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martedì 30 settembre 2014

Burundi - Libertà provvisoria per Pierre Claver Mbonimpa difensore dei diritti umani

MISNA
Il Tribunale distrettuale di Bujumbura ha concesso la libertà provvisoria al difensore dei diritti umani Pierre Claver Mbonimpa, 65 anni, in cattive condizioni di salute. I giudici hanno precisato che l’attivista non dovrà uscire dal Comune di Bujumbura, la capitale, né recarsi in aeroporti e stazioni ferroviarie e dovrà presentarsi alla giustizia ogni qualvolta verrà convocato.
Il presidente dell’Associazione per la protezione dei diritti umani e delle persone detenute (Aprodh), soprannominato il ‘Mandela burundese’, era stato arrestato lo scorso 15 maggio con l’accusa di “attentato alla sicurezza interna ed esterna dello Stato”. 

Per altre due volte si era visto negare la libertà provvisoria. Un rifiuto della giustizia che ha suscitato critiche della società civile burundese ma anche dell’Unione Europea e degli Stati Uniti. La scorsa settimana il presidente Barack Obama ha lanciato un appello a favore della liberazione di Mbonimpa, “esempio di straordinaria volontà, coraggio e impegno di tutte quelle persone che spesso non sono in prima pagina dei giornali”.

Il dirigente dell’Aprodh, noto per le sue prese di posizione critiche nei confronti del governo del presidente Pierre Nkurunziza, ha trascorso quattro mesi nel carcere di Mpimba, nella capitale, e un mese in una clinica privata dove sta curando diabete e ipertensione. I suoi legali hanno sottolineato il contributo “decisivo dei partner stranieri che hanno esercitato pressioni”, mentre la stessa commissione sanitaria costituita dalla giustizia burundese ha confermato le condizioni di salute “davvero critiche” del detenuto.

“Una battaglia è stata vinta, ma non la guerra. Per noi il caso Mbonimpa è emblematico della situazione vissuta da molti altri burundesi che subiscono ingiustizie. Detenuti per aver espresso opinioni diverse rispetto a quelle della classe dirigente” ha dichiarato Pacifique Nininahazwe, presidente della campagna ‘Venerdì verde’, a sostegno del noto attivista. Nell’ultimo periodo Mbonimpa ha denunciato l’addestramento paramilitare degli Imbonerakure, i giovani sostenitori del Cndd-Fdd, il partito del capo dello stato Nkurunziza, a soli pochi mesi dalle elezioni presidenziali del 2015.

Turchia: Human Rights Watch, con Erdogan limitazioni diritti umani

ASCA
Roma - Con il governo del presidente Recep Tayyip Erdogan, la Turchia sta sperimentando una ''preoccupante limitazione'' dei diritti umani, con un aumento di ''intolleranza nei confronti dell'opposizione politica, delle proteste pubbliche e dei media che assumono posizioni critiche''. 

A sostenerlo e' un rapporto dell'organizzazione Human Rights Watch (HRW), nel quale si accusa il governo di Ankara di aver cercato negli ultimi mesi anche di piegare l'indipendenza del sistema giudiziario nel tentativo di fermare un'inchiesta sulla corruzione che ha coinvolto alcuni personaggi vicini a Erdogan. 

''Il governo non ha alcuna esitazione a intervenire nel sistema giudiziario penale quando i suoi interessi vengono minacciati'', sostiene il rapporto di HRW, citando gli avvicendamenti di migliaia di impiegati delle forze di sicurezza e del sistema giudiziario che non avevano mostrato sufficiente fedeltà al regime. 

''La Turchia non riuscira' ad avvicinarsi all'Europa fino a quando i leader turchi non prenderanno delle iniziative per ribaltare la riduzione dei diritti umani e per rafforzare le leggi''. HRW ricorda inoltre la ''quasi impunita''' delle violenze commesse dalla polizia durante le proteste dell'anno scorso, con un solo agente condannato per l'uccisione di un manifestante e almeno 5.500 persone rinviate a giudizio per il loro coinvolgimento nelle proteste. (fonte AFP).

Corea del Nord: io, ex detenuto, vi racconto com'è la vita nei campi di lavoro forzato

Corriere della Sera
"Ora muoio, ho pensato questo quando le guardie mi hanno trascinato di fronte al campo delle esecuzioni. Dopo mesi di torture e isolamento, quella mattina ho pensato che stessero per uccidermi. Solo quando ho visto mia madre con una corda al collo, pronta per essere impiccata, e mio fratello legato ad un palo, pronto per essere fucilato, ho capito che non ero io quello che stavano per ammazzare. Sono morti poco dopo. Ma in quel momento non ho provato nessuna emozione. Anzi. Ho pensato che fosse giusto così. Del resto li avevo denunciati io agli agenti".
Shin Dong-hyuk è l'unica persona nata, cresciuta e poi riuscita a fuggire da un campo di internamento della Corea del Nord.
Come tutti i prigionieri, conosceva bene le regole del Campo 14: "Ogni testimone che non denunci un tentativo di fuga sarà ucciso all'istante". Per questo, quando una notte sentì la madre e il fratello parlare di un piano per scappare, il suo istinto di sopravvivenza gli disse che doveva salvarsi. Tradire i suoi familiari. Fare la spia. Era il suo dovere del resto, quello che gli avevano insegnato fin dalla nascita. E forse avrebbe potuto pure guadagnarci qualcosa. Una razione in più di cibo, magari. Le cose andarono diversamente. Le guardie pensarono che avesse anche lui intenzione di fuggire. Lo portarono in cella e lì lo torturano per mesi. "A quel tempo odiavo mia madre per avermi messo al mondo in un campo di tortura. Oggi invece, se fosse ancora viva, le chiederei perdono".

La vita dentro
Fino all'età di 22 anni, nella vita e nella testa di Shin non ci sono stati la tv, internet, gli hamburger, gli Stati Uniti o la Corea del Nord. Non sapeva nemmeno se la terra fosse piatta o rotonda. La sua esistenza, da quando era nato, era solo il Campo 14. I giorni tutti uguali. Fatti di violenza e regole da seguire. "Nessuno mi aveva mai spiegato perché stessi là dentro", racconta. "Pensavo semplicemente che ci fossero persone nate con le armi e persone nate prigioniere, come me. Che il mondo fuori fosse uguale a quello dentro. Forse per questo non ho mai pensato di fuggire".

Quando parla, la sua voce sembra non tradire nessuna emozione. Non gesticola. Sorride poco. Si muove appena. Senza fare rumore. Alla presentazione del volume sulla sua vita, a Milano, arriva un pò in ritardo. Dice al microfono che gli hanno rubato la borsa e il portafoglio. Ma non ha voluto fare denuncia. Spera di ritrovarlo. Da anni gira il mondo per raccontare la sua esperienza. Il regista Marc Wiese l'ha tradotta nel documentario Camp 14, il giornalista Blaine Harde nel libro Fuga dal Campo 14 (Codice Edizioni, 2014), diventato in breve tempo un bestseller tradotto in 27 lingue. Di fronte alla prima Commissione d'inchiesta istituita dalle Nazioni Unite per indagare sulla catastrofe umanitaria nel suo Paese le sue parole erano intervallate da lunghe pause.

A quasi 10 anni dalla sua fuga, il suo corpo è una cartina geografica dell'orrore. Le caviglie deformate dai ceppi per tenerlo appeso a testa in giù durante l'isolamento. La parte bassa della schiena e le natiche marchiate dalle ustioni. Le braccia piegate ad arco per i lavori forzati. Il dito medio della mano destra mozzato, punizione per avere fatto cadere una macchina da cucire. Il basso ventre forato dal gancio con cui le guardie l'avevano appeso sopra le fiamme, per torturarlo. Gli stinchi bruciati dal recinto elettrificato scavalcato durante la fuga.

I suoi genitori si conobbero nel gulag. Tra le baracche. I loro rapporti sessuali erano un premio cui solo i detenuti modello avevano diritto - permessi 5 volte all'anno: una ricompensa per la buona condotta. Dal loro incontro, il 19 novembre 1982, nacque Shin. Che oggi è più o meno coetaneo del dittatore Kim Jong-un. A 32 anni sono le due facce della Corea del Nord di oggi. "Una società nominalmente senza classi - ha scritto Blaine Harde - ma dove in realtà tutto dipende dal sangue e dal lignaggio".
Il primo ricordo
"Il mio primo ricordo, avrò avuto quattro anni, è un'esecuzione. Quel giorno ero con mia madre. Ci siamo infilati tra la folla, io mi sono fatto largo tra le gambe degli altri detenuti. Per raggiungere la prima fila. Di fronte alle guardie con le armi puntate, c'era un uomo legato a un palo. Per evitare che urlasse, maledicendo magari il governo nordcoreano, gli avevano riempito la bocca di sassi. Poi ricordo un paio di colpi, la morte dell'uomo e il silenzio". Al Campo le esecuzioni erano sempre pubbliche e i detenuti erano costretti a partecipare. Ma a dire la verità "spesso erano considerate un diversivo rispetto alla vita monotona che facevamo". Dei sei campi di internamento nordcoreani, dicono che il 14, quello dove è nato Shin, sia il più duro di tutti. Nascosto tra le montagne e il fiume Taedong, a circa 80 km da Pyongyang. Ma non abbastanza per sfuggire ai satelliti di Google Maps. Le strade, i campi dove avvengono le esecuzioni, le miniere e le baracche compaiono sugli schermi dei pc di tutto il mondo impuniti. Recensiti dai troll, addirittura. Zoomando un pò, Shin ha riconosciuto l'edificio dove è nato. Quello dove è stato rinchiuso in isolamento. Al 14 i detenuti scontano tutti la stessa pena: l'ergastolo. Un luogo dove "amore, pietà e famiglia erano parole prive di significato", ha scritto Harde. E dove "Dio non era né morto né scomparso, Shin semplicemente non lo aveva mai sentito nominare".

