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domenica 30 novembre 2014

Uzbekistan - Marat testimone di "Cities for Life": "I miei dieci anni nel braccio della morte"

La Repubblica - Genova
Oggi a Palazzo Ducale la testimonianza di un ex condannato uzbeko nell'ambito di "Cities for Life" l'iniziativa contro la pena capitale
Marat Rachmanov che non sapeva di essere condannato a morte mise in moto l’auto – e il destino – una sera a Samarcanda, dopo una cena abbondante. Avevano mangiato e bevuto parecchio, a casa della sorella che non vedeva da un po’, da quando si era trasferito a Mosca e aveva trovato un lavoro nel ristorante dell’aeroporto. Così, quando l’amica di sua sorella gli ha chiesto un passaggio a casa per lei e suo figlio, gli sembrò scortese rispondere di no. La sua vita di prima è finita quella sera d’inverno, nel 1999, salutando la donna e il bambino che rientravano a casa. Il giorno dopo è l’inizio di un incubo macabro che non lo lascia nemmeno oggi che Marat ha 42 anni, ed è sopravvissuto a 13 mesi nel braccio della morte e a dieci anni di carcere uzbeko, in una cella di cinque passi per cinque: “Ho ricominciato tutto da zero, sono un miracolato – racconta lui, che oggi alle 17.45 sarà a Palazzo Ducale, nella Sala del Maggior Consiglio, per Cities for Life, la giornata promossa della Comunità di Sant’Egidio contro la pena di morte – eppure, è un ricordo che non si cancella. Per questo esco di casa presto e lavoro anche fino alle due di notte, in un forno industriale. Perché se ti fermi a pensare, anche un istante, torni lì dentro. In quella cella”.

L’incubo è iniziato quel mattino, con gli agenti davanti alla porta: perché la donna e il bambino che Marat aveva accompagnato a casa erano stati trovati morti, e la polizia uzbeka aveva già il suo colpevole. Lui. Condannato alla fucilazione. “Mi hanno picchiato, isolato, volevano che firmassi una confessione – racconta Marat, che oggi al Ducale parlerà della sua storia davanti al sindaco Marco Doria, a Luca Borzani, con Simona Merlo della Comunità di Sant’Egidio e Tamara Chikunova, fondatrice dell’associazione “Madri contro la pena di morte e la tortura” dopo aver perso suo figlio Dmitrij, di soli 20 anni – hanno anche arrestato mia sorella, rinchiusa in una cella accanto alla mia con suo figlio di un anno e mezzo: hanno minacciato di ritorcersi su di loro”.

I ricorsi dell’Ambasciata Russa in sua difesa (Marat aveva preso la cittadinanza di Mosca) sono stati respinti uno dopo l’altro. La condanna era già scritta: la cella pronta. Cinque passi per cinque, sottoterra, il pavimento di cemento. “Non potevamo lavarci, e non possiamo definire cibo quello che ci davano – ricorda Marat – quando c’era troppo sovraffollamento, acceleravano con le fucilazioni. Ti picchiano, ma il vero obiettivo è spezzarti dentro. Ma al tempo stesso fanno di tutto perché tu non ti uccida. Ti riducono a uno stato tale che non hai più volontà: all’inizio hai paura di morire, poi diventa indifferente. Poi lo desideri”. Fino a quando, nella vita di Marat entra Tamara Chikunova, contattata dalla sorella. Che insieme alla Comunità di Sant’Egidio inizia la sua battaglia, che ha portato alla cancellazione della pena di morte in Uzbekistan il primo gennaio del 2008 e alla salvezza di più di 90 condannati a morte. Tra questi c’era Marat Rachmanov. La pena viene commutata in dieci anni nel carcere di Namangan. “Quando sono uscito, la prima cosa che ho fatto è stata dormire. Ho dormito per due giorni di fila”. Oggi, Marat si è laureato. Ha due bambini, una femmina di due anni e un maschio di cinque. Una vita. E incubi che non lo lasciano mai. Non è mai più tornato in Uzbekistan.

30 novembre 2014, Giornata Mondiale delle Città per la Vita: il NO alla pena di morte si leva forte in tutto il mondo

Comunità di Sant'Egidio
Cresce il numero delle adesioni alla campagna promossa da Sant'Egidio. In tutti i continenti manifestazioni ed eventi contro la pena capitale.
Anche quest'anno, per la Giornata Mondiale delle "Città per la Vita - città contro la pena di morte"del 30 novembre, migliaia di persone in tutto il mondo si stanno mobilitando per chiedere a una sola voce di rinunciare definitivamente alla pena capitale. Sono quasi 2000 le Città per la Vita che hanno aderito ufficialmente alla Giornata Mondiale, e molte adesioni stanno continuando a pervenire. A queste vanno aggiungendosi i tanti luoghi nel mondo dove, in assenza di un'adesione ufficiale da parte delle istituzioni, soprattutto in paesi dove ancora vige la pena di morte, comunità, associazioni e semplici cittadini hanno organizzato eventi pubblici, fiaccolate e veglie di preghiera per esprimere il proprio netto rifiuto della pena capitale, come a Minsk, in Bielorussia, dove si terrà una veglia di preghiera nella chiesa dei Santi Elena e Simone. 
Oltre ai tanti eventi in tutta Italia, segnaliamo l'adesione delle principali città europee, capitali e non. Quest'anno in particolare si registra una grande mobilitazione in Portogallo: illuminazione dei principali monumenti, conferenze e manifestazioni si terranno in numerose città del Paese. Accanto al Portogallo e all'Italia, anche in Spagna e in Germania le istituzioni, la Comunità di Sant'Egidio e diverse realtà della società civile hanno promosso eventi per sensibilizzare l'opinione pubblica contro la pena di morte. 
La mobilitazione però non riguarda solo l'Europa: dall'America del Nord, con Boston, Montreal e New York in prima fila, all'America Latina, in particolare in Messico, Salvador e Honduras. Un forte no alla pena di morte si leva anche dall'Africa: importanti eventi sono stati organizzati in Kenya, Mali, Nigeria, Malawi, Burundi e nella Repubblica Democratica del Congo
Quest'anno la mobilitazione contro la pena capitale coinvolge in modo particolare l'Asia, dove assume un'importanza quanto mai cruciale, in quanto molti tra i paesi che applicano la pena di morte sono concentrati proprio nel continente asiatico. "No Justice without Life", due importanti convegni, a Tokyo e a Manila, hanno visto riuniti attivisti, testimoni e personalità pubbliche, sensibilizzando l'opinione pubblica e registrando una maggiore attenzione di diversi governi asiatici verso la campagna contro la pena di morte. 
Questo 30 novembre sono previste manifestazioni, fiaccolate e veglie di preghiera anche in Indonesia, nelle Filippine, in Pakistan, in Cambogia e a Hong Kong, facendo della Giornata Mondiale delle Città per la Vita la più grande mobilitazione contemporanea planetaria, per indicare una forma più alta e civile di giustizia, capace di rinunciare definitivamente alla pena capitale.

Italia - San Gimignano - Il Consiglio Comunale da a 88 figli di immigrati la cittadinanza onoraria

#gonews.it
88 figli di immigrati residenti nel territorio cittadini onorari di San Gimignano. E’ quanto sancito dalla delibera del consiglio comunale votata all’unanimità nella seduta di venerdì 28 novembre che si è svolta in via del tutto speciale e in sessione aperta nella palestra dell’Istituto Comprensivo Folgore da San Gimignano. 


Il sindaco Bassi consegna la cittadinanza a una 
piccola “sangimignanese” (foto agenziaimpress.it)
Ad assistere al consiglio comunale sono stati gli studenti che hanno poi presentato degli elaborati e delle testimonianze sui temi della convivenza tra i popoli, la pace e l’accoglienza. 
Agli 88 figli di immigrati sono stati poi gli attestati di cittadini onorari di San Gimignano. 
Soltanto dopo amministratori e alunni si sono spostati in Piazza delle Erbe per l’intitolazione per l’anno 2014-2015 al tema dei Diritti Umani dell’Infanzia. 
Ad essere inaugurata una targa commemorativa con dedica “Ai diritti dei bambini in una terra senza confini”. 

Così San Gimignano ha celebrato oggi la Festa della Toscana. «San Gimignano, in quanto Patrimonio Mondiale dell’Umanità Unesco – ha sottolineato il sindaco Giacomo Bassi – sente il bisogno, il peso e la soddisfazione di essere una città che deve parlare al mondo. Forti di questo status vogliamo dire al mondo che se non ci sono diritti per i bambini, se non c’è infanzia protetta, non c’è futuro per l’umanità. 

