggero calo il baricentro si è spostato dalla Spagna alla Grecia, facendo registrare un cambiamento sensibile per quanto riguarda le rotte battute da barconi e barchini. 

L’Italia, come accade ormai da due anni, è invece una rotta secondaria nel quadro generale del Mediterraneo. Il dato emerge dalla mappa – aggiornata al 23 dicembre scorso – realizzata dall’Unhcr, l’agenzia dell’Onu che si occupa dei rifugiati.

Complessivamente tra gennaio e la seconda età di dicembre sono partite dalle coste nordafricane 123mila. Come detto, non si registra una differenza sostanziale rispetto ai 141mila del 2018. Il dato interessante è che dal 2015 in poi la tendenza è quella a una lenta ma costante diminuzione. 
Nel 2019 sulle coste della Grecia sono arrivati 73.377 stranieri, 31.400 in Spagna, 11.270 in Italia, 3.300 a Malta, 1.600 a Cipro. Circa 2.000 sono arrivati invece in territorio Ue varcando la frontiera terrestre tra Turchia e Bulgaria. 
Il quadro rispetto al 2018, come detto,è mutato radicalmente da ovest a est: un anno fa la pressione migratoria maggiore aveva riguardato la Spagna (65.600) seguita dalla Grecia (32.500) e dall’Italia (23.400). Afghanistan e Siria sono i due paesi principali di partenza dei migranti (rispettivamente 20.600 e 16.300).

Diversi fattori possono aver contribuito a mutare la prospettiva. Riguardo alla rotta tra Libia e Italia nel 2019 è stato rinnovato il memorandum sottoscritto a suo tempo dal ministro Minniti con le autorità di Tripoli, che dà sostegno alla guardia costiera libica ma di fatto trattiene i migranti in condizioni disumane nei campi libici, e dell’altro sono rimasti in vigore i decreti di Salvini (che se non si sono ripetute le crisi che avevano caratterizzato la presenza al Viminale del leader leghista). D’altro canto va registrato che, specie nella seconda parte del 2019 sono calate le partenze dalla Libia e sono invece cresciute quelle con i «barchini» dalla Tunisia.


USA - Il declino della pena di morte - Continuano a diminuire esecuzioni e condanne nel 2019 e nei sondaggi si preferisce il detenzione alla morte

Blog Diritti Umani - Human Rights
Condanne e esecuzioni sono in constante calo negli USA.
Dai dati del "Death Penalty Information Center" del 17 dicembre, sono 22 le esecuzioni effettuate e 33 le nuove condanne a pena di morte nel 2019. 
Il 2019 è stato il quinto anno con meno di 30 esecuzioni e 50 nuove condanne a morte.
Le esecuzioni sono il secondo numero più basso dal 1991; il numero più basso è stato registrato nel 2016 con 20 esecuzioni. Le nuove condanne a morte sono state le seconde più basse dal 1972. L'unico anno con meno nuove condanne è stato il 2016 con 31.

Il Texas ha effettuato il numero maggiore di esecuzioni nel 2019 con 9 detenuti messi a morte, il Tennessee, Alabama e Georgia (3 ciascuna), Florida (2), South Dakota e Missouri (1 ciascuna). Nessuno degli altri 23 stati con la pena di morte ha giustiziato nessuno, compresi Oregon, Pennsylvania e California, che attualmente hanno moratorie sulla pena di morte.

11 stati hanno imposto nuove condanne pena di morte nel 2019: Florida (7), Ohio (6), Texas (4), Alabama (3), California (3), Carolina del Nord (3), Pennsylvania (2), Carolina del Sud (2 ), Arizona (1), Georgia (1) e Oklahoma (1).

Il New Hampshire è diventato il 21° stato ad abolire la pena di morte e il governatore della California Gavin Newsom ha imposto una moratoria sulle esecuzioni. 

Inoltre, il 2019 è stata la prima volta in 34 anni che la maggior parte degli americani ha sostenuto la vita in prigione anziché la pena di morte, secondo Gallup.

ES

Fonte: ProCon.org

lunedì 30 dicembre 2019

Yemen, Natale sotto le bombe, colpite anche strutture dell'Ong Oxfam. 80% della popolazione dipende da aiuti umanitari

La Repubblica
Obbligata, per ragioni di sicurezza, la sospensione degli aiuti nell’area per oltre 6 mila persone allo stremo. In questo momento oltre 24 milioni di yemeniti, ovvero circa l'80% della popolazione di un paese devastato, dipende totalmente dagli aiuti umanitari anche solo per bere, mangiare, curarsi.


Intorno all'una di notte del 22 dicembre, due razzi hanno colpito l'ufficio di Oxfam ad Al Dhale'e, nel sud est dello Yemen, danneggiando gravemente il tetto e l'ingresso della struttura. L'attacco per fortuna non ha causato vittime anche se non è il primo nella zona diretto verso strutture gestite da agenzie umanitarie ultimamente.

A causa del bombardamento, Oxfam, per ragioni di sicurezza, è stata costretta a sospendere temporaneamente le operazioni di soccorso nel Governatorato, dove è al lavoro per garantire l'accesso a acqua pulita, cibo e servizi igienico a una popolazione stremata da quasi 5 anni di conflitto.

Di conseguenza, questo Natale circa 1.359 famiglie non potranno ricevere aiuti economici per l'acquisto di beni alimentari e altre 5.000 non potranno usufruire di interventi per il ripristino di infrastrutture essenziali.

Nel "nuovo" Iraq la repressione uccide, sparizioni, milizie spadroneggiano. 450 morti e 10.00 feriti nelle ultime manifestazioni.

L'Espresso
Esecuzioni, sparizioni, milizie che spadroneggiano. Però le manifestazioni contro la corruzione, dopo 450 morti e diecimila feriti, non si placano. "Resteremo in piazza, sempre", dicono i militanti dal quartier generale nel garage Sinak. 


L'entrata del garage Sinak è un cancello chiuso da un lucchetto. Di fronte, seduti su sedie di plastica due ragazzini: cappellini con visiera in testa, ai piedi scarpe da ginnastica lise. Sono il servizio d'ordine dell'autorimessa, uno dei due edifici occupati dai manifestanti iracheni che dall'inizio di ottobre stanno animando proteste di massa nella capitale e nel resto del paese. Sorvegliano chi entra e chi esce, controllano borse e giacche, documenti e identità per evitare che si infiltrino sconosciuti in combutta con le milizie. Per evitare un altro massacro al garage Sinak.

Nella notte tra il 6 e il 7 dicembre scorso gruppi di uomini armati non identificati hanno assaltato l'edificio uccidendo venti manifestanti e ferendone più di cento. Un attacco sanguinoso, coordinato, parte della campagna di violenza e intimidazione contro i manifestanti che hanno riempito le strade.

Il dottor Muslim Ben Aqeel Ismael al garage Sinak conosce uno per uno i sopravvissuti, era qui anche la mattina dopo il massacro, tra le stanze date alle fiamme sul tetto e gli angoli delle pareti ancora sporchi del sangue delle vittime. Stringe la mano a Hussein, che quella notte era lì. È stato pugnalato alla mano e al braccio destro. Alza la manica della tuta per mostrare i segni delle ferite.

I pochi che restano a Sinak, oggi, sono quelli che hanno visto. Erano lì quando i corpi senza vita dei compagni venivano lanciati dal sesto piano del garage, e una dottoressa trascinata via, uccisa, il suo corpo abbandonato sul ponte antistante. Chi resta oggi a Sinak aspetta il ritorno dei manifestanti picchiati e catturati. Ammesso che ritornino. Mohammed ha il braccio fasciato da una benda, un panno blu lo sostiene intorno al collo. 