La fame e la fuga
"Era la mancanza di cibo, non la violenza, il problema più grande al Campo 14". Nel piatto di Shin, per i primi 23 anni della sua vita, ci sono state solo due cose: minestra di cavolo e pasticcio di mais. Tre volte al giorno, 7 giorni su 7. Razioni così misere che capitava di leccare la zuppa che finiva sul pavimento. "Ogni tanto chiedevamo il permesso di prendere un topo. Se la guardia ci dava l'ok, lo catturavamo e lo mangiavamo".

A volte invece si riusciva a rubare qualcosa. E i prigionieri lo ingoiavano subito, senza farsi vedere. Perché ancora una volta le regole del Campo erano chiare. "Chi ruba o nasconde cibo sarà ammazzato". Chi sgarrava finiva male. Durante una ispezione, a scuola, una insegnante trovò in tasca a una bambina cinque chicchi di mais. Le ordinò di andarsi a mettere in ginocchio di fronte alla lavagna. Poi iniziò a picchiarla con una bacchetta. I bambini, avevamo nove anni, se ne stavamo lì a guardare. La testa e il naso della ragazzina iniziarono a sanguinare. Poi crollò a terra svenuta. Shin e i compagni la portarono a casa trascinandola per le braccia. Morì durante la notte.

"Un giorno al Campo arrivò un nuovo prigioniero, il suo nome era Park. Mi raccontò di quello che stava fuori. Della Cina, del mondo, della tv. Ma soprattutto dei pasti squisiti e abbondanti che aveva mangiato quando era un uomo libero. Galline allo spiedo, carni arrostite, manzo, riso. Tutte cose che avrei potuto mangiare anche io, se fossi riuscito a scappare". La libertà per Shin iniziò ad assumere la forma di un pollo arrosto. Decise che valeva la pena provare. Il 2 gennaio 2005 i due compagni tentarono la fuga. Park finì fulminato sulla recinzione elettrificata. Shin usò il suo corpo come una sorta di messa a terra e passò dall'altra parte. Arrivò al confine con la Cina dopo mesi di viaggio. Corruppe le guardie e abbandonò il Paese. Dopo alcuni anni raggiunse il consolato della Corea del Sud e si trasferì a Seul.

Migliaia di detenuti
Da quando è un uomo libero, Shin è stato sottoposto al test della macchina della verità più volte. E il risultato è stato sempre lo stesso. Le cose che dice sono vere. "Tutto coincide con le cose che altri ex detenuti dei campi hanno raccontato", ha spiegato al Corriere l'attivista David Hawk, della Commissione Usa per i Diritti umani in Corea del Nord, che ha intervistato decine di ex detenuti e ex guardie. "Non ho mai avuto dubbi sulla veridicità della sua storia".

La vita di Shin oggi è fatta di viaggi per testimoniare l'orrore. Come quella delle sorelline Andra e Tati Bucci, bambine ad Auschwitz dal marzo 1944 al gennaio 1945. Che ancora oggi, coi capelli bianchi e le gambe instabili, vanno in giro a raccontare "perché la gente deve sapere cosa è successo, perché non accada più". Invece, accade ancora, a 21 ore d'aereo da Milano. In quei campi di cui il governo nordcoreano ha sempre negato l'esistenza. Secondo il governo sudcoreano ci sono rinchiuse 150 mila persone. La cifra sale a 200 mila per il Dipartimento di Stato americano. Chi è dentro spesso ha nessuna "colpa". Visto che "la fetta più grande della popolazione carceraria è composta dai figli o dai nipoti di detenuti", spiega David Hawk. Perché in Corea del Nord - unico Paese al mondo - esiste una legge che prevede la "Punizione per tre generazioni", istituita nel 1972 dal Grande leader e Presidente Eterno Kim Il Sung. Ed è probabilmente questo il motivo per cui il padre, il nonno, la nonna e due zii di Shin finirono al Campo 14: per "colpa" di due zii fuggiti a Seul ai tempi della Guerra di Corea.

Negli ultimi giorni qualcuno ha raccontato a Shin del viaggio a Pyongyang di due politici italiani. "Due parlamentari, credo, non ricordo di che partito", spiega alle persone sedute ad ascoltarlo in una piccola libreria vicino alla Stazione. "Tornati in Italia hanno detto ai giornalisti che la Corea del Nord assomiglierebbe alla Svizzera". In sala qualcuno mormora due nomi. Un signore sospira. Altri sorridono e scuotono la testa. Shin non aggiunge altro. "Sono stati ospiti di un dittatore, non del popolo nordcoreano". Ancora una volta, la sua voce e il suo volto sembrano non tradire nessuna emozione.

di Federica Seneghini

lunedì 29 settembre 2014

OIM: quasi 40.000 i migranti morti nel mondo dal 2000 - 3000 nel Mediterraneo dal gennaio 2014

Organizzazione Internazionale delle Migrazioni
Ginevra - L'OIM presenta oggi il rapporto di “Fatal Journeys: Tracking lives lost during Migration,” la raccolta di dati più aggiornata al mondo relativamente ai decessi di migranti, per terra e per mare.


Secondo le stime presentate nel rapporto, sono quasi 40.000 i migranti morti dal 2000: un dato preoccupante, per cui l’OIM rivolge ai Governi di tutto il mondo un appello a contrastare questo fenomeno.

“Il nostro messaggio è chiaro: tanti migranti stanno morendo,” afferma il Direttore Generale dell’OIM William Lacy Swing, “è arrivato il momento di fare di più che contare il numero delle vittime. E’ tempo di fare fronte comune affinché i migranti in gravi difficoltà non debbano subire violenze.”

Il lavoro di ricerca cha ha portato alla pubblicazione di “Fatal Journeys” - rapporto di circa 200 pagine - è cominciato con la tragedia dell’ottobre del 2013 quando più di 400 migranti morirono nei due naufragi vicino all’isola italiana di Lampedusa. Lo studio, effettuato nell’ambito del progetto dell’OIM “Missing Migrants Project”, mostra come l’Europa sia la destinazione più pericolosa al mondo per i migranti “irregolari”: dal 2000 sono oltre 22.000 i migranti che hanno perso la vita durante i pericolosi viaggi attraverso il mar Mediterraneo.

Oltre a raccogliere dati sui migranti morti nel mondo, il Missing Migrants Project dell’OIM è parte di uno sforzo maggiore volto ad aumentare l’utilizzo dei social media per coinvolgere le comunità di tutto il mondo. Con il tragico naufragio di questo mese a Malta, gli uffici dell’OIM in tutto il mondo hanno ricevuto chiamate ed e-mail da tutta Europa e dal Medio Oriente da parte di familiari alla ricerca di informazioni sui loro parenti dispersi, molti dei quali si teme siano deceduti.

Inoltre, il Missing Migrants Project sarà utilizzato come deterrente, per cercare di evitare che altre potenziali vittime intraprendano questi viaggi pericolosi.

“Le persone stanno già cercando su Facebook informazioni riguardo ai migranti dispersi. Sappiamo inoltre che molti migranti diventano vittime di traffico usando Facebook ” riferisce il portavoce dell’OIM Leonard Doyle. “Vogliamo trasformare #MissingMigrants in uno strumento efficace per scoraggiare i migranti a intraprendere questi viaggi pericolosi in futuro. Non verranno utilizzati poster o spot alla radio, ma si userà il mezzo più efficace e convincente a disposizione: le voci dei sopravvissuti e dei familiari dei migranti dispersi.”

I dati riportati in “Fatal Journeys” riferiscono come il bilancio delle vittime in Europa sia salito a quasi 4.000 decessi dall’inizio del 2013, e ammonti a più di 22.000 dal 2000. La ricerca dell’OIM riporta che dal 2000 sono avvenuti quasi 6.000 decessi lungo il confine tra Stati Uniti e Messico e che altri 3.000 decessi sono stati registrati in altre aree come Africa Sub-Sahariana e nelle acque dell’Oceano Indiano.

Si ritiene tuttavia che il numero reale delle vittime sia superiore rispetto a quanto si sia riuscito a indicare in “Fatal Journeys”. Ci sono poche statistiche dettagliate a disposizione, poiché la raccolta di dati sui decessi dei migranti non è stata finora considerata una priorità dai Governi.