Noi abbiamo fatto due gesti simbolici ma di grande significato etico per diffondere il messaggio che i bambini nati in Italia da immigrati sono italiani e sangimignanesi a tutti gli effetti. 

Ci aspettiamo che il Parlamento – ha concluso Bassi – riconosca loro il superamento dello Ius Sanguinis e si possa finalmente approvare una legge fondata sullo Ius Soli che riconosca pieni diritti di cittadinanza a questi ragazzi» 

Alla cerimonia è intervenuta anche Maria Emanuela Visconti Griccioli rappresentante dell’Unicef che ha evidenziato: «Questa targa va al cuore del problema mondiale dell’infanzia e dell’adolescenza: se vogliamo un futuro migliore per tutti incominciamo dai nostri figli e da quelli degli altri. Insegnando loro che siamo una comunità possiamo dare una mano alla nostra civiltà».

sabato 29 novembre 2014

Eventi in carcere in Italia in occasione dell’iniziativa della Comunità di Sant’Egidio "Cities for Life” città contro la pena di morte

Comunità di Sant'Egidio
Anche quest'anno, per la Giornata Mondiale delle "Città per la Vita - città contro la pena di morte"del 30 novembre, migliaia di persone in tutto il mondo si stanno mobilitando per chiedere a una sola voce di rinunciare definitivamente alla pena capitale. Sono quasi 2000 le Città per la Vita che hanno aderito ufficialmente alla Giornata Mondiale, e molte adesioni stanno continuando a pervenire. A queste vanno aggiungendosi i tanti luoghi nel mondo dove, in assenza di un'adesione ufficiale da parte delle istituzioni, soprattutto in paesi dove ancora vige la pena di morte, comunità, associazioni e semplici cittadini hanno organizzato eventi pubblici, fiaccolate e veglie di preghiera per esprimere il proprio netto rifiuto della pena capitale.

Per questo evento nelle carceri italiane sono state organizzate delle iniziative:

Carcere di Vercelli – il 4/12 Incontro con Tamara Chikunova (madre di un condannato a morte eseguito in Uzbekistan) e Marat Rakhmanov (condannato a morte liberato in Uzbekistan) incontro con 70 detenuti (maschile e femminile)

Genova -Carcere di Marassi – 29/11 testimonianza di Marat Rakhmanov , ex condannato a morte in Uzbekistan, si è salvato grazie al lavoro di Tamara Chikunova, giurista e fondatrice dell'Associazione uzbeka Madri contro la pena di morte. Il figlio di Tamara nel 2000 fu condannato a morte, si chiamava Dimitri e aveva 29 anni, l'esecuzione avvenne all'insaputa della madre che la mattina seguente si recò al carcere e seppe che suo figlio aveva subito l'esecuzione. Tamara nonjha mai riavuto il corpo di suo figlio. Insieme alla Comunità di Sant'Egidio Tamara Chikunova ha salvato la vita a oltre 100 condannati a morte. Nel 2008 l'Uzbekistan ha abolito la pena capitale anche grazie al suo lavoro.
Evento in teatro, detenuti attori recitano brani sulla pena di morte  con 100 detenuti

Firenze - Carcere di Sollicciano – 27/11 Incontro con Suezan Bossler, familiare di vittima. Suo padre venne ucciso nel corso di un agguato nel quale anche la donna, allora adolescente, venne ferita gravemente. Ha scelto di perdonare gli aggressori e insieme all'associazione americana "Journey of hope" testimonia la forza del perdono e della riconciliazione. 
Evento con i responsabili religiosi, dell'Islam, ortodossi, buddisti e cristiani con 200 detenuti.

Roma - Carcere di Regina Coeli – 27/11 100 detenuti incontrano il testimone – Curtis McCarthy, ex condannato a morte, liberato perché riconosciuto innocente. Curtis ha trascorso 22 anni nel braccio della morte dell'Oklahoma, il carcere è sotterraneo. Porta nel mondo la sua testimonianza, recentemente è stato in Giappone.

Napoli - Carcere di Poggioreale - 28/11 - Incontro con Testimone Curtis McCarthy con 60 detenuti

Australia: per l'Unhcr la detenzione di bambini richiedenti asilo viola il diritto internazionale

La Presse
È possibile che l'Australia violi il diritto internazionale, con la detenzione di bambini richiedenti asilo. Questo l'avvertimento dell'Unhcr (Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati), che ha fatto appello a Canberra e ad altri Paesi affinché mettano fine alla politica e offrano alloggi ai minorenni richiedenti asilo.
Si stima che attualmente siano detenuti in Australia oltre 600 bambini migranti arrivati nel Paese via mare, ha riferito ad Abc Radio un rappresentante dell'Unhcr, Thomas Vargas, aggiungendo che il trattamento riservato dalle autorità ai bambini è inumano.

"Chiediamo a tutti i governi nel mondo - ha detto Vargas - di non usare i bambini come pedine per risolvere un problema che, tra l'altro, non sarà risolto con un approccio unilaterale. Il posto dei bambini non è in carcere ed è chiaro ai sensi del diritto internazionale che gli Stati non dovrebbero detenerli. Non è umanitario ed è anche illegale secondo il diritto internazionale". Il ministro dell'Immigrazione australiano, Scott Morrison, ha affermato tuttavia che Canberra sta facendo tutto il possibile per proteggere i bambini detenuti.

Il ministro ha riferito inoltre che il governo federale sta preparando un piano a lungo termine per mettere fine alla detenzione di tutti i minorenni richiedenti asilo. Il numero dei bambini detenuti, ha detto Morrison, è stato ridotto di quasi il 50% in tutto il Paese e tutti i minorenni saranno rilasciati "quando sarà approvata la legge attualmente al vaglio del Parlamento". Intanto un gruppo di celebrità australiane, tra cui l'attore Bryan Brown e l'ex capitano della squadra di cricket Ian Chappell, hanno lanciato una campagna per mettere fine alla detenzione dei bambini.

Belarus - Join “Cities for Life - Cities Against the Death Penalty” campaign on November 30

VIASNA
The campaign “Human Rights Defenders against the Death Penalty in Belarus” urges everyone to join the initiative “Cities for Life - Cities Against the Death Penalty”, which will take place on November 30.
The initiator of the annual event is the Catholic Community of Sant’Egidio – one of the largest campaigns struggling for the inalienable right to life.

The date was chosen because on this day in 1786 the Italian Duchy of Tuscany for the first time in the history of European states abolished the death penalty.

The event is held in those countries where the death penalty is no longer applied in practice: the cities without the death penalty illuminate their famous architectural monuments and squares in support of the right to life. On this day, concerts, meetings, demonstrations, discussions on the death penalty are held worldwide. In this way, human rights defenders, civil society activists and ordinary citizens try to prove that this kind of punishment is unacceptable in all cases without exception: “Any death sentence is an affront to human dignity, any penalty is a sign of a culture of violence, not a means of suppressing it.”

The first global event was held in 2002.

Despite the fact that the Belarusian authorities have not abandoned the death penalty, human rights defenders and civil society activists join this initiative with the hope that the Belarusian society will actively speak out against this inhumane punishment.

To join the campaign “Cities for Life - Cities Against the Death Penalty” you can:
Make a selfie in your native city on the background of a famous building, post the image in any social network with the hashtags #citiesforlife #ЗаЖыццё
Download and post the campaign’s logo with the hashtags #citiesforlife #ЗаЖыццё
Follow the link and paste picbadges on your photos on Facebook
Download and print the images, have your picture taken with them and post them on your social networks account with the hashtags #citiesforlife #ЗаЖыццё
Sign a petition against the death penalty in Belarus

We are grateful to all the indifferent defenders of the right to life!

Roma Nord - Sconcerto per la manifestazione di CasaPound che impedisce ai bambini rom di andare scuola.

ANSA
Ancora intolleranza nella periferia romana. Questa volta però la matrice politica è netta e proviene da militanti di CasaPound e Blocco Studentesco, organizzazione studentesca che fa capo alla formazione di estrema destra.


Ieri mattina circa 500 esponenti del movimento hanno impedito ad alcuni bambini nomadi l'entrata in due istituti alla periferia nord di Roma. La denuncia arriva dalle associazioni Eureka e Arci Solidarietà. Un episodio giudicato dal Campidoglio "gravissimo" ma che, in serata, il movimento di estrema destra smentisce giudicando il tutto "un'accusa gratuita" Nei giorni scorsi alcuni esponenti dell'estrema destra avevano denunciato il "lancio di pietre da parte di alcuni nomadi contro gli studenti di due istituti della zona, il Tacito e il Domizia Lucilla, che sorgono nei pressi di un campo". Oggi dunque l'azione in risposta "a quelle violenze". Violenze però mai denunciate alle forze dell'ordine, smentite dallo stesso municipio e dalle dirigenti scolastiche dei due istituti. 

