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sabato 30 aprile 2016

Pakistan, pena di morte per blasfemia per un SMS a una coppia cristiani

Avvenire
A un anno dalla condanna a morte e a quasi due dall’arresto, è stato accolto il ricorso in appello per due coniugi cristiani “colpevoli” di blasfemia in Pakistan. E la prima udienza sarà fissata a maggio. Shafqat Emmanuel e Shagufta Kausar, entrambi 43enni e genitori di quattro figli, erano stati denunciati il 21 luglio 2013 da un leader religioso musulmano, che aveva accusato l’uomo di avergli inviato un Sms ingiurioso per la fede islamica. In realtà, come aveva rilevato l’avvocato Nadeem Hassan che cura la difesa della coppia, il testo sarebbe partito da un telefonino smarrito da tempo.
Circostanza che avvalora la tesi di accuse motivate forse da risentimento verso i due che risiedeva nella città di Gojra, nella provincia del Punjab. Qui, all’inizio di agosto 2009 una folla sobillata da voci di profanazione di una copia del Corano, assalì l’area abitata dai cristiani avviando violenze che costarono la vita a una ventina di persone. 

Nell’incendio appiccato dagli assalitori furono bruciate un’ottantina di abitazioni e tra le fiamme morirono sette membri di una stessa famiglia. Un caso pretestuoso, quello dei coniugi cristiani, come confermato più volte dai legali della Farrukh Said Foundation che li assistono. I messaggi di testo sono stati scritti in inglese, una lingua che nessuno dei due, praticamente analfabeti, conosce. A Shafqat, costretto da anni su una sedia a rotelle, la polizia ha estorto una confessione, minacciando di rifarsi sulla moglie se non avesse acconsentito.

La loro condanna a morte con la sentenza del 4 aprile 2014 è basata sulla dichiarazione della società telefonica che il messaggio è partito dal cellulare di Shagufta, nonostante non esistano una Sim o un telefono registrati a suo nome. Come in altri casi, hanno ribadito gli avvocati citati dall’agenzia Fides, «il giudice in primo grado ha ceduto alle pressioni islamiste e ha emesso la sentenza di morte» alla fine di un procedimento che ha avuto come sede il carcere per timore di azioni violente degli estremisti. Mentre si apre alla speranza la vicenda di Shafqat e Shagufta, una storia d’amore giovanile il 21 aprile è finita in tragedia, con un 18enne cristiano torturato e impiccato a un albero davanti alla propria abitazione nel distretto di Pir Mahal, sempre nel Punjab. Qaisar Masih era colpevole di essersi innamorato, ricambiato, di una musulmana. Il padre della ragazza ha deciso di farsi giustizia da sé coadiuvato da consanguinei. Un fatto brutale motivato anche dal contrasto opposto dai cristiani allo spaccio di droga tra i giovani, che ha avuto anche una chiara valenza discriminatoria.
Accanto al corpo di Qaisar, infatti, è stato lasciato un messaggio in cui si sfida chiunque a porre lo sguardo su donne musulmane. La conferma di questa circostanza, accentuata dalla precedente minaccia di volere cancellare una intera generazione di giovani cristiani dall’area e anche delle difficoltà della famiglia a far aprire un’indagine dalla polizia arrivano da The Voice Society, una Ong pachistana per i diritti umani. Se le donne musulmane sono intoccabili, così non è per quelle delle minoranze.

A conferma che nemmeno una istituzione temuta come l’Esercito riesce a allontanare la discriminazione o a intimidire i più violenti tra gli estremisti, nella notte 20 aprile, la moglie di un dipendente dell’apparato militare che per il suo lavoro vive per lunghi periodi a Peshawar, distante da casa, è stata violentata sotto la minaccia di armi da fuoco dai figli di un notabile locale di fede musulmana che nei giorni successivi ha intimidito testimoni e familiari della donna cercando di evitare una denuncia formale.

Migranti. Centri di raccolta e di carcerazione, piano Ue per fermare gli arrivi dalla Libia

Ansa
L'Ue lavora ad un piano che prevede "misure drastiche", con "centri temporanei di raccolta per profughi e migranti" in Libia, ipotizzando anche "aree di carcerazione", per fermare i flussi nel periodo estivo, sulla rotta del Mediterraneo centrale. 

Migranti sulle coste libiche
Lo scrive Der Spiegel on-line, sulla base di un documento riservato di 17 pagine, elaborato dal Servizio europeo di azione esterna (Seae), dipartimento che sostiene l'attività dell'Alto rappresentante, Federica Mogherini.

