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giovedì 31 marzo 2016

Israele respinge automaticamente le richieste di asilo da Eritrea e Sudan presentate in ritardo

Blog Diritti Umani - Human Rights
Le richieste da parte dei richiedenti asilo presentate da cittadini eritrei e sudanesi più di un anno dopo l'ingresso nel paese sono state negate automaticamente, nonostante il fatto che molti non erano in grado di presentare una richiesta di asilo durante il primo anno in Israele.



Negli ultimi due anni, migliaia di cittadini eritrei e sudanesi hanno presentato richieste di asilo. Ma a parte alcuni che sono stati riconosciuti come rifugiati, l'amministrazione ha negato tutte le richieste. Nella maggior parte dei casi per gli eritrei la richiesta è stata negata in quanto la diserzione dall'esercito eritreo non è stata considerata una ragione sufficiente per ricevere lo status di rifugiato.

L'amministrazione non ha risposto neanche a tutte le richieste presentate da persone provenienti dal Darfur nel Sudan occidentale, anche se alcuni di loro le avevano presentate più di tre anni fa.

Una clausola entrata in vigore nel gennaio 2011 afferma che "un cittadino straniero che deposita la domanda di asilo politico dopo un anno da quando ha fatto ingresso in Israele sarà respinta."

La procedura dice anche che "se il candidato ha dato motivi particolari per il ritardo della sua domanda, la sua richiesta sarà esaminata dal capo di una squadra che deciderà se accettare o meno la richiesta nonostante il ritardo.

Da quello che si è potuto accertare l'amministrazione ha iniziato a fare uso di questa clausola solo dall'estate 2015.

Si è verificato che molti migranti eritrei e sudanesi non hanno potuto presentare domanda de asilo in precedenza o perché in stato di detenzione in Israele nei campi per immigrati o perché non informati adeguatamente o assistiti adeguatamente nella compilazione della domanda.


ES

Fonte: www.haaretz.com

USA - Ergastolo per possesso di droga. Obama commuta la pena a 61 detenuti con questo reato

Ansa
Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha commutato la pena per 61 detenuti condannati per reati di droga. Si tratta di una passo significativo verso la riforma della Giustizia penale che Obama spinge da tempo. 

La visita di Obama al penitenziario di El Reno, Oklahoma nel 
luglio 2015. Primo presidente americano visitare un carcere
Oltre un terzo dei detenuti interessati dal provvedimento è stato condannato all'ergastolo, tutti per possesso di droga, intenzione di cedere sostanze stupefacenti e reati affini. 

La gran parte sono considerati non violenti sebbene alcuni erano stati incriminati di reati relativi al possesso di armi da fuoco. L'intervento di Obama è volto a ridurre le loro sentenze, con la gran parte dei detenuti che verranno rilasciati il prossimo 28 luglio. 

L’insegnante dell’anno è una donna, una musulmana, una rifugiata.

Notizie Italia News
Costruire un mondo migliore. Con le armi dell’istruzione e dell’incontro
Qualcosa su cui riflettere, in questi tempi di semplificazioni ….
Si chiama Hanan Al Hrub, è palestinese. Cresciuta in un campo profughi, è oggi impegnata nella trasmissione di una cultura della pace e dell’incontro alle generazioni più giovani. Il suo nome è stato annunciato come il vincitore del Global Teacher Prize un paio di settimane fa dallo stesso papa Francesco.


Il pontefice ha voluto ricordare come i docenti siano “artigiani di umanità”, come la loro professione dovrebbe essere “la più rispettata della società”.
Dal canto suo Hanan Al Hrub ha dichiarato:
 “Sono nata e cresciuta in un campo profughi tra violenza, soprusi e tensione quotidiana. Non ho avuto una vera infanzia e invece vorrei che i nostri figli, e tutti i bambini del mondo, potessero ridere, giocare, imparare a convivere in un clima sereno”.
E’ terribile leggere queste righe dopo quanto accaduto a Lahore. Ma resta vero che l’unica speranza che l’orrore di qualche giorno fa possa essere superato sta in quel miracolo lento, eppure solido e duraturo, che si origina in tutte le scuole del pianeta: “Sono diventata insegnante per crescere una generazione che sappia vivere in pace”, ha detto sempre la Al Hrub. “Le nostre armi sono solo l’educazione e l’istruzione. Con quelle possiamo cambiare il mondo, farlo diventare un luogo più giusto e pacifico”.

Francesco De Palma

mercoledì 30 marzo 2016

USA - Mississippi - Pena di morte - Ritorna la fucilazione l'iniezione letale è difficile e costa troppo

Smartweek
La Mississippi House of Representatives permette allo Stato di attuare l’esecuzione dei prigionieri condannati a morte attraverso la fucilazione con un plotone di esecuzione, solo se per i funzionari statali l’iniezione letale risulta essere troppo costosa o inattuabile.
Ad inizio anno, il procuratore generale Jim Hood, ha chiesto ai membri della camera del Missisipi di approvare metodi di esecuzione alternativi alla somministrazione di farmaci letali. Somministrare un cocktail di farmaci letali, infatti, risulta essere troppo costoso per le casse dello stato. Un metodo meno dispendioso potrebbe essere, quindi, quello di eseguire le pene capitali per fucilazione.

Il repubblicano Robert Foster ha affermato che il plotone di esecuzione è un’opzione più umana e più efficace dell’iniezione letale. Secondo il membro del partito repubblicano, inoltre, anche la stragrande maggioranza dei residenti in Mississippi sarebbe a favore dell’introduzione di un plotone di esecuzione per eseguire le condanne a morte. Questa è ad esempio una sua dichiarazione a favore dell’introduzione di questo metodo “alternativo” di attuazione della condanna alla pena capitale:
E ‘stata una delle pratiche più comuni della storia, è molto immediata ed è quanto di più umano che si possa proporre per un’esecuzione”.
I politici contrari alla pena capitale hanno definito quest’idea come qualcosa di “barbarico”. Jim Craig, avvocato che ha citato in giudizio lo stato del Mississippi per il suo modo di compiere esecuzione attraverso somministrazione di farmaci letali, ha fatto notare come i legislatori abbiano votato la proposta di introdurre metodi alternativi per eseguire le condanne a morte nel pomeriggio del Venerdì Santo, il giorno in cui i cristiani credono che Cristo fu crocifisso . Jim Craig ha, inoltre, affermato:
“Trovo francamente disgustoso che, nel corso della settimana durante la quale si ricorda l’esecuzione di Gesù di Nazareth, i legislatori del Mississippi vogliano riportare il Mississippi indietro fino al 19 ° secolo”.
La Corte Suprema del Mississippi ha ascoltato le argomentazioni di Jim Craig a novembre, ma non si è ancora pronunciata sulla questione, molti secondini, invece, si sono rifiutati di far parte di un eventuale plotone di esecuzione per paura di rappresaglie future nei loro confronti.

Robert Dunham, direttore esecutivo del Death Penalty Information Center, ha affermato che da quando è stata istituita la pena di morte, lo Utah risulta essere l’unico paese americano che ha eseguito le condanne a morte per fucilazione. La Death Penalty Information Center,un’organizzazione senza scopo di lucro che si oppone alla pena capitale, fa notare come lo Utah abbia eseguito ben 3 condanne a morte tramite fucilazione, la più recente delle quali nel 2010.

Il problema, purtroppo, non sembra riguardare il solo stato del Mississippi, in Virginia, ad esempio, il Senato ha approvato un disegno di legge che permetterà allo Stato di effettuare esecuzioni mediante sedia elettrica quando non si è in grado di reperire i farmaci necessari per l’iniezione letale. 

Migranti, solo l’1 per cento dei rifugiati siriani accolto dai Paesi ricchi

Il Fatto Quotidiano
Su cinque milioni di rifugiati siriani in fuga, solo l’1,39 per cento è stato accolto da Paesi ricchi. La maggior parte delle persone si trova in stati che confinano con la Siria come la Turchia, il Libano, la Giordania e l’Iraq. E’ quanto sostiene lo studio di Oxfam, reso pubblico alla vigilia di una riunione di Alto livello sulla condivisione di responsabilità globale per i rifugiati siriani, in programma aGinevra in presenza del Segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon e dell’Alto commissario Onu per i rifugiati (Unhcr), Filippo Grandi.