Ieri Casapound e Blocco Studentesco hanno organizzato la manifestazione nei pressi del campo nomadi e, secondo la denuncia delle associazioni Eureka e Arci Solidarietà, i militanti di estrema destra hanno "bloccato l'uscita del campo di via Cesare Lombroso mentre bimbi e ragazzi si apprestavano ad andare a scuola e successivamente hanno bloccato l'ingresso ad alcuni istituti della stessa zona in cui sono iscritti i bambini nomadi". 

"Una ricostruzione del tutto priva di fondamento", fanno sapere in serata CasaPound e Blocco Studentesco. Ma la polemica si accende. L'assessore alla scuola al Comune di Roma Alessandra Cattoi giudica il gesto "meschino, una violazione grave di un diritto sancito dalla Costituzione che, come tale, va rispettato e garantito, un gesto vile nei confronti di minori fragili che dovrebbero essere protetti"

Nel pomeriggio le dirigenti scolastiche dei due istituti hanno incontrato il presidente del Municipio XIV, Valerio Barletta. "Mi hanno chiesto di aiutarle a far sì che non accada mai più che dei ragazzi neghino ad altri ragazzi il diritto di entrare a scuola e seguire le lezioni", spiega Barletta. 

Il Pd col deputato Maria Coscia ha presentato sull'accaduto un'interrogazione al Ministro Angelino Alfano sollecitando "misure urgenti per fare in modo che non si ripetano più gesti in chiara violazione della Carta Costituzionale". E il capogruppo dei deputati Sel Arturo Scotto parla su twitter di "atto barbaro". Il messaggio di CasaPound stamani, scritto su alcuni striscioni, era chiaro: "Stop alle violenze dei rom, alcuni italiani non si arrendono". "Le scuole romane sono fatiscenti - dichiara Fabio Di Martino esponente di Blocco Studentesco - per questo è ancora più inconcepibile che il sindaco Marino e le istituzioni finanzino i campi rom o i centri d'accoglienza". Quello che si teme ora è un effetto Tor Sapienza, ovvero una nuova rivolta anti immigrati e nomadi come successo nel quartiere alla periferia sud di Roma con l'assalto ad un centro rifugiati. Un effetto che potrebbe essere favorito anche da chi soffia sul fuoco della paura e del pregiudizio.

venerdì 28 novembre 2014

Nigeria: rischia la pena di morte 14enne accusata dell'omicidio del marito 20 anni più grande

AskaNews
Il caso ha scatenato polemiche sui matrimoni combinati dei minori
Gezawa, Nigeria - Rischia la pena di morte una 14enne nigeriana accusata di avere ucciso due settimane dopo le nozze il marito, più vecchio di lei di vent'anni, mischiando il suo cibo con veleno per topi.
L'Alta corte di Gezawa, alla periferia di Kano, la principale città della Nigeria settentrionale, sta processando Wasila Tasi'u, originaria di una famiglia diseredata della zona, per omicidio volontario, crimine avvenuto nell'aprile scorso nel villaggio di Unguwar Yansoro.

Secondo il pubblico ministero l'accusa, se provata, è passibile della pena di morte e il rappresentante dell'accusa si è detto pronto a richiederla.

Wasila ha fatto il suo ingresso nell'aula del tribunale dove si deciderà il suo destino avvolta in un hijab color crema, scortata da due poliziotti. L'atto d'accusa, redatto in inglese, è stato tradotto in haussa, la sua lingua natale, dall'avvocato. Quando l'udienza è stata sospesa per una decina di minuti, per dare modo al difensore di spiegarle bene la situazione, la ragazzina si è girata verso il muro scoppiando in singhiozzi.

Subito dopo, la Corte, forse per dare una mano all'imputata, ha deciso di considerare il suo silenzio come una dichiarazione di non colpevolezza.

Il processo di Wasila Tasi'u ha scatenato forti polemiche a proposito dei matrimoni combinati che coinvolgono delle minorenni, il cui consenso appare quanto meno assai discutibile, molto diffusi in questa regione a maggioranza musulmana.

Libia: drammatico report sulle violazioni dei diritti umani

Termometro Politico
L’Istituto di ricerca danese Dignity ha stilato un report sulle violazioni dei diritti umani in Libia. Dati drammatici quelli che riguardano le sparizioni, gli arresti, le torture, gli omicidi. Un terzo della popolazione soffre di problemi di salute mentale a causa del diffuso clima di violenza e illegalità. Sono le conseguenze del regionalismo, del tribalismo e delle faziosità esplose dopo la caduta di Gheddafi 3 anni e mezzo fa, fanno notare gli autori del rapporto.
Le violazioni dei diritti umani

L’indagine è stata condotta su un campione di 2.692 famiglie. Il 20% di queste ha accusato la scomparsa di un proprio membro, il 5% ha dichiarato che un proprio membro è invece stato ucciso. L’11% ha riferito che almeno un proprio membro è stato arrestato. Tra gli arrestati intervistati il 53,2% ha detto di essere stato torturato. Di questi il 46% ha riferito di aver subito percosse, il 20% tortura posizionale o in sospensione, il 16% di essere stato sottoposto a procedure di soffocamento. Il 3,1% degli arrestati intervistati ha raccontato di aver subito delle torture sessuali, il 4,6% con scariche elettriche. Le rilevazioni si sono concluse nell’ottobre 2013, tengono a precisare dall’osservatorio sulle violazioni dei diritti umani: la situazione potrebbe quindi essere peggiorata.

Ahlam Chemlali, uno dei principali autori del rapporto, così ha commentato i dati: “La tortura, che comprende una vasta gamma di metodi, nelle carceri viene utilizzata in modo sistematico. Il nostro sondaggio mostra che è molto diffusa tra le diverse milizie, anche tra quelle che sostengono l’attuale governo. L’uso della tortura è aumentato dopo Gheddafi, le milizie la stanno usando come una vera e propria arma nella loro lotta per il potere e il territorio. Dopo la caduta di Gheddafi, la situazione in Libia è diventata inquietante. In realtà è peggio di quando l’insurrezione era al suo picco“.
Un paese traumatizzato
La situazione di violenza generalizzata e la mancanza di istituzioni che possano far fronte al suo dilagare hanno causato gravi danni psicologici alla popolazione. Il 29% degli intervistati soffre di gravi attacchi d’ansia, il 30% di depressione, il 6% accusa la sindrome da stress post traumatico (PSTD).

“Il paese è stato traumatizzato collettivamente. Le cifre riguardanti la depressione, l’ansia e la PTSD sono molto elevati se si considera che lo studio è stato condotto prima che l’attuale conflitto giungesse al suo picco massimo – dice Morten Koch Andersen, un altro autore del rapporto – la necessità di trattamento del trauma è massiccia e aumenterà notevolmente nel tempo, la popolazione svilupperà maggiormente la PTSD, che tende ad essere insidiosa. Essa ha conseguenze non solo per l’individuo, ma anche la famiglia. Sappiamo che il trauma è contagioso ed è un peso per la famiglia e nella comunità”.

Grecia: nel Centro di detenzione per migranti di Amygdaleza condizioni di vita inumane

www.balcanicaucaso.org
Violenze, ingiurie, assenza di cure mediche, condizioni di vita inumane in baracche senza acqua o luce. È il centro di detenzione di Amygdaleza, finanziato dall'Ue per accogliere migranti clandestini e richiedenti asilo.


Mentre decine di famiglie di rifugiati siriani sono ancora accampati davanti alla sede del parlamento greco per richiedere una soluzione abitativa d'emergenza, 1000 dei 1600 migranti detenuti nel centro di detenzione di Amygdaleza stanno facendo, da sei giorni, uno sciopero della fame. Il centro è situato a 10 chilometri da Atene ed è stato oggetto di numerose critiche sia da parte di organizzazioni internazionali che della società civile greca.

[...] La profonda crisi economica, le debolezze croniche della gestione dei flussi migratori, una cultura della violenza e dell'impunità in seno alle forze dell'ordine e la più rilevante emergenza rifugiati nel paese dalla fine della Seconda guerra mondiale rendono la situazione altamente critica.

Sta inoltre per iniziare il processo ai 65 migranti che hanno preso parte agli scontri di Amygdaleza nell'agosto del 2013. Gli imputati sono accusati di gravi accuse penali. Protestavano contro la lunga durata della detenzione, per alcuni più di 25 mesi e sulle condizioni inumane a cui erano costretti.

