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sabato 31 agosto 2013

Israele si "sbarazza" dei migranti deportandoli in Uganda

AsiaNews
L'accordo fra i due Stati è stato firmato nei giorni scorsi. Kampala ospiterà i rifugiati eritrei e sudanesi emigrati in Israele in cambio di aiuti economici e militari. Associazioni per i diritti umani accusano il governo di promuovere una tratta degli schiavi.
Gerusalemme - Il governo israeliano ha firmato un accordo con il presidente ugandese Yoweri Museveni per deportare oltre 50mila clandestini eritrei e sudanesi in Uganda. "In cambio dell'ospitalità" Israele offrirà al governo di Kampala fondi per l'agricoltura, l'istruzione e la modernizzazione dell'esercito.

Lo scorso 28 agosto Gideon Sa'ar, ministro degli Interni israeliano, ha rivelato che la campagna di deportazione su larga scala inizierà nei prossimi mesi. In un primo momento le forze dell'ordine coordinate dal personale del ministero cercheranno di convincere i migranti a lasciare il Paese in modo volontario, ma passati alcuni mesi si procederà all'espulsione non solo per i clandestini, ma anche per quei rifugiati in possesso del permesso di soggiorno.

L'accordo con l'Uganda è stato ratificato da Yehuda Weinstein, procuratore generale di Israele. Per frenare le accuse di violazioni di diritti umani, mosse da diverse associazioni, egli ha diffuso un comunicato in cui spiega che "non vi è alcun ostacolo giuridico all'azione del governo". Per il procuratore, l'Uganda è fra i pochi Paesi africani che proteggono gli interessi delle popolazioni interessate e ha firmato il Trattato sui rifugiati.

La notizia ha scatenato critiche da parte delle più importanti organizzazioni per i diritti umani presenti in Israele. Un comunicato congiunto dell'Associazione per i diritti civili in Israele, la Hotline per i lavoratori migranti, Assaf, Amnesty International e KavLaOved, accusa il governo di voler "vendere degli esseri umani" richiedenti asilo a uno Stato terzo. "Per anni - afferma il testo - il ministero degli Interni ha parlato di questo accordo. L'Uganda è stato il primo che ha accettato in cambio di armi e denaro. Tuttavia il Paese africano non fornisce sufficienti garanzie sul rispetto dei diritti dei rifugiati". Per le associazioni essi rischiano di vivere in condizioni di schiavitù o di essere rimpatriati nei loro Paesi di origine, nonostante la richiesta di asilo.

India – Petizione per il rilascio di sette cristiani innocenti, in carcere in Orissa

Agenzia Fides
Bhubaneswar – Nella grave ingiustizia subita dai cristiani dell’Orissa – a cinque anni dai pogrom contro i fedeli del distretto di Kandhamal, con violenze e omicidi per la maggior parte impuniti – vi è anche il caso di sette fedeli cristiani, accusati ingiustamente di essere responsabili dell’omicidio di Laxmanananda Saraswati, religioso e leader politico indù, ucciso nel 2008. 

Fu questo l’episodio che scatenò, con una reazione pretestuosa, la violenza contro i cristiani, che fece 38 morti accertati e 54mila sfollati. Anche se successivamente furono i guerriglieri maoisti a rivendicare l’assassinio, i sette cristiani sono tuttora in carcere da cinque anni, senza processo, e la polizia rifiuta di rilasciarli.

Come appreso dall’Agenzia Fides, la Chiesa indiana e alcune organizzazioni internazionali si sono attivate per sollevare il caso e chiedere a gran voce la liberazione. 

Una petizione è stata presentata dall'organizzazione “International Christian Concern”, con sede a Washington (USA), indirizzata al governo indiano e all'ambasciatore dell'India negli Stati Uniti. 

L’appello ricorda che anche uno dei tribunali che ha istruito processi per le violenze del 2008 ha parlato di “insufficienza di prove” a carico dei sette, arrestati come “capri espiatorii”. I sette innocenti hanno mogli e figli, lasciati ingiustamente soli da cinque anni. 

Stigmatizzando “il pregiudizio settario e la discriminazione religiosa”, la petizione ribadisce che “una loro rapida liberazione darà al mondo un segnale che l'India applica lo stato di diritto e la promozione della libertà religiosa per tutti i suoi cittadini”.


Intervenendo sul tema della giustizia per le vittime, il Segretario generale dell’associazione ecumenica “All India Christian Council” (AICC), Digvijaya Singh, ha chiesto ufficialmente una indagine della NIA (Agenzia Investigativa Nazionale) sulle violenze anticristiane di massa avvenute in Kandhamal. 

In una nota inviata a Fides, il Segretario definisce preoccupante “il livello di infiltrazione delle forze estremiste nella polizia, nella magistratura, nelle amministrazioni civili”, che è la ragione dell’impunità. Una dettagliata ricostruzione dei massacri e una aperta denuncia delle ingiustizie perpetrate sono contenute in un libro-inchiesta del giornalista cattolico indiano Anto Akkara, edito in occasione del 5° anniversario dei massacri, e intitolato “Kandhamal craves for Justice”. (PA)

Stati Uniti: due detenuti di Guantánamo consegnati al governo dell'Algeria

www.atlasweb.it
Il governo degli Stati Uniti ha riferito di aver consegnato ieri due detenuti del centro di detenzione di Guantánamo Bay (Cuba) al governo dell'Algeria, una mossa che rientra nei suoi sforzi per chiudere il controverso carcere.

Il Pentagono ha confermato il trasferimento di Nabil Said Hadjarab e Mutia Sadiq Ahmad Sayab, portando il numero dei detenuti nella prigione a 164. Il rilascio di 84 di questi è stato deciso da anni. L'amministrazione Obama ha annunciato i suoi piani per rimpatriare i due prigionieri in Algeria lo scorso mese, riattivando il trasferimento di detenuti per la prima volta in quasi un anno. Non è chiaro quanto tempo i due uomini siano stati detenuti dagli Usa.

Il Pentagono ha detto che la decisione di rilasciare i due uomini fa parte di una revisione globale dei gruppi di lavoro inter-agenzie. "Come risultato di questa studio, che ha analizzato una serie di fattori, tra cui aspetti di sicurezza, con il consenso dei sei dipartimenti e organismi che compongono i gruppi di lavoro, è stata approvata la consegna di questi uomini", ha informato il Pentagono tramite un comunicato.

Obama ha promesso di chiudere la prigione, che ha ospitato decine di prigionieri - la maggior parte dei quali senza imputazioni - per oltre un decennio. Tuttavia, i processi vengono rinviati per anni. Durante la campagna elettorale del 2008, Obama ha promesso di chiudere le installazioni, citando i danni che queste hanno causato alla reputazione degli Stati Uniti in tutto il mondo, ma finora, nei suoi quattro anni e mezzo di mandato, non è riuscito a farlo, in parte per la resistenza del congresso.

La prigione è stata creata sotto George W. Bush dopo gli attacchi del 11 settembre 2011 contro gli Stati Uniti per ospitare i sospetti terroristi. Uno sciopero della fame della maggioranza dei detenuti - e la quotidiana alimentazione forzata di decine di essi - ha fatto aumentare il numero di richieste per la sua chiusura. Lo scorso mese un gruppo di parlamentari ha criticato i suoi costi, circa 2,7 milioni di dollari per prigioniero l'anno contro i 70 mila dollari per detenuto delle prigioni federali di massima sicurezza.

Taranto: detenuto di 29 anni si impicca in cella mentre i compagni sono all'ora d'aria

Ansa
Un detenuto georgiano di 29 anni, Shota Suladze, si è suicidato nel carcere di Taranto. Ne dà notizia il Coordinamento sindacale penitenziario (Coosp) che spiega che il suicidio è avvenuto mentre gli altri detenuti erano fuori per l'ora d'aria.

L'uomo era detenuto per reati contro il patrimonio e la persona. Il Coosp, che torna a denunciare la grave situazione di sovraffollamento delle carceri, afferma che nei giorni scorsi sono avvenute aggressioni ai danni di due poliziotti penitenziari nel carcere di Lucera e di otto poliziotti nel penitenziario di Bari.

venerdì 30 agosto 2013

Infanzia negata - Bolivia, orrore nascosto: migliaia di bimbi in cella

Avvenire
«La cassa di Leonardito si notava subito, perché era la più piccola». Porta l’immagine dei funerali scolpita nella mente Roberto Simoncelli, coordinatore di Progetto Mondo Missionari laici America Latina (Mlal) in Bolivia. Trentatré feretri uguali contenenti i resti dei prigionieri morti nella rissa esplosa lo scorso fine settimana nel carcere di Palmasola, a Santa Cruz. A chiudere la fila, una “bara in miniatura”: quella di un bambino di un anno e mezzo.

Tanti ne aveva Leonardito, una delle migliaia di piccoli reclusi negli istituti penali del Paese andino. In cui i minori rappresentano almeno il 10 per cento della popolazione carceraria. Secondo le stime preliminari dell’amministrazione penitenziaria, i “baby carcerati” sono oltre 2.100. Un registro preciso, però, non esiste. Per fonti umanitarie, dunque, sarebbero molti di più. Un caso unico al mondo. Che l’assassinio di Leonardito – massacrato insieme al padre durante uno scontro fra detenuti per il controllo dell’istituto penale – ha catapultato sulla ribalta internazionale. 