Ma un portavoce Ue sottolinea: nel "lavoro preparatorio" che stiamo facendo per sostenere il governo libico "nel management delle frontiere, nella lotta alla migrazione irregolare ed ai trafficanti", "l'obiettivo principale" è che "la gestione di migranti e profughi in Libia" rispetti "i più alti standard dei diritti umani e delle leggi internazionali".

Nel documento del Seae - ricostruisce lo Spiegel - si traccia lo schema di un accordo col nuovo governo di unità nazionale libico. E in particolare, sui centri raccolta ed i campi di detenzione, gli esperti Ue evidenziano la necessità di trattare con dignità e rispetto dei diritti umani i migranti. Sul piano operativo si prospettano aiuti nella formazione di una guardia costiera e di una marina libica attraverso il supporto della missione Ue Sofia e nella costruzione delle infrastrutture di polizia e giustizia.

Ma i problemi sono tanti. Gli esperti Ue affrontano la piaga del traffico di migranti, ritenendo che non ci sia da aspettarsi una rapida fine del business, "ancora estremamente remunerativo a fronte di bassi rischi" e individuano il pericolo per la sicurezza in Libia causato "dalla crescente influenza dell'attività dell'Isis e di altri gruppi terroristici".
Intanto alla dg Interni della Commissione Ue si sta finendo di mettere a punto la proposta legislativa per riformare il regolamento di Dublino. L'iniziativa sarà presentata - salvo sorprese dell'ultim'ora - mercoledì, assieme alla valutazione decisiva sulla liberalizzazione dei visti per la Turchia, uno dei punti centrali su cui si regge l'accordo tra i 28 e Ankara, per la riduzione dei flussi sulla rotta dei Balcani occidentali.
Dato che dalle discussioni con i 28 è emerso che a sostenere la proposta più ambiziosa di una gestione europea dei flussi di richiedenti asilo erano solo Italia, Germania, Svezia, Cipro, Malta e Grecia, la Commissione ha lavorato sullo scenario "1 plus", vale a dire: la responsabilità dell'asilo resta al Paese di primo ingresso, ma oltre un certo numero di arrivi, viene alleggerito da un meccanismo obbligatorio di ridistribuzione tra i Paesi Ue.
Dello schema di ricollocamenti dovrebbero entrare a far parte richiedenti asilo di varie nazionalità, oltre agli attuali siriani ed eritrei. Le percentuali per Paese saranno determinate da una chiave di ripartizione sulla base di alcuni parametri, ma diversi dai criteri usati per ricollocare da Italia e Grecia. Anche su questa proposta comunque, la strada della riforma appare in salita. I più scettici restano Ungheria e Slovacchia. Mentre Spagna, Francia, Lussemburgo, Estonia, Lettonia, Romania, Lituania, Repubblica Ceca, Gran Bretagna e Danimarca sono disponibili a lavorare, ma col freno a mano tirato.

di Patrizia Antonini

venerdì 29 aprile 2016

Ebrei e arabi non furono sempre nemici - di Andrea Riccardi

www.riccardiandrea.it

Lo dimostra il grande islamologo Bernard Lewis, identificando una consistente tradizione giudeo-islamica nei secoli passati
Sembra che tra ebrei e arabi, da sempre, ci sia stata una storia conflittuale. Non è così in modo assoluto. Lo dimostra il grande islamologo Bernard Lewis, identificando una consistente tradizione giudeo-islamica nei secoli passati. Anzi gli ebrei nel mondo arabo e turco furono all'inizio poco permeabili al sionismo. I problemi vennero con la diffusione dell'antisemitismo di marca europea e con gli insediamenti ebraici in Palestina. Negli anni Venti ci furono traduzioni in arabo del testo antisemita I Protocolli del Savi di Sion fatte da alcuni cristiani: poi il testo fu rilanciato più volte da traduttori ed editori musulmani. Cominciò un periodo assai difficile. Ci furono pogrom antiebraici, prima della nascita dello Stato d'Israele, nell'Algeria francese nel 1934 a Costantina e in Iraq nel 1941.

Progressivamente gli ebrei acquistarono un'immagine negativa nel mondo arabo e poi in quello islamico. Il gran muftì di Gerusalemme, Amin al-Huseini (1895-1974), si fece propagandista di un'aggressiva campagna antiebraica, alleato con Hitler e Mussolini. Durante la seconda guerra mondiale, lavorò tra i musulmani dei Balcani, dove guidò il reclutamento di una divisione di più di 20.000 SS musulmani, responsabili di stragi di ebrei e serbi in Bosnia.

