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venerdì 30 settembre 2016

Turchia Tra 5 mesi sarà finito il muro più lungo del mondo 911 km al confine con la Siria

La Stampa
La prima parte dell'opera, di oltre 200 chilometri, è stata ultimata nei dintorni di Reyhanli, uno dei distretti dove il flusso migratorio a partire dal 2011 è stato più forte.
Dalla politica dell'accoglienza ai muri divisori. 


Dopo mesi di fasi alterne, nelle quali i flussi migratori venivano assorbiti e contenuti, la Turchia di Recep Tayyip Erdogan ha pensato bene di chiudere la partita con l'erezione di un muro lungo tutti i 911 chilometri del confine siriano. La prima parte dell'opera, di oltre 200 chilometri, è stata ultimata proprio nelle ultime settimane. Interessa la zona dell'Hatay, soprattutto i territori nei dintorni di Reyhanli, uno dei distretti dove il flusso migratorio, a partire dal 2011 è stato più forte.

Ma Ankara non si è accontenta e adesso l'opera verrà estesa a tutta la frontiera, diventando, a tutti gli effetti, uno dei muri più lunghi del mondo. I lavori dureranno 5 mesi. Se la prima parte era stata portata a termine sotto il controllo del Ministero della Difesa, la seconda sarà supervisionata niente meno che dal Toki, l'Agenzia per la pianificazione dilizia, che in pochi anni ha costruito un milione di nuovi palazzi, con tutte le relative accuse di speculazione edilizia contro l'esecutivo islamico-moderato al governo dal 2002.
"La costruzione sarà ultimata in cinque mesi" hanno detto fonti governative al quotidiano Hurriyet, specificando che però in alcune zone, soprattutto Hakkari e Sirnak, dove di inverno le condizioni climatiche sono particolarmente rigide, ci potrebbero essere dei rallentamenti. Ancora un mistero i costi dell'operazione, ma fonti vicine al Toki hanno detto che dovrebbe aggirarsi intorno ai 672 milioni di dollari.
La Turchia per anni si è distinta per l'aver accolto sul suo territorio nazionale quasi 3 milioni di rifugiati siriani. Secondo le voci più vicine al governo il nuovo muro dovrebbe servire come filtro ai foreign fighters, che si annidano a migliaia sul territorio della Mezzaluna, con tutti i problemi di radicalizzazione conseguenti. Le voci più critiche credono che si tratti dell'ennesimo provvedimento per indebolire il PKK, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, organizzazione terrorista-separatista che lotta per la creazione di uno stato indipendente. Ankara è accusata di battersi con fin troppo vigore contro questa siglia, trascurando l'opposizione a Daesh, con il quale in passato è stata anche accusata di collaborare.

Iran, impiccagione allo stadio: tra il pubblico anche bambini

Il Giornale
Lo ha reso noto l'agenzia di stampa semiufficiale Mehr, citando una nota dell'ufficio stampa dell'autorità giudiziaria della provincia.


L'uomo sarebbe stato identificato come Saeed T. e la condanna è avvenuta nella mattina di giovedì 22 settembre. Dalle foto dell'esecuzione pubblicate da Iran Human Rights, organizzazione che si batte contro la pena di morte, emerge la presenza anche di bambini tra i presenti allo stadio. 

Non è la prima volta che le autorità iraniane eseguono una condanna a morte in uno stadio: nel 2013 ci fu un episodio analogo in una città del nord-est.

"Facciamo appello alla comunità internazionale e agli organi sportivi internazionali, tra cui la Fifa, perché condannino l'ultimo atto barbaro", ha commentato il portavoce di Iran Human Rights, Mahmood Amiry-Moghaddam. "La Repubblica islamica e i territori controllati dall'Isis sono gli unici posti dove le arene sportive vengono usate per eseguire condanne a morte in pubblico".

Ricordo di Shimon Peres - Un uomo che ha cercato la pace

Blog Diritti Umani - Human Rights


giovedì 29 settembre 2016

L'incubo di Aleppo - In 6 giorni uccisi 96 bambini. Lo denuncia l'Unicef

ANSA
Secondo l'Unicef, da venerdì scorso, ad Aleppo Orientale almeno 96 bambini sono stati uccisi e 223 sono stati feriti. "I bambini di Aleppo sono intrappolati in un incubo", ha dichiarato Justin Forsyth vice direttore generale dell'Unicef. "Non ci sono parole per descrivere le sofferenze che questi bambini stanno vivendo", ha aggiunto.

Il sistema sanitario ad Aleppo Orientale è al collasso, sono rimasti circa 30 medici, ci sono pochissime attrezzature o medicine d'emergenza per curare i feriti, mentre cresce il numero di casi di traumi. Un medico sul campo ha detto all'Unicef che i bambini con poche possibilità di sopravvivenza troppo spesso vengono lasciati morire perché le scorte sono poche e limitate. "Niente può giustificare un tale violenza sui bambini e una tale non curanza del valore della vita umana. La sofferenza, e il suo impatto sui bambini, è sicuramente la cosa peggiore che abbiamo visto", conclude l'Unicef.

La Russia ritiene "inaccettabili" tregue di sette giorni ad Aleppo, in Siria, perché si tratta di "un lasso di tempo sufficiente per i gruppi terroristici per prendere le misure necessarie a reintegrare le provviste, e riordinare le forze": lo dichiara il vice ministro degli Esteri di Mosca, Serghiei Riabkov. "Noi - ha detto Riabkov, citato dalla Tass - abbiamo ripetutamente suggerito pause di 48 ore, ma gli Usa, per ragioni che sanno solo loro, sono rimasti attaccati alla richiesta di tregue di sette giorni".

Papa incoraggia Onu per mediazione tra governi - Il Papa ringrazia e incoraggia "le istanze internazionali, in particolare le Nazioni Unite, per il lavoro di sostegno e di mediazione presso i diversi Governi, affinché si concordi la fine del conflitto e si ponga finalmente al primo posto il bene delle popolazioni inermi. È una strada che dobbiamo percorrere insieme con pazienza e perseveranza, ma anche con urgenza, e la Chiesa non mancherà di continuare a dare il suo contributo". Lo ha detto parlando di Siria e Iraq a organizzazioni di carità in tali paesi.

Mosca, i nostri jet restano al fianco di Damasco - "Mosca continua l'operazione delle forze aereo-spaziali per sostenere l'attività antiterroristica delle forze armate siriane": lo ha detto il portavoce di Putin, Dmitri Peskov. "Questa - ha affermato Peskov - è la cosa più importante, cioè che la lotta contro i terroristi continua".

«Sudan Paese pericoloso, viola i diritti umani» Il 24 agosto respinti 40 sudanesi

Avvenire
“Il Sudan è un Paese pericoloso, viola i diritti umani e il suo presidente, Omar al Bashir è colpito da mandato di arresto internazionale per crimini di guerra e crimini contro l’umanità”. A sottolinearlo è Cristopher Hein, portavoce del Consiglio Italiano per i Rifugiati, che due giorni fa si è riunito attorno al Tavolo Asilo – la rete nazionale di 12 associazioni – per puntare il dito contro il “respingimento di massa” di migranti sudanesi (40, per l’esattezza) avvenuto lo scorso 24 agosto.

Hein replica alle dichiarazioni di Franco Gabrielli, il capo della Polizia – secondo cui il tavolo ha prodotto “solo calunnie” perché sul rimpatrio dei sudanesi “sono state rispettate tutte le procedure di diritto nazionale e internazionale”.

Non capisco perché un sudanese dovrebbe rifiutare la possibilità di chiedere asilo in Italia e accettare il ritorno nel Paese da cui è fuggito, affrontando un viaggio lungo e pericoloso”. Hein e i portavoci delle associazioni puntano il dito contro le procedure messe in campo con "un memorandum firmato dall’Italia con un Paese il cui presidente è colpito da mandato di arresto internazionale".

Ad oggi risultano circa 7mila sudanesi arrivati e la stragrande maggioranza di loro ha presentato richiesta di asilo” prosegue Hein. “Questi sono i fatti, indipendentemente dalla natura giuridica di questo memorandum” conclude il portavoce.

Commissione Ue chiude alla “solidarietà flessibile”: le relocation sono un obbligo legale

EU News
L’esecutivo comunitario respinge la proposta dei Paesi che si oppongono alle quote e che vogliono contribuire in altro modo all’accoglienza. Ad un anno da inizio programma trasferito solo il 3,5% dei rifugiati da Italia e Grecia
La "stretta di mano" tra Orban e Junker
Bruxelles – Di “solidarietà flessibile” si può anche parlare per il futuro, ma adesso bisogna rispettare gli impegni presi ed accettare i ricollocamenti di migranti da Italia e Grecia. 

La Commissione europea chiude la porta alla proposta arrivata dal gruppo di Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia) che, allergico all’idea di accogliere rifugiati, ha chiesto di potere contribuire in altro modo agli sforzi comuni per gestire la situazione migratoria, ad esempio con uomini per garantire la sicurezza dei confini o equipaggiamenti. 

