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domenica 19 marzo 2023

Eritrea - Rapporto ONU - Situazione dei diritti umani disastrosa: torture, detenzioni inumane, sparizioni. Nessuna collaborazione dei governanti.

Nigrizia
«La situazione dei diritti umani in Eritrea rimane disastrosa e non mostra nessun segno di miglioramento». Lo dice un rapporto presentato ieri dall’Alta commissaria aggiunta al Consiglio dei diritti umani dell’Onu, Nada Al-Nashif.


La commissaria ha spiegato che l’Onu ha raccolto «informazioni credibili» che danno conto di «torture, condizioni di detenzione inumane e sparizioni forzate». Il rapporto rileva che «è allarmante che tutte queste violazioni dei diritti umani siano compiute nella totale impunità». E sottolinea che le autorità di Asmara non hanno offerto nessuna collaborazione.

Il paese del Corno d’Africa, governato da Isaias Afwerki fin dall’indipendenza dall’Etiopia (1993), non da oggi si segnala per l’autoritarismo e il disprezzo di ogni forma di democrazia.

Una dittatura che ha stabilito la leva universale obbligatoria e di durata illimitata, provvedimento che è diventato ancora più stringente con il sostegno dell’esercito eritreo alla truppe etiopiche nella guerra del Tigray scoppiata nel novembre del 2020. Il coinvolgimento nella guerra civile etiopica è stato fortemente criticato dalla Chiesa cattolica.

E in territorio etiopico l’esercito di Asmara si è macchiato – sostengono numerose organizzazioni di difesa dei diritti umani – di atrocità, in particolare del massacro di centinaia di civili nella città di Aksum e nel villaggio di Dengolat.

Isaias Afwerki (che in sede Onu si è schierato con la Russia che ha aggredito l’Ucraìna) ha respinto le accuse a carico del suo esercito definendole «fantasie, frutto di disinformazione». Questo del resto è sempre stato l’atteggiamento del regime eritreo: chiudersi a riccio, negare tutto e farsi beffa della comunità internazionale.

domenica 12 marzo 2023

Nuovo naufragio al largo della Libia, 30 dispersi e 17 sono stati soccorsi. Alarm Phone: "L'Italia ha ritardato i soccorsi"

Il Gazzettino del Sud
Il barcone con 47 migranti per il quale era stato lanciato un allarme nelle ore scorse è naufragato: il bilancio è di 30 dispersi e 17 soccorsi . Il barchino si è capovolto durante il trasbordo delle persone sulla nave Froland, inviata tra i mercantili sul posto dalla centrale operativa della stessa Guardia costiera.
Il barchino con 47 migranti a bordo individuato 

Un filmato di Sea-Watch, pubblicato dal giornalista Sergio Scandura di Radio Radicale, inquadra il barcone in fortissime difficoltà, e i mercantili che tentano di fargli scudo dalle onde ma non in grado di intervenire. «Dopo aver chiamato il centro di soccorso di Tripoli - afferma Sea-Watch, che ha monitorato il barcone attraverso il velivolo Seabird - abbiamo richiamato il Centro di soccorso di Roma e chiesto chi, a quel punto, coordinerà i soccorsi, il funzionario ha riattaccato il telefono».

Poi è partita l’operazione Sar. Troppo tardi: l’allarme era stato lanciato già ieri, quando l’imbarcazion e si trovava, secondo Scandura, a 113 miglia a nord ovest da Bengasi, alla deriva e con il motore in avaria. L’area è la stessa dell’operazione Irini, in cui sono impegnate anche navi italiane.

martedì 7 marzo 2023

Gran Bretagna - Migranti - Violazione norme internazionali - Chi arriva in modo illegale sarà arrestato e deportato in Ruanda. Anche richiedenti asilo e minori

Il Riformista
Chi arriverà attraversando la Manica sarà detenuto e portato in Paesi “sicuri”, sarà bandito a vita dalla Gran Bretagna e non potrà mai ottenere la cittadinanza britannica. Questa è la linea dura del primo ministro Rishi Sunak contro gli sbarchi illegali che risponde a un’emergenza che ha visto nel 2022 l’arrivo sulle coste britanniche di oltre 45 mila persone a bordo di imbarcazioni di fortuna: una questione diventata rapidamente una priorità per l’opinione pubblica e una spina nel fianco per i governi conservatori.


Martedì 7 marzo il governo presenterà una legislazione che ha già scatenato le critiche dei gruppi per i diritti umani e che funzionari governativi ammettono essere “al limite della legalità internazionale”. 