Occorre ricordare che l'attraversamento illegale di frontiere è un'infrazione amministrativa e non un reato penale e questo dimostra il carattere arbitrario, punitivo e dissuasivo di detenzioni così lunghe. Nei centri di detenzione i migranti irregolari coabitano con i rifugiati che hanno subito la guerra e la tortura, originari di paesi come la Siria o l'Eritrea. Vi sono anche minori di meno di 15 anni, che secondo l'Unhcr non possono essere oggetto di misure detentive.
Torture e maltrattamenti
Nel centro di Amygdaleza le condizioni detentive sono deplorabili e i maltrattamenti quasi sistematici. Secondo i migranti i colpi di manganello e gli insulti fanno parte della quotidianità e affermano inoltre che alcune tra le guardie più aggressive rivendicano pubblicamente la loro appartenenza al gruppo neonazista Alba Dorata. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la morte di un giovane detenuto, Mohamad Afshaq. Quest'ultimo era un ragazzo pachistano che è morto lo scorso 6 novembre a causa di mancanza di cure. Mohamad Afshaq, asmatico, era stato ferito dalla polizia nel corso della grande rivolta che era scoppiata nel centro di detenzione di Corinto.

Secondo le accuse di chi era detenuto assieme a lui, non è stato trasferito in un ospedale se non dopo essere collassato. Peggio ancora, assicurano che, alla richiesta di aiuto medico, i poliziotti avrebbero risposto: "Muori, chi se ne fotte". Qualche giorno dopo un altro detenuto pachistano è morto per una crisi cardiaca che, sempre secondo gli altri migranti, poteva essere evitata da cure mediche adeguate.

I migranti affermano che tutte le volte che richiedono cure mediche ricevono come risposta calci ed ingiurie. Infine, quando riescono a consultare un medico, ricevono in cambio esclusivamente del paracetamolo, qualsiasi sia il loro stato di salute. Anche quest'ultimo sarebbe distribuito con parsimonia.

I detenuti sono alloggiati in container e solo la metà di queste scatole metalliche hanno acqua corrente ed elettricità. Le condizioni di igiene sono così allarmanti che i gabinetti debordano e i migranti sono obbligati a convivere con ratti e scarafaggi (da vedere su Youtube le testimonianze video di alcuni migranti poi liberati).

In un recente rapporto realizzato dopo aver visitato numerosi centri di detenzione, Medici senza frontiere ha denunciato le condizioni di detenzione che sarebbero la causa della maggioranza di malattie che colpiscono i migranti. Oltre alle malattie gastrointestinali e alla pelle, molti detenuti hanno anche gravi problemi psichici che possono condurli all'automutilazione e al suicidio.

Sabato 22 novembre i detenuti di Amygdaleza hanno momentaneamente sospeso il loro sciopero della fame, dando cinque giorni alle autorità per rispondere alle loro richieste. Le autorità hanno ceduto ad alcune di queste, nello specifico alla possibilità di parlare con dei parenti al telefono più dei cinque minuti concessi sino ad ora.

Si è inoltre promessa la restituzione dei cellulari e il miglioramento del cibo. Inoltre sono stati liberati 30 dei 180 migranti che erano detenuti da più di due anni ed hanno promesso di esaminare i 150 casi restanti. In un recente rapporto dell'Istituto ellenico per la politica europea ed estera si afferma che il centro di detenzione di Amygdaleza, finanziato da fondi europei e nazionali, non è stato solo molto costoso ma anche molto mal gestito dato che pochissimi tra i migranti che vi sono stati detenuti sono reintrati nei loro paesi d'origine.

di Ermal Bubullima

giovedì 27 novembre 2014

Venezuela - Rivolta nel carcere, decine di vittime e intossicati

MISNA
Almeno 13 morti e 145 tra feriti e intossicati: è il bilancio ufficiale di una rivolta di detenuti in un penitenziario del sud-est del Venezuela, ennesima conferma della drammaticità delle condizioni di reclusione in questo paese dell’America Latina.
Il conteggio delle vittime della rivolta, nel penitenziario di Uribana, nella regione di Lara, è stato fatto dal ministero per le Questioni carcerarie.

Stando alla ricostruzione ufficiale, molti detenuti sono stati uccisi da un cocktail di medicinali anti-ipertensivi, anti-epilettici e alcol ingerito in segno di protesta dopo aver occupato l’infermeria del carcere. Da lunedì i prigionieri erano in sciopero della fame.

Nuova bufala: "I rom attaccano tre scuole romane". Ma gli istituti smentiscono la stampa: "Non è vero. Basta con gli allarmi"

HuffingtonPost
Vandali rom che tirano pietre contro gli studenti di tre scuole romane nei pressi di Monte Mario. La notizia è apparsa questa mattina sul quotidiano "Il Messaggero" e ha messo in allarme i politici locali, contribuendo al clima di stigmatizzazione nei confronti dei residenti dei campi nomadi. Dopo una verifica con i presidi degli istituti coinvolti, però, è apparso evidente che si trattava di una bufala.

Dopo aver letto il giornale, due assessori del XIV municipio hanno deciso di fare visita alle scuole citate, ottenendo però informazioni completamente opposte: nessun agguato rom nei confronti degli alunni né una presunta insicurezza derivata dalla presenza del campo nomadi.

Pena di morte: Cities for life, Colosseo si illumina Domenica 1.900 citta' del pianeta diranno no a pena capitale

ANSA
Roma,  - Domenica 30 novembre, in occasione della Giornata internazionale Citta' per la vita promossa dalla Comunita' di sant'Egidio con il sostegno dell'Ue, oltre 1.900 citta' del pianeta si illumineranno per dire no alla pena di morte. A Roma, a risplendere sara' il Colosseo.

Il 30 novembre e' stato scelto in ricordo dell'anniversario della prima abolizione per legge della pena capitale decisa da uno Stato europeo, il Granducato di Toscana, nel 1786. Assieme alla Giornata Mondiale, che si celebra ogni 10 ottobre, e' la più' estesa mobilitazione mondiale dell'anno contro la pena capitale.
La Comunita' di Sant'Egidio e' parte attiva della "task force" italiana, impegnata all'ampliamento delle adesioni alla Risoluzione Onu sulla moratoria universale, che tra pochi giorni sara' votata a New York in sede di Assemblea Generale, dopo il recente scrutinio in Commissione che ha visto l'aumento a 114 dei paesi favorevoli, 4 in piu' rispetto a due anni fa, con un incremento positivo di 16 Paesi dal 2007, anno di esordio della Risoluzione stessa. La causa dell'abolizione della pena di morte e' stata illustrata dal presidente della 

Comunita' di Sant'Egidio al Segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, nel corso di un incontro al Palazzo di Vetro il 7 novembre scorso.
Tante le iniziative previste a Roma in questi giorni. Domani, nel carcere di Regina Coeli, testimonianza di Curtis McCarty, che ha trascorso 21 anni nel braccio della morte prima di essere riconosciuto innocente; sempre domani, nell'Aula Magna dell'Universita' La Sapienza, duemila studenti della capitale incontrano Art Laffin, familiare di una vittima e da oltre 20 anni attivista contro la pena di morte. 

Domenica 30 novembre al Colosseo, si svolgera' l'evento conclusivo che vedra' il suo culmine nella simbolica illuminazione del monumento, luogo emblematico delle esecuzioni capitali negli albori della storia.
La serata sara' condotta da Max Giusti, con la partecipazione dell'attore Mariano Rigillo che leggera' testi di lettere di condannati e brani di famose opere letterarie; la musica sarà' affidata al sassofonista Stefano Di Battista e al Coro Gospel "Seven Hills". In un collegamento radio portera' la sua adesione il calciatore Francesco Totti. 

Saranno anche proiettati video su testimonianze di storie inedite.

mercoledì 26 novembre 2014

Portada - Continúa la operación de rescate de cerca de 700 inmigrantes en Grecia

La Racon
Las autoridades griegas continúan hoy una amplia operación iniciada ayer para rescatar a cerca de 700 inmigrantes que viajan en una embarcación cerca de la costa sureste de la isla de Creta. En la noche de ayer la fragata 'Hydra' de la armada griega inició las tareas de remolque del buque que se ven dificultadas por los fuertes vientos de grado 8 en la escala Beaufort y las olas que llegan hasta los tres metros de altura.
En el rescate participan también cuatro buques mercantes y un helicóptero Super Puma de la fuerza aérea que fueron enviados a la zona para evacuar a los inmigrantes, aunque finalmente se optó por la opción de remolcar a la embarcación hasta un puerto de Creta.