Ma la storia non è tutta uguale. Bisogna scrutarla in tutti i suoi aspetti. Nei Balcani, ci sono stati "giusti" musulmani che salvarono gli ebrei. In Bosnia, vivevano 14.000 ebrei e ne morirono ben 12.000 nella Shoah. Alcuni si salvarono però grazie a musulmani non intossicati dalla propaganda di Amin al-Huseini, ma convinti che aiutare gli ebrei fosse un dovere umano e religioso. La famiglia musulmana Hardagan abitava davanti al comando della Gestapo a Sarajevo: avvertiva gli ebrei delle retate che partivano da lì. Non solo, ma accolse un ebreo, Yossef Kabilio: «Voi siete nostri fratelli», gli disse Zejneba Hardagan. Questa lo riscattò quando fu arrestato per strada, corrompendo uno stupefatto ufficiale tedesco. Il padre di Zejneba, Ahmed Sahadik, per l'aiuto agli ebrei, fu portato in campo di concentramento dove morì (il nome è ricordato tra i caduti della Shoah di Sarajevo). Forse vari giusti musulmani morirono nel famigerato campo croato di Jasenovac, seppure se ne ignorano le storie. Zejneba fu la prima tra i musulmani nella lista dei giusti a Yad Vashem nel 1985: negli anni Novanta trovò rifugio in Israele con la famiglia, quando Sarajevo fu colpita dalla guerra.

In Albania, ci fu un'unanime protezione degli ebrei, tanto che durante la guerra ai duecento locali se ne aggiunsero altri duemila. «Sono sempre stato un musulmano devoto... tutti gli ebrei sono nostri fratelli», dichiarò Beqir Qoqja, sarto di Tirana, che aveva nascosto un ebreo, a cui riconsegnò l'oro depositato presso di lui. Un musulmano di Valona, che aveva salvato una famiglia di ebrei quando, finito il comunismo, poté andare a Gerusalemme, affermò mentre lo proclamavano giusto: «Può darsi che voi lo chiamiate spirito umanitario. Per me vale la nostra religione musulmana...».

Non bisogna sottovalutare le motivazioni religiose. Non mancano giusti turchi, anche perché la Turchia ha una storia positiva con l'ebraismo. Il console turco a Rodi, Selahattin Ulkumen, salvò 63 famiglie ebraiche dalla deportazione nazista nel 1944, in forza della cittadinanza turca di alcuni ed estendendola anche ad altri. Così fece anche, con molto coraggio, il console turco a Marsiglia, Necdet Kent, che sottrasse ottanta ebrei turchi agli SS. C'è anche un giusto arabo, il tunisino Khaled Abdelwahhab, che salvò una famiglia di una ventina di ebrei durante l'occupazione tedesca. Forse si scopriranno ancora vicende sommerse nel mondo musulmano, ancora ignote per il clima di ostilità. L'umanità, nel cuore dei conflitti, può prevalere sull'odio e sul fanatismo. Così dichiarano alcuni giusti: l'esercizio dell'umanità è animato dalla religione. Molto, nella storia, è complesso, non ideologico, anche in mezzo a tanti orrori.

Fonte: Religioni e Civiltà (Sette - Corriere della Sera) del 29 aprile 2016

Siria - Il sacrificio di Mohammed l’ultimo pediatra rimasto ad Aleppo

Corriere della Sera
Morto per curare i bambini - Doveva sposarsi, una bomba ha colpito il suo reparto nell’ospedale Al Quds di Aleppo gestito da Medici senza frontiere: decine le vittime, molti i bambini.

Mohammed Wasim Moaz, 36 anni
Se non fosse vero e verificabile, verrebbe da pensare che sia il personaggio romanzato di un film. Una sorta di eroe tutto positivo che si sacrifica per il prossimo, dona interamente se stesso, sino a perdere la vita. In effetti la morte del dottor Mohammed Wasim Moaz, 36 anni, fidanzato che sperava di sposarsi nei prossimi mesi, racconta di eroismo e altruismo come difficilmente possono comprendere coloro che non hanno vissuto la guerra o una grande tragedia collettiva. 