È stato colpito da un proiettile, un pezzo è ancora all'interno del braccio. Ma in ospedale Mohammed non va. Perché ha paura di essere schedato. "Chi veniva trasportato negli ospedali pubblici all'inizio delle proteste", dicono, "non è mai tornato indietro".

di Francesca Mannocchi

domenica 29 dicembre 2019

Pozzallo porto sicuro per 32 migranti salvati dalla nave "Alan Kurdi". Avviata procedura di ricollocamento della Commissione europea.

TgCom24
La Alan Kurdi sbarcherà a Pozzallo. Il Viminale ha deciso infatti di assegnare il porto sicuro tenendo conto della presenza a bordo di migranti in condizioni di vulnerabilità, per alcuni dei quali è stata anche chiesta l'evacuazione medica.


Dei 32 migranti sulla imbarcazione della ONG Sea eye 10 sono minori, alcuni in tenera età, e 5 sono donne, di cui una incinta. La Commissione europea ha già avviato, su richiesta dell'Italia, la procedura per il ricollocamento dei migranti sulla scorta del pre-accordo di Malta.

Myanmar, Onu condanna abusi diritti umani ai danni dei Rohingya: arresti arbitrari, torture, violenze

Adnkronos
L'Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato una risoluzione di condanna per abusi dei diritti umani - arresti arbitrari, torture, violenze - ai danni dei Rohingya e di altre minoranze in Myanmar. 
Come riporta la Bbc, la risoluzione è stata adottata con 134 voti a favore su 193 Paesi rappresentati, nove contrari e 28 astenuti. Al governo del Myanmar si chiedono misure urgenti per contrastare qualsiasi forma di incitamento all'odio contro le minoranze.

Nel 2017 migliaia di persone della minoranza musulmana dei Rohingya sono morte e più di 700mila sono fuggite nel vicino Bangladesh per sfuggire alla violenta operazione di sgombero nello Stato di Rakhine per mano dell'esercito del Myanmar. 

L'ambasciatore all'Onu del Myanmar, Hau Do Suan, ha definito la risoluzione "un altro classico esempio di doppio standard e applicazione selettiva e discriminatoria delle norme sui diritti umani".

Iran - Ha iniziato lo sciopero della fame, Fariba Adelkhah ricercatrice franco-iraniana in carcere, rischia la pena di morte

Il Dubbio
La ricercatrice accusata di spionaggio. Antropologa di fama mondiale ha passaporto francese. Da ieri è in sciopero della fame e della sete. Rischia la pena di morte. Macron: «liberatela». Ma il regime non molla.

Fariba Adelkhah
Fariba Adelkhah è un’antropologa franco-iraniana specialista della cultura e religione sciita e direttrice del Centro di ricerca internazionale dei Sciences- Po di Parigi; dallo scorso giugno assieme alla collega australiana Kylie Moore- Gilbert, marcisce nel celebre carcere di Evin, situato a pochi chilometri dalla capitale Teheran. È stata arrestata dai Guardiani della Rivoluzione con la grottesca accusa di «spionaggio» e «attentato alla sicurezza dello Stato».

Se verrà condannata rischia fino alla pena di morte. Da ieri Fariba è scesa in sciopero della fame e della sete per protestare contro una detenzione «ingiusta» e un trattamento totalmente al di fuori del diritto internazionale.

«Siamo costantemente sottoposte a tortura psicologica e subiamo ogni giorno delle flagranti violazioni dei diritti umani», si legge in una lettera inviata al Center for Human Rights in Iran, una Ong che a base a New York. «Fariba ha deciso di non alimentarsi e di non bere più per difendere la sua libertà e la sua dignità» spiega il ricercatore Jean- François Bayart, collega e amico della 60enne.

All’inizio di dicembre il presidente francese Macron era intervenuto in prima persona e aveva chiesto la liberazione «immediata» della ricercatrice, definendo «intollerabile» la sua detenzione.

Dal canto suo la Repubblica sciita non riconosce la doppia nazionalità ai suoi cittadini e quindi ha liquidato come «un’ingerenza inaccettabile» le richieste dell’Eliseo. Gli avvocati di Fariba Adelkhah avevano provato a ottenere la libertà provvisoria sotto il pagamento di una cauzione poi regolarmente rifiutata dal tribunale.

Sono circa una ventina gli universitari e i ricercatori iraniani con doppia nazionalità attualmente detenuti nelle carceri del paese, tutti con l’accusa di spionaggio e cospirazione contro l’integrità e la sicurezza dello Stato.

«La nostra lotta è anche quella di tutti gli studiosi ingiustamente imprigionati in Iran con accuse campate in aria», conclude la lettera di Adelkhah e Moore- Gilbert.

Migranti - Conseguenze del Decreto sicurezza: fuori dalle strutture di accoglienza dal 1° gennaio i possessori di soggiorno umanitario, tante donne e bambini.

Avvenire
In Sicilia, famiglie con bambini temono di finire per strada. Una preoccupazione condivisa da migliaia di richiedenti asilo. Il Viminale annuncia una proroga.
In Sicilia, in una struttura ex Sprar in provincia di Caltanissetta, due giovani genitori nigeriani attendono di conoscere cosa sarà di loro e dei loro bimbi, dove vivrà la loro famiglia e come si sfamerà dal giorno di Capodanno. Al momento, papà N. e mamma F. (li chiameremo così) vivono in un’unica struttura, insieme a una bimba di 3 anni e a un frugoletto di 2, nato in Italia. N. è richiedente asilo (in attesa di pronuncia sul suo ricorso) e F. invece ha la protezione umanitaria ed è bisognosa di cure per patologie contratte in seguito a violenze subite in un campo libico.

In base alle recenti circolari del Viminale della scorsa settimana, N. potrebbe essere trasferito in un Centro di accoglienza straordinaria (i cosiddetti Cas), mentre F. teme di dover uscire dal circuito dell’accoglienza, insieme ai due bambini, uno dei quali è malato. In una struttura vicina, un’altra famiglia ha gli stessi timori: mamma e papà del Ghana, entrambi con permesso 'umanitario' e con tre bimbi, temono di dover lasciare quella realtà, dove hanno iniziato un percorso d’integrazione, e finire chissà dove. 

Le loro storie sono solo uno spaccato del coacervo di timori e ansie che agita – in questi giorni di Natale – migliaia di uomini, donne e bambini, accolti in Italia e titolari di forme di protezione umanitaria, ma ora collocati in un angoscioso 'limbo', a causa dell’applicazione di norme generate dai contestati decreti sicurezza varati dal precedente governo e targati Matteo Salvini, che l’attuale esecutivo Conte – nonostante i rilievi del Quirinale e l’impegno a ritoccarli – non ha ancora modificato.

Migliaia nel «limbo». La settimana scorsa, una circolare del ministero dell’Interno ha disposto, a partire dal 1° gennaio, il trasferimento nei Cas dei richiedenti asilo attualmente ospiti nei centri ex Sprar (con termine 31 dicembre). «Una prescrizione illegittima e sbagliata », dice ad Avvenire Filippo Miraglia, responsabile immigrazione dell’Arci, che nei giorni scorsi ha fatto suonare un campanello d’allarme. In molte province italiane, spiega Miraglia, «i bandi per la gestione dei Cas sono andati deserti» e pertanto molti richiedenti asilo, anziché in zone vicine, «rischiano di essere trasferite anche a centinaia di chilometri di distanza. E chi si dovesse rifiutarsi, potrebbe finire per strada, d’inverno, anche se si tratta di famiglie con bambini».