“Nonostante grandi somme di denaro siano spese per raccogliere informazioni sulla migrazione e sul controllo delle frontiere, sono infatti pochi i Governi che hanno raccolto e pubblicato dati su questo tragico fenomeno,” ha detto Frank Laczko, autore di “Fatal Journeys” e Responsabile dell’Unità per le Ricerche sulla Migrazione dell’OIM. Molti incidenti hanno luogo in regioni remote e spesso non se ne ha notizia.

Nessuna organizzazione a livello globale è al momento responsabile del monitoraggio sistematico del numero di decessi che avvengono. I dati tendono a essere sporadici, e sono diverse le organizzazioni che si occupano di rilevare i decessi. Alcuni esperti ritengono che per ogni corpo ritrovato ce ne siano almeno altri due dei quali non si viene mai a conoscenza.

L’OIM ritiene che la pubblicazione di “Fatal Journeys” contribuirà a gettare luce su quella che può essere considerata un’epidemia crescente di crimini contro i migranti. E’ un buon punto di partenza per poter comcinciare a comprendere in modo più accurato ciò che accade alle vittime. Le informazioni che verranno raccolte potrebbero inoltre essere utili alle autorità per a identificare e perseguire i responsabili di questi crimini.

“E’ paradossale, in un momento storico in cui una persona su sette al mondo è un migrante, vedere quanto sia dura la risposta del mondo “sviluppato” nei confronti della migrazione”, afferma il Direttore Generale Swing. “Le limitate opportunità disponibili per poter migrare in modo sicuro e regolare spingono gli aspiranti migranti nelle mani dei trafficanti, i quali alimentano un mercato senza scrupoli che minaccia le vite delle persone più disperate.

Il Direttore Swing conclude: “Dobbiamo porre termine a questo fenomeno. I migranti irregolari non sono criminali ma esseri umani che hanno bisogno di protezione e assistenza, e meritano rispetto”.ù

Appello Amnesty - Iran: Saman Naseem, curdo, minorenne al momento del reato a rischio esecuzione

Amnesty International
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L'iraniano Saman Naseem è stato condannato a morte per aver partecipato ad attività armate contro lo stato e aver ucciso un esponente delle guardie rivoluzionarie, reati commessi quando era ancora minorenne. La sua esecuzione potrebbe aver luogo in qualsiasi momento, visto che la condanna è stata inviata all'Ufficio per l'attuazione delle pene.


Saman Naseem, 21 anni, è un curdo-iraniano. È stato condannato a morte nell'aprile 2013 da un tribunale penale di Mahabad, nella provincia dell'Azerbaigian occidentale, con l'accusa di moharebeh (inimicizia verso Dio) e "corruzione sulla terra", perché esponente del Partito per la libertà del Kurdistan (Pjak), gruppo armato curdo di opposizione, e per aver partecipato ad azioni armate contro le guardie rivoluzionarie. Nel dicembre 2013, la sua condanna a morte è stata confermata dalla Corte Suprema.

Saman Naseem era stato condannato alla pena capitale una prima volta nel gennaio 2012 dal tribunale rivoluzionario di Mahabad, ma la sentenza era stata ribaltata dalla Corte suprema nell'agosto 2012 e inviata a un tribunale di grado inferiore per un nuovo processo, poiché Saman era minorenne al momento del reato.

Secondo la documentazione della Corte, nel corso delle prime indagini Naseem aveva ammesso di aver sparato contro le guardie rivoluzionarie nel luglio 2011. Tuttavia, nella prima fase del processo, il ragazzo ha ritrattato, affermando di aver sparato solo in aria e di non conoscere il contenuto delle "confessioni" scritte che era stato costretto a firmare, dal momento che era stato tenuto bendato nel corso dell'interrogatorio.

Durante le prime indagini, a Saman Naseen non aveva potuto incontrare il suo avvocato e avrebbe subito tortura o altri maltrattamenti.

Japan: "No plans to abolish capital punishment"

Daiji World
The Japanese government does not believe that the death penalty is in need of any immediate reform, the country's new Justice Minister Midori Matsushima said.
Matsushima, who took up the portfolio in early September, reaffirmed her stance on capital punishment in Japan, one of 22 countries in the world that still mandate capital punishment for certain crimes.

"I believe that the death penalty is necessary to punish certain very serious crimes. We have to take into account the emotional reaction of the families as well as the general public," Matsushima said at a press conference Friday.

At least 5.6 % of Japanese citizens said the death penalty was "unavoidable if the circumstances demand it", while 5.7 % "totally oppose it", according to the most recent poll conducted on the topic, which the minister cited.

The latest 2 executions in the country took place Aug 29, bringing the total number of state-mandated deaths to 11 since the Liberal Democratic Party regained control of the government in 2012.

The execution by hanging of the 2 prisoners took place 5 days before Japanese Prime Minister Shinzo Abe announced a reshuffle of his cabinet, which saw Matsushima replacing Sadakazu Tanigaki in the justice ministry.

Amnesty International has repeatedly criticised Japan's implementation of the death sentence "without legal guarantees", referring to cases such as the execution of prisoners suffering from mental illnesses.

Meriam Ibrahim la donna salvata dalla pena di morte per apostasia difenderà di diritti delle donne in Sudan

ANSA
Meriam Ibrahim, la donna sudanese che grazie ad una campagna internazionale e all'intervento del governo italiano è stata salvata dall'impiccagione per apostasia, ha annunciato che intende battersi in favore di altre vittime di persecuzione religiosa nel suo paese.
"Ci sono altri che, in Sudan, sono in condizioni peggiori di quelle in cui ero io", ha detto Ibrahim parlando alla Bbc negli Usa, dove sta chiedendo asilo. La donna ha detto di sperare di poter tornare in Sudan, un giorno.

"Il giudice mi diceva che era necessario che mi convertissi all'islam", ha rievocato la Meriam, figlia di un musulmano, ma cresciuta come cristiana dalla madre e sposa di un uomo della stessa religione invisa alle autorità sudanesi: una situazione che aveva portato alla condanna per abbandono della religione islamica.

"Questi avvertimenti" del giudice "mi fecero capire che sarei stata condannata a morte", ha raccontato ancora Ibrahim come riferisce il sito della Bbc. "È triste - ha detto ancora - ma tutto ciò è avvenuto nell'ambito della legge: invece di proteggere la gente, la legge la danneggia".

La condanna della donna, divenuta madre di una bambina in carcere, aveva suscitato proteste a livello internazionali fino alla scarcerazione, avvenuta in giugno. La donna giunse in Italia con un aereo di stato dove fu accolta dal premier Matteo Renzi e del ministro degli esteri Federica Mogherini ed ebbe un incontro con il papa Francesco prima di partire per gli Stati Uniti. La Bbc segnala che sabato la donna ha ricevuto un premio di una fondazione cristiano-evangelica statunitense che ha voluto esaltare il suo coraggio e sottolineare come la sua condanna sia stato un attacco ai propri valori.

domenica 28 settembre 2014

Tunisia: due milioni i rifugiati dalla Libia gestito da un comitato ad hoc del Governo

ANSAmed
Tunisi- Sono quasi due milioni i cittadini libici residenti stabilmente in Tunisia. A partire dal 2011, ovvero dalla caduta del regime di Gheddafi fino ai giorni dell'attuale crisi che sta vivendo la Libia non si è mai fermato il flusso di libici in entrata nel paese. 

Questi numeri sono stati l'oggetto di una riunione ministeriale tenutasi ieri al Palazzo di Governo, dedicata all'esame di numerosi aspetti legati a questo argomento e alle sue ripercussioni sul piano economico, sociale e di sicurezza. 

E' stata decisa l'istituzione di un comitato ministeriale con il compito di realizzare una relazione esaustiva da presentare ad un consiglio dei ministri ristretto. 

La predetta relazione dovrà contenere tutti dati necessari per fotografare l'esatta situazione dei cittadini libici residenti in Tunisia, comprese una valutazione del loro impatto sul paese e la proposta di una serie di misure pratiche per risolvere eventuali problematiche legate alla questione. 

Il comunicato della Presidenza del governo precisa che è intenzione della Tunisia poter adempiere al dovere di solidarietà con la Libia ma nello stesso tempo preservare gli interessi del paese.

Isis: Parigi, musulmani in piazza contro 'ideologia assassina' - 'Siamo tutti sporchi francesi' è lo slogan

ANSAmed
Parigi - I musulmani di Francia scendono in piazza a Parigi per denunciare la decapitazione di Hervé Gourdel, il cittadino francese barbaramente ucciso dall'ala algerina dell'Isis, e per solidarizzare con le vittime dello Stato islamico. 


Il Consiglio rappresentativo dei musulmani di Francia (CFCM) - che rappresenta cinque milioni di persone, la più importante comunità in Europa - ha indetto una manifestazione questo pomeriggio davanti alla Grande Moschea di Parigi per denunciare i "'terroristi che in nome di un'ideologia assassina corrompono l'Islam".

Anche noi siamo "sporchi francesi'": denuncia, in un intervento pubblicato sul quotidiano Le Figaro, un gruppo di personalità musulmane. 

Un riferimento al terrificante messaggio audio diffuso nei giorni scorsi, in cui il portavoce dell'Isis, Abu Muhammed Al Adnani, prendeva particolarmente di mira la Francia, unico Paese europeo ad aver lanciato i raid aerei insieme agli Stati Uniti, chiamando ad uccidere gli "sporchi" francesi. 