«Era l’ultimo pediatra residente nei quartieri di Aleppo ancora controllati dalle brigate che si ribellano alla dittatura di Bashar Assad», dicono dalla città assediata. Al quartier generale di Medici Senza Frontiere a Gaziantep, in Turchia, ne ricordano la professionalità, la dedizione, il rifiuto di partire per non abbandonare le decine di migliaia di bambini che aveva in cura. 

«Cosa farebbero senza di me tutti questi bambini? Chi si occuperebbe di loro?», rispondeva via email e WhatsApp a tutti coloro che da inizio gennaio, quando i bombardamenti dei caccia russi e i famigerati «barili bomba» lanciati indiscriminatamente dagli elicotteri del regime di Damasco hanno intensificato lo scempio dei quartieri civili, lo invitavano a mettersi in salvo.
Ma è parlando soprattutto con i suoi colleghi siriani che si coglie la forza di questo medico e il significato del suo sacrificio tra le macerie del suo ospedale, ucciso mercoledì notte dall’ennesima bomba vigliacca contro le strutture sanitarie nazionali tra le migliaia, che sin dall’inizio della guerra civile repressa nel sangue, hanno imbarbarito il conflitto. 

«Mohammed è caduto da eroe. Non è propaganda. Non è retorica. Affatto. Il mio amico Mohammed è morto per aiutare gli altri. Noi gli avevamo detto che era giunto il momento di partire. Da sempre la soldataglia di Assad e gli agenti al suo servizio attaccano medici, infermieri, farmacisti. Tanti medici hanno lasciato Aleppo. Qualcuno opera ancora in cliniche e ricoveri di fortuna nei villaggi, nelle campagne del nord, stretti tra le zone curde, Isis e l’avanzata dei filo-regime. La maggioranza è emigrata in Turchia, o addirittura in Europa. Ne sono rimasti una cinquantina ancora attivi in otto ospedali nelle zone libere a occuparsi dei circa 300.000 civili. Tra loro almeno 150.000 tra infanti, bambini e ragazzi giovani. A loro pensava lui. Soprattutto a loro. Per questo motivo rifiutava persino di trattare il tema della sua eventuale partenza. Era fuori discussione», dice per telefono Ahmed Leila, il medico legato al fronte delle milizie ribelli che dalla Turchia si occupa di coordinare gli aiuti sanitari con Nazioni Unite, Croce Rossa e organizzazioni umanitarie internazionali.

Sono amici da tanti anni Ahmed e Mohammed, sin da quando studiavano medicina all’università di Aleppo. «Me lo ricordo agli esami. Un ottimo studente. La sua famiglia è molto nota nella nostra città. Sono tre fratelli, tutti e tre medici affermati e tutti ancora attivi sotto le bombe. Bakri, 39 anni è chirurgo. Hussam, 35 anni, è oculista e dirige uno degli ospedali ancora funzionanti. Mohammed però sapeva bene di essere l’unico pediatra rimasto. Per lui era come una missione. Anche per questo aveva scelto di rinviare il matrimonio. Gli altri due fratelli hanno mandato mogli e figli in Turchia. Lui scherzava, da single diceva che poteva rischiare di più. Ma adesso con la nuova fidanzata prendeva maggiori precauzioni. O almeno provava. Vivere ad Aleppo è una continua sfida con il destino. Eravamo in contatto quotidiano. Negli ultimi scambi due giorni fa abbiamo parlato via web sulle questioni dell’amministrazione sanitaria locale, si devono eleggere i nostri rappresentanti alla municipalità della zona libera».

Tra i temi discussi anche quelli delle necessità sanitarie e le riserve di medicinali. I rappresentanti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ultimamente si erano attivati per far confluire aiuti approfittando della tregua limitata iniziata a fine gennaio. E pare che gli ospedali di Aleppo avessero ricevuto importanti quantitativi di medicinali. «Da questo punto di vista lui era abbastanza soddisfatto. Gli ospedali si erano organizzati a riempire i magazzini nella prospettiva della ripresa dei combattimenti e il peggioramento dell’assedio, come in effetti ora sta avvenendo», aggiunge il dottor Ahmad. Ma il problema grave resta il degenerare complessivo della situazione a causa della guerra. «Mohammed non credeva che la tregua avrebbe tenuto. E continuava a dirmi che in particolare i bambini piccoli soffrono per la mancanza di pulizia, le carenze d’acqua potabile, i cibi avariati. Chiedeva disinfettanti, agenti filtranti. È morto temendo che la situazione potesse peggiorare».