Eppure non è la prima volta che i minori vengono uccisi o seviziati nelle prigioni boliviane. Appena due mesi fa, ha suscitato scalpore il caso di una ragazzina di 12 anni, rinchiusa insieme alla madre a San Pedro, nella capitale, rimasta incinta dopo ripetute violenze da parte di altri detenuti. Un dramma prevedibile dato che i minori condividono gli stessi spazi, malsani e sovraffollati, degli adulti. In quell'occasione anche l’ufficio dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani ha espresso preoccupazione per quest’infanzia invisibile, condannata senza processo a crescere dietro le sbarre. «È una conseguenza dell’inattività dei servizi sociali. Non esiste un sistema che si preoccupi di trovare famiglie sostitutive per i figli dei prigionieri. I genitori, non sapendo a chi affidarli, li tengono con loro, ben oltre i sei anni consentiti dalla legge», spiega ad Avvenire Simoncelli.

A questo si aggiungono i bimbi nati in cella. E quelli “portati” dai familiari. Gli stessi parenti, cioè, non potendo mantenerli, accompagnano i ragazzini in visita ai genitori reclusi e li lasciano là. Del resto, in Bolivia, come in buona parte dell’America Latina, il controllo statale sulle prigioni è blando, quando non assente. A comandare sono gruppi di detenuti affiliati alle mafie: sono questi a “garantire” vitto e alloggio. Oltre a gestire ogni genere di traffico illegale. «I detenuti devono pagare per tutto, perfino per avere una cella», continua il coordinatore. Sono sempre le gang a decidere se e a quali condizioni i bambini possono restare. In genere, i familiari devono pagare “un’assicurazione sulla vita” di mille dollari, più un “affitto” mensile, che va dai 100 ai 750 dollari. Le prigioni sono in pratica un grande giro d’affari per la criminalità, ma anche per poliziotti e giudici corrotti: nella sola Palmasola, il traffico di droga rende 450mila dollari al mese.

Non esistono, inoltre, strutture apposite per i prigionieri minorenni, come prevede la legge. A parte il Centro Qalauma di El Alto-La Paz, terminato un anno fa dal Mlal, dopo un decennio di difficoltà, grazie al prezioso contributo della Conferenza episcopale italiana (Cei) e del governo di Roma. Qui sono ospitati 160 ragazzi tra i 16 e i 21 anni, che hanno la possibilità di frequentare la scuola o un corso professionale. «E gli effetti si vedono. Il tasso di recidiva è sceso dall’80 al 4 per cento. Per questo, stiamo cercando di costruire un altro centro a Santa Cruz – conclude Simoncelli –. Oltre a sensibilizzare il governo perché riformi il sistema di giustizia e favorisca le misure alternative alla detenzione, la vera soluzione del dramma carcerario boliviano».​​

Australia - Stop, ovunque e per sempre, alla sterilizzazione forzata dei disabili

Superando.it
Quanto il problema della sterilizzazione forzata di numerose donne e ragazze con disabilità sia ancora diffuso nel mondo, e non certo solo in Paesi in via di sviluppo, lo rivelano ad esempio le notizie provenienti dall’Australia, ove una Commissione del Senato ha confermato che tale pratica «non sarà vietata». Deve quindi continuare con forza, a tutti i livelli, la battaglia contro questa palese violazione dei diritti umani fondamentali di tante persone

Già nel 2009 – come avevamo riferito a suo tempo – l’EDF (European Disability Forum) aveva focalizzato il proprio impegno – in occasione della Giornata Internazionale contro la Violenza sulle Donne di quell’anno – sul problema della sterilizzazione forzata di numerose ragazze e donne con disabilità in Europa, rifacendosi anche agli articoli 16 (Diritto di non essere sottoposto a sfruttamento, violenza e maltrattamenti) e 23 (Rispetto del domicilio e della famiglia) della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità e sottolineando come la sterilizzazione forzata sia «una forma di violenza che nega i diritti delle persone con disabilità a formare una famiglia, a decidere sul numero di figli che eventualmente vogliano avere, ad avere accesso a informazioni corrette sulla pianificazione familiare e riproduttiva e a vivere la propria fecondità su basi uguali a quella delle altre persone».

Quanto però il problema sia ancora oggi diffuso nel mondo, e non certo solo in Stati in via di sviluppo, lo sottolinea ad esempio una nota pubblicata in questi giorni da «West – Welfare Società Territorio», a firma di Ivano Abbadessa, che parlando nella fattispecie dell’Australia, rivela come in quel grande Paese «molte donne disabili vengano ancora oggi sterilizzate per gestire il ciclo mestruale o per i rischi connessi allo sfruttamento sessuale. Una pratica che contrariamente a quanto si possa pensare è diffusa in altri Paesi, tra cui gli Stati Uniti».
«Poche settimane fa – spiega poi Abbadessa – una Commissione del Senato australiano ha confermato che la sterilizzazione forzata delle persone disabili non sarà vietata. I Parlamentari, però, hanno proposto la creazione di leggi e regolamenti più restrittivi. 

E una più adeguata formazione del personale medico e dei familiari delle persone con disabilità».
Dopo avere quindi segnalato che la maggior parte delle richieste di sterilizzazione riguarderebbe «adulti e non bambini», il servizio di «West» riferisce di una vera e propria “spaccatura”, tra i genitori australiani, alcuni dei quali riterrebbero «che la sterilizzazione consentirebbe alle proprie figlie di vivere una vita migliore», mentre altri sosterrebbero trattarsi «di una vera e propria tortura per rendere sterili, senza il loro consenso, ragazze o donne con handicap».

Confortante la conclusione della nota, che riporta l’autorevole indicazione arrivata dallaCommissione Australiana per i Diritti Umani la quale «continua a spingere affinché il Legislatore criminalizzi la sterilizzazione forzata, salvo in circostanze di pericolo di vita, nella convinzione che la fertilità è un diritto umano fondamentale anche per le donne e le ragazze con disabilità».
Da parte nostra, nell’apprendere notizie del genere, non possiamo fare altro che riprendere con forza e tornare a dare visibilità a quanto scritto nel 2009 dall’EDF, ovvero che di fronte a ciò che continua ad accadere in molti Paesi, ovvero «alla pratica di sterilizzazione forzata su molte persone con disabilità e soprattutto su ragazze e donne per lo più con disabilità intellettive o psicosociali, senza il loro consenso o la consapevolezza dello scopo specifico di tali interventi, attuati con il pretesto che essi vengano fatti “per il loro bene”», questo costituisce sostanzialmente un «mancato rispetto dei loro diritti umani fondamentali, incluso il diritto all’integrità del proprio corpo e al controllo della propria salute riproduttiva, violati senza che spesso le persone se ne rendano conto».

L’EDF aveva chiesto inoltre a tutte le Istituzioni Pubbliche europee di «rivedere innanzitutto le strutture legali che regolano la sterilizzazione forzata, orientandosi verso istituti quali il“consenso informato” e la “capacità legale”, in pieno accordo con lo spirito e i princìpi della Convenzione ONU, che obbliga i Paesi sottoscrittori di essa a introdurre riforme per far sì che da una parte la casa e la famiglia, dall’altra la dignità e l’integrità delle persone con disabilità siano considerati diritti fondamentali che non possono più essere violati».

Nella fattispecie dell’Australia – vale la pena ricordarlo – il “Paese dei canguri” ha ratificato la Convenzione ONU già il 17 luglio 2008 e il Protocollo Convenzionale di essa il 21 agosto 2009 ed è anche alla luce di questo che auspichiamo una rapida “marcia indietro”, da parte dei rappresentanti politici del grande Stato oceanico, dando pieno ascolto alle stesse indicazioni della propria Commissione per i Diritti Umani. (S.B.)

Carceri: a Genova bimbo di 20 giorni in cella con la madre

Adnkronos
''Il carcere non e', o meglio non dovrebbe essere, un posto per bambini, vittime di errori che non hanno commesso. Eppure, ogni giorno, molti di loro aprono gli occhi dentro una cella. 

Nel penitenziario di Genova Pontedecimo, ad esempio, ha passato la notte di ieri in carcere un bimbo di soli 20 giorni, ristretto in cella con la mamma, una cittadina cinese proveniente da La Spezia, soggetta a custodia cautelare in carcere per sfruttamento della prostituzione''. 

E' quanto rende noto il Sappe, Sindacato autonomo di polizia penitenziaria. ''Questo - denuncia il segretario generale aggiunto Roberto Martinelli - nonostante da piu' di due anni tutte le forze politiche hanno approvato una legge per effetto della quale le mamme detenute non dovrebbero piu' stare chiuse in cella, a meno di particolari esigenze cautelari di 'eccezionale rilevanza' come puo' avvenire, ad esempio, per i delitti di mafia o per terrorismo''. 

La legge, ricorda, ''prevedeva che in alternativa alla cella si disponesse la custodia cautelare negli 'Istituti a custodia attenuata per madri detenute'. Mi sembra grave che a Genova non si sia ancora trovato il tempo per individuare una struttura dove realizzare questa nuova tipologia di Istituto''. Del resto, conclude Martinelli, ''il dato oggettivo e' che il carcere, cosi' come e' strutturato e concepito oggi, non funziona. E la presenza nella cella di un carcere italiano di un bimbo di soli 20 giorni ne e' la dimostrazione piu' evidente''.

Sbarchi, un altro barcone a Siracusa sono tutti minori e siriani

Il Messaggero
SIRACUSA Sono in larghissima parte minori, tutti adolescenti, i settanta migranti sbarcati questa mattina nel porto di Siracusa dopo essere stati soccorsi dalla Guardia costiera a circa 80 miglia a sud est di Capo Passero.
I giovanissimi extracomunitari, tutti imbarcati su quello che sulla banchina del molo è stato ribattezzato come «il barcone dei ragazzini», hanno detto di essere siriani. «Ma abbiamo ragionevole motivo per sostenere che le cose non stiano così - ha spiegato il comandante del porto di Siracusa, il capitano di vascello Luca Sancilio -. Diversi potrebbero essere egiziani, ma questo avremo modo di verificarlo meglio successivamente».