"Noi, francesi di Francia e di confessione musulmana, vogliamo esprimere con forza la nostra totale solidarietà a tutte le vittime di quest'orda di barbari, soldati perduti di un sedicente Stato islamico - sottolineano i firmatari, tra cui figurano Imam, medici, avvocati e politici - Rivendichiamo l'onore di dire che anche noi siamo degli 'sporchi francesi'".

Somalia donna lapidata, "colpevole di poliandria" - Uccisa davanti alla folla da uomini col volto coperto

ANSA

Mogadiscio - Una somala di 33 anni è stata uccisa con la lapidazione in una regione della Somalia controllata dal gruppo estremista Shabaab che l'accusava di "poliandria". 

La donna è stata sepolta fino al collo, con gli occhi bendati, e presa a sassate da uomini col volto coperto davanti a una folla. "La donna è sposata con quattro uomini, ha confessato", ha gridato alla folla radunata a Baraw, nel sud della Somalia, il giudice del tribunale islamico Sheik Mohamud Abu Abdullah.

sabato 27 settembre 2014

Marocco, nuova frontiera verso la "Fortezza Europa". Centinaia di rifugiati ogni giorno al porto di Tangeri

L'Indro
In una trentina d’anni il Mediterraneo ha inghiottito quasi 23.000 persone nel tentativo vano di raggiungere le coste meridionali dell’Europa. Dall’inizio dell’anno, secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), oltre 2.500 persone (di cui oltre 2.200 solo dall'inizio di Giugno) sono morte annegate o sono attualmente disperse nel Mediterraneo. I migranti non provengono solo da Siria, Iraq, Libia, Kurdistan iracheno o siriano, ma anche dall’Africa subshariana (Senegal, Camerun, Costa d’Avorio).
In questa prospettiva, il Marocco, Paese di frontiera di una Fortezza Europa allargata, ha cessato di essere Paese esportatore di manodopera locale e Tangeri diventa il porto invece da dove partono disperati provenienti da regioni ancora più povere e disastrate, il porto di transito dove popolazioni subsahariane che fuggono da guerre e carestie cercano disperatamente di raggiungere l’Europa. 

Centinaia di persone si ammassano quotidianamente nel porto di Tangeri per cercare di attraversare il Mediterraneo. Ovviamente poche riescono nell’intento ma il flusso continuo di migranti che passa di qui crea non poche tensioni con la popolazione locale fino a sfociare in vere e proprie sommosse che poi si traducono nel linciaggio dei migranti da parte dei residenti, come è avvenuto alla fine del mese di Agosto. Un linciaggio, partito da un banale alterco tra due persone, che ha portato alla morte di un giovane senegalese ed al ferimento di due camerunesi e di un ivoriano nel quartiere Al Irfane di Tangeri. Alcuni media senegalesi hanno parlato di un bilancio più grave degli scontri, ovvero di tre morti, ma la notizia è stata però smentita dalle autorità marocchine.

Marocco razzista? Il Marocco non ci sta e dopo la morte del migrante senegalese centinaia di persone sono scese in strada a Rabat l’11 Settembre scorso per denunciare le aggressioni ai migranti e per dire ‘no al razzismo’. La morte del giovane senegalese ha scosso anche le relazioni tra i due paesi tanto che il Consiglio Nazionale dei Diritti Umani del Marocco (CNDH) ha mandato in fretta e furia una missione in Senegal per incontrare membri del Comitato Senegalese dei Diritti Umani (CSDH) e lanciare un nuovo partenariato tra le due istituzioni, evidenziando l’importanza della nuova politica migratoria adottata nel Settembre del 2013 dal Marocco in cui sono stati fatti passi significativi per instaurare un sistema d’asilo che riconosce ai rifugiati uno statuto ben definito e per l’apertura di cantiere volti a regolarizzare un certo numero di migranti senza documenti per porre fine alle espulsioni sommaria verso l’Algeria. 

Importante dunque in questo senso è la riforma approvata dal re Mohammed VI su raccomandazione del CNDH che include il rilascio di una residenza legale ai migranti che l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati ha deciso di considerare come rifugiati. 

Una volta che la domanda viene trattata dall’Ufficio Nazionale per i Rifugiati ed Apolidi in Marocco, i rifugiati ottengono un permesso di soggiorno che dà loro diritto a lavorare e a beneficiare dei servizi sociali.

Ciononostante, resta ancora molto da fare in quanto i migranti che cercano di raggiungere le enclave spagnole di Ceuta e Melilla continuano ad essere vittime di violenze, arresti di massa, furto di documenti, di danaro e oggetti preziosi e abusi da parte della polizia marocchina nei campi di rifugiati a Oujda o Nador come ha denunciato all’inizio dell’anno Human Rights Watch (HRW) in un rapporto di 79 pagine intitolato “Abusi ed espulsioni: i maltrattamenti inflitti ai migranti dell’Africa subsahariana in Marocco”.

Dal canto suo l’ONG Gadem (Gruppo antirazzista di difesa e d’accompagnamento degli stranieri e dei migranti) ha segnalato che sono oramai sempre più frequenti gli scontri tra migranti subsahariani ed i residenti marocchini a Tangeri. L’ultimo era avvenuto nel quartiere Boukhalef, a Tangeri, la notte tra il 16 e 16 Agosto. In quell’occasione gli scontri avevano portato al ferimento di cinque persone. Ma ciò che è più inquietante, ricorda l’ONG, è la violenza sulle donne isolate ed il razzismo ordinario nei confronti dei migranti soprannominati con disprezzo ‘azzi’ o ‘srak zit’ (scarafaggi). La strada è lunga e tutta in salita anche se le aperture del Marocco fanno sperare in un futuro più roseo per i migranti.

Uzbekistan, attivisti e giornalisti "nemici dello stato" in carcere per decenni

La Repubblica
La denuncia di Human rights watch. Trentaquattro interviste raccolte nel rapporto Fino alla fine dell'organizzazioni umanitaria raccontano gli arresti, le pessime condizioni di prigionia e le torture subite per anni da sostenitori dei diritti umani, giornalisti e politici lasciati per decenni dietro le sbarre

Roma - La libertà d'espressione è un "lusso" per pochi in Uzbekistan. Arresti per motivi politici e condizioni di prigionia inumane sono solo alcune delle ombre che velano il governo di Tashkent, già noto per la violazione sistematica dei diritti umani. In un rapporto di 121 pagine intitolato "Fino alla fine: arresti politici in Uzbekistan",Human rights watch ha raccolto le testimonianze di coloro che hanno provato sulla loro pelle l'intransigenza dello stato centrasiatico.

Volti noti dietro le sbarre. Come prova delle violazioni, Hrw ha intervistato 34 persone, tra le più note in Uzbekistan, recluse per reati politici. Tra gli intervistati ci sono anche i due giornalisti più a lungo imprigionati nel mondo. "Il governo uzbeko - afferma Steve Swerdlow, ricercatore Hrw per l'Asia Centrale - cerca di nascondere al mondo gli abusi nelle sue carceri e la loro stessa esistenza. Ma adesso, viste le prove raccolte, Tashkent non può più far finta che in Uzbekistan non esista la detenzione politica". 


Nelle prigioni sono stati reclusi esponenti di spicco della cultura uzbeka, persone che hanno denunciato la corruzione del governo e sostenitori della democrazia. Alcuni, definiti "nemici dello stato", sono stati arrestati senza una vera e propria accusa. Mentre altri sono stati accusati di attività anti-costituzionali o di estremismo religioso.

Oltre alla prigione, la tortura. Almeno 29 dei 34 prigionieri intervistati da Hrw , hanno denunciato maltrattamenti e atti di tortura. Sono stati picchiati con manganelli di gomma o bottiglie di plastica piene d'acqua e torturati con scosse elettriche, appesi per i polsi e le caviglie, quasi soffocati con sacchetti di plastica e maschere antigas e minacciati di danni fisici ai parenti. Azam Farmonov, un attivista per i diritti dietro le sbarre dal 2006, sostiene che la polizia, per estorcergli una falsa testimonianza, gli abbia messo una maschera sigillata in testa come per soffocarlo e lo abbia picchiato su gambe e piedi. Inoltre ha raccontato che durante la custodia cautelare, è stato malmenato con bottiglie di plastica piene d'acqua e che i servizi segreti uzbeki hanno minacciato di inchiodargli mani e piedi e di ritorsioni sulla sua famiglia.

Morire in carcere. Oltre all'immotivato prolungamento della prigionia, le prove raccolte documentano cinque casi di prigionieri rapiti all'estero dai servizi di sicurezza uzbeki e forzatamente ricondotti in Uzbekistan nonostante l'assenza di un procedimento giudiziario a loro carico. Il governo di Tashkent resta indifferente anche davanti alla malattia di alcuni detenuti politici lasciati in isolamento per lunghi periodi senza un'adeguata assistenza sanitaria. Abdurasul Khudoynazarov, un attivista per i diritti, è morto 26 giorni dopo il suo rilascio nel maggio 2014. Prima della sua morte ha riferito ad alcune associazioni umanitarie che, nonostante le sue richieste, i carcerieri gli avevano negato le cure mediche per tutta la durata, otto anni, della sua prigionia. "Torture - continua Swerdlow - rapimenti, detenzioni in isolamento e l'estensione delle pene sono abusi indicibili che nessuno dovrebbe soffrire. Per vent'anni o per periodi più brevi, queste persone sono state imprigionate ingiustamente e non devono spendere neanche un altro giorno dietro le sbarre".