Così decine di migliaia di persone potrebbero essere detenute in siti militari e il ministero dell’Interno avrà l’obbligo legale di deportarle “appena è ragionevolmente fattibile”. Norme che si applicheranno anche alle famiglie e perfino ai minori non accompagnati. Non solo, tutti gli immigrati illegali si vedranno inoltre comminare un bando a vita a tornare in Gran Bretagna e non potranno mai più ottenere la cittadinanza britannica.

Il magnanimo governo d’oltremanica ha promesso di aprire rotte “legali e sicure” per i richiedenti asilo, anche se non ha specificato in che modo: “La possibilità di insediarsi in questo Paese e di diventare cittadini britannici non è un diritto umano, è un privilegio – ha dichiarato una fonte governativa –. Questo è perché bandiremo gli immigrati illegali”. Poi il premier Sunak ha aggiunto che “l’immigrazione illegale è ingiusta per i contribuenti, è ingiusta per quelli che vengono qui legalmente ed è sbagliato che le gang criminali siano autorizzate a continuare il loro commercio immorale. Dunque capiamoci bene: se vieni qui illegalmente, non potrai rimanere”.

Dura la replica del Consiglio per i Rifugiati: “In questo modo decine di migliaia di profughi che avrebbero diritti all’asilo finiranno ingabbiati come criminali – e aggiunge – che il piano del governo rappresenta una violazione della Convenzione delle Nazioni Unite sui rifugiati”. Secondo il Consiglio, due terzi dei migranti sbarcati lo scorso anno avrebbero diritto all’asilo.

Una notizia che può non sembrare nuova, infatti già l’anno scorso il governo britannico aveva provato a deportare gli immigrati illegali in Ruanda, Paese col quale ha stretto un accordo in merito, ma i voli erano stati bloccati da un intervento all’ultimo minuto della Corte europea per i diritti umani. Adesso Sunak intende inserire nella nuova legge un “freno” alla giurisdizione della Corte (e l’ala destra del suo partito sta facendo pressione perché Londra si ritiri del tutto dalla Convenzione europea sui diritti umani).

Dopo il successo ottenuto con l’accordo sull’Irlanda del Nord, Sunak intende scavare un solco con l’opposizione laburista, che resta saldamente in testa nei sondaggi. Una mossa che va letta soprattutto in chiave elettorale.

L’immigrazione illegale infatti è tornata in cima alle priorità dell’opinione pubblica dei sudditi della Corona, subito dopo l’economia e la sanità: e l’87% del pubblico ritiene che il governo stia gestendo male la questione. Dunque il premier ha fatto dello stop agli sbarchi una delle sue priorità per quest’anno. L’atteggiamento dei britannici verso l’immigrazione è però ambivalente: dopo la Brexit, contrariamente a quello che si poteva pensare, c’è stato un boom di arrivi dall’estero, più di un milione solo nell’anno scorso.

Questi però sono tutti immigrati legali, per lo più studenti o personale qualificato, rispetto ai quali l’opinione pubblica è abbastanza rilassata: l’inquietudine si manifesta invece nei confronti degli sbarchi illegali, di fronte ai quali c’è la sensazione di una situazione fuori controllo. È contro la mancanza di regole e il rischio di un afflusso indiscriminato che si concentra, quindi, l’ostilità degli inglesi. Almeno per ora.

Riccardo Annibali

Bangladesh - Enorme incendio nel campo profughi Rohingya, Cox’s Bazar. 12mila restano senza rifugio

Huffpost
Enorme incendio nel campo profughi Rohingya in Bangladesh, 12mila restano senza rifugio
Selim Ullah: “Quando eravamo in Myanmar abbiamo dovuto affrontare numerosi problemi. Le nostre case sono state bruciate. Ora è successo di nuovo"


Un enorme incendio ha colpito il campo profughi per persone di etnia rohingya di Balukhali, vicino alla città di Cox’s Bazar, nel sudest del Bangladesh. Nessun ferito è stato segnalato, ma le fiamme che sono divampate nel Campo 11 di Cox's Bazar hanno rapidamente inghiottito i rifugi di bambù e tela cerata, lasciando 12mila persone senza la loro abitazione.

"Circa 2.000 rifugi sono stati bruciati e 12.000 cittadini birmani sfollati con la forza sono rimasti senza riparo", ha dichiarato all'AFPil Commissario per i rifugiati del Bangladesh, Mijanur Rahman.

Secondo un portavoce della Croce Rossa Internazionale i danni sono “enormi”. L’incendio, oltre ad aver distrutto 35 moschee e 21 aree destinate all’insegnamento, ha danneggiato gli impianti idrici del campo.