“Anche se esistono diverse forme di solidarietà, gli Stati membri hanno la responsabilità di mettere in atto le decisioni già prese”, ha chiarito il commissario Ue all’immigrazione, Dimitris Avramopoulos, ricordando che “la solidarietà non è solo una responsabilità morale ma anche legale” visto che in materia è stata presa una “decisione vincolante del Consiglio”.

Insomma la Commissione prova a crederci ancora, nonostante le parole, che a molti erano parse di rinuncia, pronunciate dal presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, davanti al Parlamento europeo in occasione del suo discorso della Stato dell’Unione: “La solidarietà è un gesto spontaneo che viene dal cuore e non si può forzare”, aveva detto Juncker, lasciando sospettare che la Commissione volesse alzare bandiera bianca. Ma nelle ultime ore l’esecutivo comunitario è tornato a riaffermare la volontà di spingere gli Stati a rispettare l’impegno preso a settembre 2015, quando ci si impegnò a trasferire da Italia e Grecia 160mila rifugiati in due anni: “Dobbiamo riunire l’Europa dell’est e dell’ovest su questo tema”, ha affermato Juncker nel corso di un’intervista a France 24, dicendosi speranzoso che anche i più strenui oppositori possano infine convincersi della bontà del sistema di redistribuzione: “Sappiamo dalla vita privata che è insolito essere colpiti dall’amore. Perché l’amore nasca, dobbiamo lasciare il tempo necessario”.

Certo a guardare le cifre, pare che l’amore nei confronti delle quote di redistribuzione di migranti non sia sbocciato. Ad un anno dalla partenza del programma, quando i trasferimenti dovrebbero attestarsi a quota 80mila o poco meno, sono stati ricollocati da Italia e Grecia in totale appena 5.651 migranti cioè il 3,5% del totale, una cifra irrisoria. Chiara poi l’opposizione di alcuni Stati che in un anno non hanno accolto ancora nemmeno un migrante: è il caso di Austria, Danimarca, Ungheria, e Polonia. La Slovacchia ha accettato solo 3 rifugiati, la Repubblica Ceca 12. Insomma, c’è poco da stare allegri, ma la Commissione è convinta che le cose stiano cambiando. “Gli accresciuti sforzi degli Stati membri negli ultimi mesi sulle relocation, con più di 1.200 relocation solo in settembre dimostrano che i ricollocamenti possono essere velocizzati se c’è volontà politica e senso di responsabilità”. A rincuorare l’esecutivo Ue anche gli impegni già presi a lungo termine da alcuni Stati membri che si sono impegnati ad accogliere una quota fissa di rifugiati per i mesi a venire: lo hanno fatto ad esempio la Germania, che accoglierà 500 migranti al mese e il Belgio che ne accoglierà 100 al mese per i mesi a venire.

Sarà molto più dura con l’Ungheria, che questa domenica terrà un referendum per lasciare decidere ai cittadini se accettare le quote di migranti imposte dall’Ue. L’esito è abbastanza scontato ma qualunque verdetto uscirà dalle urne, la Commissione chiarisce che non potrà in alcun modo interferire con decisioni già prese: “La nostra posizione sul tenere un referendum su una decisione del Consiglio esistente e legalmente vincolante è chiara”, ha sottolineato Avramopoulos, che Bruxelles vede la consultazione come “relativa a decisioni future che devono ancora essere prese”.

[...]

Letizia Pascale

Tunisia: progressi nel rispetto dei diritti umani

Blog Diritti Umani - Human Rights
La situazione è in graduale miglioramento nel paese dopo la rivoluzione che ha spodestato il regime del presidente Ben Ali, cinque anni fa.


Questa è stata l'osservazione fatta il Mercoledì dal presidente della Lega tunisina per i diritti umani che pensano tuttavia che il paese può fare di più. '' Ci sono miglioramenti, ci sono  progressi, ma si potrebbe migliorare ancora.'' Ha detto Abdessatar Ben Moussa, presidente della Lega tunisina dei diritti dell'uomo. Ha aggiunto: "La tortura deve essere eliminata in Tunisia. Il rispetto per l'integrità fisica, il rispetto del diritto di difesa, la libertà di stampa.' '

Inoltre è stato lanciato la scorsa settimana da un gruppo di associazioni tunisine. I suoi membri hanno chiesto alle autorità di rivedere l'arsenale legislativo del paese, al fine di porre fine alla discriminazione contro gli omosessuali.


fonte: Africa News

mercoledì 28 settembre 2016

Arabia Saudita - Pena di morte - Eseguito un cittadino dell'Etiopia. E' l'esecuzione n°124 del 2016

Blog Diritti Umani - Human Rights
Un etiope è stato eseguito Lunedi in Arabia Saudita dopo essere stato condannato per aver ucciso una ragazza saudita, lo ha annunciato il Ministero degli Interni saudita.
Questa è l'esecuzione n°124 dall'inizio dell'anno, secondo un conteggio compilato da fonti ufficiali.

L'organizzazione dei diritti umani Amnesty International è allarmato per diversi mesi il crescente numero di esecuzioni. Ha chiesto Riyadh "di imporre una moratoria sulle esecuzioni e abolire la pena di morte una volta per tutte."

Il 2 gennaio, 47 persone sono state eseguite in un solo giorno per "terrorismo", tra cui il religioso dissidente e sciita Nimr al-Nimr, la cui uccisione ha scatenato una crisi con l'Iran.

Nel 2015, 153 persone sono state messe a morte in Arabia Saudita, il numero più alto da 20 anni, secondo un conteggio dell'agenzia AFP.

Le autorità invocano la deterrenza della pena di morte applicata in casi di terrorismo, omicidio, stupro, rapina a mano armata e traffico di droga.

L'Arabia Saudita è il terzo paese per numero di esecuzioni dopo Iran e Pakistan, secondo una graduatoria di Amnesty che non include la Cina, il cui numero di esecuzioni non sono rese pubbliche.

Papa Francesco: Aleppo città martoriata. Responsabili dovranno dare conto davanti a Dio

ANSA
Il Papa ha ricordato Aleppo, in Siria:
"città dove muoiono bambini, anziani ammalati, giovani vecchi, tutti, rinnovo - ha detto nel corso dell'udienza generale - a tutti l'appello a impegnarsi con tutte le forze nella protezione dei civili, quale obbligo imperativo e urgente e appello alla coscienza dei responsabili dei bombardamenti che dovranno dare conto davanti a Dio".

Migranti - Egitto: bilancio morti naufragio del 21 settembre sale a 204, molti bambini.

Ansa Med
Agenzia stampa Mena, recuperati 33 nuovi corpi, tra cui quello di bimbo 4 anni
Il Cairo - Il bilancio dei morti del naufragio di un barcone di migranti avvenuto mercoledì scorso davanti alle coste settentrionali dell'Egitto "è salito a 204", dopo il recupero oggi di "33 nuovi corpi". 


Folla di parenti aspettano il ritorno delle barche dei pescatori
con le vittime del naufragio nel porto di Metoubas - Egitto
Lo ha reso noto - scrive l'agenzia Mena - il sindaco della città di Metoubas, Ali Abdel Sattar, aggiungendo che "tra i cadaveri, sei dei quali sono stati identificati, c'è anche un bambino di 4 anni".

Il sito Facebook dei servizi marittimi del petrolio ha annunciato che si è riusciti a recuperare il battello naufragato nel Mediterraneo che si trovava a 12 metri di profondità e ha postato un video delle operazioni.


Link collegato: 

Egitto - Barcone affonda con 600 migranti: 42 salme, centinaia di dispersi. Si teme l'ecatombe.

Amnesty in Ungheria 'trattamento orribile' dei migranti. Grave degrado di centinaia al confine con Serbia/Croazia

Ansa Med
Berlino - "Centinaia" di profughi si trovano "in condizioni di degrado lungo il confine" meridionale ungherese "o nei centri sovraffollati della Serbia": lo denuncia Amnesty International in un comunicato in cui sottolinea un "orribile trattamento" riservato ai richiedenti asilo da parte del governo di Budapest.


La situazione, denuncia l'organizzazione per la difesa dei diritti umani, e' creata sia dal vasto reticolato eretto nel settembre scorso dall'Ungheria alla frontiera con la Serbia e poi esteso a quella con la Croazia, sia da "una legge che prevede un esame sommario delle domande d'asilo". 

In due varchi di confine sono state aperte cosiddette 'zone di transito', ricorda Amnesty riferendosi a container metallici in cui vengono esaminate le domande d'asilo e trattenuti coloro che vengono accettati. Ogni giorno nelle 'zone di transito' vengono ammesse solo 30 persone. Al momento di una visita di Amnesty International "oltre 600 persone si trovavano in campi improvvisati, in molti casi da mesi".

martedì 27 settembre 2016

Siria, bambini cristiani e musulmani di Aleppo il 6 ottobre in preghiera per la pace, vogliono scuotere i potenti

Adnkronos
Insieme in centinaia, bambini cristiani e musulmani di Aleppo, uniti in preghiera per chiedere che nella loro città e in tutta la Siria si fermi la spirale di guerra, di morte e di violenza. E' l'iniziativa che si terrà il prossimo 6 ottobre, organizzata dai padri Francescani e annunciata all'Agenzia religiosa Fides dall'arcivescovo Boutros Marayati.