L'indifferenza. Il rifiuto di Tashkent di rilasciare i detenuti politici non ha influito sui rapporti con le potenze straniere. Europa e Stati Uniti hanno deciso di chiudere un occhio in previsione dell'importanza strategica del paese in vista del ritiro delle truppe dall'Afghanistan. L'Uzbekistan non ha neanche pagato la sua mancanza di cooperazione con le Nazioni Unite che negli ultimi dodici anni hanno visto rifiutare l'ingresso nel paese a undici esperti di diritti umani. "Gli Stati Uniti, l'Unione europea e altri sono consapevoli dell'utilizzo da parte del presidente Islam Karimov di carcere e abusi per stroncare il dissenso interno. I partner internazionali dell'Uzbekistan devono far presente a Karimov che se non fermerà gli abusi e le torture, ci sarà un prezzo da pagare".

Cina - Hong Kong: si espande la protesta degli studenti

MISNA
Centinaia di studenti delle scuole secondarie si sono uniti da oggi alle manifestazioni in corso degli studenti universitari che protestano contro il rifiuto di Pechino di concedere alla popolazione la piena scelta del leader locale attraverso elezioni a suffragio universale nel 2017.
Dopo le prime manifestazioni di lunedì nel campus dell’Università cinese, a Nord del territorio, e le successive manifestazioni attorno al palazzo del governo e nel distretto finanziario di Central, la notte scorsa la residenza del capo dell’esecutivo Leung Chun-ying è stata assediata pacificamente da 800 studenti dei 4000 che, secondo fonti degli organizzatori, l’avevano circondata in serata.

Da questa mattina, 500 studenti medi si sono radunati attorno al complesso di edifici del governo gridando slogan e parlando con i giornalisti. Uno sviluppo nuovo nelle iniziative di protesta contro le pressioni cinesi sulle libertà civili e democratiche garantite dagli accordi sino-britannici e dalla sua mini-Costituzione (Legge base) fino al giugno 2047.

Un crescendo di azioni anticipato, soprattutto davanti al rifiuto di Leung di incontrare i leader del movimento studentesco, la cui protesta dovrebbe raccordarsi con quella del movimento Occupy Central che nei prossimi giorni e almeno fino al 1° ottobre (data della nascita della Repubblica popolare cinese) potrebbe bloccare le attività di Central, essenziali non solo all’ex colonia britannica, ma all’intera Cina.

venerdì 26 settembre 2014

Iraq: Onu, Isis ha torturato e ucciso Sameera Salih Ali al-Nuaimy avvocatessa per i diritti umani

Adnkronos
I jihadisti dello Stato islamico (Is) hanno torturato e ucciso una donna avvocato attiva nel campo dei diritti umani, Sameera Salih Ali al-Nuaimy. 

Lo ha annunciato l'Alto commissario Onu per i diritti umani, Zeid Ra'ad al-Hussein, il quale ha spiegato che la donna era stata prelevata la scorsa settimana dalla sua abitazione a Mosul, nel nord dell'Iraq, dopo aver criticato sui social network le azioni di devastazione e distruzione condotte dall'Is contro santuari e antiche moschee.

Accusata dai militanti di apostasia, al-Nuaimy è stata torturata per giorni prima di essere giustiziata in piazza da un plotone di esecuzione, lunedì scorso. "Questa orrenda esecuzione pubblica di una donna coraggiosa la cui unica arma erano le parole che usava per difendere i diritti umani smaschera l'ideologia fallimentare dell'Is e dei suoi alleati", ha commentato al-Hussein.

L'uccisione dell'avvocato è stata confermata dal Centro per i diritti umani del Golfo, il quale l'ha definita come un "crimine contro l'umanità". 

Le Nazioni Unite hanno più volte denunciato attacchi e violenze contro le donne a Mosul, città che da giugno è sotto il controllo dell'Is. "Sono a rischio - si legge in un recente rapporto dell'Onu - soprattutto le donne istruite e le professioniste".

Renzi all'Onu contro la pena di morte: «Abolizione è priorità della nostra politica estera»

Il Messaggero
Un'antica battaglia rispolverata con vigore. «Non aggiungiamo barbarie alla barbarie. Chiediamo a tutti i Paesi di unirsi a noi in questa battaglia di civiltà». Forte del fatto di venire da una regione, la Toscana, in cui la tradizione abolizionista è vecchia di secoli, il primo ministro Matteo Renzi ha lanciato dal podio dell'Assemblea generale un forte appello per la moratoria delle esecuzioni. «Da Cesare Beccaria a Matteo Renzi», ha sintetizzato il vicesegretario per i diritti umani Ivan Simonovic dopo l'intervento appassionato del premier. 

«La sessione dell'Assemblea che ci troviamo ad aprire coinciderà con la presentazione di una nuova risoluzione per una moratoria delle esecuzioni. Mi auguro che il fronte dei Paesi che hanno scelto di sostenerla continui a crescere», ha detto Renzi riandando alla sua esperienza di Sindaco della città di Firenze, che per prima abolì la pena di morte nel 1786: «Motivo di orgoglio ogni mattina, salendo le scale di Palazzo Vecchio».

La pena di morte, come ha detto il segretario generale Ban Ki moon, «non ha posto nel 21esimo secolo», e tuttavia non bisogna abbassare la guardia. Renzi ne ha parlato in un incontro ad alto livello promosso dall'Italia con il numero due dell'Onu Jan Eliasson e il nuovo alto commissario per i Diritti Umani, il principe giordano Zeid al Hussein, con i i presidenti di Mongolia, Tunisia e il ministro degli esteri del Benin: paesi che di recente hanno rinunciato alle esecuzioni e in cui «la leadership ha fatto la differenza», ha detto il presidente mongolo Tsakhiagiin Elbegdorj. Mai prima d'ora all'Onu un evento sulla pena di morte aveva visto una partecipazione di così alto livello, ha osservato Simonovic rendendo omaggio al ruolo dell'Italia quando nel 2007 per la prima volta l'Onu approvò una risoluzione sulla moratoria.

«Ci sono segnali preoccupanti: paesi che avevano adottato una moratoria di fatto hanno ripreso le esecuzioni», ha detto Renzi: «Allo stesso tempo, paesi che continuano ad avere le esecuzioni nei codici hanno mostrato moderazione. Bisogna continuare a lavorare per evitare involuzioni nel voto del prossimo autunno». Con il sostegno di tutte le sue componenti - governo, parlamento, società civile (e qui Renzi ha reso omaggio alle campagne di Sant'Egidio), l'Italia «è stata in prima linea fin dal primo giorno - era il 1994 quando la prima bozza di risoluzione fu presentata in Assemblea e perse per una manciata di voti - nelle campagne per fermare le esecuzioni con l'obiettivo della loro totale abolizione, ha ricordato il premier italiano: «Una priorità della nostra politica estera». L'obiettivo all'Onu è consolidare quella maggioranza di 111 Paesi che due anni fa si pronunciarono a favore della moratoria, sette in più rispetto al 2007 quando il primo documento passò con 104 sì: «Una risoluzione storica», ha ricordato Simonovic.

Australia - Firmato accordo per "deportare" i propri richiedenti asilo in Cambogia

Tm News
L'Australia ha annunciato la firma di un accordo per mandare i propri richiedenti asilo in Cambogia, una misura fortemente condannata dai gruppi per i diritti umani. 

Il ministro dell'Immigrazione australiano, Scott Morrison, sarà a Phnom Penh domani per firmare l'intesa, in base alla quale alcuni richiedenti asilo attualmente detenuti da Canberra nei centri al largo delle coste australiane potrebbero essere trasferiti nella nazione del sud-est asiatico.

L'accordo viene siglato, mentre il governo australiano ha appena presentato una legge in parlamento per reintrodurre temporaneamente i visti per altri richiedenti asilo detenuti sull'Isola del Natale, territorio australiano nell'Oceano Indiano, o in strutture nell'entroterra.

giovedì 25 settembre 2014

Migranti - ONG Germania: maggiori fondi UE per operazioni di salvataggio nel Mediterraneo diventato una fossa comune

ASCA
Roma - Fra il 2007 e il 2013, la Ue ha speso due miliardi di euro per la costruzione di barriere di sistemi di sorveglianza, di controlli e per finanziare l’agenzia di sorveglianza delle frontiere Frontex, ma solamente 700 milioni di euro per i rifugiati che richiedono asilo.

A denunciarlo sono le organizzazioni per la difesa dei diritti umani tedesche, che chiedono alla Ue piu’ mezzi per le operazioni di salvataggio degli immigrati nel Mediterraneo, dove quest’anno sono morte 2.500 persone nei naufragi. L’Europa deve far cessare i morti alle sue frontiere’, ha detto il dirigente di Pro Asyl, organizzazione per la difesa dei diritti dei rifugiati, Günter Burkhardt, nel corso di una conferenza stampa a Berlino.