Tra i migranti approdati a Siracusa stamane anche una famiglia, questa sì molto probabilmente siriana, composta da una coppia con due figli in tenera età. I volontari della Croce rossa e della Protezione civile hanno fatto a gara, giocando con i due bimbi prendendoli per mano o cullandoli tra le braccia.

La «carretta» sulla quale i profughi si trovavano quando è stata lanciata la richiesta di Sos era alla deriva e in precarie condizioni di galleggiabilità. Il natante è stato abbandonato in alto mare ed è stato diramato il consueto bollettino di allerta ai naviganti per chi incrocia in zona. Non appena sbarcati gli immigrati sono stati sottoposti ai primi accertamenti dai medici della sanità marittima. Le operazioni si sono svolte sul molo, sotto una tenda approntata dalla Croce rossa alle spalle della quale, nella vicinissima Darsena, si staglia la sagoma imponente di un maxi-yacht d'altura in sosta nel porto siracusano.

giovedì 29 agosto 2013

R D Congo - Lasciateci vivere l'appello del vescovo di Goma

MISNA
“In nome di Dio, lasciateci vivere!”: è l‘appello lanciato da monsignor Théophile Kaboy, vescovo di Goma, capoluogo del Nord Kivu, da settimane epicentro di nuovi scontri tra la ribellione del Movimento del 23 marzo (M23) e le forze armate regolari (Fardc). Il presule si rivolge alla “coscienza dei responsabili” di questi fatti violenti e alle “autorità competenti”, deplorando “innumerevoli perdite in vite umane, sfollati lontani dai villaggi e dai campi ammassati e che vivono in condizioni precarie” così come violazioni dei diritti umani su vasta scala che “ledono alla dignità umana”.

Citando i negoziati di Kampala – aperti lo scorso dicembre ma in stallo da mesi – l’accordo di Addis Abeba, le varie dichiarazioni del Consiglio di sicurezza e il dispiegamento della brigata di intervento, monsignor Kaboy ha deplorato “tutti quei giochi politici” ai quali ha assistito la gente del Nord Kivu “stanca da due decenni di guerre ricorrenti” e che hanno illuso la popolazione con “promesse di un futuro radioso”. Sul terreno, invece, da diverse settimane si è verificata una nuova spirale di violenza ai danni dei civili.

Nel suo messaggio, rilanciato dal sito d’informazione Bukavu on-line, il vescovo di Goma, già occupata dall’M23 lo scorso novembre, condanna con toni duri “la desolazione terrificante alimentata da innumerevoli milizie” e invita la popolazione a “resistere e rimanere vigile”, ma soprattutto a “non cadere nella trappola di quanti vogliono creare una totale confusione in città, colpendo cittadini indifesi e beni”. Per monsignor Kaboy, “siamo tutti fratelli” e ora più che mai “tutte le forze vive implicate nella crisi devono prendere sul serio tutte le risoluzioni già varate per ristabilire la pace totale”. Rivolgendosi alla classe politica congolese, il presule chiede che le prossime consultazioni nazionali in agenda per il 4 settembre a Kinshasa possano essere “sincere” e “privilegiare l’interesse nazionale”.

Intanto da ieri è in corso una vasta offensiva di terra e aerea delle Fardc, sostenute dai caschi blu della Monusco e dalla brigata di intervento, per respingere l’M23 dalle posizioni sulle colline di Kibati. Nelle ultime ore quattro colpi di obice di origine indeterminata sono caduti su Goma; finora non è stato diffuso alcun bilancio. Stamattina una donna ruandese ha perso la vita e il suo bambino è stato ferito da un ordigno che ha raggiunto Gisenyi, città gemella di Goma nel confinante Rwanda. Secondo fonti locali si sarebbe trattato di un “tiro volontario in provenienza dal vicino Congo”. Kigali accusa spesso Kinshasa di bombardare volontariamente il territorio ruandese confinante con l’instabile provincia del Nord Kivu. Diversi rapporti Onu hanno confermato il sostegno militare e finanziario del Rwanda e dell’Uganda alla ribellione dell’M23, nata nell’aprile 2012.

Discorso integrale di Martin Luther King nel 50esimo anniversario dello storico discorso alla marcia di Washington

Martin Luther King, 28 agosto 1963

Oggi sono felice di essere con voi in quella che nella storia sarà ricordata come la più grande manifestazione per la libertà nella storia del nostro paese.
Un secolo fa, un grande americano, che oggi getta su di noi la sua ombra simbolica, firmò il Proclama dell’emancipazione.
Si trattava di una legge epocale, che accese un grande faro di speranza per milioni di schiavi neri, marchiati dal fuoco di una bruciante ingiustizia.
Il proclama giunse come un’aurora di gioia, che metteva fine alla lunga notte della loro cattività.
Ma oggi, e sono passati cento anni, i neri non sono ancora liberi.
Sono passati cento anni, e la vita dei neri é ancora paralizzata dalle pastoie della segregazione e dalle catene della discriminazione.
Sono passati cento anni, e i neri vivono in un’isola solitaria di povertà, in mezzo a un immenso oceano di benessere materiale.
Sono passati cento anni, e i neri ancora languiscono negli angoli della società americana, si ritrovano esuli nella propria terra.
Quindi oggi siamo venuti qui per tratteggiare a tinte forti una situazione vergognosa.
In un certo senso, siamo venuti nella capitale del nostro paese per incassare un assegno.
Quando gli architetti della nostra repubblica hanno scritto le magnifiche parole della Costituzione e della Dichiarazione d’indipendenza, hanno firmato un “pagherò” di cui ciascun americano era destinato a ereditare la titolarità.
Il “pagherò” conteneva la promessa che a tutti gli uomini, sì, ai neri come ai bianchi, sarebbero stati garantiti questi diritti inalienabili: “vita, libertà e ricerca della felicità”.
Oggi appare evidente che per quanto riguarda i cittadini americani di colore, l’America ha mancato di onorare il suo impegno debitorio.
Invece di adempiere a questo sacro dovere, l’America ha dato al popolo nero un assegno a vuoto, un assegno che é tornato indietro, con la scritta “copertura insufficiente”.
Ma noi ci rifiutiamo di credere che la banca della giustizia sia in fallimento.
Ci rifiutiamo di credere che nei grandi caveau di opportunità di questo paese non vi siano fondi sufficienti.
E quindi siamo venuti a incassarlo, questo assegno, l’assegno che offre, a chi le richiede, la ricchezza della libertà e la garanzia della giustizia.
Siamo venuti in questo luogo consacrato anche per ricordare all’America l’infuocata urgenza dell’oggi.
Quest’ora non é fatta per abbandonarsi al lusso di prendersela calma o di assumere la droga tranquillante del gradualismo.
Adesso ’ il momento di tradurre in realtà le promesse della democrazia.
Adesso é il momento di risollevarci dalla valle buia e desolata della segregazione fino al sentiero soleggiato della giustizia razziale.
Adesso é il momento di sollevare la nostra nazione dalle sabbie mobili dell’ingiustizia razziale per collocarla sulla roccia compatta della fraternità.
Adesso é il momento di tradurre la giustizia in una realtà per tutti i figli di Dio.
Se la nazione non cogliesse l’urgenza del presente, le conseguenze sarebbero funeste.
L’afosa estate della legittima insoddisfazione dei negri non finirà finché non saremo entrati nel frizzante autunno della libertà e dell’uguaglianza.
Il 1963 non é una fine, é un principio.
Se la nazione tornerà all’ordinaria amministrazione come se niente fosse accaduto, chi sperava che i neri avessero solo bisogno di sfogarsi un pò e poi se ne sarebbero rimasti tranquilli rischia di avere una brutta sorpresa.
In America non ci sarà né riposo né pace finché i neri non vedranno garantiti i loro diritti di cittadinanza.
I turbini della rivolta continueranno a scuotere le fondamenta della nostra nazione finché non spunterà il giorno luminoso della giustizia.
Ma c’é qualcosa che devo dire al mio popolo, fermo su una soglia rischiosa, alle porte del palazzo della giustizia: durante il processo che ci porterà a ottenere il posto che ci spetta di diritto, non dobbiamo commettere torti.
Non cerchiamo di placare la sete di libertà bevendo alla coppa del rancore e dell’odio.
Dobbiamo sempre condurre la nostra lotta su un piano elevato di dignità e disciplina.
Non dobbiamo permettere che la nostra protesta creativa degeneri in violenza fisica.
Sempre, e ancora e ancora, dobbiamo innalzarci fino alle vette maestose in cui la forza fisica s’incontra con la forza dell’anima.
Il nuovo e meraviglioso clima di combattività di cui oggi é impregnata l’intera comunità nera non deve indurci a diffidare di tutti i bianchi, perché molti nostri fratelli bianchi, come attesta oggi la loro presenza qui, hanno capito che il loro destino é legato al nostro.
Hanno capito che la loro libertà si lega con un nodo inestricabile alla nostra.
Non possiamo camminare da soli.
E mentre camminiamo, dobbiamo impegnarci con un giuramento: di proseguire sempre avanti.
Non possiamo voltarci indietro.
C’é chi domanda ai seguaci dei diritti civili: “Quando sarete soddisfatti?”.
Non potremo mai essere soddisfatti, finché i neri continueranno a subire gli indescrivibili orrori della brutalità poliziesca.
Non potremo mai essere soddisfatti, finché non riusciremo a trovare alloggio nei motel delle autostrade e negli alberghi delle città, per dare riposo al nostro corpo affaticato dal viaggio.
Non potremo mai essere soddisfatti, finché tutta la facoltà di movimento dei neri resterà limitata alla possibilità di trasferirsi da un piccolo ghetto a uno più grande.
Non potremo mai essere soddisfatti, finché i nostri figli continueranno a essere spogliati dell’identità e derubati della dignità dai cartelli su cui sta scritto “Riservato ai bianchi”.
Non potremo mai essere soddisfatti, finché i neri del Mississippi non potranno votare e i neri di New York crederanno di non avere niente per cui votare.
No, no, non siamo soddisfatti e non saremo mai soddisfatti, finché la giustizia non scorrerà come l’acqua, e la rettitudine come un fiume in piena.
Io non dimentico che alcuni fra voi sono venuti qui dopo grandi prove e tribolazioni.
Alcuni di voi hanno lasciato da poco anguste celle di prigione.
Alcuni di voi sono venuti da zone dove ricercando la libertà sono stati colpiti dalle tempeste della persecuzione e travolti dai venti della brutalità poliziesca.
Siete i reduci della sofferenza creativa.
Continuate il vostro lavoro, nella fede che la sofferenza immeritata ha per frutto la redenzione.
Tornate nel Mississippi, tornate nell’Alabama, tornate nella Carolina del Sud, tornate in Georgia, tornate in Louisiana, tornate alle baraccopoli e ai ghetti delle nostre città del Nord, sapendo che in qualche modo questa situazione può cambiare e cambierà.
Non indugiamo nella valle della disperazione.
Oggi, amici miei, vi dico: anche se dobbiamo affrontare le difficoltà di oggi e di domani, io continuo ad avere un sogno.
E un sogno che ha radici profonde nel sogno americano.
Ho un sogno, che un giorno questa nazione sorgerà e vivrà il significato vero del suo credo: noi riteniamo queste verità evidenti di per sé, che tutti gli uomini sono creati uguali.
Ho un sogno, che un giorno sulle rosse montagne della Georgia i figli degli ex schiavi e i figli degli ex padroni di schiavi potranno sedersi insieme alla tavola della fraternità.
Ho un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississippi, dove si patisce il caldo afoso dell’ingiustizia, il caldo afoso dell’oppressione, si trasformerà in un’oasi di libertà e di giustizia.
Ho un sogno, che i miei quattro bambini un giorno vivranno in una nazione in cui non saranno giudicati per il colore della pelle, ma per l’essenza della loro personalità.
Oggi ho un sogno.
Ho un sogno, che un giorno, laggiù nell’Alabama, dove i razzisti sono più che mai accaniti, dove il governatore non parla d’altro che di potere di compromesso interlocutorio e di nullification delle leggi federali, un giorno, proprio là nell’Alabama, i bambini neri e le bambine nere potranno prendere per mano bambini bianchi e bambine bianche, come fratelli e sorelle.
Oggi ho un sogno.
Ho un sogno, che un giorno ogni valle sarà innalzata, ogni monte e ogni collina saranno abbassati, i luoghi scoscesi diventeranno piani, e i luoghi tortuosi diventeranno diritti, e la gloria del Signore sarà rivelata, e tutte le creature la vedranno insieme.
Questa é la nostra speranza.
Questa é la fede che porterò con me tornan­do nel Sud.
Con questa fede potremo cavare dalla montagna della disperazione una pietra di speranza.
Con questa fede potremo trasformare le stridenti discordanze della nostra nazione in una bellissima sinfonia di fraternità.
Con questa fede potremo lavorare insieme, pregare insieme, lottare insieme, andare in prigione insieme, schierarci insieme per la libertà, sapendo che un giorno saremo liberi.
Quel giorno verrà, quel giorno verrà quando tutti i figli di Dio potranno cantare con un significato nuovo: “Patria mia, é di te, dolce terra di libertà, é di te che io canto.
Terra dove sono morti i miei padri, terra dell’orgoglio dei Pellegrini, da ogni vetta riecheggi libertà”.
E se l’America vuol essere una grande nazione, bisogna che questo diventi vero.
E dunque, che la libertà riecheggi dalle straordinarie colline del New Hampshire.
Che la libertà riecheggi dalle possenti montagne di New York.
Che la libertà riecheggi dagli elevati Allegheny della Pennsylvania.
Che la libertà riecheggi dalle innevate Montagne Rocciose del Colorado.
Che la libertà riecheggi dai pendii sinuosi della California.
Ma non soltanto.
Che la libertà riecheggi dalla Stone Mountain della Georgia.
Che la libertà riecheggi dalla Lookout Mountain del Tennessee.
Che la libertà riecheggi da ogni collina e da ogni formicaio del Mississippi, da ogni vetta, che riecheggi la libertà.
E quando questo avverrà, quando faremo riecheggiare la libertà, quando la lasceremo riecheggiare da ogni villaggio e da ogni paese, da ogni stato e da ogni città, saremo riusciti ad avvicinare quel giorno in cui tutti i figli di Dio, neri e bianchi, ebrei e gentili, protestanti e cattolici, potranno prendersi per mano e cantare le parole dell’antico inno: “Liberi finalmente, liberi finalmente.
Grazie a Dio Onnipotente, siamo liberi finalmente”.