Nello studio Oxfam esorta i Paesi attesi alla conferenza ad impegnarsi ad accogliere globalmente almeno il 10 per cento dei rifugiati siriani entro la fine del 2016, tramite meccanismi di reinsediamento o altre forme di ammissione umanitaria. 

La percentuale corrisponde ai rifugiati identificati come vulnerabili dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) ed è equivalente a 481.220 persone. Secondo l’organizzazione non governativa britannica, solo tre paesi - Canada, Germania, Norvegia – hanno fatto promesse di reinsediamento superiore alla loro ‘quota equa’ calcolata in base alle dimensioni della loro economia, e cinque altri Paesi (Australia, Finlandia, Islanda, Svezia, Nuova Zelanda) hanno assunto impegni superiori.

Gli altri 20 paesi inclusi nell’analisi sono esortati a fare di più. Ad esempio – afferma Oxfam – la Francia si è impegnata per una quota pari al 4% della sua quota equa. Per l’Italia la percentuale è del 7%. Per Winnie Byanyima, direttrice esecutiva di Oxfam International, mentre il conflitto siriano entra nel suo sesto anno, più di 4,8 milioni di siriani sono rifugiati in Turchia, Libano, Giordania e nella regione, ma questi Paesi “non possono più assumersi questa responsabilità praticamente da soli. L’incontro di Ginevra dovrebbe portare a soluzioni urgenti, offrendo alle persone percorsi sicuri e legali per essere accolte in paesi terzi”.

Marea nera su isole Kerkennah, a sud di Lampedusa da una piattaforma offshore. Nessuno ne parla

Greenreport.it
Il 14 marzo una marea nera si è riversata sulle coste delle isole Kerkennah, in Tunisia, ma nonostante sia numerose pagine Facebook (come Kerkennah Islands) sia qualche giornale on-line abbiano pubblicato le foto del disastro (che in parte ri-pubblichiamo) la grande stampa tunisina ha praticamente ignorato l’evento, e altrettanto ha fatto quella italiana.

Eppure l’arcipelago delle Kerkenah è a soli 120 km a sud di Lampedusa, ed è noto a molti italiani sia per le sue magnifiche spiagge sia per la sua economia basata in gran parte ancora sulla pesca. Mentre scriviamo, come dice su Kerkennah Islands un cittadino tunisino, è stato fatto molto poco per «un problema ecologico molto grave che bisogna risolvere il più rapidamente possiibile».

Umberto Segnini di IsolaMondo, che conosce molto bene le Kerkennah, spiega che «lo sversamento viene da una piattaforma a 7 km dalla costa. Gli organi di informazione ufficiale e le compagnie petrolifere minimizzano, ma il problema è serio e la gente dell’isola è arrabbiata e preoccupata». 

Sotto accusa è soprattutto la Petrofac, una compagnia britannica specializzata nella fornitura di servizi all’industria petrolifera, ma Segnini evidenzia che «la pesca è l’attività principale dell’arcipelago, da quando hanno iniziato a trivellare nel Golfo di Gabes sono iniziati i problemi perché l’inquinamento collegato alle attività estrattive ha fatto diminuire drasticamente il numero delle spugne e anche il pescato ha subito un calo. I kerkenni sono isolani pacifici e accoglienti e tengono tantissimo al loro mare e alla qualità dell’ambiente; già in passato sono state fatte battaglie contro le compagnie petrolifere e si sono opposti con successo alla costruzione di un aeroporto che avrebbe cambiato il loro stile di vita, senza farsi convincere da promesse di lavoro e ricchezza»

[...]

di
Umberto Mazzantini

martedì 29 marzo 2016

Migranti: incendio in campo profughi in Turchia, morti 3 bambini

Ansa
Tre bambini sono morti in un incendio divampato in un campo profughi in Turchia, al confine con la Siria. Lo riferisce l'agenzia turca Anadolu. Le fiamme sono divampate, per cause ancora da accertare, nel campo allestito vicino alla città di , nella provincia turca di Mardin che ospita al momento 20mila profughi. 


Le vittime sono 3 bambini di età compresa tra i 3 e gli 8 anni. La scorsa settimana, un altro bambino è morto in un incendio divampato nello stesso campo profughi e che ha distrutto 21 tende.

I morti del Pakistan ignorati in Europa. Intervista ad Andrea Riccardi

www.andreariccardi.it
Massacro di Pasqua, Riccardi: nessun lutto è troppo distante, stiamo attenti al veleno dell’assuefazione

Il grido di dolore levato da papa Francesco all’indomani del sanguinoso attentato di Lahore che ha visto morire 72 persone, delle quali 30 bambini, deve scuotere le coscienze di tutti. A pochi giorni dalle efferate stragi di Bruxelles, il cordoglio per le vittime dei talebani in Pakistan e per quelle dimenticate dello stadio di Iskanderiyah, in Iraq, dove sabato hanno perso la vita 141 persone, di cui 17 ragazzini, è sembrato infatti assai meno intenso e partecipato. In primis a Parigi, dove il sindaco si è rifiutato di illuminare la Torre Eiffel in ricordo delle vittime di Lahore. «Guai a cedere alla logica dell’inevitabilità della morte», ammonisce lo storico Andrea Riccardi. «Anche laddove l’eccidio per mano barbara irrompe con maggiore frequenza, bisogna guardarsi dal veleno dell’assuefazione», chiosa lo storico fondatore della Comunità di Sant’Egidio. Che proprio oggi ha dato appuntamento stasera alle 20 ai fedeli presso la Basilica di Santa Maria in Trastevere di Roma in occasione della preghiera per la pace in Pakistan.