I progetti in discussione a Bruxelles fanno temere il peggio: invece di rafforzare le operazioni in mare, va crescendo il ritiro, ha aggiunto Selmin Caliskan, segretario generale di Amnesty International in Germania. Con queste politiche, l’Unione europea accetta che il Mediterraneo diventi una fossa comune. 
Uda

Amnesty, 51milioni, record rifugiati da '45 - Crisi internazionali hanno spinto numero a livelli record

Ansa
Le numerose crisi internazionali hanno prodotto 51 milioni di rifugiati nel mondo, una cifra che non si riscontrava dalla Seconda Guerra Mondiale. 

E' l'allarme lanciato oggi da Selmin Calickan, segretaria generale di Amnesty International (Ai) in Germania, per la giornata nazionale dei rifugiati. Secondo Calickan l'Europa deve mettere fine alla "politica di isolamento", che "accetta la possibilità di tradire il rispetto dei diritti umani e fa del Mediterraneo una fossa comune".

Attenzione dell'ONU sulle spose bambine. Coinvolte 25milioni di bambine sotto i 15 anni

OnuItalia
New York – “Nel 2020, se non cambiano le linee di tendenza, 152 milioni di ragazzine nei paesi in via di sviluppo saranno spose bambine. Il mondo non puo’ continuare così”. 


L’allarme di Phumzile Mambo, la direttice di Un Women in un incontro “He for She” tenuto a battesimo dalla nuova ambasciatrice di buona volontà dell’Onu Emma Watson, trova una eco nel ministro degli Esteri italiano Federica Mogherini che lunedì all’Onu aprirà un foro a livello ministeriale con Kate Gilmore, vice direttore esecutivo di Unfpa, l’agenzia Onu per la popolazione, e la partecipazione di Canada, Yemen, Zambia. Sul podio anche una ragazza nigeriana e una keniota che hanno vissuto sulla loro pelle la condizione di sposa bambina.

I matrimoni precoci e forzati hanno conseguenze devastanti e a volte persino letali. Oggi una ragazza su tre tra i 20 e i 24 nei paesi in via di sviluppo – circa 70 milioni – si e’ sposata prima dei 18 anni: un terzo del totale a meno di 15 anni. Le protagoniste dei matrimoni forzati non hanno voce in capitolo nella scelta dello sposo. Le conseguenze vanno dalla perdita di una istruzione alle gravidanze precoci e ripetute, spesso all’esposizione alla violenza domestica.

C’e’ una crescente consapevolezza nella comunità internazionale che tutto questo e’ una grave violazione dei diritti umani: eliminare la pratica sarebbe essenziale per raggiungere l’obiettivo di una più’ vasta parità tra i sessi . Nel 2013 una risoluzione sui matrimoni forzati e’ stata adottata per consenso all’Assemblea Generale con oltre 100 co-sponsor. Nel 2014 l’Unione Africana ha lanciato con l’Unpfa e l’Unicef una campagna biennale per por fine ai matrimoni precoci e alla mutilazione genitale femminile.

I matrimoni precoci e forzati sono anche un ostacolo per lo sviluppo: e’ importante che l’obiettivo della loro abolizione rientri tra i target dell’agenda post 2015. Negli ultimi decenni stanno diminuendo ma troppo lentamente. Di qui la necessita; di puntare i riflettori su un fenomeno radicato nella poverta’ e in dinamiche di genere con l’obiettivo di arrivare a una riduzione significativa in cinque anni e all’eliminazione della pratica nell’arco di una generazione.

mercoledì 24 settembre 2014

Philippines - President Aquino remains cold to proposals to reimpose death penalty

Headlines
Manila, Philippines - President Aquino remains cold to proposals to reimpose death penalty amid efforts in the Senate to start the debates on the issue.
Presidential Spokesperson Edwin Lacierda said Aquino continues to have reservations against death penalty because of his concerns on the judicial system.

“During the campaign, he (Aquino) mentioned that death penalty assumes that our judicial system is good. But we know for a fact that in our judicial system, in our judicial framework, sometimes those with weak legal representation are prejudiced,” Lacierda said in a press briefing on Wednesday.

“To the best of my knowledge, that position remains the same. There were no discussions after that,” he added.

Lacierda noted that any wrong judgment on a case involving death penalty would be irreversible.

“He’s looking at the entire judicial framework, how we can improve judicial framework ensuring that the judgment that would be made will be right, fair, and just,” he said.

Earlier, Sen. Vicente Sotto III reiterated the need to restore the death penalty following the killing of the mother of actress Cherry Pie Picache in Quezon City last week. Senate President Franklin Drilon said the debates on the death penalty should start to determine if it can solve criminality in the country.

The death penalty was abolished in 1987 during the time of President Corazon Aquino, but it was revived in 1993 under the administration of President Fidel Ramos.

Among the crimes that were punishable by death were murder, rape, kidnapping and drug trafficking.

In 2001, then President Gloria Macapagal-Arroyo imposed a moratorium on death penalty but lifted it two years following a series of murders and kidnappings.

She, however, did not sign any execution order and commuted all death sentences to life imprisonment.

In 2006, Arroyo signed a law abolishing death penalty, believing that state resources should be used in controlling crime instead of taking the lives of criminals.

Alexis Romero

#notinmyname, la rivolta dei musulmani contro l’ISIS

WEST
I musulmani d’oltremanica si ribellano all’ISIS. Attraverso #notinmyname, una campagna promossa da Active Change Foundation, essi dichiarano in video di non sentirsi rappresentati dal gruppo jihadista. 

L’islam insegna la pace, il rispetto, l’amore. Non ha nulla a che vedere con i valori di questa organizzazione. Che uccide in nome dell’Islam – si legge nel sito di riferimento. “Bisogna fermare la violenza”, “il vostro capo è un bugiardo”, “voi uccidete tanti innocenti”, “non avete compassione” – esclamano alcuni dei partecipanti alla breve registrazione. 

La campagna invita i musulmani del mondo intero ad aderirvi twittando un pensiero seguito dall’hashtag #notinmyname (non nel mio nome) e dissociarsi così dall’ideologia estremista della setta.

Cina - Amnesty: circa 130 aziende cinesi esportano strumenti di tortura in Africa e Asia

Tm News
La Cina favorisce le violazioni dei diritti dell'uomo in diversi paesi dell'Africa e dell'Asia esportando strumenti di tortura utilizzati durante gli interrogatori e in carcere. Secondo un documento diffuso oggi da Amnesty International circa 130 aziende cinesi - erano neppure 30 solo dieci anni fa - producono ed esportano strumenti di tortura come manganelli elettrici, manette per polsi e caviglie delle vittime, sedie che immobilizzano i detenuti.
Alcuni di questi articoli commercializzati "sono intrinsecamente crudeli e disumani e dovrebbero quindi essere vietati", sottolinea Amnesty. Molti di questi strumenti vengono utilizzati dalla polizia in Cambogia, dalle forze di sicurezza in Nepal e Tailandia, sottolinea l'ong. Un'azienda denominata China Xinxing import-export ha indicato di avere rapporti commerciali con più di 40 paesi africani, fra i quali Ghana, Egitto, Senegal e Madagascar.

"Il sistema di esportazione cinese ha consentito la proliferazione del commercio di strumenti di tortura e di repressione", deplora Amnesty International, invitando le autorità cinesi a "riformare la normativa commerciale per mettere fine al trasferimento irresponsabile di questi materiali".

martedì 23 settembre 2014

Cina: ergastolo a Ilham Tohti intellettuale della minoranza uiguri per incitamento al separatismo

Adnkronos
È stato condannato all'ergastolo l'intellettuale uiguro messo sotto processo in Cina con l'accusa di aver incitato la popolazione al separatismo. Lo ha reso noto il difensore di Ilham Tohti, l'avvocato Liu Fangping al termine del processo, durato appena due giorni, in un tribunale della regione dello Xinjiang, la provincia cinese dove risiede una forte comunità uigura.

La polizia ha arrestato Tohti, di 44 anni, lo scorso gennaio nel suo appartamento di Pechino dove era docente di economia all'Università centrale nazionale, e poi lo ha trasferito in un carcere nello Xinjiang, dove è nato. Era stato rifiutato l'appello presentato dai suoi avvocati per far trasferire il suo caso a Pechino. Insieme a Tohti a gennaio sono stati arrestati anche sei suoi studenti che, si ritiene, siano ancora in prigione.

Il caso ha attirato l'attenzione e le critiche di governi occidentali e gruppi per la difesa dei diritti umani, che hanno ricordato che il professore sia un moderato impegnato a promuovere un miglioramento delle relazioni tra la comunità uigura e le autorità cinesi. Questo processo "servirà solo a far crescere la percezione di una discriminazione contro gli uiguri", aveva dnunciato Human Rights Watch in occasione dell'inizio del processo.

ONU: più di 100mila curdi rifugiati in Turchia provenienti dalla Siria in 48 ore in fuga dall'Isis

AGI
Ginevra - Non si ferma l'esodo dei curdi siriani in fuga dai sanguinari jihadisti dell'Isis: secondo gli ultimi dati dell' l'agenzia Onu per i rifugiati, Unhcr, almeno 100mila hanno attraversato le frontiere nelle ultime 48 ore. 