Immigrazione, rifugiati siriani salvati al largo delle coste italiane

Reuters
ROMA - La Guardia costiera e la Marina oggi hanno tratto in salvo circa 350 persone, per lo più siriane, al largo delle coste sudorientali della Sicilia, e il comandante della Capitaneria di porto di Siracusa ha detto di aspettarsi l'arrivo di altri profughi in fuga dalla guerra civile in Siria.
La Marina ha soccorso quasi 200 persone su un peschereccio. Gli immigrati hanno detto di essere siriani, ma la maggior parte non ha passaporti quindi la nazionalità deve ancora essere confermata, ha spiegato un portavoce.

Tra le persone soccorse ci sono 48 bambini, compresa una neonata di quattro giorni venuta alla luce durante la traversata. La bimba e la madre, ha detto il portavoce, sono in buone condizioni.

Una seconda imbarcazione con circa 150 migranti è stata soccorsa successivamente dalla Guardia costiera, ma non sono ancora state determinate le nazionalità delle persone a bordo, ha detto Luca Sancilio, comandante della Capitaneria di porto di Siracusa.

"Sono arrivati in maggioranza siriani negli ultimi giorni", ha detto Sancilio a SkyTg24. "Visto quello che sta accadendo in Siria proprio ora, ci aspettiamo altri arrivi".

Migliaia di migranti ogni estate, quando le condizioni meteo rendono possibile la traversata dalla Libia o dalla Tunisia, cercano di raggiungere le coste dell'Italia meridionale.

Mentre normalmente i migranti vengono dall'Africa subsahariana, quest'anno si tratta principalmente di persone in fuga dalla guerra civile in Siria o dai disordini in Egitto e in altre parti del Nord Africa.

Quasi 9.000 migranti sono arrivati in Italia via mare tra il 1° luglio e il 10 agosto, secondo i dati forniti dal ministero dell'Interno.

Negli ultimi 12 mesi sono arrivate 24.000 persone, contro le oltre 17.000 dell'anno precedente e le quasi 25.000 di due anni prima.

"I rifugiati stessi ci dicono che l'Italia è un punto di passaggio, e la maggior parte cerca di trovare lavoro a nord delle Alpi", ha spiegato Sancilio.
(Steve Scherer)

Centrafrique: apeurés, des milliers de civils se réfugient dans un aéroport

Le Monde Afrique
La fuite de milliers de civils réfugiés à l'aéroport international de Bangui, capitale de la République centrafricaine, après une attaque des rebelles, ne vient que confirmer un rapport de l'ONU publié il y a deux semaines sur l'étendue des exactions menées depuis mars par la junte militaire.

Les habitants d'un quartier proche de l'aéroport de M'poko ont commencé à fuirleur habitation mardi soir lorsque les rebelles ont tiré des coups de feu. Ils ont trouvé refuge à l'aéroport, provoquant une perturbation du trafic aérien et empêchant certains appareils d'atterrir. "Ils sont venus parce qu'ils avaient peur", a indiqué un responsable de maintien de la paix.

La République centrafricaine s'enfonce peu à peu dans le chaos depuis que les insurgés ont investi Bangui il y six mois, renversant le président François Bozizé et provoquant une vague de violences que le nouveau dirigeant du pays, Michel Djotodia, ne parvient pas à endiguer.

La Séléka, organisation regroupant cinq mouvements d'insurgés que Djotodia dirigeait autrefois, procède à des attaques régulières contre des villages et des quartiers de Bangui au motif de chercher des caches d'armes et des partisans de Bozizé.

LA SITUATION HUMANITAIRE SE DÉTERIORE
Dans son rapport, l'ONU fustige "l'impunité dont bénéficient largement les responsables de violences" et déplore "l'absence d'autorité judiciaire en dehors de Bangui". Environ 1,6 million de personnes ont un besoin urgent d'assistance et plus de 12 000 enfants souffrent déjà de "malnutrition aiguë". La crise a déplacé 206 000 personnes dans le pays et en a fait fuir 60 000 autres dans les pays voisins, dont 41 000 en République démocratique du Congo. Selon les organisations humanitaires, les rebelles sont responsables de pillages, d'actes de torture et d'exécutions sommaires.

Le président français, François Hollande, a appelé mardi 27 août le Conseil de sécurité de l'ONU et l'Union africaine à intervenir afin de stabiliser la situation dans le pays. Il recommande au Conseil de "soutenir pleinement" la nouvelle Mission internationale de soutien à la Centrafrique (Misca), une force de 3 600 hommes chargée d'aider le gouvernement centrafricain à sécuriser son territoire.