giovedì 28 aprile 2016

Brennero Migranti: l’Austria ne «esporta» più di quanti ne arrivano dall’Italia

Corriere della Sera
Oggi Alfano incontra il collega Sobotka. L’ipotesi degli «hotspot», centri di identificazione sulle navi. Roma: il problema sono i flussi in entrata, non in uscita

C’è un dato che il governo italiano sta facendo pesare nei colloqui con i rappresentanti dell’Unione Europea per tentare di contrastare l’offensiva austriaca. Riguarda gli arrivi nel nostro Paese attraverso il valico del Brennero, ma anche i passaggi da Tarvisio. E dimostra — questa è la contestazione — che in realtà il problema sono i flussi in entrata più che quelli in uscita. Perché nel 2015 sono state 3.143 le persone che hanno varcato il confine mentre nei primi quattro mesi del 2016, vale a dire da quando è cominciata la «campagna» di Vienna, sono 2.051. E dunque siamo già oltre il 65 per cento rispetto al totale degli ingressi di un anno fa. Nella maggior parte si tratta di pachistani e afghani, dunque nazionalità che non hanno il diritto automatico a vedersi riconosciuto lo status di rifugiati.
[...]
Gli arrivi dal mare
Una modifica ritenuta indispensabile soprattutto dopo aver analizzato i numeri dei nuovi arrivi dal mare. Secondo i dati aggiornati a ieri mattina sono 27.050 gli stranieri giunti attraverso la rotta del Mediterraneo, dunque partiti dalla Libia o — in minima parte — dall’Egitto. Soltanto nell’ultimo fine settimana ne sono giunti più di 1.000. Gli osservatori sono concordi nel ritenere che il flusso — già altissimo rispetto al 2015 e soprattutto al 2014 che fu anno record per gli sbarchi — potrebbe ulteriormente impennarsi.

A bordo delle navi
Per questo il ministro Alfano ha chiesto all’Europa di valutare la possibilità di creare nuovi «hotspot», vale a dire i centri di identificazione e smistamento, direttamente a bordo delle navi che si trovano nel Mediterraneo e soccorrono i migranti. Si tratta infatti in molti casi di imbarcazioni straniere che dopo il salvataggio portano i naufraghi direttamente nei porti italiani. Se la procedura di riconoscimento venisse effettuata a bordo, si avrebbe invece il vantaggio di poter trasferire subito gli stranieri nel Paese di cui la nave batte bandiera o comunque lì dove chiedono di poter ottenere l’accoglienza come profughi.

Gran Bretagna - Voto vergognoso della Camera dei Comuni: rifiutati 3000 bambini dalla Siria rimasti soli nei campi di Calais

La Repubblica
Sono rimasti soli nei centri di accoglienza di Calais. La camera dei Comuni rifiuta l'accoglienza con 294 voti contro 276


Bambini non accompagnati nel campo di Calais
Londra - La Gran Bretagna ci ripensa e rifiuta di dare accoglienza a 3 mila bambini siriani rimasti soli a Calais e in altri campi profughi in Europa.

Con un voto di stretta misura, 294 a 276, ieri sera la camera dei Comuni ha di fatto bocciato il provvedimento che era stato proposto e approvato dalla camera dei Lord al termine di una campagna condotta da associazioni per i diritti umani e social media a favore di aprire le porte del Regno Unito agli orfani o ai minori abbandonati della crisi in Siria.
Il ministero degli Interni è riuscito a convincere un certo numero di deputati conservatori "ribelli", originariamente propensi ad appoggiare l'iniziativa, facendo loro cambiare idea e inducendoli a votare contro l'emendamento alla legge sull'immigrazione che avrebbe autorizzato il governo ad accogliere circa 3 mila giovani vittime della guerra civile siriana. 


La motivazione del ministero degli Interni nel rifiutare asilo ai bambini è che così facendo si finirebbe per "incoraggiare le famiglie a inviare i propri figli da soli in Europa esponendoli ai rischi del viaggio e al pericolo dei trafficanti di esseri umani".

Ma l'opposizione accusa il governo di mancanza di solidarietà umana di fronte alla grande tragedia che attraversa l'Europa. Del resto David Cameron aveva assunto una posizione simile anche rispetto al generale problema degli immigrati, affermando che avrebbe ritirato le proprie navi dal pattugliamento del Mediterraneo appunto per non incoraggiare i migranti a tentare il viaggio per mare verso il continente europeo. Pur avendo poi accettato di accogliere un certo numero di immigrati dalla Siria, la Gran Bretagna insiste perché siano scelti fra quelli che si trovano nei campi profughi in Medio Oriente e non già in Europa.