L'evento coinvolgerà in modo particolare gli alunni delle scuole di Aleppo, che firmeranno un appello per chiedere ai potenti del mondo di porre fine alle stragi e in modo particolare alle crudeltà che colpiscono i bambini.

''La scorsa settimana - riferisce l'arcivescovo armeno cattolico - i rappresentanti del governo siriano e dell'esercito hanno convocato una riunione per spiegare che avrebbero diffuso un appello alla popolazione civile sotto il controllo dei ribelli, per avvertire che sarebbero stati lasciati aperti i varchi per permettere alla gente di lasciare quei quartieri e recarsi in zone sicure, senza timore di subire rappresaglie. Ma - osserva Marayati - non vi è stata un'evacuazione di massa: forse, molti non sono potuti uscire''.

Save the Children - Nella zona orientale di Aleppo, circa la metà delle vittime che i partner umanitari di Save the Children stanno estraendo dalle macerie o curando negli ospedali, in seguito ai bombardamenti degli ultimi giorni, sono bambini. Lo denuncia Save the Children riferendo che gli addetti al trasporto su ambulanza dell’Ong siriana Shafaq, sua partner, affermano che più del 50% delle vittime recuperate nelle ultime 48 ore sono bambini, così come sono minori il 43% dei feriti curati nella giornata di sabato in un ospedale della zona.

I medici stanno lavorando giorno e notte per salvare quante più vite umane possibili, tuttavia tanti bambini continuano a morire sui pavimenti degli ospedali a causa della mancanza di medicinali di base, antibiotici, anestetici e attrezzature, come i respiratori. I casi più gravi necessitano del trasferimento immediato fuori dalla zona orientale di Aleppo, ma questo non è possibile perché tutte le strade sono bloccate.

All’indomani della riunione di emergenza del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sulla drammatica situazione ad Aleppo, le informazioni che Save the Children continua a ricevere dai propri partner impegnati sul terreno dipingono un quadro di violenza inimmaginabile e insopportabile per i bambini e per le loro famiglie.

Abu Rajab, un medico che opera in un ospedale da campo nella città assediata, racconta che dei 67 pazienti trasportati sabato in ospedale ben 29 erano bambini. Cinque di loro non ce l’hanno fatta perché i respiratori a disposizione non erano sufficienti. Ieri, altre 17 persone sono state trasferite d’urgenza in ospedale.

“Gli ospedali da campo in cui lavoriamo sono al limite del collasso e continuiamo a ricevere un gran numero di feriti, tra cui soprattutto donne e bambini. I pazienti sono stesi sul pavimento e non abbiamo respiratori per chi ha urgente bisogno di ossigeno. Spesso siamo costretti a prendere il respiratore da un paziente nel tentativo disperato di salvarne un altro. Ci mancano medicine e attrezzature e il nostro personale medico è ormai esausto: stiamo lavorando oltre ogni capacità umana, 24 ore al giorno, senza tregua", racconta Abu Rajab.

“Abbiamo bisogno di aiuto immediato, vogliamo che il nostro appello giunga a ogni essere umano sulla terra. Al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, chiediamo di fermare urgentemente gli attacchi aerei su Aleppo che stanno causando tutto questo”, prosegue il medico.

Secondo le stime delle agenzie umanitarie, a giugno, quando è stato imposto per la prima volta l’assedio ad Aleppo orientale, almeno 100.000 bambini risultavano intrappolati in quell’area della città.

“Stiamo assistendo a un’atrocità spaventosa, che continua a essere perpetrata davanti ai nostri occhi contro i bambini e le bambine di Aleppo. L’incapacità di assicurare loro e a tutti i bambini siriani la protezione di cui hanno bisogno rappresenta un’onta che perseguiterà la comunità internazionale per i decenni a venire", afferma Sonia Khush, Direttore di Save the Children in Siria. “Per questo, chiediamo al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di impegnarsi per mettere in campo ogni sforzo possibile per riparare gli errori commessi e prevenire ogni ulteriore sofferenza, a partire dalla dichiarazione di un immediato cessate il fuoco e dall’apertura di canali umanitari che permettano di portare alla popolazione cibo, acqua potabile e medicinali, di cui c’è disperato bisogno”.

Save the Children chiede inoltre l’avvio di un’indagine indipendente che faccia luce sull’attacco della scorsa settimana contro il convoglio di aiuti umanitari Onu-Sarc e che chiarisca se, nel corso della ultima escalation di violenze, siano stati commessi crimini di guerra e ulteriori violazioni del diritto umanitario internazionale.

lunedì 26 settembre 2016

Burundi: rapporto Onu denuncia “gravi violazioni dei diritti umani” e “rischio genocidio”

Agenzia Nova
Bujumbura - Un gruppo di esperti delle Nazioni Unite ha denunciato “gravi violazioni dei diritti umani” commesse in Burundi, soprattutto da parte dei funzionari statali. 


In un rapporto pubblicato oggi, il Consiglio delle Nazioni Unite per i diritti umani sostiene inoltre che, data la storia del paese, incombe un “rischio di genocidio”

Nel rapporto, come riferisce l’emittente “Bbc”, gli esperti elencano varie forme di tortura commesse dalle autorità, tra cui persone costrette a sedersi sull’acido e bruciate con fiamme ossidriche. Inoltre, denuncia il rapporto, sarebbero state segnalate diffuse discriminazioni su base etnica. 

Le violenze in Burundi sono scoppiate nell’aprile 2015 a seguito della decisione del presidente Pierre Nkurunziza di correre per un terzo mandato. Le violenze hanno provocato finora la morte di almeno 500 persone e la fuga dal paese di altre 250 mila.

"In Colombia la guerra è finita!". Oggi a Cartagena si sigla la pace tra Farc e governo colombiano

Adnkronos
"La guerra è finita, lunga vita alla Colombia, lunga vita alla pace". Con queste parole il comandante delle Forze armate rivoluzionarie della Colombia Ivan Marquez ha annunciato l'approvazione all'unanimità dell'accordo di pace con il governo colombiano da parte del Congresso delle Farc.



L'accordo è stato firmato lo scorso 24 agosto all'Avana e mette fine a una guerra civile cominciata nel 1964 che ha causato circa 220mila morti, 45mila dispersi e più di 7 milioni di sfollati. 

L'intesa, cui ha fatto seguito un cessate il fuoco bilaterale e definitivo in vigore dal 29 agosto, sarà firmato oggi dal presidente colombiano Juan Manuel Santos e dai leader delle Farc, e sottoposto con un referendum al voto dei colombiani il 2 ottobre.

I combattenti dell’organizzazione guerrigliera più antica e numerosa del Paese si sono impegnati a deporre le armi, a rispettare lo stato di diritto e ad abbandonare la lotta armata. Le Farc potranno trasformarsi in un partito politico e i suoi affiliati ritornare alla vita civile. In particolare, alle Farc verranno assegnati di diritto 10 seggi nel Congresso per due legislature, fino al 2026. Dopo, dovranno dimostrare la propria forza alle urne.

In occasione del bilaterale Usa-Colombia che ha avuto luogo a margine dell'Assemblea generale dell'Onu, il presidente americano Barack Obama ha definito l'accordo di pace tra le Farc e il governo di Bogotà "un risultato storico" dopo 52 anni di conflitto armato, che "offre alla Colombia l'opportunità di aprire un nuovo capitolo della sua storia". "L'accordo - ha proseguito Obama - porterà benefici all'intera regione e al popolo colombiano. Ci vuole coraggio e impegno da parte di tutti. E noi siamo orgogliosi di aver avuto una piccola parte nel far avanzare il dialogo".

"Quando ho deciso di prendere l'iniziativa - ha ricordato il presidente colombiano Santos - una delle prime persone che ho informato è stato il presidente Obama. Da allora, mi è stato di grande sostegno. Tutti i giorni, tutte le settimane mi ha chiesto come stesse andando e mi ha sostenuto in tutti i modi possibili". Santos, a New York per presentare l'accordo di pace al governo americano e all'Onu, è adesso alla ricerca di fondi per finanziare una delle sfide più complesse del processo di pace, rimuovere le mine antiuomo presenti su più di metà del territorio.

La storica cerimonia per la firma degli accordi di pace si svolgerà oggi nella città caraibica di Cartagena de Indias. Alla cerimonia saranno presenti, tra gli altri, il segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon, il segretario di Stato americano John Kerry, l'Alto rappresentante per la politica estera dell'Ue Federica Mogherini, il presidente della Banca mondiale Jim Yong Kim, la direttrice del Fmi Christine Lagarde, e i tredici capi di Stato della regione (Messico, Guatemala, Honduras, El Salvador, Costa Rica, Panama, Cuba, Venezuela, Repubblica Dominicana, Ecuador, Perù, Cile e Paraguay).

domenica 25 settembre 2016

Carceri aumenta sovraffollamento. In 6 meni aumentate 1800 unita, +3,5%

Il Sole 24 Ore
Rispetto ai primi sei mesi dello scorso anno aumenta di oltre 1.800 unità il numero dei detenuti nelle carceri italiane: dai 52.389 registrati al 31 agosto 2015 si è arrivati ai 54.195 del 31 agosto 2016, rispetto a una capienza di 49.600 posti. Una cifra che cresce soprattutto per effetto della custodia cautelare in carcere. 