Presidente, l’Occidente ferito rischia di concentrarsi soltanto sui «propri morti» e di relegare in un angolo drammi più «lontani» come quelli delle minoranze cristiane in Pakistan e di civili inermi come quelli morti allo stadio in Iraq per mano di un kamikaze?
«Gli attentati di Parigi hanno suscitato un forte salto emotivo in tutto il Vecchio continente. L’idea che l’orrore possa colpire e falcidiare vite umane nel cuore dell’Europa, divenuta tragica e reale, ci ha indotto a immedesimarci di più in drammi, come pure è stato quello di Bruxelles, che sentiamo vicini, immediati e incombenti».
Il sindaco di Parigi ha spiegato di non voler illuminare la Torre Eiffel, perché si tratta di un’azione che deve essere destinata a vicende eccezionali. Laddove gli attentati sono diffusi e ormai innumerevoli, come in Pakistan, i morti non meritano ricordo?
«Non conosco nel dettaglio le motivazioni che hanno spinto Parigi a negare la commemorazione ai morti in Pakistan. Ma ciò che importa davvero rilevare è che la paura che attanaglia l’Occidente di questi tempi, non può e non deve comprimere i sentimenti di solidarietà e cordoglio verso fatti di sangue apparentemente più lontani e meno intelligibili. Dice un proverbio ebraico che quando uccidi un uomo, uccidi il mondo intero. La cultura della morte deve restare inaccettabile ad ogni latitudine. Guai a cedere alla logica dell’inevitabilità».
In assenza di pari dignità concessa ai morti, non c’è il rischio di trasformare le vittime e le celebrazioni in totem per adoratori dello scontro di civiltà?
«Ricordo che tempo fa, dopo un fatto di sangue in Africa, un giornale dedicò il titolo principale a un europeo che era rimasto ucciso. Erano stati ammazzati anche 30 africani. Ma a loro era stato dedicato solo una piccola aggiunta. Nessun lutto è abbastanza distante o indifferente da essere ignorato».
I media non rischiano di abdicare al loro compito, se rinunciano a raccontare e spiegare proprio quelle cose apparentemente più lontane ma altrettanto umane, in un mondo che si pretende globale?
«Il mondo è complesso e interconnesso, ma le cose in fondo non sono viste secondo un’ottica globale. Accade così che anche i media assecondino spesso una logica emotiva che pone in primo piano tragedie vicini e tangibili come quelle che hanno funestato l’Europa, e che i fedeli cristiani uccisi in preghiera a Lahore da fondamentalisti sempre più fuori controllo, restino più distanti dai nostri cuori. Ciò che è accaduto laggiù è però un grido che ci impone di non essere distratti. I cristiani pachistani sono un bersaglio facile perché si tratta di persone povere ed emarginate. Una minoranza dimenticata che non possiamo e non dobbiamo dimenticare anche noi nell’idea che in fondo, noi, non possiamo farci niente».
Il grido di dolore levato da papa Francesco all’indomani del sanguinoso attentato di Lahore che ha visto morire 72 persone, delle quali 30 bambini, deve scuotere le coscienze di tutti. A pochi giorni dalle efferate stragi di Bruxelles, il cordoglio per le vittime dei talebani in Pakistan e per quelle dimenticate dello stadio di Iskanderiyah, in Iraq, dove sabato hanno perso la vita 141 persone, di cui 17 ragazzini, è sembrato infatti assai meno intenso e partecipato. In primis a Parigi, dove il sindaco si è rifiutato di illuminare la Torre Eiffel in ricordo delle vittime di Lahore. «Guai a cedere alla logica dell’inevitabilità della morte», ammonisce lo storico Andrea Riccardi. «Anche laddove l’eccidio per mano barbara irrompe con maggiore frequenza, bisogna guardarsi dal veleno dell’assuefazione», chiosa lo storico fondatore della Comunità di Sant’Egidio. Che proprio oggi ha dato appuntamento stasera alle 20 ai fedeli presso la Basilica di Santa Maria in Trastevere di Roma in occasione della preghiera per la pace in Pakistan.
Presidente, l’Occidente ferito rischia di concentrarsi soltanto sui «propri morti» e di relegare in un angolo drammi più «lontani» come quelli delle minoranze cristiane in Pakistan e di civili inermi come quelli morti allo stadio in Iraq per mano di un kamikaze?
«Gli attentati di Parigi hanno suscitato un forte salto emotivo in tutto il Vecchio continente. L’idea che l’orrore possa colpire e falcidiare vite umane nel cuore dell’Europa, divenuta tragica e reale, ci ha indotto a immedesimarci di più in drammi, come pure è stato quello di Bruxelles, che sentiamo vicini, immediati e incombenti».
Il sindaco di Parigi ha spiegato di non voler illuminare la Torre Eiffel, perché si tratta di un’azione che deve essere destinata a vicende eccezionali. Laddove gli attentati sono diffusi e ormai innumerevoli, come in Pakistan, i morti non meritano ricordo?
«Non conosco nel dettaglio le motivazioni che hanno spinto Parigi a negare la commemorazione ai morti in Pakistan. Ma ciò che importa davvero rilevare è che la paura che attanaglia l’Occidente di questi tempi, non può e non deve comprimere i sentimenti di solidarietà e cordoglio verso fatti di sangue apparentemente più lontani e meno intelligibili. Dice un proverbio ebraico che quando uccidi un uomo, uccidi il mondo intero. La cultura della morte deve restare inaccettabile ad ogni latitudine. Guai a cedere alla logica dell’inevitabilità».
In assenza di pari dignità concessa ai morti, non c’è il rischio di trasformare le vittime e le celebrazioni in totem per adoratori dello scontro di civiltà?
«Ricordo che tempo fa, dopo un fatto di sangue in Africa, un giornale dedicò il titolo principale a un europeo che era rimasto ucciso. Erano stati ammazzati anche 30 africani. Ma a loro era stato dedicato solo una piccola aggiunta. Nessun lutto è abbastanza distante o indifferente da essere ignorato».
I media non rischiano di abdicare al loro compito, se rinunciano a raccontare e spiegare proprio quelle cose apparentemente più lontane ma altrettanto umane, in un mondo che si pretende globale?
«Il mondo è complesso e interconnesso, ma le cose in fondo non sono viste secondo un’ottica globale. Accade così che anche i media assecondino spesso una logica emotiva che pone in primo piano tragedie vicini e tangibili come quelle che hanno funestato l’Europa, e che i fedeli cristiani uccisi in preghiera a Lahore da fondamentalisti sempre più fuori controllo, restino più distanti dai nostri cuori. Ciò che è accaduto laggiù è però un grido che ci impone di non essere distratti. I cristiani pachistani sono un bersaglio facile perché si tratta di persone povere ed emarginate. Una minoranza dimenticata che non possiamo e non dobbiamo dimenticare anche noi nell’idea che in fondo, noi, non possiamo farci niente».
di Andrea Riccardi

Immigrazione - Salvati 752 migranti nel Canale di Sicilia in 24 ore

Askanews
A Pozzallo approdata nave Siem Pilot con 730 persone
Palermo  - Sono complessivamente 752 i migranti tratti in salvo nella giornata di ieri nel Canale di Sicilia, nel corso di 6 distinte operazioni di soccorso coordinate dalla Centrale Operativa della Guardia Costiera di Roma del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti.

Migranti a bordo della nave norvegese 'Siem Pilot' 
In particolare, Nave Diciotti CP941 della Guardia Costiera ha soccorso due gommoni, portando in salvo 246 migranti. La nave rumena MAI, inserita nel dispositivo Triton di Frontex, ha salvato 252 persone a bordo di due gommoni. Sui restanti due gommoni sono intervenute la nave inglese Enterprise, inserita nel dispositivo EunavforMed, che ha salvato 129 persone, e la nave Aquarius, dell'ong Sos Méditerranée, che ne ha salvate 125. Alle operazioni ha preso parte Nave Aliseo, della Marina Militare italiana, inserita nel dispositivo Mare Sicuro.
Stamani invece ha ormeggiato al porto di Pozzallo la nave norvegese della Marina militare 'Siem Pilot' con a bordo 730 migranti salvati il giorno di Pasqua nel Canale di Sicilia. Dopo il completamento delle visite mediche, i migranti verranno trasferiti in altri centri della Sicilia dopo le procedure di identificazione nell'hotspot di Pozzallo.

lunedì 28 marzo 2016

Un segno di pace nei cieli dell'Europa mentre guerre e terrorismo affliggono vari Paesi nel mondo - Una foto incredibile

Blog Diritti Umani - Huma Rights

Il fotografo svedese autore dello scatto:
"Ho scattato quest'immagine il 19 marzo a Bohuslan, in Svezia. E' una foto che capita di fare una volta nella vita. Sono un fotografo naturalista, ho visto questi uccelli da molto lontano e ho scattato diverse volte. Quando mi sono passati vicino hanno composto la forma di un grande uccello. Mi ha fatto pensare a un segno di pace della natura contro il terrore e il male del mondo''. 
A spiegarlo è Axel Hagstrom, autore di questa fotografia pubblicata su Le Monde e subito ripresa dalla rete


Roma, famiglie rom di via Salaria: il TAR sospende gli ordini di allontanamento del Comune di Roma

Blog Diritti Umani - Human Rights
Il 24 marzo 2016 il T.A.R. del Lazio ha accolto la sospensione degli ordini di allontanamento di cinque famiglie Rom dal Centro di Raccolta di Via Salaria 971 richiesta dall’Avv. Simonetta Crisci. Nel merito, il provvedimento con il quale Roma Capitale aveva intimato di lasciare la struttura entro domani 28 marzo 2016, giorno di pasquetta, verrà discusso nella seduta del Tribunale fissata per il 20 aprile.

Centro di Raccolta di Via Salaria 971
La lotta dei Rom che si sono opposti alla decisione del Comune senza fornire alcuna soluzione alloggiativa alternativa, come previsto invece dalle normative italiane ed europee, inizia ad avere i primi successi.
Il 25 marzo 2016 la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo aveva accolto un altro ricorso presentato da una donna Rom disabile e da sua figlia, entrambi residenti nella Casa della Solidarietà di Via Salaria.
Era il 9 marzo 2016 quando agli ospiti della struttura viene notificato un ordine di allontanamento (protocollo n. QE/18767) firmato dal Direttore delle Politiche Sociali di Roma Capitale Antonino De Cinti. Le famiglie devono allontanarsi e “lasciare liberi gli spazi assegnati, liberi da cose e persone entro e non oltre la data del 28 marzo 2016”. 

Il documento ricorda che le famiglie sono state accolte nella struttura il 27 novembre 2000 ed in “considerazione del carattere di temporaneità dell’accoglienza e del tempo di permanenza” vengono formalmente dimesse.

Le 35 famiglie si oppongono al provvedimento ed iniziano una lotta in difesa della vita. A loro si uniscono tutti gli uomini, gli anziani, i disabili, le donne ed i bambini presenti nella struttura.