De las 700 personas a bordo, que podrían proceder de Siria y Afganistán, unas 200 serían mujeres y niños y, según las primeras informaciones, todos se encontrarían en buen estado de salud.

El buque, de 77 metros de largo, lleva bandera de Kiribati, una isla del Océano Pacífico, pero se desconoce cual sería su puerto de origen.

Lo que es seguro es que su destino eran las costas de Italia, que no pudieron alcanzar cuando, a 30 millas náuticas al sureste de Creta, la embarcación sufrió un fallo mecánico y quedó a la deriva.

Las autoridades griegas prevén que el rescate finalice a mediodía cuando consigan trasladar la nave al puerto más cercano, el de Ierapetra, una pequeña localidad de Creta.

Se trata de una de las mayores llegadas de indocumentados a Grecia de los últimos tiempos.

El país heleno es una de las principales puertas de entrada de personas que quieren llegar a territorio europeo.

En septiembre pasado el Gobierno pidió el apoyo urgente de la Unión Europea para gestionar el flujo de personas que llega por vía marítima a sus costas, tras asegurar que los guardacostas del país están desbordados.

Además, la intensificación de los conflictos en Siria e Irak ha disparado la entrada de indocumentados en suelo heleno, cuyo número aumentó en agosto aproximadamente en un 400 % en comparación con el mismo mes de 2013, según datos provisionales de la Guardia Costera.

Siria, l'Isis ha lapidato due giovani gay e delle donne accusate di adulterio

La Stampa
“Atti osceni con uomini”, giustiziati un 18enne e un 20enne. Lo Stato islamico a Raqqa ha compiuto anche diverse lapidazioni di donne accusate di adulterio


Un nuovo crimine si è aggiunto oggi alla lunga lista degli orrori commessi dallo Stato islamico. Due giovani di 18 e 20 anni sono stati lapidati con l’accusa di aver avuto rapporti omosessuali, secondo una notizia diffusa dall’ong Osservatorio nazionale per i diritti umani (Ondus) che cita testimoni locali.

Secondo l’organizzazione, con base in Gran Bretagna ma che fa riferimento a una vasta rete di informatori in Siria, è la prima volta che l’Isis mette a morte delle persone con questa motivazione, dopo avere ucciso donne e uomini sulle pubbliche piazze, spesso perché riconosciuti colpevoli di furto, omicidio e adulterio.

I nomi delle due vittime non sono stati resi noti. Il ventenne è stato messo a morte a Mayadin, nella provincia orientale di Deyr az Zor, dopo che i miliziani jihadisti avevano affermato di avere trovato sul suo cellulare immagini che lo mostravano intento in «atti osceni con degli uomini». Il diciottenne, invece, è stato lapidato nella stessa città di Deyr az Zor, capoluogo della provincia, con le medesime accuse.

Lo Stato islamico ha già compiuto diverse lapidazioni di donne accusate di adulterio, specie nella provincia di Raqqa, nel nord della Siria, che è sotto il suo totale controllo. Recentemente anche due uomini erano stati messi a morte con lo stesso supplizio, sempre per adulterio: uno dall’Isis ad Al Bukamal nella stessa provincia di Deyr az Zor vicino al confine con l’Iraq; l’altro a Saraqeb, nella provincia nord-occidentale di Idlib, ad opera del Fronte al Nusra, la branca siriana di Al Qaeda.

Lo scorso 14 novembre la Commissione d’inchiesta dell’Onu sulla Siria, presieduta dal giurista brasiliano Paulo Pinheiro, ha accusato l’Isis di «crimini di guerra e crimini contro l’umanità», chiedendo che i suoi dirigenti vengano processati davanti alla Corte penale internazionale (Cpi). Tra gli episodi contestati allo Stato islamico, le decapitazioni e le lapidazioni sulle pubbliche piazze, ma anche soprusi sulle minoranze, in particolare cristiani, sciiti e curdi, e la riduzione a schiave sessuali di centinaia di donne della comunità degli Yazidi in Iraq. Secondo l’Ondus, sono state almeno 300 le donne irachene portate in Siria, con molte di loro vendute come `mogli´ per mille dollari l’una a miliziani dello Stato islamico. Ma l’ong afferma di avere potuto verificare la riduzione in schiavitù anche di almeno sei donne appartenenti alla comunità sunnita che erano mogli di soldati siriani uccisi.

ITALIA - ROMA - 30 NOVEMBRE ORE 17 AL COLOSSEO - Cities for Life 2014: Città per la Vita, per un mondo senza pena di morte


Hong Kong, arrestato il leader della protesta degli studenti Joshua Wong, 18 anni.

La Stampa
Joshua Wong, 18 anni, è finito in manette durante lo sgombero delle aree occupate. Continuano gli scontri: diversi feriti e più di 100 fermi.
Joshua Wong, leader delle proteste
studentesche a Hong Kong
A Hong Kong, la polizia ha sgomberato buona parte dell’accampamento occupato a Mong Kok dai manifestanti che chiedono maggiore democrazia e ha fermato almeno 116 persone per i disordini scoppiati dopo la rimozione delle barricate nel quartiere. Tra di loro, anche due leader delle sigle studentesche che hanno animato il movimento di disobbedienza civile di Occupy Central, Lester Shum e Joshua Wong, prelevati oggi dalla polizia mentre si trovavano a Nathan Road, nell’area di Mong Kok. 

Le barricate a Nathan Road, una via di grande scorrimento a Mong Kok, erano state erette all’inizio del movimento di protesta, cominciato il 28 settembre scorso, contro la attuale legge elettorale dell’isola che non prevede una nomina civica dei candidati per l’elezione della massima carica di Hong Kong, quella di capo esecutivo. La rimozione delle barricate nella zona di Mong Kok era cominciata martedì mattina, sotto la sorveglianza di oltre un centinaio di agenti.

Joshua Wong, leader della sigla Scholarism, che rappresenta gli studenti delle scuole superiori, era già stato fermato dalla polizia e successivamente rilasciato, nel settembre scorso, dopo le prime proteste di fronte al palazzo del governo, ad Admiralty, nel centro dell’isola di Hong Kong.

Gli ultimi arresti arrivano al termine di una notte di confronto tra manifestanti pro-democratici e forze dell’ordine a Mong Kok, l’area di Hong Kong attraversata dalle proteste più violente e dal confronto tra manifestanti e gruppi anti-Occupy nei primi giorni delle proteste. Durante gli scontri gli agenti hanno usato lo spray al pepe per disperdere la folla e venti agenti sono rimasti feriti. Martedì erano stati impiegati circa settemila agenti di polizia su due turni per fronteggiare le proteste dei manifestanti, e ci sono volute circa cinque ore per rimuovere una parte delle barricate di Argyle street e consentire l’accesso a traffico

martedì 25 novembre 2014

Papa a Strasburgo: ''Non si può tollerare che Mar Mediterraneo diventi grande cimitero''

Gazzetta di Modena
"E' necessario affrontare insieme la questione migratoria. Non si può tollerare che il Mar Mediterraneo diventi un grande cimitero!". Lo ha detto Papa Francesco, tra gli applausi, al parlamento europeo. "Sui barconi che giungono quotidianamente sulle coste europee ci sono uomini e donne che necessitano di accoglienza e di aiuto. L'assenza di un sostegno reciproco all'interno dell'unione europea rischia di incentivare soluzioni particolaristiche al problema, che non tengono conto della dignità umana degli immigrati, favorendo il lavoro schiavo e continue tensioni sociali"

Il voto all'Assemblea Onu - Pena di morte, da Mosca un no che pesa

Avvenire
Per fortuna, ogni tanto c’è un’escalation che non spegne vite ma ne salva. Ecco dunque il voto dell’Assemblea Generale dell’Onu con cui, l’altra notte, 114 Stati su 193 hanno detto 'sì' alla moratoria totale della pena di morte. 

È un crescendo di consapevolezza: 94 Stati membri hanno sponsorizzato la mozione, il numero più alto nella storia della mobilitazione; nel 2007, quando per la prima volta una mozione analoga era passata all’Assemblea, i voti a favore erano stati 103, e due anni fa 111. Per non dire che nel 1945, quando l’Onu fu fondata, solo 8 Stati, dei 51 che allora erano membri, avevano abolito la pena di morte.