Difficile dire se i nuovi ingressi nelle celle sono il risultato dell'aumento della criminalità o di una lettura restrittiva da parte della giurisprudenza delle norme sul carcere preventivo.

Il dato non è sfuggito all'Associazione nazionale magistrati, intervenuta ieri alla seconda giornata del Festival del diritto di Piacenza. "L'aumento del numero dei detenuti che si è registrato negli ultimi 6 mesi desta preoccupazione - dice la presidente del Tribunale di sorveglianza di Milano, Giovanna Di Rosa. Intanto c'è una ricaduta immediata sul sovraffollamento ma l'attenzione per il futuro è obbligata".

Per il sostituto procuratore Giuseppe Cascini il legislatore agisce sull'onda del momento. Una volta si fanno provvedimenti per svuotare le carceri, e in un altro si inaspriscono le pene. Manca una risposta coerente all'interrogativo su cosa fare di chi ha commesso un reato, in un'eterna altalena tra garantismo e giustizialismo. Per il sostituto procuratore di Torino, Armando Spataro, che ha affrontato il tema del processo, la dignità sta nella coerenza, nel non fare quella marcia indietro che rende traballanti principi che dovrebbero essere saldi, come spesso avviene nelle riforme "condivise".

Spataro parla anche di immigrati e richieste di asilo politico. L'iter prevede la possibilità di rivolgersi al magistrato se la richiesta per avere lo stato di rifugiato viene respinta dal prefetto. Alcuni giudici hanno chiesto di eliminare l'appello perché non ce la fanno a smaltire le richieste e l'immigrato resta anni in attesa senza sapere cosa fare. Spataro spiega, però, che sono molti di più i magistrati che la pensano diversamente. "Un folto gruppo di giudici, Pm, avvocati e professori ha preparato un testo "Malta 2013" per affermare la necessità di non allentare le garanzie". E oggi la nona edizione del Festival chiude i battenti, con 20 mila presenze all'attivo.

di Patrizia Maciocchi

La sete di Aleppo - Cari Tg, avete cancellato l'olocausto di Aleppo dai vostri titoli

L'Unità


La guerra. Ad Aleppo un ragazzo beve l’acqua fuoriuscita dalle tubature distrutte dai bombardamenti. L’esercito siriano ha riconquistato zone a nord della città, ma i danni all’acquedotto assetano altre 250mila persone: adesso - rivela l’Unicef - sono due milioni i cittadini di Aleppo senza acqua ed elettricità


Globallist
Cari Tg, avete cancellato l'olocausto di Aleppo dai vostri titoli

E' la polvere che si può mettere sotto il tappeto, non l'umanità ferita a morte. 
Aleppo dolente e vestita a lutto, che prova a salvare i bambini da sotto le macerie, che seppellisce quelli che non ce l'hanno fatta, non può sparire del tutto o dalle prime pagine dei nostri Tg. 

Dopo i massicci bombardamenti di ieri, questa mattina due milioni di persone, mentre piangevano altre decine di morti, facevano i conti con l'acqua che manca e che chissà per quanto mancherà. 

Lo spettro della sete e delle malattie, dunque,dopo la pioggia di bombe al fosforo, con interi quartieri rasi al suolo, morti su morti, e i bambini come bambolotti disarticolati, che con la gola piena di polvere passano alla coperta pesante della terra.

Cari Tg che lo avete fatto, l'olocausto di Aleppo non può sparire dai vostri spazi, dai vostri titoli. Lo ripeto, è la polvere che si può mettere sotto il tappeto, non l'umanità ferita a morte.
Sono costretto a sottolinearlo: una palazzina che crolla a Roma, fortunatamente senza fare vittime, è cosa grave e va denunciato un modo approssimativo, tutto italiano, di (non) governare il nostro patrimonio edilizio, che spesso è da rottamare programmaticamente, senza affidarsi agli eventi. Ma l'evento di Roma non può, come pure è accaduto, al Tg2 delle 13, prendersi l'apertura mentre a Damasco si vivono le ore più lunghe. No, l'occhio della nostra informazione, dell'informazione televisiva del servizio pubblico, appare appesantito da provincialismo, da locassimo.

Quel che accade in Siria non è una cosa lontana, che non ci appartiene. Il nostro drammatico tempo gira attorno alla vita o alla morte di Damasco, lontano da ponte Milvio.

sabato 24 settembre 2016

Brexit: impatto sull'assistenza sociale degli anziani inglesi. Non avranno 1milione di badanti a disposizione

Vita
Un'associazione inglese ha calcolato l'impatto sull'assistenza sociale di uno scenario a "Immigrazione zero" nei prossimi vent'anni. Risultato: anziani e disabili rimarrebbero senza i migliaia di lavoratori di cura che attualmente provengono da paesi europei, soprattutto dell'Est


Si parla ancora tanto di Brexit e del futuro che attende la Gran Bretagna e l’Europa. Ma un’associazione non profit inglese si è fatta un’altra domanda: quale sarà il futuro degli immigrati Ue impiegati nel settore assistenziale, che oggi si prendono cura soprattutto degli anziani? Saranno i vecchietti britannici a pagare il risultato del referendum, dovendo dire addio alle badanti dell’Est europa? Il rischio è reale, e l’associazione Independent Age ha pubblicato un report sul tema, facendo due conti.

Ecco cosa ha scoperto: negli ultimi dieci anni, si è registrato un aumento significativo della percentuale di migranti europei impiegati nel lavoro di cura. Nella prima parte del 2016, oltre l'80% di tutti i lavoratori immigrati entrati in UK per lavorare in questo settore, proveniva da un paese europeo. 

L’entrata in vigore della Brexit avrebbe conseguenze importanti sul loro status, trasformandoli di colpo in “extracomunitari al contrario”, e portando probabilmente a una riduzione del numero complessivo di lavoratori nel settore dell'assistenza sociale. 

La ong si spinge a immaginare alcuni scenari possibili. Il primo: circa il 6% dei social workers attivi nel Regno Uniti provengono da paesi europei, e di questi il 90% non ha ancora ottenuto la cittadinanza britannica. Con gli attuali ritmi di invecchiamento della popolazione, e la promessa del governo di arrivare a una “Immigrazione zero” dopo l’uscita dalla Ue, calcola l’associazione, la mancanza di forza lavoro nl settore dell’assistenza sociale sarebbe pari a oltre 1,1 milione di persone entro il 2037; in uno scenario di bassa immigrazione, comunque, il gap oscillerebbe tra 750 e 350mila persone, con immaginabili ricadute sociali e relativi costi, a meno che tutti i britannici non si vogliano trasformare di colpo in badanti. Sicuri che Brexit sia stato un affare?

Intervista a Bauman: Di fronte alle paure che attraversano il mondo «Parliamoci. È vera rivoluzione culturale»

Avvenire
«Le guerre di religione? Solo una delle offerte del mercato ». Zygmunt Bauman, il più acuto studioso della società postmoderna che ha raccontato in pagine memorabili l’angoscia dell’uomo contemporaneo – lo incontriamo ad Assisi prima del suo intervento – ci parla della sfida del dialogo.
Zygmunt  Bauman

Professore, la sua intuizione sulla postmodernità liquida continua a offrire uno sguardo lucido sul tempo presente. Ma in questa liquidità si registra un esplosione di nazionalismi, identitarismi religiosi. Come si spiegano?
Cominciamo dal problema della guerra. ll nostro mondo contemporaneo non vive una guerra organica ma frammentata. Guerre d’interessi, per denaro, per le risorse, per governare sulle nazioni. Non la chiamo guerra di religione, sono altri che vogliono sia una guerra di religione. Non appartengo a chi vuole far credere che sia una guerra tra religioni. Non la chiamo neppure così. Bisogna stare attenti a non seguire la mentalità corrente. In particolare la mentalità introdotta dal politologo di turno, dai media, da coloro che vogliono raccogliere il consenso, dicendo ciò che loro volevano ascoltare. Lei sa bene che in un mondo permeato dalla paura, questa penetra la società. La paura ha le sue radici nelle ansietà delle persone e anche se abbiamo delle situazioni di grande benessere, viviamo in una grande paura. La paura di perdere posizioni. Le persone hanno paura di avere paura, anche senza darsi una spiegazione del motivo. E questa paura così mobile, inespressa, che non spiega la sua sorgente, è un ottimo capitale per tutti coloro che la vogliono utilizzare per motivi politici o commerciali. Parlare così di guerre e di guerre di religioni è solo una delle offerte del mercato.

Al panico delle guerre di religione si unisce quello delle migrazioni. Già anni fa Umberto Eco diceva che per chi voleva capitalizzare la paura delle persone, il problema dell’emigrazione era arrivato come un dono dal cielo.…
Sì è così. Guerre di religione e immigrazione sono nomi differenti dati oggi per sfruttare questa paura vaga incerta, male espressa e mal compresa. Stiamo però qui facendo un errore esistenziale, confondendo due fenomeni differenti: uno è il fenomeno delle migrazioni e l’altro il fenomeno dell’immigrazione, come ha fatto osservare Umberto Eco. Non sono un fenomeno, sono due differenti fenomeni. L’immigrazione è un compagno della storia moderna, lo Stato moderno, la formazione dello Stato è anche una storia di immigrazione. Il capitale ha bisogno del lavoro il lavoro ha bisogno del capitale. Le migrazioni sono invece qualcosa di diverso è un processo naturale che non può essere controllato, che va per la sua strada.