Il rifugiato Selim Ullah, padre di sei figli, ha riferito di non aver "potuto salvare nulla”. “Tutto è andato in cenere. Molti sono senza casa. Non so cosa ci succederà", ha detto il quarantenne, aggiungendo: “Quando eravamo in Myanmar abbiamo dovuto affrontare numerosi problemi. Le nostre case sono state bruciate. Ora è successo di nuovo."

I rohingya sono un grande gruppo etnico di religione musulmana, le cui comunità si trovano per lo più in Bangladesh e in Myanmar. La maggior parte dei profughi che vivono nel campo di Balukhali è scappata dal Myanmar a partire dal 2017, quando l’esercito birmano aveva compiuto una serie di brutali operazioni militari, con stupri sistematici e uccisioni indiscriminate. 

Tutt'oggi tantissimi rohingya decidono di attraversare il confine per rifugiarsi in Bangladesh, dal momento che nel Myanmar, paese a maggioranza buddista, il gruppo etnico musulamano è vittima di forti discriminazioni. Così molti cercano protezione nei vicini campi profughi che sono per lo più improvvisati, sovraffolati e con pessime condizioni sanitarie. Proprio in questi campi è piuttosto frequente che si verifichino incendi anche di natura dolosa: nel marzo del 2021, 15 profughi morirono e circa 50mila rimasero senza casa a causa di un enorme incendio che colpì sempre il campo di Balukhali. Ora le autorità del Bangladesh stanno indagando sull'origine di quest'ultimo disastro e non escludono un atto di sabotaggio alla sua base. Un uomo è stato infatti arrestato. Tuttavia, come dichara Faruque Ahmed, un funzionario della polizia locale, "le ragioni dell'incendio non sono ancora note".

lunedì 6 marzo 2023

Egitto - 15 anni di carcere a Ezzat Ghoniem fondatore di una ong per la difesa dei diritti umani - Pene per altri 14 attivisti

Focus on Africa
Il processo nei confronti di 14 attivisti e difensori dei diritti umani, tra i quali Ezzat Ghoniem, fondatore del Coordinamento egiziano per i diritti e le libertà, è finito come purtroppo si temeva.

Tra i vari imputati, Ezzat Ghoniem è stato condannato a 15 anni. Stessa pena per l’avvocato Muhammad Abu Horeira, dieci anni per la moglie Aishaa al-Shater e per Sumaya Nassef, cinque per l’avvocata Hoda Abdelmoneim.

Il verdetto corrisponde alle politiche criminalizzanti dell’era al-Sisi: chi si occupa di diritti umani è giudicato colpevole di reati quali adesione, finanziamento e sostegno al terrorismo nonché di diffusione di notizie false.

Le udienze del processo, celebrato da un tribunale di emergenza (dello stesso genere di quello che sta processando Patrick Zaki), si sono svolte a porte chiuse all’interno del complesso penitenziario di Badr. Gli avvocati, che non avevano potuto avere accesso agli atti giudiziari nel corso delle indagini, non hanno neanche avuto il permesso di interrogare i testimoni dell’accusa.

Nel processo non si è fatto minimamente cenno alle torture, compresa la violenza sessuale, e alle sparizioni forzate subite dagli imputati, in carcere sin dal 2018. Da quell’anno, nessuno di loro ha potuto vedere i familiari, con l’eccezione di Hoda Abdelmoniem, che li ha incontrati una sola volta.

Riccardo Noury

sabato 4 marzo 2023

Bielorussia - 10 anni ci carcere al Nobel per la pace e attivista Bialiatski. Il presidente Lukashenka manda l'opposizione nelle colonie penali di Putin

Il Foglio
Ieri un tribunale di Minsk ha condannato l’attivista bielorusso Ales Bialiatski a dieci anni di carcere in una colonia penale di massima sicurezza per “contrabbando e finanziamento di azioni che violano gravemente l’ordine pubblico”.
 
L’attivista per mi diritti umani bielorusso Ales Bialiatski

Sessant’anni, è stato uno dei tre vincitori del premio Nobel per la Pace 2022 ed è uno dei primi leader del movimento democratico in Bielorussia: ha fondato Viasna, primavera in bielorusso, il gruppo per i diritti umani nato 1996 dopo il referendum che ha consolidato l’autoritarismo del presidente e stretto alleato russo, Aljaksandr Lukashenka. 

Bialiatski era stato arrestato nel 2021, come migliaia di bielorussi, a seguito delle proteste – brutalmente represse – contro il dittatore di Minsk e ha già scontato una condanna di tre anni per evasione fiscale nel 2011: si è sempre professato innocente.