La proroga in extremis. Anche le preoccupazioni sollevate da enti e associazioni impegnati sul fronte dell’accoglienza hanno indotto, ieri, i tecnici del Viminale a trovare una soluzionetampone, attraverso una 'proroga', i cui contorni sono ancora vaghi: al termine di un incontro con l’Anci, che rappresenta gli 8mila comuni italiani, si è stabilito che «i titolari di protezione umanitaria presenti nei progetti Siproimi potranno rimanere nelle strutture anche oltre il 31 dicembre» grazie a fondi dell’Unione Europea. Con quali modalità e tutele? Non è ancora chiaro, si sa solo che il Servizio centrale del ministero «fornirà le opportune indicazioni ai Comuni». 

Già sabato, sempre l’Interno aveva fatto diramare una nota 'rassicurante', affermando che «nessuno dei 1.428 titolari di permesso di soggiorno per motivi umanitari finirà per strada», precisando che la continuità all’assistenza potrà essere garantita, lasciando aperta la possibilità di mantenere la sede d’accoglienza attuale. A gennaio, potrebbero arrivare dal governo le proposte di modifica ai decreti sicurezza, ma nell’attesa il Viminale ribadisce attenzione «alle condizioni di vita» degli immigrati accolti e alle esigenze di comuni e associazioni.

Le associazioni in piazza. La proroga di ieri viene salutata come «un parziale risultato positivo » dal Tavolo Asilo nazionale (a cui aderiscono una ventina di organizzazioni, fra cui Caritas, Acli, Arci, Cir, Fondazione Migrantes, Asgi, Comunità di Sant’Egidio, Centro Astalli e Papa Giovanni XXIII), che tuttavia conserva «forte preoccupazione ». La via maestra, dice la nota, è «il ritiro delle due circolari, basate su un’interpretazione erronea e illegittima del primo decreto sicurezza», di cui da tempo il terzo settore chiede l’abolizione. Venerdì, le associazioni manifesteranno davanti alle prefetture di tutt’Italia, per chiedere di ripristinare lo Sprar e garantire a richiedenti asilo e rifugiati «un’accoglienza dignitosa, nel rispetto della Costituzione».


Vincenzo R. Spagnolo

L'esodo infinito degli eritrei. Nel limbo dei campi al confine: “Per noi non c’è pace”

Redattore Sociale
REPORTAGE dal Tigray, zona di confine. Al primo ministro Abiy Ahmed Ali il premio Nobel per la pace, ma per chi vive sotto il regime di Afewerki la situazione non è cambiata. Si continua a scappare: in Etiopia il numero di rifugiati sfiora il milione. Da qui partito anche il primo corridoio dall’Africa di Caritas e Cei

SHIRE - La strada di terra arsa che si perde all’orizzonte è intervallata solo da qualche curva, alcune costruzioni di mattoni e una collina: a destra c’è Mereb il fiume che segna il confine, a sinistra Badamè, la zona contesa per oltre vent’anni. “Lì dopo quella curva c’è l’Eritrea: le persone passano da lì, attraversano la frontiera a piedi, ogni giorno. Camminano fino a Dabaguna, dove c’è il primo centro e lì vengono registrati. Ci sono quindi ingressi circa, si stimano fino a circa 300 passaggi al giorno”, dice Alganesh Feassaha, presidente della Fondazione Gandhi, che ci accompagna nel viaggio insieme agli operatori di Caritas Italiana.


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venerdì 27 dicembre 2019

Brasile. Bolsonaro, indulto ai poliziotti colpevoli di omicidio, in un paese dove sono 10.000 i morti durante operazioni di polizia

Associated Press
Il presidente brasiliano ha firmato un decreto che determina il rilascio degli agenti condannati per omicidio colposo. 

Jair Bolsonaro ha confermato una tradizione ormai consolidata nel Paese: quella di concedere la grazia ad alcuni detenuti sotto Natale. Come già successo in passato, questa misura ha causato forti polemiche e discussioni politiche.

Quest'anno il presidente brasiliano ha pensato ad una categoria da sempre nelle sue simpatie: le forze dell'ordine. I beneficiari del decreto di indulto natalizio sono quegli agenti condannati per omicidi non intenzionali, che hanno dimostrato in carcere buona condotta. A questo si aggiungono i poliziotti condannati per atti commessi durante le operazioni speciali di ordine pubblico assieme alle forze armate, come nella lotta al narcotraffico durante i grandi eventi sportivi.

Le organizzazioni a favore dei diritti umani hanno criticato l'iniziativa ricordando la grande impunità che esiste in Brasile proprio sull'operato delle forze dell'ordine. 

Solo a Rio de Janeiro, in dieci anni, 10.000 civili sono morti durante operazioni di polizia - molti dei quali non stavano commettendo nessun delitto - e solo il 3% dei casi è finito in tribunale. 

Bolsonaro ha ribadito più volte che la polizia deve avere "carta bianca contro la criminalità" in un Paese dove si commettono oltre 60.000 omicidi all'anno. Il timore è che questa carta bianca diventi sempre di più una licenza ad uccidere, con la sicurezza dell'impunità.

26 dicembre - Sant'Egidio - 10° Pranzo di Natale nel carcere di Regina Coeli nella rotonda con 100 detenuti e una buona lasagna ai 1.000 detenuti visitati nelle loro celle.

Blog Diritti Umani - Human Rights

Sono 10 anni che il 26 dicembre la rotonda nel carcere di Regina Coeli diviene una bella sala cove viene preparato un Pranzo di natale per un centinaio di detenuti. Pubblichiamo una lettera che un detenuto ci inviò dopo aver partecipato ad uno di questi pranzi.


Dal libro: "Liberi dentro - Cambiare è possibile anche in carcere" - Ezio Savasta - Infinito Edizioni - pp. 68-69
Per il Natale, anno dopo anno, il ventisei dicembre, la “rotonda” di Regina Coeli si trasforma in salone delle feste. Per questa particolare occasione, un nutrito gruppo di amici della Comunità ottiene il permesso di entrarvi e in meno di un’ora quell’ambiente spoglio e inquietante subisce un radicale make-up, a cui i detenuti assistono da dietro le grate delle sezioni che affacciano su di esso. Vengono portati lunghi tavoli, che sono apparecchiati con eleganza e cura, secondo la tradizione natalizia, e le inferriate nere dei ballatoi sono rivestite di festoni, stelle e nastri dorati.

Tra i detenuti – un po’ più di un centinaio – che di solito partecipano al pranzo di Natale, c’era Hassan, un egiziano, amico di vecchia data.