Come pensa si possa trovare un equilibrio per questi fenomeni?

La soluzione offerta dai governi è quella di stringere sempre più il cordone delle possibilità di immigrazione. Ma la nostra società è ormai irreversibilmente cosmopolita, multiculturale e multireligiosa. Il sociologo Ulrich Beck dice che viviamo in una condizione cosmopolita di interdipendenza e scambio a livello planetario ma non abbiamo neppure iniziato a svilupparne la consapevolezza. E gestiamo questo momento con gli strumenti dei nostri antenati… è una trappola, una sfida da affrontare. Noi non possiamo tornare indietro e sottrarci dal vivere insieme.

Come integrarci senza aumentare l’ostilità, senza separare i popoli?
È la domanda fondamentale della nostra epoca. Non si può neppure negare che siamo in uno stato di guerra e probabilmente sarà anche lunga questa guerra. Ma il nostro futuro non è costruito da quelli che si presentano come 'uomini forti', che offrono e suggeriscono apparenti soluzioni istantanee, come costruire muri ad esempio. La sola personalità contemporanea che porta avanti queste questioni con realismo e che le fa arrivare ad ogni persona, è papa Francesco. Nel suo discorso all’Europa parla di dialogo per ricostruire la tessitura della società, dell’equa distribuzione dei frutti della terra e del lavoro che non rappresentano una pura carità, ma un obbligo morale. Passare dall’economia liquida ad una posizione che permetta l’accesso alla terra col lavoro. Di una cultura che privilegi il dialogo come parte integrante dell’educazione. Si faccia attenzione, lo ripete: dialogo-educazione.

Perché secondo lei il Papa è convinto che sia la parola che non ci dobbiamo stancare di ripetere? 
Alla fine il dialogo cos’è? Insegnare a imparare. L’opposto delle conversazioni ordinarie che dividono le persone: quelle nel giusto e quelle nell’errore. Entrare in dialogo significa superare la soglia dello specchio, insegnare a imparare ad arricchirsi della diversità dell’altro. A differenza dei seminari accademici, dei dibattiti pubblici o delle chiacchiere partigiane, nel dialogo non ci sono perdenti, ma solo vincitori. Si tratta di una rivoluzione culturale rispetto al mondo in cui si invecchia e si muore prima ancora di crescere. È la vera rivoluzione culturale rispetto a quanto siamo abituati a fare ed è ciò che permette di ripensare la nostra epoca. L’acquisizione di questa cultura non permette ricette o facili scappatoie, esige e passa attraverso l’educazione che richiede investimenti a lungo termine. Noi dobbiamo concentraci sugli obiettivi a lungo termine. E questo è il pensiero di papa Francesco, il dialogo non è un caffè istantaneo, non dà effetti immediati, perché è pazienza, perseveranza, profondità. Al percorso che lui indica aggiungerei una sola parola: così sia, amen.

Stefania Falasca

venerdì 23 settembre 2016

Ungheria - Proposta Orban: Rastrellare e deportare i migranti su un'isola del Nord Africa

Il Giornale
Il premiere ungherese Orban prepara la campagna elettorale per il referendum del 2 ottobre contro il piano europeo di ricollocamenti
Una proposta che a molti ricorda anni che nessuno vorrebbe rivivere. Il primo ministro ungherese Viktor Orban ha proposto di "rastrellare e deportare" i migranti arrivati illegalmente in Europa.



L'idea choc è stata ventilata durante un'intervista con la testata online magiara origo.hu ma ha già fatto il giro del mondo per gli oscuri precedenti storici che evoca. Il capo del governo ungherese ha proposto di raggruppare gli immigrati "in una isola o sulla costa del Nord Africa, la cui sicurezza dovrebbe essere garantita dalla Ue e da dove presentare richiesta di asilo".

Orban è poi tornato a criticare il piano di ricollocamenti dell'Unione Europea, contro cui ha anche convocato un referendum nazionale il prossimo 2 ottobre: una data che ormai è segnata in rosso sui calendari della Commissione Europea, che teme un nuovo durissimo colpo dopo il voto del Brexit.

La redistribuzione dei migranti fra gli Stati membri è in effetti già un fallimento: dall'Italia e dalla Grecia sono stati ricollocati negli altri Paesi Ue meno del 5% dei profughi che avrebbero dovuto prendere parte al programma. La solidarietà fra i Ventotto è crollata proprio per effetto della crisi dei migranti e Budapest è fra le capitali più aggressive nel criticare la politica dell'accoglienza di Bruxelles e quella di Berlino.

Non solo. Nella primavera 2015 per volere di Orban la frontiera fra Serbia e Ungheria è stata fortificata con un lungo muro anti-migranti, rafforzato quest'anno da una seconda barriera. Nel luglio dello scorso anno avevano fatto scalpore le foto di alcuni immigrati chiusi nei vagoni dei treni ungheresi che viaggiavano "con le porte chiuse": un'immagine sinistra che a molti ha evocato ricordi che nessuno vorrebbe rivivere.

All'epoca il cancelliere austriaco Werner Faymann aveva attaccato il governo ungherese provocando una crisi diplomatica: "Mettere i rifugiati sui treni suscita ricordi del periodo più buio del nostro continente", aveva chiosato.

Yemen. Un terzo dei raid sauditi è contro siti civili. Il commercio di armi con l'occidente oscura la realtà.

Il Manifesto
Degli 8.557 bombardamenti in 18 mesi 3.158 hanno colpito ospedali, scuole, moschee, mercati, ma non hanno la stessa attenzione dei convogli di aiuti in Siria. 


I parlamenti di Usa e Gran Bretagna mettono in discussione la vendita di armi.
Mentre il mondo si indigna per i convogli umanitari e le cliniche bombardate in Siria, mentre l'Onu accusa il presidente Assad di stragi e massacri, poco più a sud è in corso da un anno e mezzo una carneficina di civili e il regolare bombardamento di scuole, ospedali, moschee, fabbriche, siti archeologici.

Eppure non ci si indigna perché la carneficina in questione è guidata da uno Stato considerato alleato occidentale e meritevole dell'omertà globale, l'Arabia Saudita. E perché è realizzata con il sostegno decisivo di chi le armi le vende, Stati Uniti, Gran Bretagna e Italia in prima linea: Riyadh spende ogni anno 87,2 miliardi di dollari in armi, primo importatore di equipaggiamento militare al mondo con un +275% negli ultimi quattro anni.
A 18 mesi dal lancio dell'operazione "Tempesta decisiva" contro lo Yemen il bilancio è terrificante. In mancanza di inchieste internazionali sull'operato della coalizione sunnita a guida saudita impegnata contro il movimento ribelle Houthi, ci si affida alle denunce costanti seppur inascoltate delle organizzazioni internazionali. Che svelano una strategia ben precisa: in Yemen i siti civili non vengono colpiti per errore, ma sono parte della campagna militare. Disintegrare il paese per farlo tornare ad essere quel che era, il cortile di casa di Riyadh.

I numeri della guerra li dà l'organizzazione non governativa Yemen Data Project, associazione indipendente che dal marzo 2015 monitora il conflitto: un terzo degli attacchi sauditi ha avuto come target dei civili. Degli 8.557 raid compiuti in Yemen, 3.577 hanno colpito obiettivi militari e 3.158 siti civili. I restanti 1.822 non sono stati identificati. Tra gli altri sono stati centrati 114 mercati, 34 moschee, 147 scuole, 942 zone residenziali, 26 università e 378 mezzi di trasporto. I morti totali superano di gran lunga le 10mila vittime, oltre un terzo civili.
La risposta saudita è tanto laconica quanto imbarazzante: "Che interesse avremmo nell'uccidere i bambini yemeniti?", ha commentato ieri il ministro degli Esteri al-Jubeir, arrivando a negare certi raid definendoli impossibili per il tipo di equipaggiamento di cui gode Riyadh. La stessa Riyadh che spende buona parte del suo budget in armi, acquistandole dai migliori produttori sul mercato.
Ma non ci sono solo le vittime. A dare la misura della devastazione del paese è il bilancio degli sfollati: ieri l'organizzazione Oxfam ha pubblicato il suo ultimo rapporto che ha contato oltre tre milioni di Idp, Internally displaced people, ovvero civili costretti ad abbandonare le loro case seppur siano rimasti all'interno dello Yemen. Un quinto dei tre milioni non hanno più nemmeno una casa, distrutta dai bombardamenti, e due terzi hanno perso nel conflitto almeno un congiunto. L'80% della popolazione totale, 20 milioni di persone, non ha abbastanza cibo.
I numeri parlano da soli, tanto gravi da mettere in seria discussione il ruolo degli alleati più stretti: Amnesty pochi giorni fa ha denunciato l'utilizzo di bombe di fabbricazione Usa per colpire, il 15 agosto, l'ospedale di Medici Senza Frontiere nella provincia di Hajjah. Negli Stati Uniti una campagna bipartisan, democratica e repubblicana, ha presentato una mozione al Congresso che chiede di bloccare l'ultimo accordo di vendita a Riyadh, 1,15 miliardi di dollari in armi, mentre 60 parlamentari scrivevano direttamente alla Casa Bianca senza per ora ricevere risposta.
A Londra il clima è simile: due commissioni parlamentari (quella agli Affari e Innovazione e quella per lo Sviluppo Internazionale) hanno pubblicato insieme un rapporto nel quale si raccomanda la sospensione della vendita di armi a Riyadh a causa dei crimini commessi in Yemen. Ma a bloccare per ora il voto parlamentare è un fronte misto, laburisti e conservatori, che hanno presentato oltre 130 emendamenti, tra cui uno che elimina proprio lo stop all'export militare ai Saud.

di Chiara Cruciati

giovedì 22 settembre 2016

Egitto - Barcone affonda con 600 migranti: 42 salme, centinaia di dispersi. Si teme l'ecatombe.

