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domenica 30 aprile 2023

Migranti - Tunisia - L'obitorio di Sfax stracolmo di migranti annegati, sono più di 200

Ansa
L'obitorio centrale di Sfax, città tunisina da cui sono partiti molti migranti dall'inizio dell'anno, è stracolmo di un gran numero di cadaveri, vittime di naufragi.

Obitorio di Sfax (Foto Ansa)

"Martedì abbiamo contato più di 200 corpi, ben oltre la capacità dell'ospedale Habib Bourguiba di Sfax, il che crea anche un problema sanitario", ha detto all'Afp Faouzi Masmoudi, portavoce del tribunale di Sfax, seconda città del paese con quasi un milione di abitanti.
"Non sappiamo chi siano o da quale naufragio provengano e il numero sta crescendo", ha aggiunto, precisando che "quasi ogni giorno ci sono funerali". 

Solo il 20 aprile sono state seppellite almeno 30 persone. Ma "durante la festa musulmana dell'Eid tra il 21 e il 23 aprile scorsi sono stati ripescati molti cadaveri". 

I defunti vengono seppelliti dopo aver prelevato il loro Dna e assegnato un numero a ciascun corpo per facilitare la loro possibile identificazione da parte dei parenti, ha spiegato Masmoudi riferendo di significative "difficoltà" nel trovare un luogo di sepoltura per questi corpi, pur rilevando "sforzi concertati per seppellirli nei cimiteri comunali di Sfax".

"Dall'inizio dell'anno abbiamo contato il 24 aprile, più di 220 morti e dispersi, per lo più provenienti dall'Africa sub-sahariana", ha affermato Romdhane Ben Amor dell'Ong Forum Tunisino per i diritti economico e sociali (Ftdes), specializzata in migrazione. 

Secondo il Ftdes, "oltre il 78% delle partenze è avvenuto dalle coste di Sfax e Mahdia". Ben Amor ha ricordato che le autorità locali si erano impegnate lo scorso anno "a creare un cimitero speciale per i migranti, sulla base del fatto che non sono musulmani", ma che non è ancora pronto.

La partenza dei migranti africani dalla Tunisia si è intensificata dopo un duro discorso del 21 febbraio del presidente Kais Saied che ha condannato l'immigrazione clandestina presentandola come una minaccia demografica per il suo Paese. 

La Tunisia, alcune delle cui coste distano meno di 150 km dall'Italia, sta attraversando una grave crisi politica ed economica che sta spingendo anche molti tunisini a tentare di raggiungere l'Europa clandestinamente via mare a rischio della propria vita.

martedì 18 aprile 2023

Yemen - Scambio di 900 prigionieri - Ad un passo dalla pace, dopo 150 mila vittime e una tra le peggiori catastrofi umanitarie

Corriere della Sera
In tre giorni sono rilasciati quasi 900 detenuti. Settimana scorsa l’incontro a Sana’a per negoziare la fine del conflitto in corso dal 2015. In molti hanno riso e pianto per la felicità. In tanti sono scesi con dalla scaletta dell’aereo con il pugno alzato. Sono i prigionieri delle milizie ribelli Houthi che in queste ore stanno rientrando a casa, nell’ambito del maxi-scambio di prigionieri concordato dall’Arabia Saudita e dai rappresentanti del gruppo filo Teheran iniziato venerdì per porre fine al conflitto che devasta il Paese da oltre otto anni.
L'arrivo dei prigionieri a Sana'a

Tra chi è sceso dai voli, anche l’ex ministro della Difesa dello Yemen e il fratello dell’ex presidente, trasportati da Aden, controllata dal governo, alla capitale Sana’a. A mediare lo scambio che prevede il rilascio di 900 detenuti in tre giorni, il Comitato della Croce Rossa Internazionale. Si tratta della più grande operazione dopo il rilascio di oltre 1.000 prigionieri nell’ottobre 2020. Ma soprattutto
si tratta del primo concreto segnale che finalmente la guerra in Yemen si avvia alla sua conclusione, dopo aver provocato 150 mila morti tra combattenti e civili e una delle peggiori catastrofi umanitarie che la storia ricordi.

Sono stati 11.000 i bambini uccisi o mutilati nella guerra in Yemen

A contribuire sia ai colloqui sia al rilascio di prigionieri il riposizionamento dell’Arabia Saudita in particolare in relazioni ai rapporti con Teheran. L’intesa sottoscritta il 10 marzo scorso da Iran e Arabia Saudita, con la mediazione della Cina, per ripristinare le relazioni diplomatiche interrotte nel 2016, prevede accordi anche su diverse questioni di sicurezza, tra cui l’accordo sul nucleare iraniano e proprio il conflitto nello Yemen. In particolare l’accordo stabilisce che “l’Iran rispetti gli interessi sauditi nella regione e sostenga i piani di pace”. 