Qualche giorno dopo, come ringraziamento per l’invito ricevuto, mi ha consegnato una lettera nella quale, tra l’altro, ha scritto:
“... Ho iniziato a vedere che entravano nella ‘rotonda’ un sacco di persone, qualcuno lo riconoscevo ma molti erano perfetti sconosciuti. Portavano buste di materiale. Piano piano più di dieci grandi tavoli sono stati disposti a spina di pesce e poco dopo, non so da dove, sono arrivate tante sedie. Improvvisamente tutto si è colorato di rosso e dorato, le tovaglie che ricoprivano i tavoli, gli striscioni e le coccarde che venivano sistemate sulle ringhiere dei ballatoi. Di sottofondo si iniziava a sentire musica natalizia. Le tavole sono state apparecchiate con dei piatti molto belli. Penso: ‘Mamma mia, oggi a Regina Coeli deve venire un pezzo grosso’. Verso le 13,00 era tutto perfetto. L’agente inizia a chiamare i detenuti autorizzati ad andare al pranzo. Scendo al piano terra, non sono più un bambino ma mi sento emozionato. Io sono musulmano, non è la mia festa, ma i miei amici di Sant’Egidio ci hanno tenuto molto che io fossi presente. Arriva l’agente che ci apre il cancello della ‘rotonda’. Davanti a me la ‘bella sala’, mi vengono incontro quelli che avevo visto lavorare dalla mattina, sono sorridenti, mi stringono la mano, il mio grande amico mi abbraccia e capisco che è felice. Uno di loro con gentilezza mi accompagna al mio tavolo, mi invita ad accomodarmi con un sorriso simpatico.Allora penso: ‘Oddio, sono io il pezzo grosso invitato al pranzo!’.Mi sento orgoglioso, felice, emozionato. Non ricordo di essermi mai sentito così dentro queste mura. Mi guardo intorno, sorrido e ringrazio, al mio tavolo ci sono altri detenuti e anche amici che vengono dalla libertà e inizia il pranzo. Sono felice!”.

1° gennaio 2020, marcia "Pace in tutte le terre" in ascolto del messaggio di Papa Francesco

santegidio.org
“PACE IN TUTTE LE TERRE”
53° Giornata Mondiale della Pace
Marcia del 1° gennaio 2020
Insieme verso piazza San Pietro per ascoltare le parole di Papa Francesco
mercoledì 1° gennaio 2020, ore 10:30
da Piazza Giovanni XXIII (Castel Sant'Angelo) e manifestazioni in tutti i continenti
 
La Comunità di Sant’Egidio organizza, nel primo giorno del nuovo anno, manifestazioni in tutti i continenti per sostenere il messaggio di Papa Francesco, nella 53° Giornata Mondiale della Pace.
A Roma si terrà il 1° gennaio 2019, a partire dalle 10.30, da Largo Giovanni XXIII (inizio di Via della Conciliazione) a Piazza S. Pietro per ascoltare le parole di Papa Francesco all’Angelus.
 Il messaggio di Papa Francesco -
 LA PACE COME CAMMINO DI SPERANZA: DIALOGO, RICONCILIAZIONE E CONVERSIONE ECOLOGICA >>>

martedì 24 dicembre 2019

Migranti: Grecia, incaricato Diritti Umani tedesco, Baerbel Kofler, chiede aiuto per la disastrosa situazione nei profughi in campi Egeo, UE deve realizzare una equa distribuzione nei paesi membri

Agenzia Nova
L'incaricato del governo tedesco per i Diritti umani, Baerbel Kofler, ha chiesto un aiuto rapido per i migranti nei centri di accoglienza allestiti dalla Grecia nelle proprie isole dell'Egeo, da tempo in condizioni critiche a causa del sovraffollamento. 

“Il governo greco sta lanciando l'allarme, il numero di rifugiati sulle isole dell'Egeo sta aumentando”, ha dichiarato Kolfer come riportato dal quotidiano “Frankfurter Allgemeine Zeitung”. 

Secondo l'incaricato del governo tedesco per i Diritti umani, “ciò dimostra che condizioni catastrofiche nei campi non impediscono alle persone di fuggire”. Secondo Kofler, ciò che porta i profughi a lasciare i propri paesi “è peggio di quello che devono sopportare nei campi”. In tale situazione, ha evidenziato Kofler, “non dobbiamo lasciare la Grecia da sola”. 

A tal riguardo, l'incaricato del governo tedesco per i Diritti umani ha proposto l'avvio di un'iniziativa dell'Ue. In particolare, per Kofler “la nuova Commissione europea deve trovare rapidamente nuovo slancio un'equa distribuzione dei rifugiati tra gli Stati membri dell'Ue e sarebbe anche auspicabile un nuovo programma di protezione per i profughi minori non accompagnati”. 

lunedì 23 dicembre 2019

Honduras - Strage nelle prigioni - Altri 16 morti - 36 morti nel week end

La RepubblicaScontri a colpi di arma da fuoco e di coltello in due istituti di detenzione. Almeno 36 persone sono state uccise nel week end durante scontri nelle prigioni dell'Honduras di cui l'esercito e la polizia tentano di riprendere il controllo dopo una serie di omicidi legati alle "maras", le bande criminali che infestano il Paese. 
Domenica almeno 18 persone sono morte durante gli scontri fra detenuti in una prigione del centro del Paese. Gli scontri con "armi da fuoco, coltelli e machete" sono scoppiati nella prigione di El Porvenir a 60 chilometri a nord della capitale Tegucigalpa. La notte precedente, un'altra sparatoria aveva causato 18 morti e 16 feriti nella prigione di Tela.

I due massacri sono stati perpetrati poco dopo che il presidente honduregno Juan Orlando Hernández, aveva ordinato all'esercito di prendere il controllo delle prigioni nelle quali sono detenute 21mila persone. La decisione del presidente era stata presa dopo l'uccisione di 5 membri della gang della Mara Salvatrucha da parte di un altro detenuto nella prigione di massima sicurezza di La Tolva. 

Questo mentre il giorno prima era rimasto vittima di un colpo di pistola il direttore del principale istituto di massima sicurezza dell'Honduras. Il direttore era stato sospeso perché sotto inchiesta dopo l'assassinio di Magdaleno Meza un grosso trafficante di droga che aveva accusato il fratello del presidente honduregno poi riconosciuto colpevole di traffico di droga da un tribunale di New York ed ora rischia l'ergastolo.

domenica 22 dicembre 2019

USA - I suprematisti bianchi hanno fatto il triplo delle vittime degli jihadisti, ma non sono contrastati con la stessa forza.

L'Espresso
Esistono molte similitudini con gli jihadisti. A partire dall'uso della violenza. E dovremmo trattarli allo stesso modo. 

Parla l'ex agente speciale Ali Soufan. Lo scorso 10 settembre, un giorno prima dell'anniversario dell'attentato contro le torri gemelle Ali Soufan, ex agente speciale che ha investigato casi di terrorismo internazionale altamente sensibili e complessi, tra cui i bombardamenti e l'attacco alla Uss Cole, oltre agli eventi legati proprio all'11 settembre, ha parlato alla House Committee on Homeland Security (Comitato della Camera sulla Sicurezza Interna). Il tema del suo intervento sulle minacce legate al terrorismo globale non era focalizzato solo sullo stato dei gruppi jihadisti, ma sull'evoluzione del suprematismo bianco.

Dice Soufan nel suo intervento: "Non è solo il terrorismo jihadista a minacciare gli Stati Uniti. [...] I suprematisti bianchi sono stati responsabili di tre volte più morti negli Stati Uniti rispetto agli islamisti. [...] Da Pittsburgh a Poway, da El Paso a Charlottesville, l'estremismo suprematista affligge regolarmente gli Stati Uniti, e questa minaccia non ha una natura solo locale ma sta manifestando le sue caratteristiche transnazionali".

Proprio in settembre, la sua organizzazione, il Soufan Center, che si occupa di fornire risorse, ricerche e analisi legate a problemi di sicurezza globale e minacce emergenti ha pubblicato un report dal titolo: "L'ascesa transnazionale del violento movimento suprematista bianco". Secondo lo studio, più di 17 mila persone provenienti da 50 Paesi, compresi gli Stati Uniti, hanno viaggiato in Ucraina negli ultimi anni per combattere sia per le forze pro-ucraine che per quelle russe.