Egitto - Repressione senza precedenti contro i difensori dei diritti umani

Corriere della Sera - Blog
Domani, martedì 29 marzo, Mozn Hassan, la fondatrice del Centro Nazra per gli studi sul femminismo, dovrà comparire di fronte a un giudice del Cairo nell’ambito di un’inchiesta che va avanti da cinque anni sul finanziamento e il riconoscimento ufficiale delle organizzazioni indipendenti egiziane per i diritti umani.
Mozn Hassan
L’inchiesta, avviata nel luglio 2011, mira a mettere il bavaglio alle organizzazioni non governative (Ong), sempre più viste come nemiche dallo stato egiziano. Finora, ha portato nel giugno 2013 alla condanna di 43 operatori locali o stranieri a pene da uno a cinque anni di carcere (in alcuni casi emesse in contumacia, in altri sospese) e alla chiusura di cinque Ong internazionali: l’Istituto nazionale democratico, Freedom House, il Centro internazionale per i giornalisti e la Fondazione Konrad Adenauer.

Sulla base della legge egiziana, i difensori dei diritti umani che agiscono senza che la loro attività sia stata riconosciuta dallo stato o che ricevono fondi dall’estero possono essere incriminati e, per questo secondo reato, a seguito di un emendamento proposto nel settembre 2014 dal presidente al-Sisi, possono essere condannati all’ergastolo (commutato automaticamente in 25 anni di carcere).

Il caso di Mozn Hassan, la cui organizzazione è stata peraltro riconosciuta nel 2007, non è per niente isolato.

Il 17 febbraio il ministero della Sanità ha disposto la chiusura del Centro Nadeem per la riabilitazione delle vittime della violenza e della tortura, sostenendo che lavorasse senza autorizzazione (concessa invece nel 1993).

A febbraio un tribunale ha imposto il divieto di espatrio a Hossan Bahgat (giornalista, collaboratore del portale Mada Masr e fondatore dell’Iniziativa egiziana per i diritti della persona) e a Gamal Eid (direttore della Rete araba per l’informazione sui diritti umani). I due difensori dei diritti umani rischiano anche il congelamento dei loro conti bancari.

Nelle ultime settimane, il medesimo divieto di espatrio è stato imposto anche nei confronti di altri 10 difensori dei diritti umani, tra i quali Mohamed Lotfy, direttore della Commissione egiziana per i diritti e le libertà, e quattro impiegati dell’Accademica democratica egiziana (riconosciuta dal 2015).

Il 3 marzo è stato interrogato l’avvocato Negad al-Borei, direttore del Gruppo Unito, uno studio legale che si occupa di casi di tortura. Ad al-Borei è stato tra l’altro rinfacciato di aver fatto “pressioni” sul presidente egiziano perché venisse adottata una legge contro la tortura, ed è noto quanto di un provvedimento del genere ce ne sarebbe bisogno!

Tra il 13 e il 15 marzo è stata la volta di tre impiegate del Centro Nazra per gli studi femministi, due impiegati dell’Istituto di studi sui diritti umani e un impiegato del Gruppo Unito.

Chiudendo le Ong e minacciando i loro attivisti col carcere, l’Egitto sta raggiungendo un obiettivo palese: evitare ogni forma di monitoraggio indipendente, impedendo che si facciano ricerche e studi sulla situazione dei diritti umani. Sarà così ancora più facile depistare, insabbiare, presentare fantasiose e offensive “verità” e garantire l’impunità nei tanto frequenti casi di sparizione, tortura e omicidio.

di Riccardo Noury

#PrayForLahore

Blog Diritti Umani - Human Rights


Pakistan: Nel giorno di Pasqua kamikaze fa strage di cristiani a Lahore, 
72 morti, maggior parte donne e bambini





domenica 27 marzo 2016

Giordania: Amnesty International denuncia violazioni dei diritti umani

Ansa
Amnesty International ha criticato oggi in un rapporto la Giordania per quelle che giudica violazioni dei diritti umani, compreso il mancato accesso dei rifugiati siriani alle cure mediche, il maltrattamento di detenuti e la repressione della libertà di stampa. 

Campo profughi in Giordania
Amman, si sottolinea tra l'altro nel rapporto, "ha negato l'ingresso ad oltre 12.000 rifugiati dalla Siria, che sono rimasti bloccati in difficili condizioni in un'area desertica sul versante giordano della frontiera con la Siria". 

Per quanto riguarda la libertà di espressione, Amnesty lamenta che i giornalisti siano spesso arrestati e processati per la pubblicazione di commenti critici verso le autorità. "Le autorità - afferma l'organizzazione - hanno ristretto i diritti alla libertà di espressione, associazione e raduno usando leggi che criminalizzano le proteste e altre forme di espressione pacifiche. Decine di giornalisti e attivisti sono stati arrestati".

Buona Pasqua a tutti i lettori del Blog con la speranza nei #corridoiumanitari

Blog Diritti Umani - Human Rights
Auguri di una Buona Pasqua a tutti i lettori di questo BlogI corridoi umanitari aperti dalla Comunità di Sant’Egidio, dalla Federazione delle Chiese evangeliche e dalla Tavola valdese hanno fatto arrivare in modo sicuro nel mese di febbraio più di 100 rifugiati in situazione di particolare vulnerabilità: donne, bambini, anziani, malati, disabili. Sono previsti altri 1.000 rifugiati che arriveranno con questo progetto. E' un segno di speranza che bene incarna la gioia della Pasqua di resurrezione che diventa la possibilità concreta per dei rifugiati di ritrovare una speranza per il futuro. La speranza è che la UE, singoli paesi, organizzazioni, possano imitare questo modello e portare al sicuro migliaia di rifugiati ...

sabato 26 marzo 2016

Giappone, eseguite due condanne a morte. Sono 16 con il premier Shinzo Abe

In Terris
Sale a quota 16 il numero di esecuzioni durante il governo del Premier
Due condannati a morte sono stati eseguiti in Giappone, facendo salire a quota 16 il totale delle esecuzioni disposte dal governo del premier conservatore Shinzo Abe, insediatosi nel dicembre del 2012. Il ministero della Giustizia ha reso noto che si tratta di Yasutoshi Kamata, un uomo di 75 anni, giudicato colpevole dell’omicidio di una bambina di 9 anni a Osaka e di altre quattro donne tra il 1985 e il 1994, e di Junko Yoshida, ex infermiera di 56 anni, autrice di un duplice omicidio nel 1998 e nel 1999 a Fukuoka, allo scopo di riscuotere il premio assicurativo sulla vita.

Nello stato del Sol Levante, la pena di morte è prevista per 18 reati, considerati più gravi, tra cui omicidio, attentato contro lo Stato e uso di esplosivo. Il Ministro della Giustizia è l’unica persona che può firmare l’ordine di esecuzione. La condanna avviene nella casa di detenzione che si trova nelle città che ospita la Corte d’Appello (Sapporo, Sendai, Tokyo, Nagoya, Osaka, Hiroshima, Fukuoka), tramite impiccagione.

Sono scarsissime le informazioni sulla pena capitale in Giappone. Solo di recente, è stato ammesso per la prima volta un gruppo di giornalisti selezionati a visitare il luogo di esecuzione all’interno della casa di detenzione di Tokyo. Dopo la condanna definitiva, i contatti (visite e corrispondenza) vengono limitati ai più stretti familiari e legali, scelti a discrezione della direzione carceraria. Il condannato viene a sapere della propria esecuzione soltanto pochi istanti prima. Per i carcerati che si trovano nel braccio della morte, ogni mattina potrebbe essere l’ultima.

Giulio Regeni, se questa è la verità del Cairo risparmiatecela

Corriere della Sera
Dobbiamo sperare che il governo egiziano abbia un minimo di rispetto prima ancora che del nostro Paese della nostra intelligenza e non insista nel venderci questa versione del delitto Regeni. 


Il governo italiano torni a chiedere la verità. Perché mai un gruppo di banditi specializzato nel "rapire e derubare stranieri" avrebbe torturato per giorni e giorni il povero Giulio Regeni, prima di far ritrovare il suo cadavere? E come mai una gang di criminali comuni ne avrebbe gelosamente conservato la borsa con il passaporto, la carta di credito, i telefonini e perfino "un pezzetto di materiale marrone che sembra hashish"? Per fornire le prove di essere stati proprio loro a ucciderlo?