Inoltre, hanno aggiunto le fonti, “L’Iran ha assicurato che i suoi missili balistici non costituiranno una minaccia per l’Arabia Saudita”. Nelle scorse settimane anche il Wall Street Journal, citando fonti americane e saudite, aveva riferito di un’intesa riguardante lo Yemen raggiunta nell’ambito dell’accordo del 10 marzo scorso, secondo cui Teheran avrebbe accettato di mettere fine alle forniture di armi agli Houthi.

Marta Serafini




martedì 11 aprile 2023

L'orrore della Libia - l’Onu certifica torture e abusi: “La guardia costiera coopera coi trafficanti”- 4000 migranti nel campi di detenzione ufficiali e 18.000 in quelli illegali - di Francesca Mannocchi

La Stampa
La complicità dell’Unione europea: finanzia chi aiuta a commettere crimini contro i migranti. 


Il sei febbraio scorso - pochi giorni dopo il sesto rinnovo del Memorandum d’Intesa italo libico - il Ministro degli Esteri Antonio Tajani ha consegnato alla Libia il primo dei cinque mezzi finanziati dell’Unione Europea: una motovedetta capace di ospitare 200 migranti, che l’Italia consegnerà alla guardia costiera libica come previsto dal Support to Integrated border and migration managment in Libya, cioè il programma finanziato dalla Commissione Europea attraverso il Fondo per l’Africa che dal 2017 avrebbe l’obiettivo di rafforzare le autorità libiche.

Durante la cerimonia nel cantiere navale Vittoria a Adria, in provincia di Rovigo il Ministro Tajani ha speso parole incoraggianti: “Le autorità libiche hanno compiuto sforzi significativi nelle operazioni di salvataggio in mare e nel contenimento delle partenze irregolari, ma i flussi sono ancora molto alti”, ha detto alla presenza della ministra degli Esteri di Tripoli, Najla Mangoush e del commissario Ue per l’Allargamento e la politica di vicinato, Oliver Varhelyi.

Nessuno ha fatto menzione degli abusi subiti dalle persone migranti e anzi Várhelyi ha ribadito che non solo gli aiuti ridurranno le morti in mare ma che renderanno l’Europa più sicura. Un mese e mezzo dopo, alla fine di marzo, da un altro mezzo italiano donato alla Libia, il pattugliatore 656, la Guardia Costiera di Tripoli ha aperto il fuoco per allontanare la nave umanitaria Ocean Viking che si apprestava a soccorrere un barchino in difficoltà con ottanta persone a bordo. L’Ocean Viking non è riuscita ad avvinarsi e i migranti sono stati riportati a terra, in Libia, Paese che - val la pena ribadirlo ogni volta - le agenzie delle Nazioni Unite, le organizzazioni umanitarie definiscono da anni un “porto non sicuro”.

Il rapporto Onu - Passano pochi giorni e gli esperti delle Nazioni Unite pubblicano il rapporto finale della Missione d’inchiesta indipendente sulla Libia (Ffm). Un testo di 46 pagine, trasmesso al Consiglio di sicurezza Onu e acquisito dalla Corte penale dell’Aja, che sta esaminando le richieste di mandato di cattura internazionale depositate dal procuratore Karim Khan. Tre anni di lavoro sintetizzato da parole che non lasciano spazio ad ambiguità: “Il sostegno fornito dall’Ue alla guardia costiera libica in termini di respingimenti e intercettazioni ha portato alla violazione dei diritti umani”.

Quello che sostengono gli investigatori nel rapporto basato su numerosi viaggi, centinaia di interviste e migliaia di prove raccolte è che sebbene non sia possibile dare la responsabilità diretta all’Unione per i crimini di guerra, è evidente che “il sostegno fornito abbia aiutato e favorito i crimini commessi”. Lo scenario è chiaro: la guardia costiera, attrezzata e addestrata dall’Europa, ha lavorato in stretto coordinamento con le reti dei trafficanti di uomini, traffico che ha generato “entrate significative” che hanno stimolato continue e brutali violazioni dei diritti.