Ethiopia's Falash Mura repatriated to Israel

BBC Africa
About 450 Ethiopians of Jewish descent have been repatriated to Israel, concluding an Israeli government-backed scheme to relocate the community.
Their migration was "historic", Israel's Minister of Absorption Sofa Landver is quoted as saying.Many members of the Falash Mura community lived in poor conditions in northern Ethiopia.
The Falash Mura's ancestors converted to Christianity under pressure in the 19th Century.
They have been waging a decades-long campaign to be allowed to settle in Israel.

'Welcomed'
Their campaign has been plagued by controversy, as some Israelis questioned their Jewish links while others accused the government of not doing enough to help them.
Continue reading the main story
“Start Quote
I am proud to take part in this historic event”Sofa LandverGovernment minister

In 2010, the Israeli government agreed to resume its repatriation programme, dubbed Operation Dove's Wings, after it was halted two years earlier.

The 450 migrants had been living in transit camps in Gondar city in northern Ethiopia, as they waited to go to Israel.

They were the last of some 8,000 Ethiopians who qualified for repatriation under the scheme.

The group flew into Israel's Ben Gurion airport in two chartered flights, with their relatives on hand to welcome them.

"Three years after I advised the prime minister of Israel to bring Operation Dove's Wings to an end, to close the compound in Gondar and to complete the journey of organised aliyah [migration] from Ethiopia, I am proud to take part in this historic event," Ms Landver said, the Jewish Press reports.

Some 12,000 members of the Falash Mura community in Ethiopia have not been granted permission to move to Israel, the Times of Israel newspaper reports.

About 90,000 Ethiopian Jews have immigrated to Israel since it was founded in 1948.

They make up one of the poorest sections of Israeli society.

Immigrati, Schulz: serve una legge europea "I confini dell'Italia verso il Sud sono anche confini tedeschi"

Il Mondo
Roma, "In Europa c'è un vuoto legislativo, manca una legge che regoli veramente l'immigrazione".

Mentre continuano gli sbarchi sulle coste italiane, Famiglia Cristiana di questa settimana intervista Martin Schulz, presidente dell'Europarlamento, definendo "doverosa" una legge europea sul tema dei migranti. "Se abbiamo creato il libero movimento delle persone in Europa, i confini dell'Italia verso il Sud - ha spiegato l'esponente socialdemocratico - sono anche dei confini tedeschi. E la stessa cosa vale per i confini della Polonia verso Est".

"In altre parole, il problema dei confini è automaticamente un problema di tutti i Paesi ed è per quello che non si può dire all'Italia, alla Grecia e alla Spagna che devono risolvere il problema da sole. Abbiamo bisogno di distribuire l'onere tra i diversi Paesi

Avere 20 mila profughi sull'isola di Lampedusa è una catastrofe, ma avere 20 mila profughi sparsi su 739 milioni di europei non è un problema" spiega Schulz. 

Per il presidente europeo "dovrebbe essere discussa" l'idea secondo la quale "i Paesi che non accettano i profughi devono contribuire almeno economicamente alla soluzione del problema", anche se, ammette, "oggi è un'utopia pensare a una tassa europea sull'immigrazione".

mercoledì 28 agosto 2013

Pena de Muerte en China. Rompe la muralla del silencio

Amnesty International
En China, miles de personas son ejecutadas cada año. Sin posibilidad de solicitar un indulto y posiblemente, tras haber confesado bajo coacción. ¡Actúa!
Acto en solidaridad con Li Yan,
condenada a muerte en China
Cualquier cálculo de personas condenadas a muerte y ejecutadas en China es una mera aproximación: se trata de un secreto de Estado. La falta de estadísticas oficiales públicas sólo permite hacer cálculos muy por debajo del número real. En el pasado, tanto expertos como representantes oficiales han calculado que la cifra rondaba muchos miles y, aunque fuera cierta la afirmación de que el número de ejecuciones ha disminuido desde que el Tribunal Supremo Popular empezó a revisar todos los casos de pena de muerte en 2007, los cálculos seguirían estando en torno a varios miles. En China se llevan a cabo, sin duda, más ejecuciones que en el resto del mundo en su conjunto.

Además, la pena capital se aplica por una amplia variedad de motivos. Hasta 55 delitos están castigados con la muerte. Si bien en 2011, el gobierno eliminó la pena de muerte para 13 delitos, la realidad es que aún son muchos los delitos que se siguen castigando con la muerte, muchos de ellos no violentos, como el tráfico de drogas o algunos de índole económico.

Sin embargo, los elevados índices de sentencias de muerte y ejecuciones no son el único motivo de preocupación: ninguna persona es sometida a un juicio justo en el país asiático. Se dictan sentencias basadas en “confesiones” obtenidas mediante tortura y no existe un procedimiento que permita presentar solicitud de indulto. Además, la policía, los fiscales y los tribunales no son independientes: siguen sujetos a la supervisión del Partido Comunista Chino y por tanto a injerencias políticas; no existe la presunción de inocencia ni el acceso sin demora a representación letrada. Los propios funcionarios chinos han admitido que el problema de las “confesiones falsas” es generalizado. Por último, un dato sorprendente que ilustra la falta de imparcialidad en todos los juicios chinos es que el índice de sentencias condenatorias en el país sea prácticamente del cien por cien.

Es necesario que la muralla de silencio que oculta la realidad de la pena de muerte en China caiga de una vez.

Iran, Teheran vieta visita rappresentante Consiglio diritti umani Onu

Milano Finanza
Il governo iraniano ha respinto la richiesta presentata dall'inviato speciale per l'Iran del Consiglio dei Diritti umani, Ahmed Shaheed, di recarsi nel Paese, accusando il funzionario delle Nazioni Unite di non essere imparziale.

"Purtroppo, Shaheed agisce da oppositore politico e fino a che non avrà corretto il suo atteggiamento parziale nella preparazione dei rapporti le condizioni per un soggiorno in Iran non saranno state rispettate", ha spiegato il portavoce del Ministero degli Esteri iraniano, Abbas Aragchi.

Nel suo ultimo rapporto, diffuso nel marzo scorso, Shaheed aveva denunciato un aumento delle violazioni dei diritti umani, con oltre 500 esecuzioni e numerosi casi di torture e maltrattamenti contro i detenuti, nonché una crescente repressione contro i mezzi di informazione.

France : 150 personnes roms expulsées de force du campement des Coquetiers à Bobigny

Amnesty International
Environ 150 personnes roms, dont une soixantaine d’enfants, ont été expulsées du campement de la rue des Coquetiers à Bobigny au cours de la matinée du 27 août. Des solutions d’hébergement d’urgence n’ont été prévues que pour trois familles et le reste des habitants du campement est désormais sans abri.
Un an après la publication de la circulaire interministérielle du 26 août 2012 « relative à l’anticipation et à l’accompagnement des opérations d’évacuation des campements illicites », Amnesty International a assisté à une nouvelle expulsion forcée ce matin à Bobigny dans le département de la Seine-Saint-Denis.

Le vendredi 23 août la préfecture avait indiqué que seuls les habitants de deux parcelles appartenant à la RATP et au Conseil Général seraient expulsés dans la semaine, c'est-à-dire 35 personnes environ. Ce matin à 7 heures, l’ensemble des habitants a été expulsé, y compris ceux qui vivaient sur une parcelle de terrain appartenant à la Mairie de Bobigny, pour laquelle aucune procédure d’expulsion n’a été engagée.

Les habitants semblaient avoir été prévenus que l’expulsion allait avoir lieu, mais ils ont rapporté ne pas avoir été consultés en amont de l’évacuation. Vers 9 heures, une soixantaine de personnes attendaient encore devant le campement, incertains et ne sachant pas où aller. « Je ne vois pas quelle explication j’ai à donner, mis à part le fait que l’on met en œuvre une décision de justice », a indiqué le préfet.

Nadka, une Rom Bulgare de 46 ans, vivait sur le campement informel des Coquetiers depuis 2 ans. Elle pleurait et a expliqué avoir peur car sa maison étant située sur la parcelle de la mairie, elle ne savait pas si elle allait pouvoir rentrer chez elle ce soir et récupérer ses affaires.

Le 7 juin 2013, un diagnostic social avait été réalisé et les 200 à 300 personnes qui habitaient le terrain avaient été interrogées en une seule journée. Les trois familles signalées comme vulnérables et pour lesquelles un hébergement d’urgence a été prévu n’ont pas été prévenues de l’existence de ces solutions. « C’est à elles de se manifester », a expliqué le Directeur de cabinet du préfet, qui ne connaissait pas les noms des trois familles en question car d’après lui le diagnostic n’est pas nominatif. Le préfet de la Seine-Saint-Denis, présent sur les lieux, a ajouté « le reste est prié de trouver une autre solution ».

Le préfet a indiqué à la chercheuse d’Amnesty International présente sur les lieux que cette opération s’inscrivait pleinement dans le respect de la circulaire du 26 août 2012, mais a reconnu que cette circulaire n’était pas contraignante et pouvait être lue de plusieurs manières.

Une trentaine d’enfants habitant sur le campement rue de Coquetiers étaient scolarisés. David, 12 ans, a vécu ce matin sa cinquième expulsion. « Je me suis réveillé à 6 heures, la police est venue, ça nous a fait peur. Moi, je savais qu’on allait devoir partir, ma mère nous l’avait dit. Je ne sais pas où on va aller avec ma famille. On ne sait pas si on va pouvoir aller à l’école, nous on veut y aller. Aujourd’hui je devais aller au stage de remise à niveau, avant ma rentrée en 6ème au collège, mais là je ne peux pas aller au stage. »

La mairie a refusé de mettre à disposition un terrain, invoquant la responsabilité de la préfecture. Le Conseil Général a confirmé que pendant la durée des travaux sur sa parcelle, qui pouvaient durer de trois jours à trois mois, l’accès au terrain serait fermé. A midi, les familles ne savaient pas où aller, et elles attendaient au milieu de l’avenue Salvador Allende à Bobigny.