Ansa Med
Il Cairo - Drammatiche rivelazioni sul naufragio di migranti avvenuto ieri davanti alle coste egiziane con un bilancio ancora provvisorio di 42 morti e 163 sopravvissuti. "La barca di legno era sovraccarica", ha raccontato un giovane egiziano, Mahmoud Aly alla Cnn, precisando di avere trascorso tutto il pomeriggio di ieri andando e venendo dai vari ospedali della zona. 


Egiziani attendono a Rosetta l'arrivo della barca della Guardia costiera con a bordo
i corpi dei migranti morti nel naufragio di ieri davanti alle coste egiziane
Su quella barca maledetta c'erano il cugino, che si è salvato, mentre il fratello di 24 anni è ancora dato per disperso. Insieme alla sua famiglia Aly ha passato la notte davanti alla costa nella speranza di ricevere notizie da parte delle varie imbarcazioni di soccorso, notizie che ancora non sono giunte. "L'ultima nave che abbiamo visto era dopo il tramonto e trasportava sette persone", ha aggiunto.

"E' una tragedia, prima d'ora non avevamo mai visto nulla di simile", ha raccontato un pescatore, Mohamed Abu Arab, precisando di avere già trovato in passato i resti di altri esseri umani, risultato di precedenti tragedie in mare. "Ognuno di noi da' una mano e tutte le agenzie della sicurezza sono coinvolte", nelle ricerche. 

Secondo quanto aggiunge la Bbc online, citando i racconti dei sopravvissuti, la barca sarebbe stata tenuta al largo della costa per cinque giorni mentre a bordo venivano portati sempre più migranti e quelli che volevano indossare giubbotti dovevano pagare un extra. 

Poi ad un certo punto la barca si sarebbe rovesciata dopo l'arrivo di un ultimo gruppo di circa 150 persone. L'imbarcazione trasportava tra le 400 e le 600 persone. Centinaia sono ancora i dispersi. Si teme un'ecatombe.

Eritrea, si allunga la lista delle sparizioni dei dissidenti del regime

La Repubblica
Ministri e giornalisti scomparsi per sempre, mentre la stampa indipendente veniva abolita. Era Il 18 settembre 2001, una data simbolo per gli Eritrei di tutto il mondo. Segna la fine delle speranze di democratizzazione, e l’inizio delle fughe dal paese. Quindici anni dopo, la lista di “desaparecidos” è ancora più lunga. Le testimonianze

Roma - “A partire da oggi, 18 settembre 2001, il governo ha ordinato a tutti i media privati di fermare le pubblicazioni”. Un comunicato secco e senza diritto di replica, diffuso dalla radio di stato verso le otto del mattino e ripreso immediatamente dalle stazioni private, ormai sull’orlo del baratro. Mentre i cittadini di Asmara e delle città principali assistevano increduli alla fine di una breve stagione di dibattito pubblico, la polizia del regime rastrellava case e redazioni. Undici alti esponenti del partito, fra ministri e segretari, erano stati arrestati in poche ore. Con loro otto giornalisti. Prime vittime di una catena di epurazioni proseguita nei giorni e negli anni seguenti, che avrebbe aperto la strada dell’esilio a decine di migliaia di persone.

Fine delle speranze democratiche. “Sapevamo che il regime utilizzava la violenza anche prima, e oggi lo sappiamo ancora meglio”, spiega Tsedal Yohannes, lo sguardo intenso e una voce profonda, controllata. “Conosciamo gli abusi compiuti prima del 2001 - le persecuzioni dei Testimoni di Geova e dei leader musulmani, la scomparsa degli ex-guerriglieri disabili che chiedevano di avere la pensione - ma il 18 settembre ha segnato una presa di coscienza, un’accelerazione tragica: qualsiasi speranza democratica era morta, e chi aveva lottato per anni per questo, non aveva più spazio”. Fra loro proprio i famigliari della donna, oggi residente nel Regno Unito.

La storia di Aster. Yohannes racconta la sua, e la loro, storia, in una pausa del simposio dell’Eritrean Women Network, organizzato nei giorni scorsi a Roma dalla scrittrice italo-eritrea Ribka Sibathu. Un vortice di impunità, dolore, e morte che ha assorbito la sua vita, rischiando di trascinarla nel silenzio, e che ha legami inscindibili con la storia italiana. “Per prima cosa devo parlare di mia sorella”, spiega però, soppesando con drammatica incertezza verbi declinati al passato e al presente. “Aster Yohannes era, o meglio è, una sorella maggiore affettuosa, sempre pronta a aiutare il prossimo”.
Lotta per l’indipendenza. “Nel 1979 Aster interruppe gli studi di ingegneria per unirsi ai movimenti di guerriglia, convinta che la liberazione dell’Eritrea dalla presenza etiopica avrebbe portato progresso e diritti”. Anni di clandestinità nelle montagne fra Sudan e Eritrea, fino alla presa di Keren e Asmara, ai trattati di pace e al referendum per l’indipendenza del 1993. E’ durante la guerriglia che Aster conosce Petros Solomon, comandante del Fronte di Liberazione del Popolo Eritreo, e futuro ministro della Difesa, degli Esteri e delle risorse marine. Un uomo carismatico, ben presto inviso a Isaias Afewerki, primo e unico presidente del giovane stato africano.
Il primo arresto. Nel maggio 2001, Solomon è fra i quindici firmatari di una lettera aperta all’ex-movimento di guerriglia, diventato nel frattempo partito unico. Chiedono l’entrata in vigore della costituzione, promessa eternamente mancata, ed elezioni multipartitiche. Per Afewerki è una sfida intollerabile. “Quando mio cognato venne arrestato, quel 18 settembre, mia sorella era negli Stati Uniti; aveva lasciato i quattro figli a lui e ai nonni, per concludere gli studi interrotti vent’anni prima”. La donna chiede subito che i bambini la raggiungano oltreoceano, ma senza risultato. “E’ allora che si è rivolta all’ambasciata, che le ha rinnovato il passaporto e promesso che non avrebbe avuto problemi a tornare”.

Scomparsa di Aster. Le cose non andarono così e quella sera, ad attenderla sulla pista d’atterraggio, Aster Yohannes trovò gli uomini del regime. “Mia madre e i bambini erano andati all’aeroporto, con dei mazzi di fiori, felici di poter riabbracciare Aster, ma quei fiori si seccarono”. “Da quel giorno - scandisce Yohannes passandosi una mano sulla capelli ricci - siamo rimasti tutti orfani”. Come per il marito e per gli altri arrestati prima di lei, nessuno seppe più nulla di Aster Yohannes. “Nessun processo, nessuna informazione, nessun modo di sapere se mia sorella era viva, e dove si trovasse”.
La fuga. Sui famigliari cadde invece una cortina di paura e isolamento. “Gli stessi parenti mi evitavano”, spiega Yohannes, “e i miei nipoti venivano derisi e emarginati a scuola, talmente è forte il timore verso l’apparato di Afewerki”. Dopo aver abbandonato il paese, Yohannes ha aiutato anche la madre e i nipoti a scappare, “con grandi difficoltà, perché anche loro sono stati arrestati mentre cercavano di andarsene, torturati e tenuti per mesi in una delle numerose prigioni eritree”.

Nell’arcipelago gulag di Asmara. “Quando dico carcere”, ci tiene a sottolineare, “non intendo quello a cui si pensa in Europa: in Eritrea le carceri sono luoghi privi di tutto, sotterranei o nel deserto, in cui se va bene ricevi una tazza di lenticchie bollite al giorno”. Un “arcipelago gulag” denunciato da organizzazioni come Amnesty International e Human Rights Watch, e per cui il regime di Afewerki, secondo una commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite, è responsabile di crimini contro l’umanità. “La tortura è pratica quotidiana e scientifica: le più note sono l’elicottero, il diamante, il ferro, l’otto, l’annegamento… Si simulano seppellimenti, si usa l’elettroshock e gli abusi sessuali sono continui”.
Torture “italiane”. Nella conversazione, in inglese, emergono due parole italiane, “ferro” e “otto”. Così, ancora oggi, gli aguzzini chiamano due pratiche di tortura, tramandate molto probabilmente dagli occupanti italiani. Che, sottolinea la scrittrice Ribka Sibathu a margine dell’incontro, “hanno lasciato un’altra eredità al paese, proprio le carceri, che prima della colonizzazione non esistevano”. 34 i centri di detenzione segreti mappati da Amnesty International, e almeno 10mila i prigionieri politici secondo l’organizzazione inglese. Un sistema di repressione totale, che confina l’Eritrea nell’ultima posizione, per il 2016, dell’indice sulla la libertà di stampa di Reporters Senza Frontiere.