In pratica le istituzioni, direttamente formate dai Paesi europei, destinatarie di mezzi e motovedette, hanno agito da un lato in accordo con l’Ue, dall’altro in complicità con i trafficanti che avrebbero dovuto contrastare, lasciando impunite le reti criminali e consolidando il potere e la ricchezza delle milizie armate. Le stesse milizie che forti di quel potere e di quel denaro agiscono influenzando i governi che in Libia sono sempre due e sempre più fragili e esposti al ricatto. Gli investigatori Onu denunciano poi che le autorità non hanno concesso loro la possibilità di visitare i centri detentivi in tutto il Paese, a ulteriore dimostrazione, dopo anni di denunce che quei luoghi oggetto del Memorandum di Intesa, e destinatari di aiuti umanitari, esulino dal controllo delle istituzioni di cui l’Europa è partner ma sono piuttosto ostaggio degli opachi rapporti tra il Dipartimento contro l’Immigrazione Illegale -che dipende dal Ministero dell’Interno di Tripoli - e le reti del malaffare.

Se si leggono i numeri, incontrastabile unica prova di quanto accada in Libia, è facile capire di cosa stiamo parlando. A oggi, secondo i dati forniti da Oim, l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, sarebbero 3800 i migranti presenti nei centri di detenzione che sono nominalmente sotto il controllo delle autorità, ma di fatto terra di nessuno. Infatti, i migranti riportati indietro nell’ultimo anno dai mezzi forniti alla Libia dall’Ue sono più di 20 mila. Conti alla mano vuol dire che 18 mila persone sono fuori dai radar. Probabilmente smistati al porto una volta riportati indietro e destinati a tornare oggetto di abusi e torture nei centri di detenzione illegali.

Federico Soda, ex capo missione Oim in Libia, l’aveva denunciato già due anni fa. Era il 2021 e diceva: “I dati delle persone che vengono soccorse e intercettate dalla guardia costiera libica non combaciano con il numero delle persone in detenzione, siamo molto preoccupati di non riuscire a tracciare questi spostamenti e ogni anno perdiamo traccia di migliaia di persone”. Migliaia di persone portate indietro, in un porto non sicuro, dai mezzi che l’Europa fornisce ai libici.

Libici contro libici - Non va meglio per la popolazione locale. La missione conoscitiva delle Nazioni Unite in Libia ha riscontrato che le violazioni relative alle detenzioni arbitrarie colpiscono su vasta scala anche i libici e i responsabili. Secondo gli investigatori Onu le autorità libiche reprimono sistematicamente il dissenso della società civile. L’indagine ha rilevato che le autorità libiche, in particolare i settori della sicurezza, limitino i diritti di riunione, associazione, espressione e per punire le critiche contro le autorità e la loro leadership. Istituzioni sempre più deboli, spiega il rapporto, sotto il crescente potere dei gruppi armati.

Soffrono gli attivisti, soffrono le donne, vittime di una discriminazione sistematica, mentre si aspetta ancora giustizia per la sparizione della parlamentare. Le autorità libiche hanno imposto condizioni impraticabili alle associazioni. È sempre più complicato per gli operatori umanitari internazionale ottenere visti per entrare in Libia e per quelle locali ottenere permessi per registrare i gruppi civici e operare. La conseguenza è che gli aiuti richiesti tardano ad arrivare e che nessuno - compresi i gruppi come Human Rights Watch che hanno il mandato di verificare abusi e mancato rispetto dei diritti umani - riesce a operare in libertà nel Paese.
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Dal 2016 al marzo 2023, le autorità governative, sia in Tripolitania che in Cirenaica, hanno emesso quattro decisioni e regolamenti che violano la libertà di formare associazioni locali e internazionali, e limitano le organizzazioni per i diritti umani che ne denunciano le violazioni. 
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Complicità europea - La missione speciale terminerà il suo mandato il prossimo 4 aprile senza la possibilità di rinnovo. È facile immaginare che varranno a poco le raccomandazioni per istituire un meccanismo autonomo che monitori le violazioni dei diritti umani. Dopo la pubblicazione del rapporto il portavoce della Commissione europea Peter Stano ha rispedito le accuse al mittente. “Non stiamo finanziando nessuna entità libica. Non stiamo dando denaro fisico ai partner in Libia - ha detto -. Quello che stiamo facendo è stanziare molto denaro, che viene poi di solito utilizzato dai partner internazionali, i nostri soldi non finanziano il modello di business dei contrabbandieri o di coloro che abusano e maltrattano le persone in Libia, al contrario. La maggior parte del denaro va a prendersi cura di queste stesse persone”.

L’anno scorso, il commissario europeo per gli affari interni Ylva Johansson ha dichiarato al parlamento europeo che “l’Ue ha dedicato circa 700 milioni di euro (760 milioni di dollari) alla Libia nel periodo 2014-2020, inclusi 59 milioni di euro (64 milioni di dollari)” per la guardia costiera. Formare e fornire mezzi è già finanziare quelle istituzioni e rappresenta quindi la responsabilità morale di una politica che l’Europa non mette in discussione nemmeno di fronte alle evidenze degli abusi.