Francesca Mammocchi

Honduras - Tragedia in carcere - 18 persone sono morte in una rissa

Il Post
Almeno 18 persone sono state uccise e altre 16 ferite in una rissa in un carcere dell’Honduras, venerdì 20 dicembre nella città settentrionale di Tela. 
Stando alle prime ricostruzioni, le violenze sono iniziate dopo un alterco tra alcune persone detenute e facenti parte di gang di strada rivali. 
Per numero di morti e di feriti, è uno dei casi più gravi di violenza per il sistema carcerario del paese. 

Le prigioni dell’Honduras ospitano nel complesso 20mila detenuti, in carceri la cui capacità complessiva è intorno a 8mila persone. Il sovraffollamento causa spesso proteste, rivolte e risse tra i detenuti. 

Anche per questo motivo il governo ha dichiarato uno stato di emergenza mercoledì scorso, affidando il controllo delle carceri a forze di sicurezza.

Pakistan - Junaid Hafeez, ricercatore universitario musulmano, attivista dei diritti umani, condannato a morte per blasfemia.

Avvenire
Junaid Hafeez, islamico di 33 anni, era stato arrestato il 13 marzo del 2014 on l'accusa di aver postato su Facebook commenti denigratori nei confronti del profeta Maometto.
Junaid Hafeez
Un tribunale distrettuale pachistano ha condannato a morte in Pakistan Junaid Hafeez, assistente universitario, intellettuale, attivista per i diritti umani e a sua volta simbolo della condanna alla “legge antiblasfemia”, usata spesso in modo pretestuoso e opportunistico.

Accusato di avere apprezzato e diffuso posizioni offensive verso la sua stessa fede musulmana via Facebook e per questo arrestato nel 2013 a 27 anni di età, Junaid Hafeez è vissuto da allora in isolamento nel carcere di Multan, sotto la costante minaccia di uccisione. 

Il suo è diventato un caso emblematico, sia per la virulenza con cui gli estremisti religiosi ne hanno cercato la condanna e la morte, sia per le caratteristiche del giudizio che ha portato oggi i giudici a decidere per la pena capitale. Più volte negli anni, almeno otto, la corte è stata sostituita e ogni richiesta di accelerare il procedimento, come pure di cambiare la prigione in quella meno esposta di Lahore è caduta nel vuoto.

Nel maggio 2014, il suo avvocato, Rashid Rehman, è stato ucciso da due sicari per non avere rinunciato alla difesa di Hafeez, e ogni appello della Commissione pachistana per i Diritti umani, come pure di altre organizzazioni nazionali e straniere è caduta nel vuoto.

Una condanna alla massima peno non è inusuale al primo livello di giudizio e anche per lui l’appello potrebbe risultare in una condanna più mite o nell’assoluzione. Tuttavia, la prima domanda che in molti si fanno è: quanto dovrà ancora attendere? E la seconda, spontanea, se nel frattempo riuscirà a sopravvivere alla dura detenzione e fanatismo omicida.

Stefano Vecchia

sabato 21 dicembre 2019

La Bielorussia unico paese in Europa ad applicare la pena di morte mette a morte Alexander Osipovich

Blog Diritti Umani - Human Rights
La Bielorussia, l'unico paese che sta ancora praticando la pena capitale in Europa, ha messo a morte un uomo condannato a morte per aver ucciso e smembrato due giovani donne, secondo un settimanale bielorusso indipendente riportato venerdì.

Alexandre Ossipovitch, 37 anni, residente nella città di Bobrouïsk, è stato ucciso martedì, ha riferito il quotidiano Kamertsyïny Kourier, citando un procuratore della procura regionale, Olga Ivanova.

Questa esecuzione è stata condannata dal Consiglio d'Europa. "Chiediamo alla Bielorussia di abolire la pena di morte o almeno di introdurre una moratoria. La morte non è giustizia", ​​ha scritto il direttore della comunicazione del Consiglio d'Europa Daniel Höltgen su Twitter.

Il presidente bielorusso Alexander Lukashenko, che governa il paese dal 1994, ha dichiarato a novembre che la pena di morte in Bielorussia può essere abolita solo dopo un referendum.

Le esecuzioni in Bielorussia sono eseguite nel più grande segreto: la data dell'esecuzione da parte dell'arma e non è resa pubblica, i corpi dei prigionieri non vengono restituiti alle famiglie e nessuna informazione viene comunicata sul luogo di la loro sepoltura.

Nel 2016 l'Unione europea ha revocato la maggior parte delle sanzioni contro Minsk, in particolare per incoraggiare il rispetto dei diritti umani nel paese. Secondo Amnesty International, tre quarti dei paesi del mondo hanno abolito o sospeso la pena di morte.

ES

Fonte: Le Figaro

Siria, continua la guerra! Bombardamenti nella zona di Idlib. 70.000 civili siriani abbandonano case e campi profughi

Blog Diritti Umani - Human Rights
Beirut - Un totale di 70.000 civili siriani hanno dovuto abbandonare le loro case e campi profughi nella Siria nord-occidentale, a sud-est di Idlib, negli ultimi giorni a causa di intensi attacchi aerei da parte dei governi russo e siriano, secondo i media siriani in contatto con l'Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA).

I rifugiati, la maggior parte dei quali sono donne, bambini e anziani, sono fuggiti dall'area di Maarrat an Numan, a sud-est di Idlib, e ora sono ammassati all'aperto ed esposti agli elementi.

L'Osservatorio siriano per i diritti umani (SOHR) ha dichiarato che giovedì 12 civili sono stati uccisi in attacchi aerei attribuiti alle forze aeree siriane e russe nella regione di Maarrat an Numan. Nei giorni scorsi 24 civili sono stati uccisi nei distretti di Maarrat Numan e Jisr Shughur.

Le forze governative russe e siriane stanno colpendo la regione di Idlib, che è stata per anni fuori dal controllo di Damasco ed è una roccaforte per le milizie anti-regime, compresi i gruppi di al-Qaeda.

La Turchia, in accordo con la Russia, esercita un'influenza diretta nella regione e sui gruppi armati antigovernativi.

Le Nazioni Unite stimano che circa tre milioni di civili siano accumulati nella regione di Idlib, metà dei quali provengono da altre aree della Siria colpite dalla guerra.

Ha affermato che questi civili hanno urgente bisogno di aiuti umanitari.

ES

Fonte: AnsaMed

venerdì 20 dicembre 2019

Migranti - Una pietra d'inciampo per il ragazzo affogato con la pagella sul cuore posta davanti alla scuola che avrebbe voluto frequentare.

Globalist
La scuola "Pisacane" è a Torpignattara, Roma, quartiere simbolo di quella integrazione che avvoltoi del nostro tempo vorrebbero impossibile. Una targa per ricordare un bimbo migrante morto.

"Questa scuola avrebbe accolto lui e le altre persone che annegano cercando di attraversare il mare". Non poteva essere scelta una frase più bella da incidere sulla pietra di inciampo. 

Ed è emozionante l'idea della pietra di inciampo, fino ad oggi pensata per le vittime della deportazione nazifascista e dell'Olocausto, ed ora voluta per rendere omaggio ad uno di loro, uno dei tanti, dei troppi annegati nel Mediterraneo nel tentativo, umano e disperato, di trovare un posto nel mondo che non fosse la piaga quotidiana della fame, della violenza o della guerra.
Pietre d'inciampo da un Olocausto all'altro. 
E bambini e insegnanti della scuola elementare romana "Carlo Pisacane" dei tanti morti in mare hanno scelto un ragazzo, quel ragazzo del Mali che morì annegato un giorno di metà aprile di quattro anni fa con la pagella cucita sul cuore.