E fondi europei. “Gli eritrei che arrivano sulle nostre coste, quelli bloccati oggi in Italia da un piano di relocation che non funziona, quelli morti il 3 ottobre 2013 a Lampedusa, e in molti altri naufragi, sono figli di questa storia, e di questa data”, denuncia Sibathu, rimproverando un’Europa che “continua a finanziare il regime eritreo, nonostante queste vicende”.
Un riferimento ai 200 milioni di euro stanziati da Bruxelles all’interno del Fondo per lo Sviluppo, per i prossimi quattro anni. Un contributo criticato dallo stesso Parlamento Europeo ma di cui la prima tranche, di 18,7 milioni, è già stata concessa.

Giacomo Zandonini

In Pakistan pronto il patibolo per il disabile mentale Imdad Ali. Esecuzione sospesa il 20 settembre

Corriere della Sera - Blog
Ancora una settimana per salvare Imdad Ali, il pakistano affetto da schizofrenia paranoide e condannato a morte in Pakistan. Mentre si susseguono gli appelli per la grazia delle organizzazioni umanitarie internazionale le autorità hanno deciso di rinviare l’esecuzione che era prevista martedì 20 settembre.
Safia Bano mostra una foto del marito Imdad Ali (AP Photo/Asghar Ali)
Ali, 50 anni, è stato giudicato colpevole nel 2002 dell’assassinio di uno studioso di religione ed una richiesta di grazia è stata respinta dal presidente del Pakistan nel novembre 2015, così come lo è stata il 26 agosto scorso un’istanza per sospendere la sua esecuzione in base all’infermità mentale presentata all’Alta Corte di Lahore dalla Ong Justice Project Pakistan (JPP). Nei giorni scorsi le autorità della prigione in cui è detenuto Ali hanno scritto ai parenti chiedendo se volevano incontrarlo un’ultima volta. (nella foto Safia Bano mostra una foto del marito Imdad Ali AP Photo/Asghar Ali)

“Imdad Ali è malato di mente e ha sofferto per anni a causa delle mancate cure. Metterlo a morte non fare altro che rendere più palese la violazione dei trattati internazionali che impediscono l’esecuzione di persone con handicap mentali” ha detto Sarah Belal, la direttrice esecutiva del JPP.

Anche Human Rights Watch ha lanciato un appello per la sospensione dell’esecuzione.

Allorché la pena di morte è intrinsecamente crudele, mettere a morte un individuo con handicap mentali psicosociali o di altro genere viola anche gli obblighi legali internazionali del Pakistan” si legge in un comunicato dell’organizzazione umanitaria.

La Convenzione per i diritti delle persone con disabilità (Crpd), che è stata ratificata dal Pakistan nel 2011, garantisce “il diritto inalienabile alla dignità” dei malati mentali.

Nel 2014 il Pakistan ha annullato la moratoria sulle esecuzioni dopo il massacro di 136 bambini commesso dai talebani nella scuola dell’esercito di Peshawar. Da allora la pena di morte viene applicata su scala industriale. Da dicembre del 2014 ad oggi nel Paese sono state imp0iccate oltre 400 persone.

Italia - Migranti. Quei 48 sudanesi rimpatriati e i dubbi sulla tutela dei loro diritti

L'Unità
Il 24 agosto scorso, alcuni i giornali riportano una notizia alquanto preoccupante: il rimpatrio di 48 cittadini sudanesi con un volo Egyptair, partito da Torino e diretto a Khartoum. I tempi brevissimi in cui si è svolta l'operazione - diversamente da quanto accade solitamente nei casi di rimpatri dai centri di identificazione e di espulsione - possono far temere la possibilità di violazioni e lasciano spazio a numerosi quesiti da me già rivolti al Ministero dell'Interno con un'interrogazione.



La preoccupazione più grande è che le persone coinvolte non abbiano ricevuto un'opportuna informazione legale. E che la loro posizione giuridica non sia stata adeguatamente valutata, così da escludere il rischio di trovarsi un una situazione di pericolo una volta rientrati in Sudan. 

E va detto che, purtroppo, un simile rischio è tutt'altro che escluso. Insieme a Valentina Brinis e a Vitaliana Curigliano, infatti, grazie ad alcune segnalazioni, abbiamo potuto ricostruire quanto avvenuto dal 19 agosto in poi.

I sudanesi, una volta giunti in Italia e transitati nell'hotspot di Taranto, successivamente si sono diretti a Ventimiglia. Un percorso che compiono in molti nel tentativo di superare il confine tra Italia e Francia. Qui, il 19 agosto, sono stati foto-segnalati dalla polizia. Da Ventimiglia, dopo due giorni di viaggio, sono stati riportati esattamente laddove era iniziato il loro cammino: ovvero all'hotspot di Taranto dove sono rimasti ancora per qualche giorno ed è stato loro notificato un decreto di espulsione e accompagnamento alla frontiera.
L'intero gruppo è poi ripartito alla volta di Torino. Alcuni di loro sono saliti sul volo diretto a Kahrtoum, una piccola parte è stata trasferita al Cie di corso Brunelleschi con un decreto di trattenimento. Da Taranto a Torino pare che ci sia stata un'unica tappa a Ventimiglia (di nuovo!) per il cambio del pullman. Pacchi postali, merci viaggianti, bagagli in transito. E c'è da chiedersi, di conseguenza, perché mai far attraversare per ben due volte l'Italia, in lungo e largo, 2.200 chilometri, se poi quelle stesse persone devono imbarcarsi dall'aeroporto di Torino, che si trova ad appena 200 chilometri da Ventimiglia?
E, soprattutto, su quale base giuridica il gruppo di oltre cinquanta persone è stato trasferito da Ventimiglia a Taranto e di fatto privato della libertà per alcuni giorni, prima di procedere all'operazione di rimpatrio? Il centro di Taranto è un hotspot o funge anche da centro di trattenimento? Infine, in che momento e in che forma le autorità sudanesi hanno confermato l'appartenenza nazionale dei membri di quel gruppo?
Le procedure di rimpatrio si sarebbero svolte sulla base di quanto definito nel memorandum d'intesa su rimpatri e gestione delle frontiere sottoscritto dalle forze di polizia italiane e sudanesi il 4 agosto scorso. 

Un tipo di accordo che non richiede il vaglio e l'approvazione del Parlamento. A questo punto si considerino alcuni dati: il numero di sudanesi sbarcati negli ultimi mesi sulle nostre coste è alto; sono aumentate le richieste d'asilo e, tra quanti hanno fatto domanda di protezione, circa il 60% ha ottenuto un esito positivo.
Indice certo, quest'ultimo, dell'alto grado di insicurezza che domina tuttora quel paese. Per non parlare delle numerose segnalazioni da parte delle principali organizzazioni internazionali, in merito alla fragilità dell'intero sistema democratico e di tutela dei diritti umani in Sudan, e alla figura fosca di Bashir oggetto di indagini da parte della Corte penale internazionale per crimini di guerra, crimini contro l'umanità e genocidio, e nei cui confronti è già stato spiccato un mandato di cattura. 

In un contesto del genere, il rimpatrio anche di uno solo di quei cittadini sudanesi avvenuto in tempi rapidissimi e con l'intervento di autorità consolari o funzionari sudanesi non può che destare fortissime preoccupazioni.

Di quali garanzie disponiamo sul fatto che in un lasso di tempo tanto breve, e nel corso di spostamenti così frenetici, quelle persone abbiano avuto modo di essere adeguatamente informate sui propri diritti, a cominciare da quello di chiedere protezione in Italia? 

Ed è stato appurato da parte del ministero dell'Interno che nessuno di loro corresse alcun rischio per la propria incolumità una volta tornato in Sudan? Ecco, tutto questo, può celarsi dietro quella notizia, enfaticamente comunicata a fine agosto, sul "rimpatrio di decine di clandestini".

mercoledì 21 settembre 2016

"Sete di pace" - Assisi 2016 - Il Papa: "La guerra è peggio del terrorismo"

Il Manifesto
Ad Assisi per celebrare la Giornata mondiale per la pace, papa Bergoglio condanna i conflitti in corso. "Giorno e notte le bombe cadono e uccidono bambini, anziani, uomini e donne". "Tutti, con la guerra, sono perdenti, anche i vincitori"

Papa Francesco - Intervento alla Cerimonia conclusiva "Sete di Pace"
ad Assisi il 20 settembre con 500 leader religiosi
Si è conclusa con una severa condanna della guerra, sottoscritta dai leader religiosi di tutto il mondo, la Giornata mondiale di preghiera per la pace che si è svolta ieri ad Assisi, a conclusione di un meeting di tre giorni promosso dalla Comunità di Sant'Egidio e dai francescani.