Dobbiamo sperare che il governo egiziano abbia un minimo di rispetto prima ancora che del nostro Paese della nostra intelligenza, e non insista nel venderci questa versione del delitto Regeni, avallando un depistaggio così scoperto che sembra uscito da un film sulla mafia, con i finti colpevoli fatti ritrovare tutti morti, cosi da non poter smentire.
La notte scorsa però, il ministero dell'Interno egiziano è sembrato proprio avallarla, dopo che media filo governativi l'avevano spacciata, e ha anzi ha concluso il suo comunicato ringraziando l'Italia "per la cooperazione", quasi a considerare chiuso il caso.
L'Italia invece non può affatto ringraziare l'Egitto per la cooperazione, a ormai due mesi dalla scomparsa del giovane ricercatore. Anzi, il governo dovrebbe farsi sentire forse con più forza e determinazione per ottenere ciò che chiediamo fin dal primo giorno: tutta la verità sulla atroce fine di un nostro connazionale, di un ragazzo pieno di curiosità e animato da impegno civile, di uno studioso che voleva conoscere per giudicare. Qualche giorno fa il dittatore Al Sisi ha promesso ai genitori di Giulio e al nostro governo, in un'intervista a Repubblica: "Avrete la verità su Regeni". Se è questa la verità che intendeva, poteva risparmiarcela.

di Antonio Polito

Nigeria - L'esercito nigeriano libera più di 800 ostaggi di Boko Haram

The Post Internazionale
Nel corso delle operazioni militari, le truppe governative hanno annunciato che 25 combattenti del gruppo estremista sono rimasti uccisi

Più di 800 ostaggi in mano ai miliziani del gruppo estremista Boko Haram sono stati tratti in salvo dall'esercito nigeriano. Le truppe governative hanno liberato centinaia di detenuti, tenuti prigionieri dai combattenti in numerosi villaggi dello stato federale del Borno, nel nordest della Nigeria.
Un gruppo di donne rapite da miliziani Boko Haram e liberate dall'esercito nigeriano. Credit: Akintunde Akinleye
Lo hanno annunciato giovedì 24 marzo fonti delle forze armate nigeriane, aggiungendo che tutti gli ostaggi sono stati tratti in salvo. Di questi, 520 sono stati trovati nel villaggio di Kusuma e portati in salvo dopo uno scontro a fuoco tra forze militari e combattenti di Boko Haram. Altri 309 sono stati ritrovati nelle aree sotto il controllo del gruppo estremista.

Le truppe nigeriane hanno anche affermato che nel corso delle operazioni almeno 25 miliziani di Boko Haram sono rimasti uccisi, e che un altro combattente è stato catturato vivo. Sono inoltre state recuperate armi, asce da combattimento e una moto.

Nello stesso giorno in cui l'esercito ha tratto in salvo oltre 800 ostaggi, tuttavia, Boko Haram ha rapito 16 donne, tra cui due bambini, nel vicino stato di Adamawa, sempre nel nordest del paese, area dove il gruppo estremista concentra le sue attività.

"Abbiamo ricevuto informazioni sul rapimento di 14 donne e di due bambine per mano di uomini armati. Si ritiene che essi appartengano al gruppo di miliziani di Boko Haram. Il rapimento è avvenuto nel villaggio di Sabon Garin", ha precisato un portavoce della polizia.

I residenti locali hanno raccontato che le donne sono state rapite mentre erano impegnate a raccogliere legna da ardere e a pescare in un fiume vicino.

"Quando i vigilantes civili preposti a difendere le donne hanno visto avanzare alcuni combattenti pesantemente armati verso di loro sono fuggiti, lasciando le donne al loro destino", ha raccontato un testimone.

"Due donne sono riuscite a fuggire nel fiume facendo finta di essere annegate e sono riuscite a lanciare l'allarme", ha aggiunto un residente del luogo.

Nell'aprile del 2014 più di duecento studentesse erano state rapite dai miliziani di Boko Haram nella città di Chibok, nel nordest della Nigeria.

Più di 2,6 milioni di persone hanno lasciato le loro case dall'inizio della violenze perpetrate da Boko Haram, ma alcuni degli sfollati hanno fatto rientro nelle loro abitazioni e nei loro villaggi dopo che le truppe nigeriane - con il supporto di una coalizione di forze militari del Ciad, del Camerun, del Niger e del Benin - hanno riconquistato gran parte del territorio controllato dai miliziani.

venerdì 25 marzo 2016

Bauman: "Che errore sovrapporre il terrorismo all’immigrazione"

Corriere della Sera
Lo studioso e filosofo polacco spiega che le prime armi dell’Occidente per sconfiggere Isis sono inclusione sociale e integrazione: «Solo la società nel suo insieme può farlo»



Professor Bauman, nel dibattito europeo terrorismo e immigrazione si sovrappongono in una distorsione ottica che fa il gioco dei populisti e ostacola la percezione dei profughi come «vittime». Un meccanismo che sposta il discorso sul piano della sicurezza e legittima i governi a sbarrare le porte, come ha annunciato Varsavia subito dopo gli attentati di Bruxelles. Quali sono i rischi di questa operazione?
«Identificare il “problema immigrazione” con quello della sicurezza nazionale e personale, subordinando il primo al secondo e infine fondendoli nella prassi come nel linguaggio, significa aiutare i terroristi a raggiungere i loro obiettivi. Prima di tutto, secondo la logica della profezia che si auto-avvera, infiammare sentimenti anti-islamici in Europa, facendo sì che siano gli stessi europei a convincere i giovani musulmani dell’esistenza di una distanza insormontabile tra loro, rende molto più facile convogliare i conflitti connaturati alle relazioni sociali nell’idea di una guerra santa tra due modi di vivere inconciliabili, tra la sola vera fede e un insieme di false credenze. In Francia, per esempio, malgrado non siano più di un migliaio i giovani musulmani sospettati di legami con il terrorismo, per l’opinione pubblica tutti i musulmani, e in particolare i giovani, sono “complici”, colpevoli ancor prima che il crimine sia stato commesso. Così una comunità diventa la comoda valvola di sfogo per il risentimento della società, a prescindere dai valori dei singoli, da quanto impegno e onestà questi mettano in gioco per diventare cittadini».

Mantenere una connessione vitale tra «società ospite» e immigrati è sempre più difficile in questo clima di sospetto reciproco. In Paesi che si scoprono inermi, come oggi il Belgio, è saltato il patto sociale sul quale si fondava la speranza dell’integrazione?
«Dal punto di vista dei terroristi, quanto peggiori sono le condizioni dei giovani musulmani nelle nostre società, tanto più forti sono le possibilità di reclutamento. Se cade del tutto la prospettiva di una comunicazione trans-culturale e di un’interazione autentica tra etnie e religioni, si riduce al minimo anche la possibilità di un incontro diretto, del “faccia a faccia” con l’altro, di una reciproca comprensione. A questo si aggiunge la stigmatizzazione di interi gruppi in base a caratteristiche ritenute non sradicabili che li rendono diversi da “noi, i normali”. Ne consegue l’alienazione forzata di persone marchiate come anomale, bandite dal consesso al quale, apertamente o nella profondità dei loro cuori, vorrebbero aderire ma dal quale sono state ostracizzate senza diritto al ritorno, dopo essere state per di più costrette ad accettare il comune verdetto sulla loro inferiorità. Come se fossero loro a non aver saputo raggiungere lo standard richiesto per entrare nel club. Chi viene così stigmatizzato subisce un doloroso colpo al rispetto di sé, che porta senso di colpa e umiliazione. Lo stigma può essere anche percepito come un oltraggio immeritato, che richiede e giustifica una vendetta tanto forte da ribaltare il giudizio della società e re-impossessarsi del rispetto rubato».

Come ristabilire il contatto con questa parte della comunità, cosa può fare la politica?
«I governi non hanno interesse a placare le paure dei cittadini, piuttosto alimentano l’ansia che deriva dall’incertezza del futuro spostando la fonte d’angoscia dai problemi che non sanno risolvere a quelli con soluzioni più “mediatiche”. Nel primo genere rientrano elementi cruciali della condizione umana, come lavoro dignitoso e stabilità della posizione sociale. Nel secondo, la lotta al terrore. Non c’è dubbio sul ruolo che la comunità musulmana deve giocare per combattere la radicalizzazione, dobbiamo comprendere però che solo la società nel suo insieme può sradicare la minaccia comune. Le prime armi dell’Occidente nella lotta contro il terrorismo sono inclusione sociale e integrazione».