Un dato, ha fatto sapere una portavoce dell'agenzia, Melissa Fleming, confermato anche dal governo turco. E intanto i curdi in Turchia hanno levato un nuovo appello alle armi per difendere il loro popolo in Siria, minacciato dall'offensiva degli estremisti dello Stato islamico.

I miliziani islamisti hanno conquistato di decine di villaggi lungo il confine tra Turchia e Siria e adesso puntano a una strategica citta' di frontiera, Ain al-Arab, chiamata dai curdi Kobane. 

Secondo fonti sul terreno, i jihadisti sono ormai a una manciata di chilometri dalla citta', la cui conquista consentira' all'Isis di consolidare il controllo su tutta la fascia settentrionale della Siria. 

Proprio per consentire l'ingresso dei curdi fuggitivi, venerdi' Ankara ha deciso di aprire un tratto della frontiera, organizzando otto punti di transito lungo un arco di 30 chilometri. 

Da allora il flusso dei rifugiati in fuga dal terrore jihadista non si e' fermato, creando allarme tanto nel governo di Ankara (che teme di non reggere al gravoso impegno di accogliere un numero cosi' imponente di persone) che nell'Onu, che comunque domenica ha promesso di rafforzare il suo sforzo. 

Intanto i curdi in Turchia hanno levato un nuovo appello alle armi per difendere il loro popolo. Il Pkk, il Partito del Lavoratori del Kurdistan, che per decenni ha lottato contro il governo centrale di Ankara per chiedere maggiore autonomia per i curdi, ha rinnovato l'appello ai giovani curdi che abitano nella zona sud-orientale della Turchia, perche' imbraccino le armi e vadano a difendere la loro gente. Secondo quanto riferisce l'agenzia filo-curda Firat, il gruppo ha chiesto una "mobilitazione" perche' "il giorno della gloria e dell'onore e' arrivato".

Africa - Costa d'Avorio - Rifugiati ivoriani che vogliono rientrare bloccati in Liberia a causa dell’Ebola

AP
Abidjan - Bloccato per diversi mesi, il rimpatrio volontario dei rifugiati ivoriani in Liberia sarebbe dovuto riprendere nel mese di luglio. 

L'epidemia di Ebola nel Paese limitrofo ha invece indotto le autorità ivoriane a chiudere i confini per prevenire la diffusione del virus, sospendendo il rientro dei profughi fino a nuove disposizioni. 

Secondo l'Agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite (UNHCR), a partire dall'inizio del mese di gennaio 2014, 12 mila rifugiati sono tornati in Costa d’Avorio e 38.600 sono in attesa che il governo del Paese riapra le frontiere per permettere loro di tornare a casa. 

L’11 luglio circa 392 rifugiati ivoriani in Liberia, arrivati durante la crisi post-elettorale nel 2010-2011, sono stati respinti alla frontiera dalle autorità ivoriane mentre si preparavano a tornare a casa. Il Governo è stato costretto a chiudere le frontiere per motivi di sicurezza impegnandosi nell’organizzazione di misure di prevenzione e informazione sul virus. Le frontiere verranno riaperte appena la situazione sarà sotto controllo, hanno dichiarato i responsabili dell’ UNHCR. Il ministro della Sanità della Costa d'Avorio ha rivelato che circa 100 liberiani sono stati mandati a casa dopo aver cercato di entrare illegalmente nel Paese. Dal 14 settembre in Liberia sono stati segnalati 2.710 casi del virus e 1.459 decessi. La metà nelle ultime tre settimane.

Il dramma degli sfollati in Sud Sudan alla ricerca dei figli perduti durante la fuga

Africa ExPress

Kangul (Sud Sudan) - Nyandoang ha un’età indefinita. Lei stessa non sa bene quanti anni ha; ne dimostra poco più di trenta. Davanti al tavolino organizzato dall’UNICEF nel bel mezzo del niente in Sud Sudan, si sta registrando perché cerca i suoi due figli, Wil, 3 anni, e Majan, 5, entrambi maschietti. Li ha persi quando è scappata da Bor subito dopo lo scoppio della guerra civile, nel dicembre scorso. “Avevo lasciato i miei due ragazzini da mia sorella, che vive a Juba (la capitale, ndr). Volevo che andassero a scuola. Io e mio marito stavamo a Bor. Lui è militare. Quando vicino a casa nostra hanno cominciato a combattere siamo scappati fuori città, cercando scampo nelle campagne. Anche mia sorella è fuggita da Juba ma non sappiamo dove sia andata. Dovrebbe aver portato con sé i miei due figli. Ma chissà dove. Sono disperata”. E Nyandoang scoppia a piangere.

Sono tante le madri che si affollano attorno ai funzionari dell’UNICEF incaricati dei ricongiungimenti, cioè di far ritrovare e mettere assieme frammenti di famiglie che sono dispersi. Le storie che raccontano sono tutte simili: “Io e mio marito siamo scappati da Malakal di notte – ricorda Nyatorik, che sostiene di avere 45 anni, ma probabilmente ne ha meno anche se ne dimostra di più – . I militari leali al governo sono entrati nelle case vicine e hanno ammazzato tutti quelli che trovavano. Prima che arrivassero alla nostra porta siamo fuggiti con i nostri sei figli. Abbiamo lasciato lì tutto quello che avevamo. Era buio e procedevamo in silenzio per evitare di essere scoperti. Non eravamo soli; a noi si è unita tanta gente che cercava di mettersi in salvo. Alle prime luci dell’alba ci siamo accorti che la piccola Nyaratadiet, 5 anni, era sparita. L’abbiamo cercata, chiamata, mio marito è tornato indietro per un po’. Niente”.

Ai punti di raccolta delle denunce ci sono solo le madri, niente padri. I pochi uomini che bazzicano l’ampio spiazzo alberato dove sono stati sistemati i tavolini sono alla ricerca delle mogli: “Aiutavo i nostri bambini nella notte – racconta Charles Mut – . Erano stanchi e affaticati. Io sono rimasto indietro con loro e Lucy è andata avanti con il più grande al quale ho raccomandato di badare alla mamma e di aspettarmi alla prima area in cui erano sicuri che non li avrebbero attaccati. Lì sono arrivato anch’io il giorno seguente, ma non li ho trovati. Spero che l’UNICEF che ha organizzato queste ricerche riesca a trovarlo”. Era dicembre e la famiglia era scappata da Bor dove Charles faceva il muratore. Ora non ha più un lavoro e, senza soldi e disperato, vaga di campo in campo alla ricerca di Lucy.

“Era gente dispersa in questa zona, scappati dalla guerra non sapevamo dove fossero, né come raggiungerli – spiega Inma Vazquez, esperta di Echo, l’agenzia per l’aiuto umanitario dell’Unione Europea che ha finanziato questo progetto con 8 milioni di euro -. Non avevamo idea di dove fossero. Abbiamo così creato un gruppo che si occupasse di una risposta rapida alla crisi di cui avevamo notizia ma che non potevamo affrontare con i mezzi normali”.

L’area è remota, senza linee telefoniche, in una zona dove i combattimenti possono scoppiare improvvisamente. Sono stati inviati due gruppi incaricati di individuare dove fossero gli sfollati. Una volta trovati si è messa in voto la macchina degli aiuti: “Prima di tutto cibo e purificatori d’acqua poi vaccini e supplementi nutrizionali per i bambini e infine i ricongiungimenti familiari. La gente è scappata da casa come poteva: abbiamo individuato moltissimi bambini sena genitori e genitori senza i loro figli”, aggiunge Inma Vazquez.

L’altro ieri, il primo giorno di lavoro per il team sono state registrate 2682 persone, compresi 491 bambini sotto i cinque anni. Il secondo giorno il totale è arrivato a 8.951. In due giorni sono stati visitati 423 bambini tra i 6 e i 59 mesi. Due sono stati salvati perché severamente malnutriti stavano per morire. 623 ragazzini sotto i 15 anni sono stati vaccinati contro il morbillo e 491 contro la poliomielite.

A Kagul la situazione sanitaria è disastrosa. “Siamo nella stagione delle piogge e non si scavano pozzi – spiega Peter Gay Dual uno dei capi villaggio -. La gente bene l’acqua prendendola direttamente dalle pozzanghere”. Si possono immaginare le conseguenze sulla salute.

Quella dell’Unione Europea, delle Nazioni Unite e delle agenzie non governative è anche una lotta contro il tempo. I combattimenti potrebbero riprendere da un momento all’altro, più probabilmente tra un paio di settimana alla fine della stagione delle piogge. E allora questa gente sarebbe costretta a scappare di nuovo con conseguenze umanitarie disastrose.