L’ultimo scatto, da 111 a 114, è stato compiuto con le adesioni di Eritrea, Fiji, Niger e Suriname e il dietrofront della Papua Nuova Guinea. Ma nella conta entra anche il fatto che per la prima volta la Russia, uno dei cinque Paesi che hanno un posto fisso nel Consiglio di Sicurezza, ha aderito alla proposta. Il Cremlino ha sospeso fin dal 1996, per iniziativa di Boris Eltsin, l’applicazione della pena capitale. E forse, oggi, alla Russia può tornar utile porgere al mondo anche una guancia benevola, visto che quella dura è già piuttosto nota.
Resta però che un Paese per tradizione diffidente dei trattati collettivi, e non incline al sentimento, ha deciso di aggregarsi a un movimento che guadagna di anno in anno velocità. Speriamo serva da traino anche a Cina e Stati Uniti, sordastri quando sentono parlare di pena capitale e diritto internazionale.

Se la moratoria totale è ora un esito possibile, parte non piccola del merito spetta all’Italia. È indiscutibile che negli ultimi vent’anni tutti i nostri governi, quale più quale meno, abbiano dato un contributo. In Italia, inoltre, si è sviluppata quella collaborazione tra governo, Ong e associazioni umanitarie (come Sant’Egidio o Nessuno tocchi Caino, esempi che citiamo sapendo di lasciarne fuori altri meritevoli) che è ormai un piccolo ma efficace soft power. 

Fino alla recente creazione di una task force per promuovere la campagna contro la pena capitale da parte dell’ex ministro degli Esteri Mogherini. Che ora, come commissario alle politiche internazionali della Ue nella fase finale del semestre di presidenza dell’Italia, potrà sfruttare una ribalta ancora più vasta e significativa.

34enne si suicida nel carcere di Sollicciano. E' il 41esino suicidio in carcere del 2014. Sono 552 degli ultimi 10 anni

Blog Diritti Umani
Un detenuto di 34 anni, si è tolto la vita sabato 22 novembre nel carcere di Sollicciano a Firenze. E' il terzo caso in questo penitenziario del 2014
E' il 41esimo detenuto che si suicida nelle carceri italiane nel 2014. 
Se si prendono in esame gli ultimi 10 anno i detenuti che si sono tolti la vita in carcere sono 552. E' un dato preoccupante.

Il tasso di suicidi in carcere è 20 volte maggiore del tasso di suicidi nella società "libera"

E' un dato che racconta bene e segnala lo stato di disagio che vivono i detenuti.

lunedì 24 novembre 2014

Mauritania: arresti, torture per chi lotta per la libertà degli schiavi

La Repubblica
La testimonianza di Jcoub Diarra, militante dell'Ira, Initiative de Resurgence du mouvement Abolitionniste, che lotta contro lo stato di oppressione del regime di Mohamed Ould Abdel Aziznel nel Paese Gli schiavi sono haratin, il gruppo etnico che rappresenta il 40 per cento della popolazione, hanno la pelle nera e subiscono ogni forma di sopruso fisico e psicologico.

"Quello che sta accadendo in questi giorni in Mauritania è molto grave". La preoccupazione traspare da ogni parola di Jcoub Diarra, militante dell'Ira, Initiative de Resurgence du mouvement Abolitionniste, che lotta contro la schiavitù nel Paese.

L'11 novembre scorso, nove attivisti del gruppo, tra cui il presidente Biram Ould Dah Ould Abeid, sono stati arrestati dalla polizia governativa senza un'accusa specifica e per giorni e giorni di loro non si sono avute notizie certe. Secondo le uniche informazioni, alcuni di loro sono stati torturati e ora sono in cattive condizioni di salute, ma le cure mediche sarebbero state negate.

Incatenati e torturati. "So cosa sta succedendo - racconta Jacoub - perché ci sono passato. Nel 2012 anche io sono stato arrestato, portato in prigione e massacrato di botte, ma i poliziotti non si limitano a questo. I prigionieri politici come noi vengono legati con delle catene strette ai polsi e alle caviglie e vengono torturati con l'acqua fredda e le scosse elettriche. È bruttissimo sapere che i miei amici stanno subendo questo ora".

Jacoub è stato il braccio destro del presidente dell'Ira Biram, un uomo ormai noto a livello internazionale per la sua lotta contro la schiavitù in Mauritania, tanto che nel 2013 ha ricevuto il Premio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite. Ora si trova in uno dei centri di detenzione di Rosso, circa 220 km dalla capitale Nouakchott, insieme a Brahim Bilam Ramdhane, vicepresidente dell'Ira e proprio ieri è riuscito a trasmettere un messaggio fuori dalla prigione.

Gli altri prigionieri. Degli altri, invece, non si è saputo niente fino a giovedì. Inizialmente, gli agenti del commissariato locale non hanno rivelato la destinazione degli altri arrestati, nonostante le richieste delle famiglie, preoccupate anche per lo stato di salute di un membro dello staff, che ha bisogno di iniezioni giornaliere. Poi le pressioni dalla comunità hanno spinto il commissario a comunicare il luogo di prigionia. L'ultima ad essere stata arrestata è la portavoce dell'Ira Mariem Cheikh, prelevata con la forza dagli uffici e portata nella prigione femminile di Nouakchott dove è stata incatenata e ha subito violenze fisiche molto dure. "Non ci permettono di vederli - hanno detto alcuni parenti dei detenuti - e non ci dicono nulla, anche se sappiamo che alcuni di loro stanno male. Chissà se e quando li rilasceranno".

La schiavitù del XXI secolo. In Mauritania ci sono circa 700mila persone costrette a vivere alle dipendenze di un padrone ed è un numero enorme, soprattutto se si considera che il Paese ha poco meno di 3 milioni e mezzo di abitanti.

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di Bianca Senatore

Pena di morte, verso l’abolizione totale. Sant’Egidio: «Non c’è giustizia senza vita»

Corriere della Sera
New York – Lo scorso 21 novembre la vasta maggioranza dei paesi del mondo ha dato l’appoggio alla risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per istituire una moratoria sulle esecuzioni in vista dell’abolizione globale della pena di morte: 114 dei 193 stati membri hanno votato a favore della risoluzione, che verrà esaminata a dicembre dall’Assemblea Generale in sessione plenaria per la definitiva approvazione.
Per Chiara Sangiorgio, facente parte del Segretariato Internazionale di Amnesty International in qualità di esperta sulla pena di morte, non ci sono dubbi: «Il voto conferma che un numero sempre maggiore di paesi concorda sul fatto che la pena di morte è una violazione dei diritti umani che deve cessare. Il voto trasmette inoltre un messaggio chiaro alla minoranza dei paesi che ancora usa la pena capitale: siete sul lato sbagliato della storia».

Le fa eco Marco Impagliazzo, della Comunità di Sant’Egidio che saluta con grande soddisfazione il nuovo passo in avanti sperando che questo sia decisivo nel cammino verso l’abolizione della pena di morte. «L’Italia è da sempre in prima fila nella battaglia – commenta Impagliazzo – e vedo una nota positiva nella presenza, tra i nuovi Paesi che aderiscono per la prima volta alla moratoria, della Russia, membro permanente del Consiglio di Sicurezza, che non applica più la pena capitale fin dagli anni Novanta nonché l’adesione di paesi africani e asiatici. La Comunità di Sant’Egidio conduce da anni un’intensa opera di sensibilizzazione sui temi del rispetto dei diritti e della umanità della pena e oggi, con ancora più decisione, possiamo dire che non c’è giustizia senza vita».

Il voto espresso nel Terzo Comitato dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, che si occupa di temi sociali, umanitari e relativi ai diritti umani è un importante indicatore di ciò che accadrà a dicembre, quando si attende che la risoluzione sia approvata in sessione plenaria. Seppur non vincolanti dal punto di vista legale, le risoluzioni dell’Assemblea Generale hanno un peso morale e politico considerevole con cui i grandi del Pianeta Terra devono fare i conti.
di Alessandro Barba 

Myanmar ruohingya, dall’Indonesia un aiuto interreligioso per la fine dei conflitti

MISNA
Al Forum mondiale della pace, che si è tenuto a Jakarta da 20 al 23 novembre, la più grande organizzazione musulmana dell’Indonesia, il Nahdlatul Ulama, in collaborazione con il Consiglio degli ulema indonesiano e il Consiglio delle Comunità buddista, Walubi, ha deciso di inviare a dicembre una delegazione in Myanmar per avviare un dialogo con i monaci buddisti dello Stato di Rakhine in merito ai conflitti con la minoranza locale dei Rohingya.
“Sono d’accordo con le Nazioni Unite che hanno affermato che il conflitto in Myanmar potrebbe essere risolto permettendo la comunità musulmana e la comunità buddista di incontrarsi e di parlare. Questo non è solo un problema per il Myanmar ma è anche una nostra preoccupazione” ha detto ai media Slamet Effendy Yusuf, presidente del Nahdlatul Ulama.