Maria Serena Natale

Papa Francesco lava i piedi ai rifugiati: «Siamo fratelli e vogliamo vivere in pace»

Avvenire
«Adesso vi saluterei uno a uno, di tutto cuore; vi ringrazio di questo… E soltanto ricordiamoci e facciamo vedere che è bello vivere insieme come fratelli, con culture, religioni e tradizioni differenti: ma siamo tutti fratelli. E questo ha un nome: pace e amore. Grazie!». 

È con queste parole che Papa Francesco ha concluso la Messa in Coena Domini celebrata nel Centro di accoglienza per richiedenti asilo (CARA) di Castelnuovo di Porto, liturgia durante la quale ha lavato i piedi a dodici ospiti, tre dei quali islamici.

Parole che sintetizzano il significato della scelta di svolgere liturgia del Giovedì Santo in un luogo dove la maggioranza degli ospiti non sono cristiani, ma musulmani. Scelta che pur essendo stata decisa diverso tempo fa, ha assunto un valore del tutto particolare dopo gli attacchi terroristici di Bruxelles.

Nella breve e intensa omelia il Pontefice ha approfondito il senso della sua scelta. «I gesti parlano più delle immagini e delle parole», ha detto, spiegando come nella Parola di Dio appena proclamata ci fossero «due gesti». Il primo «Gesù che serve, che lava i piedi … Lui, che era il 'capo', lava i piedi agli altri, ai suoi, ai più piccoli». Un gesto. Il secondo «Giuda che va dai nemici di Gesù, da quelli che non vogliono la pace con Gesù, a prendere il denaro con il quale lo ha tradito, le 30 monete».

«Anche oggi, qui, ci sono due gesti», ha quindi aggiunto Papa Francesco. Il primo è che «tutti» i presenti, «musulmani, indù, cattolici, copti, evangelici ma fratelli, figli dello stesso Dio» hanno il desiderio di «vivere in pace, integrati». 


Ma a questo gesto, ha aggiunto riferendosi agli attacchi terroristici di Bruxelles, si contrappone quello di «tre giorni fa», un gesto «di guerra, di distruzione in una città dell’Europa, di gente che non vuole vivere in pace». «Ma dietro a quel gesto, come dietro a Giuda, - ha proseguito - c’erano altri». Infatti «dietro a Giuda c’erano quelli che hanno dato il denaro perché Gesù fosse consegnato». Mentre «dietro 'quel' gesto» che ha segnato la capitale belga, «ci sono i fabbricanti, i trafficanti di armi che vogliono il sangue, non la pace; che vogliono la guerra, non la fratellanza».

E dopo aver pronunciato queste parole il Pontefice ha lavato i piedi a dodici ospiti del Cara. Quattro cattolici nigeriani e una italiana, tre donne ortodosse copte, tre musulmani e un indù. Due donne avevano in braccio il figlioletto. Papa Francesco ha lavato e baciato i piedi di ciascuno. Il gesto è stato seguito con grande attenzione, rispetto e commozione da parte tutti i presenti.

Alla cerimonia hanno partecipato anche due imam: l’egiziano Sali Salem della moschea della Magliana e Ihab Abu Muammar di quella del Cara.

giovedì 24 marzo 2016

Burundi: Alto commissariato Onu per i diritti umani, 474 le persone uccise nel paese dall’aprile scorso

Agenzia Nova
Bujumbura - Sono 474 le persone uccise in Burundi dallo scorso aprile, vale a dire dall’inizio della crisi scoppiata dopo la decisione del presidente Pierre Nkuunziza di candidarsi per un terzo mandato. 

È quanto emerge dalla relazione degli esperti dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (Unhcrc) che ieri hanno presentato a Ginevra la relazione della loro missione condotta all’inizio del mese nel paese.

Tuttavia, secondo quanto riporta l’emittente britannica “Bbc”, nel corso della riunione i leader delle organizzazioni per i diritti umani hanno sostenuto che il numero delle vittime ha superato le 600 unità. La crisi in Burundi ha costretto finora oltre 200 mila persone ad abbandonare le proprie abitazioni.

"Gli inferni del mondo esistono e chiedono risurrezione" di Andrea Riccardi

www.riccardiandrea.it
L'editoriale su Famiglia Cristiana
L'inferno esiste: l'abbiamo incontrato o almeno visto. Il dramma della salvezza esiste, pur in società anestetizzate. Nel cuore della Settimana Santa, l'incontro con la croce di Gesù ci risveglia.«Pace a voi!», dice Gesù risorto. Sono le parole di cui oggi sentiamo di più la necessità. 

Siamo nella Settimana Santa. Il Vangelo di Pasqua risuona in un mondo difficile. La società fatica ad accoglierlo: è spesso anestetizzata, lontana dai drammi. È finito lo scenario del cristianesimo di ieri: giudizio, inferno, paradiso. Ne veniva una spinta a salvare le anime, la propria e l'altrui. L'ha detto in un'intervista papa Benedetto, ricordando che la salvezza delle anime ha motivato la missione per secoli. Ora pochi vogliono salvare gli altri o si preoccupano della propria anima. Quale dramma della salvezza? E poi come può esserci l'inferno, se Dio è misericordioso? Eppure, oggi, l'inferno esiste. Negli slum del Sud del mondo. Nei campi dei rifugiati. Nelle traversate del Mediterraneo. C'è l'inferno della guerra: in Siria e altrove. C'è un inferno vicino: le malattie psichiche, i malati soli e senza speranza, le famiglie che soffrono, l'odio. C'è l'inferno di chi vive per strada o negli istituti, cui tanti anziani sono condannati.

L'inferno esiste: l'abbiamo incontrato o almeno visto. Il dramma della salvezza esiste, pur in società anestetizzate. Nel cuore della Settimana Santa, l'incontro con la croce di Gesù ci risveglia. Il crocifisso non è solo: la sua croce è simile a quella di altri condannati e disperati. Che fare? Spesso ci si volta dall'altra parte e si cerca di salvare sé stessi. Gesù, sulla croce, rifiuta di "salvare sé stesso". Si è caricato dei dolori di molti, anzi di tutti. È la sensazione dei discepoli, che lo vedevano misericordioso tra i malati, tanto da ricordare il profeta Isaia: «Egli ha preso le nostre infermità».

Dio non lo abbandona però nella gola della morte che inghiotte tutti. Il Vangelo della Pasqua comunica la fede nella risurrezione: il potere indiscutibile del male, della morte, della guerra, della violenza è spezzato. È un Vangelo di salvezza, che forza i muri degli "inferni" del mondo: è possibile uscirne e vivere! La società anestetizzata fatica a gioire di questo messaggio che genera un movimento di amore e speranza. I "ricchi epuloni" continuano invece a banchettare con Lazzaro affamato alla porta.

La risurrezione, nei Vangeli, si accompagna al terremoto: ne hanno bisogno le nostre coscienze. Le parole del Risorto sono decisive: liberano dal dominio incontrastato della paura. Sono le parole di pace di cui sentiamo la necessità sugli scenari del mondo e nella vita delle città: «Pace a voi!», dice Gesù risorto. "

Andrea Riccardi

UNHCR e MSF lasciano gli hotspot in Grecia, diventati centri di detenzione.

Blog Diritti umani - Human Rights
A Idomeni e in altre località della Grecia, si moltiplicano le manifestazioni di protesta dei profughi, bloccano valichi di frontiera e autostrade contro l'accordo UE-Turchia.

Foto Ansa
La chiusura della rotta balcanica ha bloccato 15.000 rifugiati  al confine che non vogliono arrendersi nel proseguire il viaggio verso l'Europa occidentale.