Kangul si trova nel distratto di Pathai in una zona controllata dai ribelli del SPLA-iO (Sudan People Liberation Army in Opposition), di etnia nuer. Il 15 dicembre scorso nel Paese più giovane del mondo (ha ottenuto l’indipendenza il 9 luglio 2011) la guerra civile ha spezzato tutti i sogni di democrazia, pace, sviluppo che avevano esaltato la comunità internazionale. Il presidente Salva Kiir Mayardit, di etnia dinka, ha accusato il suo vicepresidente che aveva licenziato nel luglio precedente, Riek Machar Teny, di aver ordito un colpo di stato. E’ apparso in televisione per la prima volta in uniforme mimetica da guerra (lui che porta sempre un cappellaccio da cowboy) e ha scatenato la guerra. A Juba, la capitale del Sud Sudan, è cominciata la mattanza dei nuer. I soldati dinka sono andati casa per casa, passando per le armi tutti i nuer che capitavano tra le loro mani. Stessa cosa nelle altre città, Bor, Malakal, Wau, Rumbek. Come sempre accade in questi casi, nelle zone a maggioranza nuer sono stati i dinka ad avere la paggio: massacrati.

Ma attenzione a non commettere l’errore di considerare questo conflitto come una guerra etnica. In palio ci sono i pozzi di petrolio che i dinka intendono controllare totalmente e temono possano essere sottratti dalle loro mani. Tra l’altro molti dinka, compresi la vedova del padre della nazione, John Garang, e il loro figlio Mabior, sono schierati con i nuer di Riek Machar. Gli shilluk, che rappresentano la terza grande etnia Sud Sudan, per ora, neutrali, stanno a guardare.


Massimo A. Alberizzi

lunedì 22 settembre 2014

Africa - Negata l’istruzione a 30 milioni di bambini, chiuse le scuole nei Paesi dell’ebola

Africa ExPress
Durante il mese di settembre si ritorna a scuola, non solo in Italia, in Europa, quasi in tutto il mondo. Dare un’educazione ai giovani, significa investire nel futuro, far crescere il proprio Paese ed è ciò che i governanti non dovrebbero mai dimenticare.
L’Africa, così flagellato da malattie, terrorismo, guerre di religione, faide tribali, corruzione è il continente che ha dimenticato i suoi piccoli cittadini. Sono loro che pagano il tributo più elevato: per un’altissima percentuale di bambini e ragazzi africani anche quest’anno non si apriranno i portoni delle scuole. Secondo un rapporto del Dipartimento di Stato Americano si stima che in tutto il mondo 30 milioni di bambini quest’anno non hanno accesso alla scuola, gli viene negato, cioè, il diritto all’istruzione.

In Liberia, Sierra Leone e Guinea, i tre Paesi maggiormente colpiti dall’ebola, molte aule resteranno chiuse e più di tre milioni di ragazzi resteranno a casa.

Nel Sudan, Sud Sudan, nella Repubblica Centrafricana, nel Congo DRC 7,15 milioni di persone sono sfollati. Non hanno più una casa, sono scappati per non essere uccisi. I più si trovano in campi profughi sovraffollati, lottano per la sopravvivenza quotidiana, spesso sono ammalati, fragili per le pessime condizioni di vita. Necessitano di assistenza umanitaria immediata che, ahimè, non comprende l’istruzione. Nella sola Repubblica Centrafricana due terzi dei ragazzi non andranno a scuola. Un’intera generazione resterà analfabeta o quasi, senza futuro. Le notizie che giungono dal Sudan, Sud Sudan e dal Congo DRC non sono molto più confortanti: solo il 40 percento dei bambini ha accesso alle scuole primarie.

Nel nord-est della Nigeria, a causa dei continui attacchi dei terribili militanti del gruppo Boko Haram di estrazione jihadista, lo Stato del Borno ha chiuso oltre 80 scuole medie nella primavera scorsa ; dopo il rapimento delle studentesse di Chibok (#BringBackOurGirls) altri istituti non hanno riaperto, i genitori hanno paura per i loro figli.

L’ignoranza, l’istruzione negata, è la tragica conseguenza dei conflitti, delle epidemie. Chi sopravvive a malattie e guerre difficilmente ha la possibilità di sognare un mondo migliore, gli mancano gli strumenti di base: l’istruzione che rende l’uomo libero, capace di analizzare, confrontarsi, migliorarsi, dare il proprio contributo intellettuale al suo Paese.

Cornelia I. Toelgyes

«Ti amo, non mi dimenticare». Il mare restituisce l'ultimo biglietto d'amore del migrante morto

Il Mattino
Ragusa - Un biglietto scritto in dialetto egiziano su un minuscolo pezzo di carta, ritrovato nel porto di Pozzallo, che racconta la sofferenza di un intero popolo.



Lo scorso 23 agosto, nel canale di Sicilia, sono morti 18 migranti i cui corpi sono stati recuperati dalla nave Sirio della Marina Militare.

Non si conosce l'identità dell'autore del biglietto, ma il significato è stato tradotto, ed è questo:

"Avrei voluto stare con te. Mi raccomando non ti dimenticare di me. Ti amo tanto.Vorrei tanto che tu non ti dimenticassi di me.Stai bene amore mio.Ti amo.A ama R"

domenica 21 settembre 2014

Immigrazione, migliaia di migranti 'respinti' dall'Austria al Brennero

La Repubblica
Secondo il sindacato di polizia Coisp è emergenza al commissariato di frontiera dove si sta verificando un "un flusso migratorio di proporzioni mai viste".
Da Lampedusa l'emergenza immigrazione sembra spostarsi al confine settentrionale della penisola, sul Brennero, dove, secondo il sindacato di Polizia Coisp, al commissariato di frontiera è in corso un'emergenza immigrazione.

[...]

L'emergenza nasce questa estate, quando le autorità austriache hanno cominciato a "rispedire" in Italia migliaia di stranieri che avevano passato le frontiere in precedenza. Si tratta di oltre 1400 stranieri solo nei mesi di luglio e agosto, a cui si vanno ad aggiungere gli oltre 700 del mese di settembre, per un totale di oltre 2mila migranti.


L'emergenza è aggravata anche dal rifiuto degli stranieri di sottoporsi ai rilievi dattiloscopici previsti dalla legge, a cui deve necessariamente seguire la denuncia con la conseguente difficoltà di reperire interpreti. La media dei riammessi è di circa 200 alla settimana, negli ultimi giorni anche siriani ed eritrei.

Il Coisp chiede che la situazione "non ricada sulle spalle dei colleghi, lasciati soli a gestire un flusso migratorio di proporzioni mai viste".

La notizia giunge nel giorno della visita in Italia del cancelliere austriaco Werner Faymann, che ha incontrato a Roma il ministro degli Esteri Federica Mogherini. Entrambi si sono detti d'accordo sulla necessità di trovare una soluzione a livello europeo del problema delle politiche di asilo e dell'immigrazione.

Faymann ha chiesto che l'Europa si faccia carico anche delle "esigenze delle persone in fuga", ricordando che l'Austria ospita un'alta percentuale di rifugiati. "Senza soluzione Ue, la questione dei profughi non potrà risolversi umanamente e politicamente in maniera decente", ha sottolineato Faymann.

Sulla questione dei rifugiati pochi giorni il ministro dell'interno bavarese Joachim Herrmann aveva accusato l'Italia di ignorare le leggi sui rifugiati per non farsene carico e "permettere loro di chiedere asilo in un altro Paese"

sabato 20 settembre 2014

Le studentesse nigeriane dimenticate dal mondo. Ricordate l'hashtag #BringBackOurGirls?

Articolo 21
Duecentocinquanta giorni. Domenica scorsa, tanti ne abbiamo contati da quando oltre 270 studentesse di una scuola di Chibok, in Nigeria, furono rapite dal gruppo armato islamista Boko haram. 

Nei primi giorni dopo il 14 aprile, 57 di loro riuscirono a scappare. Delle altre, non sappiamo più nulla. È una situazione paradossale, se si considera l’aiuto internazionale fornito da diversi stati alle operazioni di ricerca condotte dalle forze di sicurezza nigeriane. 

Il problema sta proprio là, nell’inefficienza dell’esercito di Lagos, che ha adottato dal 2009 la tecnica del terrore per sconfiggere il terrorismo, senza riuscirci ma rendendosi responsabile, nel frattempo, di migliaia di arresti e torture e centinaia di esecuzioni sommarie di presunti membri di Boko haram che a sua volta, in un crescendo di brutalità, dall’inizio dell’anno ha assassinato oltre 2000 civili.

Il rapimento delle ragazze poteva essere evitato. Nelle settimane successive, Amnesty International rivelò che il quartier generale delle forze armate di Maiduguri era a conoscenza dell’imminente attacco dalle 19 del 14 aprile, quasi quattro ore prima che Boko haram iniziasse le operazioni. L’incapacità di radunare i soldati – a causa delle scarse risorse a disposizione e della paura di fronteggiare un gruppo armato meglio equipaggiato – fece sì che quella notte non venissero inviati rinforzi a difendere la scuola di Chibok. Il piccolo contingente presente – 17 militari e qualche agente della polizia locale – cercò di respingere l’assalto di Boko haram ma venne sopraffatto e costretto alla ritirata.

Ricordate l’hashtag #BringBackOurGirls? Dopo la fatua ed effimera mobilitazione di vip, star e politici, a chiedere che le studentesse rapite 250 giorni fa sono rimaste solo le loro famiglie, le organizzazioni per i diritti umani e qualche organo d’informazione sensibile.