Suhadi Sendjaja, rappresentante buddista di Walubi, ha detto di sperare che attraverso la visita la gente del Myanmar impari dall’Indonesia. “Qui, il numero dei musulmani è grande mentre i buddisti sono pochi ma sono sicuri. In Myanmar accade il contrario” ha detto Sendjaja, aggiungendo che essi non spingeranno per una riconciliazione. “Noi spiegheremo solo la nostra situazione in Indonesia, nella speranza di ridurre i conflitti” ha precisato Sendjaja.

Una risoluzione approvata la scorsa settimana dal comitato dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite in materia di diritti umani ha accolto con favore le misure positive presenti nelle riforme politiche ed economiche del Myanmar, ma ha ribadito una serie di preoccupazioni circa la violenza e le altre discriminazioni contro la minoranza musulmana dei Rohingya. I pregiudizi contro i Rohingya sono diffusi e gli esponenti di questo gruppo spesso non hanno diritto alla cittadinanza.

Pena di morte, in Texas giudice rifiuta il rinvio dell’esecuzione per un malato di mente Scott Panetti

La Stampa
L’uomo condannato per aver ucciso i genitori e l’ex compagna. Da 30 anni soffre di schizofrenia. Per lui si erano mossi psichiatri, ex togati, pubblici ministeri, pastori evangelici e vescovi. Per la sua difesa aveva chiesto di convocare in aula il Papa, Gesù Cristo e John F. Kennedy

Un giudice del Texas si è rifiutato il 20 novembre di rinviare l’esecuzione di un condannato a morte affetto da disturbi mentali, nonostante numerosi appelli contro l’esecuzione, prevista per il prossimo tre dicembre con un’iniezione letale.

Scott Panetti, questo il nome del condannato, che da 30 anni soffre di schizofrenia, aveva ottenuto il sostegno di diverse organizzazioni specializzate nella salute mentale - come l’associazione degli psichiatri americani - ma anche di ex giudici, pubblici ministeri, pastori evangelici e vescovi.

Anche l’Unione europea aveva scritto al governatore del Texas, Rick Perry, per chiedere clemenza perché «l’esecuzione di persone malate di mente è in contrasto con i criteri ampiamente riconosciuti dei diritti umani», secondo la normativa internazionale e la Costituzione americana.

Ma in un documento di una pagina, il giudice distrettuale Keith Williams si è rifiutato di rinviare l’esecuzione, come avevano chiesto gli avvocati di Panetti per eseguire una perizia psichiatrica e determinare se il loro assistito è penalmente responsabile.

Panetti, che è stato condannato a morte nel 1995 per l’omicidio dei genitori della sua ex compagna, è stato ricoverato una decina di volte per allucinazioni ed episodi psicotici. Al processo, l’uomo si era presentato in abiti da cowboy e aveva chiamato come testimoni il Papa, John F. Kennedy e Gesù Crist
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domenica 23 novembre 2014

Tor Sapienza, viaggio dentro il centro di accoglienza. "Quando hanno sentito le bombe carta si sono paralizzati"

SKY TG24
Sky TG24 è entrata nella struttura che ospita i migranti nel quartiere romano dove la scorsa settimana è scoppiata la protesta dei residenti. "Siamo qui per fuggire dalla guerra e dalla povertà" raccontano gli ospiti, "non vogliamo fare ribellioni"
Le telecamere di Sky TG24 entrano nel centro richiedenti asilo di Tor Sapienza, dove qualche giorno fa i residenti del quartiere hanno dato vita a tafferugli con la polizia e lancio di bombe carta. Nella struttura vivono molti rifugiati, arrivati in Italia da zone di guerra. "Quando hanno sentito le bombe carta si sono paralizzati" racconta uno degli ospiti del centro, spiegando come chi viene da zone di guerra si porta dietro ferite e reazioni profonde.

Nella struttura rifugiati da guerra e povertà - Nella struttura vivono persone fuggite da miserie e guerra. Qui si svolgono anche le attività della cooperativa che si occupa di loro, attraverso il lavoro sanitario, formativo, di orientamento al lavoro. O dove semplicemente si insegna l'italiano. "Non siamo venuti qui per creare ribellione - spiega un'ospite del centro - siamo qui per cercare aiuto", mentre un altro rifugiato, scappato dall'Etiopia per motivi politici, racconta del suo sogno di frequentare l'università. "Siamo venuti dal Mali per salvarci dalla povertà e dalla guerra - conclude un altro - ora siamo dispiaciuti, non ci aspettavamo questo finale".

USA: detenuto saudita di Guantánamo scarcerato, restano ancora 142 prigionieri

Ansa
Un detenuto saudita che ha trascorso gli ultimi 12 anni nel supercarcere della base militare americana di Guantánamo è stato scarcerato mentre gli Usa continuano con i tentativi per ridurre la popolazione carceraria con l'obiettivo finale di far chiudere la prigione. 

Il Pentagono riferisce che Muhammad al-Zahrani è stato trasferito in patria, dove seguirà un programma di riabilitazione, dopo le conclusioni di una commissione che sta valutando se sia ancora necessario tenere alcuni detenuti.

È il 13esimo prigioniero scarcerato da Guantánamo quest'anno. Fino al 3 ottobre scorso al-Zahrani era considerato un "grande rischio" per il popolo americano. Ma il comitato di revisione, composto da sei agenzie governative, tra cui il Dipartimento di Stato e il Pentagono, ha detto che l'uomo sospettato di essere un membro attivo di al-Qaida non è più una minaccia per gli Stati Uniti. 

A Guantánamo rimangono ancora 142 prigionieri e il Pentagono ha annunciato che altre scarcerazioni sono previste nelle prossime settimane.

RDCongo- Human Rights Watch denuncia esecuzioni sommarie ad opera della polizia

EuroNews
Esecuzioni sommarie e sparizioni forzate: è l’accusa di Human Rights Watch nei confronti della polizia della Repubblica Democratica del Congo. I fatti risalgono a un periodo compreso tra novembre del 2013 e febbraio di quest’anno a Kinshasa, quando agenti in uniforme, in gran parte a viso coperto, hanno arrestato presunti membri del gruppo criminale Kuluna. Cinquantuno i morti e 33 gli scomparsi.

Isa Sawyer, Hrw: “Sono andati di quartiere in quartiere, cercando presunti kuluna, spesso non effettuavano indagini per stabilire chi fosse davvero un kuluna. Persone che non avevano nulla a che vedere con questo fenomeno sono state colpite. In alcuni casi hanno trascinato via dalle loro case giovani uomini e ragazzi, spesso picchiandoli e umiliandoli di fronte ai loro familiari e ai loro vicini. Alcuni sono stati uccisi con colpi d’arma da fuoco”.

Human Rights Watch ha raccolto le testimonianze di circa 100 persone: agenti, funzionari del governo e familiari delle vittime. Questi ultimi hanno scritto al governo esigendo informazioni sui giovani scomparsi e sui luoghi di sepoltura di quelli uccisi. “Si sono portati via mio figlio. Da allora è passato più o meno un anno. E continuo a non avere informazioni sulla sua sorte”.

A ottobre anche le Nazioni Unite hanno denunciato esecuzioni e sparizioni, subito dopo il governo congolese ha espulso il responsabile Onu per i diritti umani. Mentre un giudice che aveva cercato di avviare un’inchiesta contro un capo della polizia è stato costretto ad abbandonare il caso.

sabato 22 novembre 2014

Siria, sei piccoli rifugiati si raccontano: "Sono due anni che non vado a scuola, ..."

HuffingtonPost
Hanno tra i 12 e i 14 anni, eppure a sentirli parlare sembrano degli adulti. Nei loro occhi ci sono ancora tracce della paura che hanno provato scappando dalla loro Siria, e nei sorrisi stanchi e malinconici c’è la consapevolezza di chi sa di essere stato fortunato, malgrado il pavimento di fango sotto i piedi e la totale assenza di amici. Le storie di Bisan, Nagham, Abdul e Ibrahim – e di tutti gli altri minori scampati al massacro siriano – sono storie che tutti dovrebbero ascoltare, a cominciare dagli studenti nelle scuole.