Insieme a lui ieri sono stati condannati altri tre attivisti democratici di Viasna, Valentin Stefanovich, condannato a nove anni di carcere, Vladimir Labkovich, a sette, e Dzmitry Salauyou, a otto anni in contumacia. Tutti e tre negano ogni accusa ed è evidente come questa condanna sia solo un ennesimo tentativo di Lukashenka di mettere a tacere l’opposizione del paese: il vero capo d’accusa di Bialiatski e dei suoi colleghi, secondo il regime, sono gli anni di lotta per i diritti, la dignità e la libertà del popolo bielorusso. 

I prigionieri politici in tutto il paese secondo Viasna sarebbero 1.458, mentre le autorità negano ogni numero. La sentenza di Bialiatski è stata definita dalla leader dell’opposizione bielorussa in esilio, Sviatlana Tsikhanouskaya, “spaventosa”, mentre la moglie dell’attivista, Natalya Pinchuk, che a ottobre davanti al comitato norvegese per il Nobel aveva dato voce alle parole del marito dal carcere, ha detto che il processo è stato “ovviamente contro i difensori dei diritti umani per il loro lavoro sui diritti umani”. 

Il ministro degli Esteri tedesco, Annalena Baerbock, ha definito il processo “una vergogna quotidiana tanto quanto il sostegno di Lukashenka alla guerra di Putin” in Ucraina.

giovedì 2 marzo 2023

Dopo la pandemia torna il Congresso dei ministri della giustizia del mondo di Sant’Egidio contro la pena di morte - "No Justice Without Life" - Continuare il cammino verso l'abolizione in un tempo di guerra

ANSA
"Il motivo della battaglia contro la pena di morte è ancora in quelle riflessioni di Cesare Beccaria nei Delitti e delle Pene, la pena di morte non ha senso perchè non ha una funzione sociale, l'Italia e la Comunità di Sant'Egidio sono sempre state in prima linea su questo fronte ma c'è ancora molto lavoro da fare". 


Con queste parole Anna Ascani, vicepresidente della Camera dei Deputati, ha aperto i lavori di "No justice without life. Congresso internazionale dei ministri della Giustizia a Roma", promosso dalla Comunità di S. Egidio nell'aula nuova del Palazzo dei Gruppi parlamentari-Camera dei deputati.


"Noi qui - ha detto prendendo la parola Mario Giro - vogliamo essere un grido per la vita, parlare di fine della pena di morte in tempo di guerra sembra un paradosso, la violenza delle battaglie e delle ritorsioni diviene quasi legittima, invece noi non crediamo che la guerra sia la soluzione a ogni controversia e che la pena di morte non sia la soluzione al crimine ma una condanna irreversibile e rispondere al male con il male apre a un circolo infinito". "Non dobbiamo pensare che il male è irriducbile - ha insistito - crediamo che la pena di morte debba essere fermata perchè comunica l'idea che la violenza sia compagna della vita dell'uomo" mentre "lo stato non chiede sangue in cambio, non rinuncia a punire ma si rinuncia all'irreversibilità, ci sono troppe morti, proviamo a dire basta e a difendere ciò che di ancora irriducibilmente umano c'è nell'uomo".

"Nel quadro di un vasto impegno contro la pena di morte - spiega anche una nota -, dal 2005 Sant'Egidio ha dato vita a incontri regolari di ministri della Giustizia di paesi sia abolizionisti e che retenzionisti, al fine di creare uno spazio di dialogo e di interlocuzione tra diversi sistemi di esercizio della giustizia, e favorire i processi di moratoria e di abolizione della pena capitale. 

Questo metodo di lavoro ha mostrato negli anni notevoli aspetti positivi, con il coinvolgimento di un sempre più largo numero di paesi, di autorità dell'Unione Europea, delle Nazioni Unite e di papa Francesco, che non ha mai fatto mancare il suo sostegno a questo processo. 

E' inoltre possibile ascrivere ai Congressi dei Ministri della Giustizia una serie di eventi di successo che hanno portato avanti la campagna abolizionista: la firma del Protocollo Opzionale della Mongolia e la sua successiva abolizione de jure della pena di morte (2015); l'eliminazione della pena di morte dal codice penale della Guinea (2016); la firma del Protocollo Onu sulla pena di morte della Costa d'Avorio (2013); abolizione da parte del Burundi (2009), del Togo (2009), del Gabon (2010), della Repubblica Centrafricana (2022) e Zambia (2022)".