Una scelta che ti regala salutari brividi alla schiena. Quel ragazzo, quella pagella cucita addosso per presentarsi bravo e volenteroso a questo nostro mondo qualora ce l'avesse fatto, è diventato un pensiero fisso nella vita di molti di noi, un monito, un codice, un testo sacro da "rileggere" quando pensiamo che le nostre difficoltà sono gravi ed invece suonano solo un'offesa a quel piccolo grande sogno inghiottito dalle onde.


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Migranti. Dissequestrata la nave Sea Watch 3: «Torniamo in mare» - La giustizia trionfa sul Decreto Sicurezza bis

Avvenire
Dopo più di cinque mesi bloccata nel porto a Licata, la nave Sea Watch 3 è di nuovo libera. Lo ha annunciato su Twitter la stessa Ong tedesca.

Lo ha annunciato su Twitter la stessa Ong tedesca: "Abbiamo vinto il ricorso al Tribunale Civile di Palermo: la #SeaWatch 3 è libera! Dopo oltre 5 mesi di blocco nel porto di Licata, ci prepariamo a tornare in mare. La giustizia trionfa sul (ex-) Decreto Sicurezza bis."
La notizia arriva nel giorno in cui papa Francesco aveva fatto riferimento al blocco amministrativo delle navi umanitarie di soccorso.
Lo ha deciso il Tribunale civile di Palermo, che ha accolto il ricorso presentato dai gestori della nave, che era stata sequestrata dopo che lo scorso 29 giugno aveva attraccato nel porto di Lampedusa e fatto sbarcare i 40 richiedenti asilo che erano a bordo da circa due settimane. La Sea Watch 3, secondo la Procura di Agrigento, aveva violato il divieto di ingresso in acque territoriali imposto dal cosiddetto “decreto Sicurezza bis”.
Lo scorso 25 settembre era stato notificato il dissequestro probatorio, ma la nave era rimasta sotto sequestro amministrativo. La Procura di Agrigento aveva infatti contestato alla nave la reiterazione dell’ingresso in acque territoriali, fattispecie in cui il decreto sicurezza bis prevede il sequestro amministrativo.

Secondo l’interpretazione della Procura, la reiterazione del reato sarebbe venuta a due giorni di distanza, il 26 e il 28 giugno: il primo giorno la nave era infatti entrata nelle acque italiane per la prima volta, mentre il secondo giorno aveva gettato l’ancora in attesa di ricevere comunicazioni da un porto in cui attraccare. La Ong tedesca aveva contestato questa interpretazione e presentato ricorso al Tribunale civile di Palermo che oggi le ha dato ragione.

Restano ancora sotto sequestro amministrativo le due imbarcazioni di Mediterranea, il veliero Alex e il rimorchiatore Mare Jonio.

giovedì 19 dicembre 2019

Papa Francesco, un salvagente e una croce, memoria dei migranti morti in mare. "Non è bloccando le navi che si risolve il problema; il Signore ce ne chiederà conto nel momento del giudizio!"

Globalist
Le parole d'accusa del Pontefice durante l'incontro con un gruppo di rifugiati arrivati in Italia con i corridoi umanitari: "Siamo tutti responsabili del nostro prossimo. La nostra ignavia è peccato"


Papa Francesco con i rifugiati arrivati da Lesbo con i corridoi umanitari

Una croce è stata posta all'ingresso del Palazzo Apostolico per volere di Papa Francesco, composta dai giubbotti salvagente dei migranti morti nel Mediterraneo.
"È l'ingiustizia che costringe molti migranti a lasciare le loro terre. È l'ingiustizia che li obbliga ad attraversare deserti e a subire abusi e torture nei campi di detenzione. È l'ingiustizia che li respinge e li fa morire in mare". 
Queste le parole di papa Francesco, che prende in mano e mostra un salvagente di un migrante morto a luglio nel Mediterraneo, "un'altra morte causata dall'ingiustizia", dice. 

L'occasione è l'incontro con i rifugiati arrivati da Lesbo nelle scorse settimane attraverso i corridoi umanitari, ospitati dalla Santa Sede e dalla Comunità di Sant'Egidio, durante il quale il Papa ha esitazione a scagliarsi contro le colpe di chi, indifferente, si gira dall'altra parte. 
"Bisogna mettere da parte gli interessi economici - avverte - perché al centro ci sia la persona, ogni persona, la cui vita e dignità sono preziose agli occhi di Dio. Bisogna soccorrere e salvare, perché siamo tutti responsabili della vita del nostro prossimo, e il Signore ce ne chiederà conto nel momento del giudizio".
"Questo è il secondo salvagente che ricevo in dono - racconta Francesco ricordando l'impegno della Chiesa - il primo mi è stato regalato qualche anno fa da un gruppo di soccorritori. Apparteneva a una fanciulla che è annegata nel Mediterraneo. L'ho donato poi ai due sottosegretari della Sezione migranti e rifugiati del Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale. Ho detto loro: 'Ecco la vostra missione!'". 
"Non è bloccando le navi che si risolve il problema - aggiunge il Pontefice - bisogna impegnarsi seriamente a svuotare i campi di detenzione in Libia, valutando e attuando tutte le soluzioni possibili. Bisogna denunciare e perseguire i trafficanti che sfruttano e maltrattano i migranti, senza timore di rivelare connivenze e complicità con le istituzioni"
Tanta commozione durante l'abbraccio del Papa ai 33 profughi, in maggioranza afghani. Nel gruppo, due ragazzi, poi famiglie e donne vittime di violenza, una delle quali ha lasciato la figlia nel Togo e ha espresso il desiderio di potersi ricongiungere presto con lei. 

Una giovane afghana, appassionata di pittura, ha donato al Papa un ritratto dello stesso Bergoglio ricavato da una fotografia che l'elemosiniere Konrad Krajewski aveva lasciato in occasione di una precedente visita nel campo profughi di Lesbo.
"La nostra ignavia è peccato - tuona Francesco - come possiamo non ascoltare il grido disperato di tanti fratelli e sorelle che preferiscono affrontare un mare in tempesta piuttosto che morire lentamente nei campi di detenzione libici, luoghi di tortura e schiavitù ignobile? Come possiamo rimanere indifferenti di fronte agli abusi e alle violenze di cui sono vittime innocenti, lasciandoli alle mercè di trafficanti senza scrupoli? Come possiamo 'passare oltre', come il sacerdote e il levita della parabola del Buon Samaritano, il facendoci così responsabili della loro morte?".

Il decreto sicurezza fa aumentare i migranti senza fissa dimora, minando la sicurezza di tutti, dei migranti e delle nostre città.

Il Dubbio
Nessun supporto per chi aveva un permesso umanitario e ora deve lasciare i Centri. La situazione descritta nel terzo lavoro di monitoraggio dell'Osservatorio dell'associazione Naga, che garantisce assistenza a cittadini stranieri.
L'impatto maggiore del decreto Salvini sulla sicurezza varato dallo scorso governo legastellato è quello dell'aumento dei senza fissa dimora. Sì, perché attraverso il taglio dei fondi ai progetti dei centri di accoglienza, ovvero passando dai tanto famigerati 35 euro a un massimo di 19- 26 euro, si risparmia tantissimo sugli alloggi. Nessun supporto è previsto per coloro che sono costretti a lasciare i centri, ad esempio le persone che avevano un permesso umanitario e che da un giorno all'altro si ritrovano senza più diritto all'accoglienza e quindi per strada.