I "centri" sono tendopoli di fortuna immerse nel fango. [foto:Ansa]
Intanto, dopo l'Unhcr che ha interrotto la sua azione negli hotspot, che considera ora 'centri di detenzione' dopo l'accordo Ue-Turchia sui rimpatri, anche Medici Senza Frontiere ha deciso di sospendere le proprie attività all'hotspot di Moria, sull'isola di Lesbo, una "decisione presa a seguito dell'accordo tra l'Unione Europea e la Turchia che porterà al ritorno forzato di migranti e richiedenti asilo dall'isola greca".

mercoledì 23 marzo 2016

L’UNICEF teme per i 19.000 bambini rifugiati e bloccati in Grecia

Il Messaggero Italiano
UNICEF: preoccupazione che il nuovo accordo tra l’UE e la Turchia non affronti i pressanti bisogni umanitari dei 19.000 bambini rifugiati e migranti bloccati in Grecia. Il nuovo accordo UE-Turchia su rifugiati e migranti potrebbe lasciare i bambini in pericolo


L’UNICEF ha espresso oggi preoccupazione che il nuovo accordo tra l’UE e la Turchia, che entrerà in vigore questa settimana, non affronti i pressanti bisogni umanitari dei 19.000 bambini rifugiati e migranti bloccati in Grecia.
I bambini costituiscono il 40% della popolazione rifugiata e migrante in Grecia. Si stima che i bambini non accompagnati costituiscano il 10% della popolazione infantile.
L’UNICEF ha lanciato l’allarme: il nuovo accordo potrebbe spingere i bambini e le famiglie a prendere altre rotte più pericolose, compreso il Mar Mediterraneo centrale.
L’UNICEF accoglie positivamente l’impegno preso dai leader dell’UE di determinare individualmente lo status dei rifugiati e dei migranti, piuttosto che espulsioni collettive, pratiche di respingimento o altre misure che possono essere dannose per i bambini.

L’UNICEF chiede con urgenza che venga data una risposta alle seguenti priorità:
  • I bambini non accompagnati e separati siano adeguatamente identificati e venga assicurata loro protezione, piuttosto che tenuti in detenzione. Essi hanno diritto ad essere adeguatamente ascoltati ed una valutazione del loro superiore interesse, prima che venga assunta qualsiasi decisione che li riguardi, compreso il ritorno. La capacità delle istituzioni statali in Grecia deve essere incrementata in modo significativo per affrontare questo nuovo carico di lavoro.
  • I servizi di sostegno per famiglie e minorenni – come gli spazi a misura di bambini e le aree protette per madri e neonati – siano rapidamente aumentati nei servizi ‘Punti blu’.
  • I bambini bloccati per periodi più lunghi in Grecia avranno bisogno di una serie estesa di servizi di base come l’istruzione in emergenza. Molti bambini hanno lasciato la scuola per diversi mesi e trarrebbero beneficio anche da un apprendimento a breve termine.
  • Per evitare focolai di malattie tra i bambini, una grande rilevanza deve essere data alla vaccinazione dei bambini rifugiati e migranti, soprattutto perché molti hanno vissuto in condizioni antigieniche per settimane. Una prima risposta dovrebbe includere la vaccinazione contro il morbillo, la poliomielite e le infezioni da pneumococco.

USA - Texas - Pena di morte - Adam Kelly Ward, 33 anni eseguito nonostante fosse un malato mentale

Blog Diritti Umani - Human RightsAdam Kelly Ward, 33 anni è stato eseguito la notte di martedì nel Texas.
Accusato di omicidio doveva essere risparmiato alla morte, i suoi avvocati hanno fatto ricorso a causa della sua malattia mentale.
Adam Kelly Ward, 33 anni
Adam Kelly era stato nel braccio della morte dal 2007, per un omicidio avvenuto per motivi banali nel 2015.

Durante il processo del 2007 e nei successivi appelli della sua condanna a morte, gli avvocati di Ward hanno presentato prove dei suoi deliri, della paranoia e del disturbo bipolare. La Corte Suprema ha rifiutato di rivedere il suo caso nel mese di ottobre, e il "5th U.S. Circuit Court of Appeals" ha respinto il ricorso la scorsa settimana. Fallito il tentatico di ottenere la sospensione della pena Ward è stato eseguito la notte di martedì.

Alcuni stati membri della Corte Suprema giudici hanno già dichiarato che chiunque ha un QI inferiore a 70 non deve essere eseguito, ma l'uccisione sarebbe ammissibile se il detenuto capisce che stanno per metterlo a morte e le ragioni dell'esecuzione. 

Nonostante questa disposizione nel mese di gennaio anche Robert Ladd, 57 , è stato ucciso con un'iniezione letale in Texas, anche se i suoi avvocati affermavano che aveva un QI di 67.

Ward aveva un QI di 123 ma la sua malattia psichica era grave e accertata, quindi era vittima di una grave disabilità. I Giudici pensano che le persone con malattie mentali abbiano comunque il controllo delle loro azioni.

L'esecuzione di Ward è la quinta in Texas quest'anno e il nono negli Stati Uniti. Due altre esecuzioni sono in programma a fine mese in Texas e Georgia, e un'altra esecuzione è prevista in Texas.


Fonte: Europe Newsweek


Giordania, 117.000 rifugiati nei campi, difficile accesso alle cure mediche

Corriere della Sera
La profonda inadeguatezza del sostegno della comunità internazionale e gli ostacoli posti dal governo della Giordania privano i rifugiati siriani dell'accesso a cure mediche e ad altri servizi fondamentali di medicina. 

Campo per rifugiati in Giordania
La denuncia è contenuta in un rapporto diffuso questa mattina da Amnesty International. Vi si raccontano toccanti storie di rifugiati siriani gravemente feriti ma respinti al confine giordano e in alcuni casi morti a seguito delle ferite.

La Giordania ospita 630.000 rifugiati siriani ufficialmente censiti dall'Alto commissariato Onu per i rifugiati. Sin dal 2012, tuttavia, la Giordania ha imposto sempre maggiori limitazioni ai siriani che cercano di entrare nel paese attraverso valichi di confine ufficiali e informali, fatta eccezione per i feriti di guerra.
Ma, come Amnesty International ha appreso da operatori umanitari e familiari di rifugiati siriani feriti in modo grave, non sempre questi ultimi riescono a entrare in Giordania. Nel luglio 2015, almeno 14 feriti gravi tra cui cinque bambini colpiti da una o più schegge di proiettile non sono stati fatti entrare in Giordania.
Secondo le informazioni ottenute da Amnesty International, quattro di loro - tra cui una bambina di tre anni - sono morti al confine mentre chiedevano invano di entrare. 

In un altro caso, un ragazzo di 14 anni in condizioni critiche non è stato fatto entrare in Giordania perché privo di documenti d'identità ed è morto il giorno dopo in un ospedale da campo siriano. 

Tra coloro cui è stato negato l'ingresso in Giordania figura una bambina di due anni e mezzo ferita alla testa a seguito di un attacco con barili bomba.
Il rapporto di Amnesty International evidenzia inoltre l'elevato numero di rifugiati siriani i quali, vivendo fuori dai campi loro assegnati, non sono in grado di accedere alle cure mediche a seguito degli aumenti disposti dal governo di Amman nel novembre 2014 o non hanno i documenti necessari per avervi accesso.

Dei 630.000 rifugiati siriani presenti in Giordania, 117.000 vivono in tre campi ufficiali nei quali hanno accesso all'istruzione, alle cure mediche, all'acqua, al cibo e ai progetti per l'impiego finanziati dalle Nazioni Unite e da organizzazioni nazionali e internazionali.
Per gli altri, le cure mediche restano un miraggio. Occorre pagare le prestazioni mediche e produrre documentazione aggiuntiva, tra cui una tessera rilasciata dal ministero dell'Interno. 

Almeno il 58.3 per cento dei siriani adulti con malattie croniche non è in grado di procurarsi medicinali o di accedere ad altri servizi di medicina. Costretti a decidere se pagare le cure mediche od occuparsi della sopravvivenza dei familiari, si tende a privilegiare quest'ultima.
[...]
Il rapporto di Amnesty International viene reso pubblico una settimana prima del vertice a livello ministeriale convocato dall'Unhcr, in cui agli stati verrà chiesto d'impegnarsi per reinsediare rifugiati e individuare ulteriori soluzioni per l'ammissione dei rifugiati siriani. Il vertice costituisce un'opportunità per i governi di mostrare solidarietà nei confronti dei cinque paesi che ospitano oltre 4,8 milioni di rifugiati siriani e fornire una speranza di vita a chi ne ha bisogno. Finora, la comunità internazionale si è impegnata a reinsediare 178.195 rifugiati siriani, un numero vergognosamente basso. Amnesty International chiede che almeno 480.000 dei rifugiati più vulnerabili che attualmente si trovano nei cinque principali paesi ospitanti - tra cui malati cronici, feriti e persone con disabilità - siano reinsediati in un paese terzo sicuro.


di Riccardo Noury


Bruxelles: Grande Moschea di Roma condanna attacchi

ANSAmed
Segretario generale Redouane, serve unione contro mostruosità
Roma - Il Centro Islamico Culturale d'Italia, che gestisce la grande moschea di Roma, condanna la serie di attentati terroristici avvenuti oggi a Bruxelles, che hanno provocato la morte di almeno 34 persone. 