Cristiani, ebrei, musulmani, induisti, buddhisti, oltre 500 rappresentanti delle diverse religioni del mondo si sono ritrovati trent'anni dopo il primo incontro convocato sempre ad Assisi da Giovanni Paolo II nel 1986, quando il mondo era diviso in due blocchi, e papa Wojtyla voleva issare più in alto di tutti il vessillo della pace, anche in funzione anticomunista.
Oggi la guerra fredda non c'è più, ma c'è una "terza guerra mondiale a pezzi", come papa Francesco ha più volte chiamato l'insieme dei conflitti che devastano il mondo. E allora le religioni, sostiene il pontefice, possono collaborare per la pace, perché "mai il nome di Dio può giustificare la guerra, solo la pace è santa e non la guerra", condannando implicitamente secoli di "guerre sante" fatte pretendendo di avere Dio - anche e soprattutto il Dio dei cristiani - dalla propria parte ("dobbiamo essere capaci fare autocritica", ha detto nel suo intervento finale il patriarca ecumenico ortodosso di Costantinopoli, Bartolomeo).

La guerra, più che il terrorismo. Non perché il terrorismo non vada condannato, ma perché la guerra è molto più grave. "Ci spaventiamo per qualche atto di terrorismo", ma "questo non ha niente a che fare con quello che succede in quei Paesi, in quelle terre dove giorno e notte le bombe cadono e cadono" e "uccidono bambini, anziani, uomini, donne", ai quasi "non può arrivare l'aiuto umanitario per mangiare, non possono arrivare le medicine, perché le bombe lo impediscono", ha detto Bergoglio durante la messa mattutina a Santa Marta, prima di lasciare il Vaticano per Assisi, dove è arrivato poco dopo le 11. 

[...]

Siria, Onu: “Convoglio di aiuti umanitari bombardato ad Aleppo”. Osservatorio Diritti Umani: "12 morti”

Il Fatto Quotidiano
Un convoglio carico di aiuti umanitari è stato attaccato vicino alla città di Aleppo, in Siria. Colpiti 18 dei 31 camion che formavano la spedizione. La notizia è stata confermata dall’ONU. 
Jan Egeland, coordinatore degli aiuti umanitari dell’ufficio dell’inviato dell’Onu per la Siria, ha detto che il convoglio è stato “bombardato“. “E’ scandaloso – ha aggiunto – che sia stato attaccato mentre scaricava gli aiuti”. L’Osservatorio siriano per i diritti umani parla di 12 vittime.


Staffan de Mistura, inviato speciale delle Nazioni Unite per la Siria, ha definito l’accaduto un “oltraggio. La spedizione era il risultato di un lungo lavoro destinato ad assistere civili isolati”. La Mezzaluna Rossa ha affermato che il convoglio stava effettuando una consegna di routine dalla città martire in aree controllate dai ribelli. La consegna di aiuti era parte dell’accordo raggiunto sul cessate il fuoco.

L’attacco arriva poche ore dopo la proclamazione della fine della tregua da parte del governo di Damasco. Le forze armate siriane hanno accusato i ribelli di aver sabotato l’intesa raggiunta esattamente una settimana fa.

Guatemala, l'inferno delle carceri: morti violente e sovraffollamento del 300%

La Repubblica
Attualmente nelle carceri guatemalteche risiedono oltre 20 mila reclusi, superando del 300% la capienza disponibile. Il collasso del sistema penitenziario favorisce l’anarchia


Roma - Un mondo parallelo, dove la legge la impone il più forte minacciando, estorcendo e uccidendo, nel caso in cui il controllo sia messo in discussione. A patire lo strapotere delle bande che gestiscono le carceri guatemalteche non sono soltanto i detenuti, ma anche le guardie carcerarie, il cui numero è di gran lunga inferiore. Armi pesanti, granate, droga sono solo alcuni degli oggetti che usualmente circolano nei 21 penitenziari del paese latinoamericano. Se la condizione degli adulti appare critica e allo sbando, quella dei minori al seguito delle madri è agghiacciante.

20 mila sotto il giogo della “talacha”. Di “collasso e abbandono” ha parlato il ministro degli Interni, Francisco Rivas. Dall’inchiesta condotta da El Mundo emerge che qualunque detenuto, in Guatemala, può conseguire con facilità un’arma e, altrettanto facilmente, può consumare delitti efferati in un contesto di omertà e corruzione. Sono solo 3.469 le guardie carcerarie, al cospetto dei 20.729 detenuti: il 300% in più della capienza prevista. Infatti, i penitenziari guatemaltechi possono ospitare un massimo di 6.908 persone. Delle 20 mila presenti, 18.731 sono uomini e 1.998 donne, in alcuni casi accompagnate dai minori. La cosiddetta “talacha” è il prezzo da pagare per non essere uccisi: i leader delle pandillas garantiscono sicurezza a patto che ricevano denaro.
Estorsione e prostituzione. Le vittime dell’estorsione ricorrono, quando possibile, al sostegno economico delle famiglie. Laddove, invece, non si dispone del denaro necessario non gli resta che vendere il corpo delle donne più care. Le mogli e le sorelle dei detenuti, vittime di estorsione, sono obbligate a prestare servizi sessuali in cambio della vita dei loro parenti. Il tutto avviene nella noncuranza degli agenti, che talvolta risultano persino invischiati. Il procuratore dei Diritti Umani del Guatemala, León Duque, ha dichiarato a El Mundo che il sistema penitenziario del suo paese è “il peggiore del mondo”, a causa del totale stato di abbandono. E lo ha qualificato come il luogo in cui “si stanno pianificando e compiendo azioni delittuose contro la popolazione”.

Byron Lima: l’assassinio del “re”. Cinque sono le carceri in cui si concentra il 71% degli omicidi ai danni dei detenuti: al primo posto c’è la Granja Penal Canadá di Escuintla dove sono morte 34 persone nell’ultimo anno. Il rapporto pubblicato dal CIEN, Centro di Ricerche Economiche Nazionali (http://www.cien.org.gt/), rivela che sono 146 i detenuti uccisi da luglio 2015 a luglio 2016. Nel secondo penitenziario con maggior numero di omicidi, ovvero il Pavón, è deceduto lo scorso 18 luglio il “re” delle carceri guatemalteche, Byron Lima, ex-capitano dell’esercito condannato a 20 anni di reclusione per l’assassinio del vescovo Juan José Gerardi. Nel 1998 Gerardi aveva pubblicato un documento intitolato “Nunca más” (“Mai più”), che denunciava le violazioni commesse dall’esercito, di cui Lima, suo padre e suo nonno erano membri onorari, durante i 36 anni di guerra civile.

Omicidi in aumento. L’assassinio del più potente dei detenuti, il cui movente secondo InSight Crime sarebbe legato ai segreti di Stato di cui Lima era detentore, piuttosto che alla contesa di un ingente quantitativo di droga, non è stato il solo. Il 18 luglio, infatti, sono morte altre 12 persone, fra le quali una giovane volontaria argentina. Lo studio condotto dal CIEN pone l’accento sull’incidenza delle morti nei penitenziari con maggior numero di detenuti, denunciando che sono circa 12 gli omicidi che si consumano ogni mese. Il drastico aumento è dovuto alla diminuzione delle perquisizioni, che favorisce l’introduzione di ogni sorta di oggetto – incluse le armi – all’interno delle carceri. La violenza cresce durante le rivolte. I tumulti, organizzati dai detenuti per affermare il loro potere, spesso degenerano in conflitti a fuoco, strangolamenti e decapitazioni.

Minori: instabilità e malnutrizione. In questo contesto vengono ospitati i familiari in visita. In alcuni penitenziari guatemaltechi, donne e bambini convivono con i reclusi durante il fine settimana. E, nonostante il Governo assicuri di inaugurare con i fondi europei, entro la fine dell’anno, una nuova struttura per donne con prole al seguito, il ministro degli Interni ha reso noto a El Mundo che “il problema del sistema penitenziario non si risolverà in quattro anni”. A suo avviso, ne serviranno 12. Nel frattempo, la condizione dei minori che vivono nelle carceri con le madri, fino all’età di 4 anni, è disastrosa. Sono 86 in tutto e crescono in celle sovraffollate, manifestando instabilità psicologiche e carenze alimentari. Passano direttamente dal latte materno ai cibi solidi. Meno di due dollari al giorno, secondo El País, è il costo speso per alimentare madri e figli, costretti a dividere i pasti.

Nelle succursali dell’inferno. Inoltre, i minorenni reclusi, una volta liberi, riescono a reintegrarsi nella legalità soltanto quando non affiliati alle pandillas. E risulta difficile che ciò avvenga, dato che le carceri sono gestite dalle pandillas e dai narcotrafficanti in condizioni deplorevoli. A questo proposito, María Fernanda Galán di Asíes, Associazione di Ricerca e Studi Sociali (http://www.asies.org.gt/), ha dichiarato a El País che “i detenuti sono costretti a fare a turno per sdraiarsi per terra, senza materassi, senza coperte, né cuscini. E i pochi che li hanno a disposizione, data la sporcizia, contraggono malattie della pelle”. Non c’è definizione più calzante di quella usata dal popolo guatemalteco: se si vuole conoscere l’inferno, basta andare nelle sue succursali.

Di Maria Cristina Fraddosio