Questo meccanismo è fortemente patogeno: ritrovarsi per strada comporta i rischi e il degrado psico-fisico che ben si conoscono dagli studi sui senza fissa dimora, riscontrati anche tra i migranti nelle stesse condizioni. In generale, le persone che chiedono asilo arrivano in buona salute, fatte salve le conseguenze delle torture e delle privazioni subite durante i vari episodi di prigionia e lavoro forzato a cui sono stati sottoposti lungo il viaggio per arrivare in Italia.

Ciò è conosciuto come il cosiddetto "healthy migrant effect": partono le persone più sane, con più probabilità di farcela. Una volta arrivate si scontrano con quello che la ex primo ministro britannica Theresa May chiamò nel 2012 "hostile enviromnent", cioè condizioni che scoraggiano l'integrazione di una data popolazione in un determinato ambiente.

Da qui le condizioni di alloggio spesso proibitive, i lavori precari, saltuari e senza forme di protezione, la salute che via via si deteriora. Senza contare l'impatto psicologico dato dall'isolamento e dalla mancanza dei legami familiari, le conseguenze fisiche ancora attuali e lo stress delle torture subite e l'incertezza per le lungaggini nell'ottenere un permesso di soggiorno pur non definitivo.

Allo stato attuale, se un migrante è senza alloggio è un "senza fissa dimora" e dunque non può avere una residenza. Senza certificato di residenza non può trovare un lavoro regolare. Senza un lavoro regolare non può pensare di poter affittare regolarmente una casa, o nemmeno una stanza. È in una situazione senza vie d'uscita descritta dal terzo lavoro di monitoraggio e analisi compiuto dall'Osservatorio del Naga, un'associazione composta da numerosi volontari che garantiscono assistenza sanitaria, legale e sociale gratuita a cittadini stranieri irregolari e non, a rom, sinti, richiedenti asilo, rifugiati e vittime della tortura, oltre a portare avanti attività di formazione, documentazione e lobbying sulle Istituzioni.

Tale lavoro ha come obiettivo di comprendere i cambiamenti nel sistema di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati con particolare attenzione all'area di Milano in cui il Naga opera dal 1987. E, infatti, proprio a Milano sarebbero almeno 2.608 i senza fissa dimora. I volontari e le volontarie del Naga hanno visitato nel corso della ricerca diverse tipologie di insediamenti informali (strutture coperte abbandonate, spazi all'aperto, palazzine abbandonate e giardini pubblici) per fornire un identikit delle persone fuori dal sistema di accoglienza e restituire una fotografia di queste marginalità.

Le persone incontrate hanno provenienze diverse e status giuridici eterogenei: da stranieri in attesa o nell'iter di formalizzazione della richiesta di protezione internazionale, a titolari di protezione, a stranieri con permesso di soggiorno in corso di validità, a cittadini italiani.

Il minimo comune denominatore sembra essere l'instabilità abitativa, la precarietà occupazionale e salariale e la quasi totale assenza di tutele. Per quanto riguarda chi si trova al di fuori dell'accoglienza, il report descrive anche le risposte istituzionali, che si concretizzano prevalentemente in interventi numericamente insufficienti a favore dei senza fissa dimora e nella pratica costante degli sgomberi senza soluzioni alternative e giustificati dalla retorica della sicurezza e del decoro.

Damiano Aliprandi

mercoledì 18 dicembre 2019

Libia - Emergenza umanitaria dimenticata. 20 mila migranti detenuti nei lager libici. E per la guerra civile un milione di libici in grave difficoltà.

Avvenire
Gli ultimi rapporti di Acnur e Cir parlano di 60mila rifugiati (6mila rinchiusi nei Centri governativi) e un milione di persone senza aiuti. Il problema più urgente? I campi di detenzione. Lo dicono tutti, dalle associazioni in campo per i diritti umani ai governi fino alle agenzie Onu. I centri dove gli stranieri, intercettati sul territorio libico senza un regolare visto, vengono rinchiusi e lasciati in balìa di miliziani con pochi scrupoli.
È qui che avvengono "situazioni indicibili", come aveva denunciato il segretario generale dell'Onu, Guterres, in relazione all'ultimo rapporto sulla situazione nel Paese nordafricano. In assenza di un governo stabile, i migranti vengono venduti come merce di scambio.

Spostati da un lager a un altro, schiavizzati e torturati per estorcere denaro dai familiari costretti ad ascoltare, al cellulare, i dolori delle torture dei propri cari. "Meglio morire in mare che in un lager libico" raccontano i migranti soccorsi in mare da quelle poche navi Ong che ancora lo possono fare.

Attualmente in Libia, secondo l'ultimo rapporto dell'Alto commissariato Onu per le Nazioni Unite, sono circa 6mila i migranti rinchiusi nei dieci principali centri di detenzione del governo di accordo nazionale di al-Sarraj, riconosciuto a livello internazionale. Ma sarebbero tre volte tanto quelli "non governativi" e fuori controllo. Ad oggi, l'Acnur ha registrato 60.000 richiedenti asilo in Libia, ma è riuscita a ricollocarne solo 2.000 circa all'anno.

La capacità dell'agenzia dei rifugiati di ricollocare i richiedenti asilo dalla Libia dipende dalle offerte da parte di Paesi ospitanti sicuri, soprattutto in Europa. A novembre, un appello urgente dal centro di detenzione di Zawiya, dove sono rinchiuse 650 donne e uomini (tra cui 400 eritrei ed etiopi) è stato rilanciato da don Mussie Zerai, presidente dell'agenzia Habeshia: "Viviamo costantemente nella paura, sentiamo continuamente spari nelle vicinanze, siamo chiusi qui, senza protezione, senza vie di fuga in caso di attacco, rischiamo la vita", raccontano i detenuti quando riescono a mettersi in contatto con il presule.

Don Zerai chiede a tutte le istituzioni europee e alle agenzie per i diritti umani di mobilitarsi per mettere in atto un piano straordinario per queste persone. Dall'inizio dell'anno allo scorso 15 novembre, sempre secondo gli ultimi dati diffusi dall'Acnur, sarebbero complessivamente 8.155 i rifugiati e migranti intercettati dalla cosiddetta guardia costiera libica e riportati a terra.

Si tratta, in particolare, di 6.547 uomini, 508 donne e 777 minori. La maggior parte delle persone riportate in Libia proviene da Sudan (3.250 persone), Mali (520), Bangladesh (456), Costa d'Avorio (439) e Somalia (391). La maggior parte delle imbarcazioni intercettate è diretta in Europa ed è in partenza da Zwara e Garabulli, rispettivamente a ovest ed a est di Tripoli.

"Da gennaio, più di 8.600 migranti che hanno tentato la traversata del Mediterraneo sono stati riportati in Libia in centri di detenzione sovraffollati, dei quali le Nazioni Unite hanno documentato le condizioni inaccettabili, le violazioni dei diritti umani e le sparizioni - denuncia l'Oim, l'Organizzazione internazionale per le migrazioni.

È necessario che siano intraprese azioni rapide per smantellare il sistema di detenzione e trovare soluzioni alternative per proteggere le vite dei migranti". Ma la guerra civile ha messo in ginocchio l'intera economia del Paese nordafricano. Il Centro italiano per i rifugiati parla di circa un milione di persone bisognose di assistenza umanitaria. Sono soprattutto cittadini libici, sfollati, senza cure mediche né medicinali.