Oggi, mentre il mondo celebra il 25esimo anniversario della Convenzione sui diritti dell`infanzia e dell`adolescenza, il conflitto in Siria è arrivato al giorno numero 1.346. Per 1.346 giorni, milioni di bambini siriani hanno sofferto in silenzio – e continuano a farlo. Secondo i dati di Save the Children, almeno 1,6 bambini sono scappati dal conflitto, diventando rifugiati nei paesi vicini, mentre più di 5 milioni hanno bisogno di assistenza umanitaria in Siria.

Nagham, 14 anni, rifugiata in Giordania
“Come mi sento? Mi sento lontana da casa. Volevo studiare letteratura inglese o legge. Ma non è successo, non sono riuscita a terminare i miei studi. Non ho amici qui in Giordania”.

Reda, 14 anni, rifugiato in Libano
“Avevo una rosa di Damasco nel nostro giardino: Ma sono fuggito quando hanno distrutto la casa, e non so se la mia rosa sia sopravvissuta […]. Qui siamo nove persone e viviamo in una tenda. Il pavimento è fatto di fango, e il tetto di nylon e sacchi […]. I miei sogni? Sentirmi sicuro come prima”.

Ibrahim, 14 anni, rifugiato in Giordania
“Sono due anni che non vado a scuola, da quando tutto è cominciato in Siria. Qui almeno è sicuro… lì non avevamo più nulla da mangiare. Ora devo proteggere il mio fratellino piccolo, lo amo così tanto”.

Abdul, 14 anni, rifugiato il Libano
“Ogni sera, prima di addormentarmi, penso a cosa ne sarà di noi”.

Bisan, 12 anni, rifugiata in Giordania
“In un bombardamento sono rimasta ferita… Ho avuto paura di perdere la gamba. Ora siamo diventati nomadi, non abbiamo un posto in cui andare”.

Spose bambine - III Commissione ONU per i Diritti Umani: eliminazione dei matrimoni precoci

OnuItalia
New York – La Terza Commissione dell’Assemblea Generale, quella che si occupa di diritti umani, ha approvato per consenso una risoluzione per l’eliminazione dei matrimoni precoci e forzati. Una causa sostenuta con forza negli anni scopersi dal’Italia che, in un comunicato della Farnesina, ha espresso oggi soddisfazione per l’esito del voto.

Il Governo italiano è stato tra i promotori della risoluzione, che è stata sostenuta da 118 co-sponsorizzazioni e affronta per la prima volta nella sostanza il problema dei matrimoni precoci e forzati, prassi che viola i diritti di milioni di minori, per lo più bambine. L’adozione del documento in Assemblea Generale è prevista a dicembre. Un anno fa, con 106 co-sponsorizzazioni, era stata approvata dall’Assemblea una risoluzione procedurale sullo stesso argomento.

L’Italia riafferma così il suo tradizionale impegno in favore dei diritti delle donne e dei fanciulli, testimoniato anche dalla campagna contro le mutilazioni genitali femminili, si legge nel comunicato della Farnesina.

ONU: Confermata la moratoria internazionale della pena di morte. Aumenta il "trend" abolizionista nel mondo

OnuItalia
New York – L’Unione Europea ha dato il benvenuto all’adozione della moratoria della pena di morte da parte della Terza Commissione dell’assemblea Generale dell’Onu. E’ la quarta volta che questa importante risoluzione viene approvata dal 2007, osserva la Ue in un comunicato, sottolineando con soddisfazione “il vasto sostegno” ricevuto con un aumento dei “si” a 114 e un impegno transregionale di ben 95 co-sponsor.

Per l’Europa- si afferma nel comunicato della delegazione europea alle Nazioni Unite – la convinzione che la pena capitale deve essere abolita e’ al centro dell’agenda dei diritti umani: “Siamo pertanto felici che il trend di allontanamento dalla pena di morte continui”. Sono infatti calati i “no”: 36 quest’anno contro i 41 del 2012. Stabili a quota 34 gli astenuti.

Il voto ha confermato il trend che ha visto crescere progressivamente il consenso su raccomandazioni che, pur non avendo valore vincolante, hanno forte peso morale. Alche anche le co-sposorizzazioni: 95 in tutto. Sono saliti a bordo all’ultimo momento Russia, Nicaragua e Turkmenistan.

La risoluzione viene messa ai voti ogni due anni: la ratifica dell’Aula e’ attesa a dicembre. Per la delegazione italiana e europea l’obiettivo era di consolidare il risultato del 2012 con tutte le difficolta’ del caso: negli ultimi due anni alcuni paesi astensionisti o con moratorie di fatto avevano segnalato l’intenzione di ridare lavoro al boia.

E’ stato invece un successo ottenuto grazie a un approccio “flessibile e inclusivo” (come ha riconosciuto nelle dichiarazioni di voto, tra gli altri il rappresentante del Benin) e che ha permesso di portare a casa, nel testo negoziato, alcuni passi avanti importanti rispetto alla risoluzione del 2012: c’e’ una maggiore attenzione ai disabili “mentali e intellettuali”, un paragrafo sui diritti consolari (“ricevere informazioni sull’assistenza consolare nell’ambito di un contesto di azione legale”) e un invito agli Stati membri di fornire all’Onu dati “disaggregati sulle esecuzioni” anche se ogni menzione esplicita a quali tipo di disaggregazione (sesso, eta’, etc) e’ stato eliminato in fase di negoziato.

venerdì 21 novembre 2014

Usa, testimone mentì: 57enne libero dopo 39 anni di carcere da innocente. Triste primato nella storia degli USA

TGCom24
Ricky Jackson era stato ingiustamente condannato per omicidio. Gli fu inflitta la pena di morte, sentenza trasformata poi in ergastolo
Ha trascorso 39 anni dietro le sbarre, ma era innocente: Ricky Jackson, un afroamericano di 57 anni, è stato scagionato dopo aver passato buona parte della sua vita in prigione per un omicidio che non ha mai commesso. La condanna che gli era stata inizialmente inflitta era addirittura la pena di morte, ma poi la sentenza venne trasformata in ergastolo, perché il suo Stato, l'Ohio, sospese le esecuzioni.
L'uomo è stato scagionato perché Eddie Vernon, il testimone che lo aveva incastrato, ha confessato di aver mentito, spiegando alle autorità che in realtà non aveva assistito all'omicidio. Nel momento dell'assassinio, infatti, era lontano, a bordo di uno scuolabus, come confermato successivamente da altri testimoni.

Così per Jackson, nei cui confronti non c'erano altre prove, si apriranno finalmente le porte della prigione in cui è entrato quando aveva solo 18 anni. E ne uscirà con un triste primato: sarà infatti il detenuto innocente rimasto in carcere più a lungo nella storia dell'America.

giovedì 20 novembre 2014

L’UNHCR ha iniziato il trasferimento in Etiopia di 15.000 rifugiati del Sud Sudan

AGENPARL
Roma, Il 17 novembre, con un primo gruppo di 125 rifugiati, l’UNHCR ha iniziato il trasferimento via mare di circa 15.000 rifugiati del Sud Sudan dalla stazione di Matar in Etiopia orientale. Il loro arrivo al campo rifugiati di Pugnido, distante circa 300 km, è previsto nel pomeriggio di martedì.

Altri 29 rifugiati con bisogni particolari, tra cui persone non vedenti, donne incinte, madri che allattano e anziani che non possono viaggiare sulle imbarcazioni, verranno trasferite con un elicottero noleggiato dall’UNHCR.

I rifugiati sono rimasti bloccati in una stazione di passaggio vicina al confine con il Sud Sudan dopo che il campo di Nip Nip, dove si stavano dirigendo inizialmente, si è inondato di colpo a causa delle violenti piogge stagionali e dello straripamento del fiume Baro nell’agosto di quest’anno. Il campo rifugiati di Pugnido ospita già quasi 45.000 persone, la maggior parte provenienti dal Sud Sudan.

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Dallo scoppio del conflitto in Sud Sudan, a metà dicembre 2013, oltre 191.000 rifugiati sudsudanesi hanno cercato rifugio nella regione di Gambella in Etiopia. Circa 100 rifugiati al giorno, provenienti dagli stati sudsudanesi di Upper Nile e Jonglei, continuano ad entrare in Etiopia, principalmente attraverso la frontiera di Burbiey. 

Come motivi della fuga, i nuovi arrivati citano l’instabilità, dovuta anche agli sporadici scontri tra fazioni rivali, e la mancanza di sicurezza alimentare. Una risposta multi-agenzia guidata dal governo dell’Etiopia e dall’UNHCR sta fornendo protezione e assistenza a quei rifugiati. Con oltre 600.000 rifugiati nel proprio territorio, l’Etiopia ha superato il Kenya, ed è al momento il paese africano che ospita più rifugiati.