Il Segretario generale della
Grande Moschea, Redouane
"Il terrorismo va contro ogni religione. Oltre al cordoglio e alla condanna bisogna però trovare la forza per unirsi contro la barbarie e la violenza, non solo per garantire e difendere la democrazia, minacciata da forze oscurantiste di inusitata mostruosità", scrive in una nota il segretario generale del Centro islamico romano, Abdellah Redouane.

"È necessario, prosegue Redouane, condannare ogni silenzio nei confronti di queste tragedie e bisogna invece sostenere chi da sempre è impegnato in prima linea per il dialogo tra le religioni e le culture e per la promozione dei principi di pluralismo e rispetto della libertà”.

martedì 22 marzo 2016

Da Idomeni, la solidarietà dei profughi per i tragici fatti di Bruxelles


Siria: ad Aleppo la tregua resiste, ma si muore di sete

Lettera 43
Ad Aleppo e dintorni 1,5 milioni di cittadini senza acqua. I pozzi sono inquinati. E anche quella in bottiglia non è potabile. Gli abitanti a L43: «È un dramma».
da Beirut
Un ragazzo raccoglie acqua ad Aleppo, in una zona controllata dai ribelli.
La tregua in Siria, anche se fragile, sta regalando a una parte della popolazione giorni di relativa tranquillità.
Da quando, nel marzo del 2011, esplose la guerra civile Aleppo fu immediatamente coinvolta e un’invisibile linea di frontiera oggi divide la parte orientale in mano ai ribelli da quella occidentale controllata dal governo Assad.
«Il vero miracolo? Avere acqua corrente». Gli ultimi mesi sono stati segnati dai pesanti bombardamenti russi contro le postazioni dell'Isis e del Fronte al Nusra. Poi il silenzio, seppure intermittente.
Ma per i superstiti di Aleppo il dramma non è finito: «Una cosa semplice come fare una passeggiata sembra eccezionale, ma il vero miracolo sarebbe aprire il rubinetto e vedere l’acqua scorrere», dice Marie.
«La situazione generale è migliorata», le fa eco Bilal, un volontario della protezione civile, «da quando c’è la tregua non abbiamo più fatto interventi di soccorso. Ieri abbiamo addirittura organizzato una partita di calcio nel piazzale delle ambulanze. Al mercato si trova quasi tutto, ma l’acqua è il vero problema».
L'oro blu come merce di scambio. Già a partire dal 2012 gli scontri avevano danneggiato le pompe e i serbatoi che portavano l’acqua in città. Poi le varie forze in campo, che controllavano diverse sezioni dell’acquedotto, hanno iniziato a usare l'oro blu come arma o merce di scambio.
«Una volta l'Isis ha chiuso i rubinetti per riaprirli solo in cambio di forniture», racconta Bilal, «l’esercito invece ha tagliato la corrente alle pompe per ottenere uno scambio di prigionieri. Il risultato per noi era sempre lo stesso: si stava all’asciutto».
Finché, a novembre, un attacco aereo russo ha colpito un impianto in mano all'Isis. E tutta la città è rimasta senza acqua.

Un milione e mezzo di persone senza acqua ad Aleppo e dintorni

Secondo l'Unicef circa 1 milione e mezzo di persone ad Aleppo e dintorni sono costrette a ricorrere a mezzi di fortuna.
«Vivere senza acqua è una catastrofe», dice Marie, «ci siamo abituati a stare senza elettricità e con poco cibo, ma senza acqua è quasi impossibile».

In questi anni sono stati scavati molti pozzi, ma l’acqua prelevata spesso è inquinata e secondo gli operatori dell'Unicef in città aumentano costantemente i casi di tifo e di salmonella.
Inoltre, secondo le agenzie umanitarie, anche l’acqua in bottiglia venduta da imprenditori senza scrupoli non è sempre potabile.
[...]

di Mauro Pompili

L'inferno del pasung: i malati mentali in Indonesia vengono tenuti in catene

Il Messaggero
Sfruttamento, abusi fisici e psicologici, totale assenza dei più elementari diritti: è il quadro terribile che emerge da un rapporto, curato da Human Rights Watch, che illustra lo stato in cui versano migliaia di malati indonesiani, affetti da disabilità mentale e rinchiusi – è il caso di dire – nelle strutture sanitarie preposte alla loro assistenza, trasformatesi in vere e proprie carceri.


Si parla approssimativamente di 57mila persone che subiscono o hanno subito un simile sfruttamento, ma il numero potrebbe essere più alto. In Indonesia viene definito “pasung” e, seppure messo al bando nel 1977, continua ad essere sistematicamente praticato, come documenta la denuncia dell’associazione umanitaria internazionale, da anni in prima fila contro le violazioni dei diritti umani nel mondo. Nel documento si parla di 175 persone recentemente “salvate” dal pasung e di altre 200 recuperate in anni recenti. Ma il rapporto si estende anche alle spaventose condizioni in cui sono costretti a vegetare i pazienti di pseudo strutture sanitarie e di assistenza. Pare che ve ne siano solo 48 in tutto il paese (abitato da 250 milioni di persone), dove per giunta l’infermità mentale è considerata frutto di maledizioni o possessioni da parte di spiriti maligni.

Yeni Rosa Damayanti, a capo dell’associazione di salute mentale “Perhimpunan Jiwa Sehat”, ricorre a un esempio molto efficace – riportato nel documento di Human Rights Watch – per dare un’idea di quanto sia diffusa la pratica del pasung: «Puoi lanciare una pietra ovunque, a Java, e colpirai qualcuno in pasung». Il caso più lungo di detenzione, tra quelli documentati, riguarda una donna, tenuta chiusa in una stanza per quasi 15 anni. Ismaya, invece, ha passato solo tre settimane in un centro di recupero. Racconta: «Mi hanno legato le mani con un guinzaglio e mi hanno incatenato le gambe. Ho provato a liberarmi. Più ci provavo, più mi tenevano legato. Non mi hanno mai lasciato. Non c’erano servizi. Anche se avessi urlato per andare in bagno, non me l’avrebbero permesso».

La maggioranza dei casi di pasung si registrano nelle più remote aree rurali, dove vivono famiglie con uno scarso livello di consapevolezza circa la disabilità mentale o con ridotte possibilità di accesso alle strutture di cura. In tutto il paese, circa il 90 per cento di coloro che necessiterebbero di questo tipo di assistenza non ha modo di ottenerla, vuoi per ignoranza, vuoi per povertà. «L’Indonesia ha un buon sistema sanitario» spiega Shantha Rau Barriga, che cura per Human Rights Watch i diritti dei disabili, «ma sfortunatamente l’assistenza per i malati di mente non è compresa».

Nel rapporto si legge anche della storia di Carika, 29 anni, tenuta rinchiusa quattro anni nella stalla dove la sua famiglia custodiva le capre, nel centro di Java, costretta a mangiare, dormire e defecare insieme alle bestie, pregando invano i suoi familiari di liberarla. Anche quando è riuscita a fuggire, però, ha subìto un periodo di reclusione in uno dei cosiddetti centri di assistenza, dove l’hanno sottoposta all’elettroshock. Queste pratiche sono di routine nelle strutture predisposte all’assistenza dei disabili. Il governo indonesiano ha promosso varie iniziative per combattere la pratica del pasung ma, denuncia Human Rights Watch, permane nel paese una scarsa consapevolezza su quello che dev’essere l’approccio adeguato con cui trattare situazioni così delicate; mancano, soprattutto, i luoghi adatti per prendersi cura di persone indifese e deboli. Le autorità parlano di circa 18mila individui che attualmente si trovano in queste condizioni disumane.
di Antonio Bonanata