L’expulsion forcée du campement rue des Coquetiers à Bobigny démontre que la circulaire interministérielle publiée il y a un an est insuffisante pour protéger les Roms migrants contre les expulsions forcées. Amnesty International renouvelle son appel au gouvernement français à prendre des mesures explicites et contraignantes contre cette pratique qui enfreint ses engagements internationaux en matière de droits humains.

martedì 27 agosto 2013

USA - Georgia Supreme Court agrees to hear state's appeal in case of death row inmate Warren Hill

THE ASSOCIATED PRESS 

ATLANTA — The Georgia Supreme Court said Monday it has agreed to hear the state's appeal of a lower court's order that halted the execution of a death row inmate last month.

Fulton County Superior Court Judge Gail Tusan issued a stay of execution July 18 for Warren Lee Hill to give the court time to review a challenge to a new state law that bars the release of information about where Georgia obtains its execution drug.

The law classifies certain information about executions, including the source of the drug, as a "confidential state secret." Hill's lawyers say it's unconstitutional. State attorneys have said the law is constitutional and necessary to discourage retaliation against those who take part in executions.

Hill was sentenced to death for the 1990 beating death of fellow inmate Joseph Handspike. Hill bludgeoned Handspike with a nail-studded board while his victim slept, authorities have said. At the time, Hill was already serving a life sentence for the 1986 slaying of his girlfriend, Myra Wright, who was shot 11 times.

Hill has been scheduled for execution multiple times, but each time his death has been halted by courts wishing to further consider legal challenges. Most recently, he was set to be executed July 19.

Georgia uses the drug pentobarbital to carry out executions, but its supply of the drug expired in March. Pentobarbital has become increasingly difficult for states to obtain because its manufacturer has said it doesn't want the drug used for executions.

The state Department of Corrections confirmed last month that it planned to obtain the drug for executions from a compounding pharmacy, but it declined to release additional information, citing the law passed this year.

When Tusan halted the execution, she wrote, "neither the Plaintiff, nor the general public, has sufficient information with which to measure the safety of the drug that would be used to execute Plaintiff, as there is insufficient information regarding how it was compounded."

The high court has asked the two sides to address four questions:

— Is the case moot because the state's supply of pentobarbital has expired and it is unclear where the state would get more?

— Did the Fulton County Superior Court have the authority to halt Hill's execution?

— Could the issue of the law's constitutionality be avoided if Hill were given a sample of the drug for testing or if he were given other information not prohibited by the law?

— Did Tusan make a mistake when she stopped the execution based on Hill's challenge of the law's constitutionality?

If the parties request oral arguments, they are likely to take place in the coming months, court spokeswoman Jane Hansen said in a statement. Hill's stay of execution will remain in place.

The U.S. Supreme Court is expected to decide next month whether to take up Hill's case on another matter. Hill's lawyers have long claimed that he is mentally disabled and therefore shouldn't be executed because state law and a 2002 U.S. Supreme Court ruling prohibit the execution of the mentally disabled.

Three state experts who testified in 2000 that Hill was not mentally disabled issued sworn statements in February saying they were rushed in their original evaluation, that they now have more experience and that there have been scientific developments since. All three reviewed facts and documents in the case and write that they now believe Hill is mentally disabled.

Stati Uniti: le carceri private... tra business, corruzione e repressione

www.ilfarosulmondo.it
Dal 1990 al 2009 il numero delle persone detenute nelle carceri private degli Stati Uniti è aumentato del 1.600 per cento e non è un caso: più alto è il numero dei detenuti e maggiori sono gli introiti. In dieci anni le prigioni private negli Stati Uniti sono arrivate ad essere oltre cento. Secondo l'organizzazione California Prison Focus "nessuna altra società nella storia umana ha imprigionato un così alto numero di suoi cittadini".
Questo business non dà segni di crisi: le società private di detenzione statunitensi hanno visto aumentare i loro profitti da 760 a 5.100 milioni di dollari. Questo, molto spesso, anche grazie ai rapporti clientelari tra deputati e funzionari governativi con chi gestisce le strutture private e leggi sempre più repressive.

Frank Smith, attivista statunitense che lotta da 15 anni contro la privatizzazione delle carceri negli Usa, spiega che "i lobbisti lavorano per convincere i funzionari governativi a modificare una legge in favore della corporazione che rappresentano, o per fare in modo che non cambino quelle già favorevoli. Spesso, inoltre, - continua Smith - raccolgono fondi per sostenere quei candidati e politici in carica che mirano a influenzare. E non è raro che in passato abbiano lavorato per quelle organizzazioni o partiti politici sulle quali hanno poi fatto lobbying".

Ma almeno, viene da domandarci, la gestione privata fa risparmiare le casse statali americane? È ancora Frank Smith a sottolinearci un altro fattore interessante: "I detenuti più malati o più pericolosi sono collocati nelle strutture pubbliche, in modo che i costi più alti della carcerazione non ricadano sul settore privato".

Uno studio del Progressive Labor Party segnala che i "contratti privati per il lavoro dei carcerati sono un incentivo per imprigionare sempre più gente". Perché "le prigioni dipendono da questo reddito". Gli azionisti corporativi fanno i soldi grazie al lavoro dei carcerati e "fanno lobbing a favore di pene più lunghe, per espandere la loro mano d'opera. Così il sistema si autoalimenta".

A tutto questo segue una logica aziendale ben precisa: le prigioni private sono quotate in borsa. "Questa industria multimilionaria quotata in borsa - continua lo studio del Progressive Labor Party - ha le proprie reti commerciali, convention, siti web e punti vendita su internet".

Il mercato statunitense delle carceri private, come riporta un recente articolo uscito su The Post Internazionale, "è dominato interamente dalla Correction Corporation of America e dalla Geo Group, che ha acquistato le concorrenti Correctional Services Corporation e Cornell Companies rispettivamente nel 2005 e nel 2010".

Indiscussa regina di questo settore, la Geo Group è stata fondata nel 1954 da George Wackenhut, un ex funzionario dell'Fbi, e possiede carceri negli Stati Uniti, in Australia, nel Regno Unito e in Sud Africa. "Uno dei suoi principali accessi al mondo della politica è rappresentato da Stacia Hylton, contemporaneamente membro del Dipartimento di Giustizia federale e capo di un'agenzia che da lungo tempo stipula contratti con la Geo Group".

Anche i più giovani non sono sottratti a questo enorme business: negli istituti di pena giovanili privati, infatti, vengono spediti centinaia di adolescenti. "Molte volte - dichiarano gli attivisti - finiscono in galera per piccoli reati, talvolta grazie persino alla corruzione di giudici compiacenti che si prestano a condannarne in massa".

di Fabio Polese

Lavoro minorile – Tanzania, i bambini nelle miniere

Consorzio Parsifal
Il 23 agosto Human Rights Watch ha pubblicato un rapporto sulle condizioni di lavoro dei minori nelle miniere d’oro della Tanzania, che risulta essere il quarto produttore dell’Africa. 

Secondo il rapporto “Fatica Tossica: Lavoro infantile e Mercurio esposizione nelle miniere dell’oro su piccola scala della Tanzania” sono migliaia i bambini impiegati in questo settore, spesso in miniere senza licenza ancora più pericolose per la loro salute. 

Questi bambini devono scavare in profondità pozzi instabili, e possono lavorare fino a 24 ore consecutive in questi cunicoli sotterranei, per poi trasportare all’esterno pesanti sacchi. 

Il rischio di rimanere schiacciati dai crolli è molto alto, inoltre, i minori sono esposti al mercurio e all’inalazione della polvere. L’esposizione a questo elemento provoca gravi danni al sistema nervoso centrale che possono provocare disabilità permanente soprattutto in soggetti nella fase dello sviluppo.

 Il rischio di contagio si estende ai bambini che vivono nelle vicinanze dei siti minerari. La Tanzania per far fronte a questi rischi ha anche aderito, insieme ad altri 140 paesi al trattato di Minamata per ridurre l’esposizione al mercurio, anche se non ha ancora attuato delle iniziative concrete per prevenire il lavoro dei minori nelle miniere.

Un’altra grave conseguenza del lavoro nelle miniere è l’abbandono scolastico: per questi bambini è molto difficile conciliare il lavoro nelle miniere con l’istruzione. Molti ragazzi, inoltre, cercano lavoro nelle miniere perchè non hanno accesso alla scuola secondaria o di formazione professionale.

Secondo il rapporto dovrebbero esserci interventi della Banca Mondiale e dei donatori che sostengono il settore minerario per combattere il lavoro minorile e l’esposizione al mercurio in Tanzania.


Il rapporto è stato pubblicato in seguito alla visita di undici siti minerari, in varie regioni della Tanzania, e all’intervista si più di 200 persone, tra cui 61 bambini.
M.R.