Daniela Fassini

martedì 17 dicembre 2019

Produttori di armi e governi (USA ed europei) complici dei crimini di guerra in Yemen

Il Manifesto
La denuncia. Comunicazione alla Corte penale internazionale, che valuterà se aprire un’indagine. Un innovativo passo nella ricerca della giustizia in un conflitto che ha causato quasi 100 mila vittime civili

Un incontro con l’Ufficio del procuratore che vaglia preliminarmente le possibili indagini della Corte penale internazionale (Cpi), con il deposito di una corposa Comunicazione (oltre 350 pagine) per segnalare l’ipotesi che dirigenti delle aziende armiere e funzionari pubblici responsabili delle licenze di esportazione siano complici nei presunti crimini di guerra commessi dalla Coalizione militare guidata da Arabia saudita e Emirati arabi uniti in Yemen.
[...]
«Gli attacchi aerei della Coalizione hanno causato una terribile distruzione nello Yemen. Le armi prodotte ed esportate dagli Stati uniti e dall’Europa hanno permesso questa distruzione. Le innumerevoli vittime yemenite meritano inchieste credibili su tutti gli autori di crimini contro di loro, comprese tutte le potenziali complicità» sottolinea Radhya Almutawakel presidente di Mwatana.
[...]
IL CONFLITTO IN CORSO ha portato a quella che l’Onu definisce la più grande crisi umanitaria dei nostri tempi con quasi 100 mila morti civili e con tutte le parti in conflitto che hanno ripetutamente violato i diritti umani e il diritto internazionale umanitario. Grazie al lavoro dei media e delle organizzazioni della società civile è ormai noto da tempo anche il flusso di armamenti che finisce in Yemen, oggetto di azioni legali a livello nazionale (in particolare in Gran Bretagna, Belgio e Italia).

Francesco Vignarca

Sono 250 i giornalisti in carcere nel mondo: Cina al primo posto, Turchia seconda

La Stampa
Sono 250 in tutto il mondo, la maggior parte in Medio Oriente. Il Comitato per la protezione dei giornalisti (Cpj) ha calcolato che quest'anno è la Cina al primo posto fra i Paesi con più reporter incarcerati, con almeno 48, in aumento rispetto allo scorso anno. Segue la Turchia con 47, ma in deciso calo rispetto ai 68 del 2018.


In questa classifica negativa al terzo posto arrivano Arabia Saudita ed Egitto, entrambi con 26 giornalisti in prigione. In totale, almeno 250 reporter sono incarcerati in tutto il mondo a causa della loro professione. Un anno fa il Cpj aveva documentato 255 casi. Il numero rimane vicino ai 273 prigionieri registrati nel 2016, il record da quando viene pubblicata la statistica.

La Turchia ha guidato la classifica negli ultimi quattro anni, prima del forte calo nel corso del 2019, un miglioramento che però secondo la Ong non riflette "il successo degli sforzi del governo del presidente Recep Tayyip Erdogan per porre fine al giornalismo indipendente e critico". 

Se il Medio Oriente resta la regione critica, la situazione è in peggioramento in Cina. L'aumento dei reporter incarcerati è legato soprattutto alla repressione in corso nello Xinjiang, la regione autonoma dove vive la minoranza turcofona e musulmana degli uiguri.

Secondo il Cpj "il numero dei giornalisti arrestati è aumentato costantemente sotto la presidenza di Xi Jinping e il consolidamento del suo potere nel Paese", mentre la repressione nello Xinjiang "ha portato all'arresto di decine di reporter". Il portavoce del ministero degli Esteri di Pechino, Hua Chunying, ha replicato che "le istituzioni con sede negli Stati Uniti non hanno credibilità" e che la Cina "è un Paese basato sulla stato di diritto, dove nessuno è al di sopra della legge".

Fra gli altri Paesi dove la libertà di stampa è limitata ci sono l'Eritrea, con 16 giornalisti imprigionati, poi il Vietnam, 12, l'Iran, 11. Il rapporto sottolinea come "autoritarismo, instabilità, proteste" hanno portato a un aumento degli arresti in Medio Oriente. Dei 250 reporter in carcere, "l'8 per cento sono donne", in calo dal 13 per cento dello scorso anno. La maggior parte sono stati arrestati per i loro articoli su temi come "diritti umani e corruzione". Il rapporto non include però i reporter sequestrati da entità non statali, come milizie e gruppi terroristici.

Giordano Stabile

lunedì 16 dicembre 2019

Natale, un'occasione per lanciare un messaggio di solidarietà all'Italia - Aggiungi un posto a tavola ai pranzi di Sant'Egidio - 45586

Blog Diritti Umani - Human Rights
Il Natale può essere un momento in cui lanciare un messaggio di solidarietà all’Italia perché le nostre città siano più umane e vivibili per tutti, a partire da chi ha più bisogno.

Appoggiamo le iniziative che si realizzano in varie città italiane dove è presente la Comunità di Sant'Egidio. Si siederanno ai pranzi di Natale, tutti gli amici che durante l'anno sono sostenuti nell'amicizia e nell'aiuto concreto dai volontari di Sant'Egidio. 

Tra loro saranno presenti i rifugiati arrivati con i corridoi umanitari, anziani, famiglie rom, immigrati e tanti altri. Si organizzeranno pranzi all'interno delle carceri coinvolgendo i detenuti più poveri. Per tutti ci sarà un pranzo preparato con cura e un regalo.
Per fare questo c'è bisogno dell'aiuto di tutti, nessuno escluso.
Per aiutare è molto semplice! C'è un numero telefonico a disposizione il 45586 
dal 2 al 25 dicembre.  Grazie !

Torino, prima città rifugio (shelter city) per i difensori dei diritti umani in pericolo

Corriere della Sera
Torino sarà la prima "shelter city" (città rifugio) in Italia per i difensori dei diritti umani in pericolo. L'iniziativa è stata presentata questa mattina nel capoluogo piemontese  nell'ambito di una serie di progetti che coinvolgono Amnesty International Italia, Cifa Onlus, Hreyn e Cooperativa Doc. 
Le "shelter cities" sono città disponibili a offrire rifugio temporaneo (dai tre ai 12 mesi) ai difensori dei diritti umani seriamente minacciati, all'interno dei loro paesi, a causa del loro operato.

In questi anni Amnesty International Italia ha lavorato anche insieme alla Rete "In Difesa Di - per i Diritti Umani e chi li difende" per promuovere la creazione un network di città rifugio in Italia: la Rete ha coinvolto le città di Padova e Trento in cui si sta avviando un percorso simile. Il programma di ospitalità, che Amnesty International ha già sperimentato in alcuni paesi europei, intende costruire connessioni e collaborazioni all'interno della città di Torino per contribuire a costruire una comunità solidale che riconosca i rischi che i difensori dei diritti umani affrontano, provando a facilitare iniziative che sostengano il loro benessere e consentano loro di lavorare in un clima migliore.

Il Comune di Torino predisporrà un alloggio adeguato per il beneficiario per tutta la durata del periodo di accoglienza. Il progetto partirà nel 2020 e, grazie al coinvolgimento della società civile sul territorio, si prefigge di valorizzare in maniera significativa il lavoro del difensore, con il duplice obiettivo di garantire un periodo di riposo temporaneo e promuovere occasioni di approfondimento e scambio con le organizzazioni della società civile.

Riccardo Noury