Siria - Oltre 15mila curdi siriani fuggono in Iraq. Arcivescovo di Erbil: "Aiutateci"

AsiaNews
L'esodo è il più grande nella storia recente della popolazione curda. Il rischio è la scomparsa dell'etnia nelle regioni siriane. Mons. Warda, arcivescovo di Erbil, racconta il lavoro della Chiesa locale fra i rifugiati. Essi sono soprattutto donne, anziani e bambini.
Erbil - Oltre 15mila profughi di etnia curda hanno attraversato nei giorni scorsi la frontiera con l'Iraq per cercare rifugio nel Kurdistan iracheno. L'esodo è il più grande nella storia recente del popolo curdo. Mons. Bashar Warda, arcivescovo di Erbil, una della città che sta ospitando il maggior numero di rifugiati, racconta adAsiaNews: "Queste persone hanno lasciato le loro abitazioni e i loro averi in Siria. Hanno bisogno di tutto: cibo, acqua, medicinali e un riparo sotto cui dormire". Il prelato spiega che la maggior parte sono donne, anziani e bambini. Gli uomini e i figli più grandi sono rimasti in Siria a combattere contro le milizie islamiste che in questi mesi hanno tentato di conquistare la regione.

"Da quando è iniziato l'esodo - continua mons. Warda - la diocesi di Erbil ha dato il via a una campagna di aiuti, raccogliendo beni di prima necessità e creando luoghi in cui accogliere i rifugiati". Per gestire la situazione, la diocesi ha creato un apposito comitato, il Mercy Charitable Committee, con sede ad Ankawa (Erbil) che si occuperà di inviare ogni giorno viveri e beni ai campi allestiti dal governo. Dall'inizio del conflitto siriano l'Iraq, e in particolare la regione del Kurdistan, ha ospitato oltre 300mila profughi.

Mons. Warda lancia un appello per sostenere la popolazione rifugiata: "Abbiamo bisogno di aiuti. Apprezziamo tutti coloro che desiderano aiutarci a sfamare e curare queste famiglie bisognose". Il prelato sottolinea che la Chiesa caldea, attraverso il suo comitato, compie regolari visite ai campi, per verificare l'effettiva distribuzione dei viveri. "Saremmo grati a tutti coloro che vogliono sostenerci".

La migrazione di massa preoccupa il governo regionale del Kudistan, incapace per il momento di assorbire il numero di persone che arrivano nella zona. Secondo una fonte interna al Partito democratico curdo (Pyd), in questi mesi il governo regionale ha tentato di controllare il valico, dando il benestare solo agli scambi commerciali. Tuttavia, nessuno si aspettava un esodo della popolazione di tali dimensioni. Per le autorità curde se tale esito continuerà il Kurdistan siriano resterà deserto. (S.C.)

lunedì 26 agosto 2013

Razzismo: Jerry Masslo, il rifugiato che con il suo esempio ha cambiato l’Italia

Il Fatto Quotidiano
Funerale di Jerry Masslo - Villa Literno
Era il 25 agosto del 1989 quando a Villa Literno fu ucciso Jerry Essan Masslo, giovane sudafricano, raccoglitore di pomodori, che, con il suo esempio, ha reso migliore l’Italia.
Fuggito dall’apartheid, Masslo arriva in Italia come nella terra promessa. Discriminazione, terrore, sangue avevano scandito la sua vita fino ad allora. Il padre e la figlia erano stati uccisi in Sudafrica nel corso di una manifestazione per i diritti dei neri.

Da studente, simpatizza per i movimenti per i diritti dei “coloured” come l’African National Congress che, con il leader Nelson Mandela, si oppongono con coraggio all’apartheid. Per il viaggio in Italia deve vendere un bracciale e un orologio gli unici ricordi rimasti del padre.

Quando, il 21 Marzo del 1988, atterra a Fiumicino, presenta la domanda di asilo politico, vedendosela subito rifiutata. L’asilo politico in Italia, allora, poteva essere chiesto solo dai cittadini dei paesi dell’Est che scappavano dal comunismo.
Pur sostenuto nelle sue ragioni di richiedente asilo dalla sezione italiana di Amnesty International e dall’Unhcr, l’ istanza viene rigettata, a norma del principio della “limitazione geografica”.Secondo la legislazione di quegli anni, la decisione è definitiva.
Masslo sceglie comunque di rimanere in Italia, pur senza lo status di rifugiato. Viene accolto dalla Comunità di Sant’Egidio, stabilendosi in via dei Veneziani 30, presso la “Tenda di Abramo”, un centro di accoglienza per stranieri, ospitato in una palazzina di tre piani a Trastevere, nel cuore di Roma. 

Jerry vuole lavorare a tutti i costi, fa il muratore, scarica le merci al mercato della frutta e invio ciò che guadagnava alla famiglia che continua a vivere nel borgo, tristemente noto, di Soweto, alla periferia di Johannesburg.

Nell’estate dell’1989 decide di spostarsi a Villa Literno, dove era possibile trovare un lavoro stagionale per la raccolta dei pomodori. Parte senza indugio. Le condizioni dei braccianti stagionali sono pietose. Alcuni, per ripararsi, occupano i loculi del cimitero

Ma le popolazioni locali non sopportano la presenza di quelli stranieri e a Villa Literno la tensione sale. Sfruttati e mal sopportati, insomma. La notte del 25 agosto, sei criminali a volto coperto fanno irruzione nella struttura fatiscente di via delle Gallinelle, dove Masslo, assieme ad altri 30 disperati, passa la notte.
I balordi chiedono a “tutti i negri” di consegnare i pochi soldi loro concessi dai caporali. Si rifiutano tutti. Nelle colluttazioni che seguono, uno dei rapinatori esplode tre colpi di pistola che colpiscono mortalmente Masslo.


La Cgil chiede per Jerry Masslo funerali di Stato, che si svolgono il 28 agosto, alla presenza del Vicepresidente del Consiglio.
Il Tg2 si collega in diretta e, nella rubrica “Nonsolonero”, viene trasmessa una straordinaria, casuale, intervista rilasciata proprio da Jerry Masslo:

“Pensavo di trovare in Italia uno spazio di vita, una ventata di civiltà, un’accoglienza che mi permettesse di vivere in pace e di coltivare il sogno di un domani senza barriere né pregiudizi. Invece sono deluso. Avere la pelle nera in questo paese è un limite alla convivenza civile. Il razzismo è anche qui: è fatto di prepotenze, di soprusi, di violenze quotidiane con chi non chiede altro che solidarietà e rispetto. Noi del terzo mondo stiamo contribuendo allo sviluppo del vostro paese, ma sembra che ciò non abbia alcun peso. Prima o poi qualcuno di noi verrà ammazzato ed allora ci si accorgerà che esistiamo”.


Un’ondata di emozione attraversa l’Italia che proprio in quell’ occasione scopre di essere diventataterra di immigrazione e non più di emigrazione.
Nel settembre del 1989 a Villa Literno viene organizzato il primo sciopero degli immigrati contro il caporalato e contro la camorra. Un evento storico, insomma.
Il 7 ottobre 1989 si svolge, invece, a Roma la prima grande manifestazione nazionale contro il razzismo.
Nel 1990 viene varato il primo intervento normativo organico sull’emigrazione, la legge Martelli.

Masslo, alla cui memoria è stata dedicata un’associazione, è oggi poco ricordato.

Eppure la sua testimonianza ha cambiato l’Italia. Conservarne la memoria, significa continuare, ancora oggi, a cambiare le cose. Quel raccoglitore di pomodori, quel semplice ragazzo nero di Soweto, innamorato dell’Italia, ha riscattato la coscienza civile del Paese, rendendolo migliore.

Spagna: migranti arrivano alle Canarie - Salvati nell'Atlantico 120 subsahariani, 26 al largo di Tenerife

ANSA
MADRID, - Più di 120 migranti illegali provenienti dall'Africa subsahariana sono stati soccorsi al largo delle coste spagnole. Tra loro 26 uomini erano su una barca non lontano da Tenerife, nell'arcipelago delle Canarie affollato da turisti.

 Ai soccorritori hanno detto di aver remato per 14 giorni. L'arcipelago delle Canarie è situato a ovest del Marocco, a poche decine di chilometri dalle coste africane. Nel 2006 le isole avevano visto un vero e proprio assalto di migranti, con 31.678 arrivi.

Lebanon - Accounts of Syrian Prisons Describe a Volatile Mix of Chaos and Control

New York Times
BEIRUT, Lebanon  - Ahmed Hamadeh had spent a year in a jail in a Damascus suburb when guards chained him to fellow inmates, marched them to an outlying military checkpoint, and ordered them to dig trenches for the soldiers. He concluded that the government had “lost its mind,” he recalled later, not only because the move risked a jailbreak, but also because of the arbitrary violence that followed.

Inmates at the Tadmor (Palmyra) Prison
Groups of five prisoners remained chained together, he said, even when they slept and relieved themselves. Those who grew exhausted were shot; Mr. Hamadeh, who had been picked up at a checkpoint for leading antigovernment protests, said he was forced to help carry away two bodies.

Weakened by a diet of eggshells, watermelon rinds and two daily pieces of bread, he held out for 12 days until a guard warned that he would be next, he said. The next day — on the Night of Power during the holy month of Ramadan, when prayers are believed to gain special force — Mr. Hamadeh and his four workmates used shovels and rocks to break their shackles and ran. Within days he was leading protests again. He called his escape “a miracle.”

Mr. Hamadeh’s account, told over Skype, and those of other former prisoners suggest an uneven mix of control and chaos inside Syria’s prisons and detention centers, laced with episodes of unpredictable cruelty. Government opponents believe that more than 200,000 people have been held in those jails in connection with the country’s civil war.

The prisoners’ stories, which could not be independently confirmed, reveal partial breakdowns of order beneath the surface of a still-functioning system, as well as the day-to-day negotiations that prisoners and guards engage in to survive a patchy conflict where neither side is entirely secure.

In the restive city of Homs, a kind of easing of tensions has held for months in the central prison, said a former inmate, Mohammed, after a revolt last year by prisoners packed shoulder to shoulder with inch-deep urine sloshing at their feet.

The guards lacked the staffing — and perhaps the stomach — to restore control by force, and the prisoners could not escape because the building is surrounded by government sniper nests, Mohammed said.

“We told them, if you try to come in, you will kill some of us, and then we will get your guns and kill you,” he said recently in Beirut, asking that only his first name be published for his safety.

So, he said, they struck a truce under which the prisoners would not try to break out of the prison and the guards would grant them more space, autonomy and food. The prisoners use cellphones, enhancing the signal with antennas built from soda cans and pot lids using instructions found on YouTube. Some have made their own swords, using ceiling fans coated with sandpaper as whetstones to sharpen steel from bed frames, according to Mohammed, who said he was jailed for providing food to families in Homs and freed in June in a prisoner exchange.

Because Syria’s government has not allowed inspections by the International Committee of the Red Cross or other independent groups, it is impossible to know how many people are imprisoned and under what conditions. But the Syrian Observatory for Human Rights, an opposition group based in Britain, had tallied 30,000 people jailed as of April, and 200,000 who have cycled through detention facilities during two and a half years of conflict.

Former prisoners have described numerous cases of torture and rape in prisons and makeshift jails, many documented by groups like Human Rights Watch.

Mr. Hamadeh’s account gives a window into the current state of a notorious jail, the branch office of the air force intelligence agency in Harasta outside Damascus, and how one Syrian ended up there. He said he grew up poor in the nearby town of Saqba. He left school after the seventh grade to work as a carpenter and dreamed of building a house for his family.

When the uprising against President Bashar al-Assad began in March 2011, he became the area’s chanter and was known as “the nightingale” for his ability to lead crowds of protesters in lilting call-and-response rhymes. At a protest in Saqba in 2011, his face was wrapped in the old Syrian flag, adopted as the symbol of the revolt.

Within a year, he said, he had acquired a weapon, even as he continued humanitarian work like helping at field hospitals. The move made his father, an imam who remembered the brutal suppression of an armed Islamist uprising in 1982, uneasy.

La Chiesa in Tunisia proclama una giornata di preghiera e di pace per il mondo arabo

Agenzia Fides
La cattedrale cattolica di Tunisi
Tunisi - La comunità cattolica tunisina ha proclamato una giornata di preghiera e digiuno per la pace, domenica 25 agosto, in solidarietà con le popolazione dei Paesi arabi sconvolti dalle violenze e dall'instabilità.

Lo afferma un comunicato inviato all’Agenzia Fides, firmato da S.E. Ilario Antoniazzi, Arcivescovo di Tunisi. “La nostra Chiesa segue con sofferenza gli avvenimenti dolorosi o instabili che accadono in diversi Paesi arabi, del Medio Oriente e dell’Africa” si legge nel documento. “Crediamo che Dio è il Signore della Storia, e attraverso la fede sappiamo che, anche attraverso le difficoltà, tutto contribuisce al bene di coloro che lo amano sinceramente”.
“Sappiamo anche che il Cuore Misericordioso del Signore non è mai indifferente nei confronti di alcuna sofferenza”.
“Basandoci su questa certezza- continua il comunicato- in solidarietà con tutti i nostri fratelli che soffrono, cristiani o musulmani, chiediamo alle nostre comunità di: consacrare domenica prossima (25 agosto) alla preghiera e al digiuno per la pace; di esortare nelle omelie di domenica a prendere parte all’iniziativa; di proporre a nostri fratelli e sorelle malati di offrire al Signore le loro sofferenze per la pace
“Che attraverso l’intercessione della Vergine Maria, Madre del Signore, Nostra Madre, e Regina della Pace, il Signore ci benedica e benedica ciascuno dei nostri Paesi” conclude Mons. Antoniazzi. (L.M.)

Ministero iracheno pone le basi per un'ulteriore repressione degli iraniani a Campo Liberty, Ashraf

Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniano

Il cosiddetto Ministero iracheno dei Diritti Umani ha pubblicato una dichiarazione piena di bugie circa i residenti iraniani di Campo Ashraf e Campo Liberty in Iraq.

Con la pubblicazione di queste menzogne, il Ministero dei Diritti Umani di Nouri al-Maliki si propone di giustificare e di insabbiare i crimini commessi dal governo iracheno contro i rifugiati iraniani, e di preparare il terreno per un altro massacro. 


La dichiarazione è stata resa pubblica appena gli appelli internazionali per l'immediato ritorno dei residenti di Campo Ashraf sono diventati molto più forti e diffusi dopo i tre attacchi missilistici contro Campo Liberty - che hanno portato all'uccisione di 10 residenti e al ferimento di oltre 170 altri -e la mancanza delle minime garanzie di sicurezza a Campo Liberty. 

La dichiarazione è stata anche resa pubblica nel momento in cui le forze irachene hanno tagliato il pompaggio di acqua, la fornitura di energia elettrica e cibo a Campo Ashraf per ordine del Primo Ministro iracheno e del regime iraniano, con l'intenzione di costringere i restanti 100 residenti a lasciare il campo e ad abbandonare le proprietà e le attività che proteggono.

Con questa misura, che costituisce un flagrante delitto contro l'umanità, il governo iracheno sta pateticamente cercando di scoraggiare coloro che sostengono che i residenti di Campo Liberty debbano tornare a Campo Ashraf.

La dichiarazione del Ministero iracheno dei diritti umani inizia con una pura menzogna per cui "il governo iracheno agisce secondo il Protocollo d’Intesa (MoU) firmato dalle Nazioni Unite, dai residenti del campo e dal governo iracheno".

Il Protocollo d'Intesa è stato firmato solo da Martin Kobler e dal rappresentante del governo iracheno, e gli abitanti non hanno firmato né sono d'accordo con esso. Inoltre, lo stesso Protocollo d'Intesa è stato violato centinaia di volte dal governo iracheno.

Secondo il Protocollo d'Intesa, Campo Liberty è una posizione temporanea di transito e un luogo pensato per poche settimane o mesi di permanenza. Tuttavia, 18 mesi sono passati e solo il 5 per cento dei residenti sono stati trasferiti fuori dall'Iraq e non vi è alcuna prospettiva per il trasferimento di quelli restanti.

Secondo il Protocollo d'Intesa, Campo Liberty deve soddisfare gli standard dei diritti umani e umanitari, ma è chiaramente lontano dal soddisfare tali standard.

Un rapporto di un esperto dell'UNHCR del 19 gennaio 2012 - che Martin Kobler ha coperto e distorto - stabilisce che Campo Liberty non riesce a soddisfare gli standard umanitari per i rifugiati, gli standard fissati dall'Organizzazione Mondiale della Sanità e SPHERE.

Il cosiddetto Ministero dei Diritti Umani definisce la L’OMPI come organizzazione terroristica e aggiunge: " Il governo iracheno ha l'obbligo di attuare la Costituzione, e non di mantenere i membri di questa organizzazione sul suolo iracheno".

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Bolivia, scontri in carcere a Sant Cruz: 30 morti, tra loro un bambino

La Presse
La Paz (Bolivia),  - È salito ad almeno 30 morti e 60 feriti il bilancio degli scontri scoppiati ieri in Bolivia all'interno del carcere di massima sicurezza di Palmasola, fuori da Santa Cruz, nell'est del Paese. Lo fa sapere l'ufficio di Santa Cruz dell'Assemblea permanente per i diritti umani. Tra le vittime anche un bambino di un anno e mezzo. Due mesi fa le Nazioni unite si sono lamentate con il governo della Bolivia contestando la sua politica di permettere ai bambini fino a sei anni di vivere con i genitori in carcere. Si è trattato di scontri fra detenuti per il controllo degli spazi del carcere.

GLI SCONTRI E LE VITTIME. Sembra che a scatenare gli scontri sia stato il rifiuto della gang di una unità di celle a pagare ai rivali dell'altra un'unità. Questi ultimi avrebbero dunque attaccato circa all'alba, mentre la maggior parte dei detenuti stava dormendo. Molte delle vittime sono morte a causa di un incendio. I disordini sono cominciati infatti con l'esplosione indotta di una bombola di gas, che ha provocato un rogo. Molti dei corpi sono stati ritrovati bruciati. "Si è trattato di una battaglia per il controllo di due unità della prigione", ha spiegato ai giornalisti il capo nazionale della polizia, Alberto Aracen, aggiungendo che i detenuti dell'unità A hanno fatto esplodere la bombola intorno all'alba nell'unità B. Dopo l'esplosione si sono sentiti spari. Secondo quanto ha riferito il ministro dell'Interno, Carlos Romero, nell'attacco sono stati utilizzati anche coltelli e machete. Alle autorità sono servite oltre quattro ore per riportare la situazione sotto controllo.

PALMAROLA IL CARCERE PIU' GRANDE DELLA BOLIVIA. Il carcere di Palmasola, con i suoi circa 3.500 detenuti la maggior parte dei quali in attesa di processo, è la prigione più grande della Bolivia e secondo le autorità quello di ieri sera è stato l'episodio peggiore di violenza in carcere mai avvenuto nel Paese. Nonostante siano stati avvertiti spari non sono state sequestrate pistole. Il ministro dell'Interno ha fatto sapere che sono stati individuati i presunti leader della rivolta e che altri 50 detenuti sono stati messi in isolamento.

LA COSTERNAZIONE DEL PRESIDENTE MORALES. Il presidente boliviano Evo Morales ha espresso costernazione e ha fatto sapere di avere ordinato una indagine accurata. Le sue dichiarazioni sono state riportate dall'agenzia di stampa Abi.