La proposta di accoglienza dei 3 mila bambini era stata presentata da lord Alf Dubs, un laburista che da bambino aveva beneficiato dell'operazione Kindertransport, il programma sostenuto dall'allora governo britannico per accogliere in Inghilterra i bambini rifugiati dalla Germania prima della seconda guerra mondiale. "Il mio messaggio ai conservatori è che nel 1938-'39 il nostro Paese accolse 10 mila piccoli rifugiati dalla Germania, dall'Austria e dalla Cecoslovacchia, ed io ero uno di loro", ha detto Dubs. "Oggi si tratta di accettare un numero assai minore di bambini siriani ed è vergognoso che la Gran Bretagna non lo faccia".

Keir Starmer, ministro degli Interni del governo ombra laburista, afferma che i bambini rimasti soli nei campi profughi come quello di Calais sono chiaramente vulnerabili e che bisogna intervenire il più presto possibile per aiutarli: "La storia ci giudicherà se non lo faremo".

Un ragazzino siriano ha testimoniato prima del dibattito raccontando di avere attraversato 17 Paesi prima di raggiungere la città portuale francese sulla Manica. Secondo una stima dell'organizzazione umanitaria Save the Chidlren, circa 95 mila bambini siriani avrebbero chiesto asilo in Europa dall'inizio del conflitto. Il Labour ha promesso di ripresentare la proposta per cercare di capovolgere la decisione di ieri, che sta suscitando riprovazione e proteste sui social network.

Camerun: bambini liberati dal carcere grazie alla registrazione anagrafica

www.santegidio.org
Cameorun ,Maroua - La Comunità di Sant'Egidio ottiene la libertà di due bambini detenuti nel carcere minorile di Maroua "perché non avevano un nome"
Uno dei bambini liberati.
In mano i documenti che lo hanno permesso
Abbiamo raccontato più volte dell'importanza della registrazione anagrafica, soprattutto in molti paesi africani, dove molti bambini vivono senza che lo Stato ne sappia nulla, quindi senza un'identità legalmente riconosciuta, e di conseguenza senza diritti, nemmeno quello più elementare della libertà.

Succede anche a Maroua, nel nord del Camerun, dove due giovani, Jonas e Ernest, rispettivamente 14 e 12 anni di età, sono stati reclusi nel carcere minorile con l'accusa di essere legati a Boko Haram solo perché mai registrati all'anagrafe.
La Comunità di Sant'Egidio, che da anni visita la prigione di Maroua, si è attivata per la registrazione anagrafica dei due minori, che una volta ottenuti i documenti di identità, sono stati liberati. Gli amici della Comunità li hanno riaccompagnati nei loro villaggi dalle famiglie, grate per la liberazione dei loro figli.
Lo sapevi che attraverso la registrazione anagrafica aiutiamo migliaia di bambini ad avere un nome?

mercoledì 27 aprile 2016

La CCDHRN stima a 93 i detenuti politici presenti a Cuba

EFE
L'Avana – La 'dissidente' Commissione cubana dei diritti umani e la riconciliazione nazionale (CCDHRN) questo lunedì ha stimato a 93 il numero dei detenuti politici presenti sull’isola e ha denunciato che 21 di questi si trovano in carceri di alta sicurezza da periodi compresi tra i 13 ai 24 anni.
Raúl Castro, in presenza di Obama, aveva
invitato la stampa a fornirgli una lista dei 'detenuti
politici' se ritenevano che fossero presenti
La commissione, capeggiata dall’oppositore Elizardo Sánchez, ha divulgato lunedì 25 aprile una lista aggiornata di questi prigionieri, a cui si aggiungono 22 nomi che nella precedente stima resa nota a giugno dell’anno scorso dalla stessa CCDHR non erano presenti, il che è da ritenersi un “ulteriore segnale del peggioramento” della situazione dei diritti civili e politici a Cuba.

La CCDHRN ripartisce questi prigionieri politici in quattro gruppi, in uno dei quali compaiono i nomi di 51 oppositori pacifici condannati o processati per il loro comportamento o per attività di contestazione.

In un’altra sezione compaiono 27 condannati in Tribunali di Sicurezza dello Stato che hanno utilizzato armi o qualche forma di forza o di violenza, dei quali, secondo questo gruppo dissidente, sette sono sbarcati armati in tre piccole spedizioni provenienti dal sud della Florida, negli Stati Uniti, con l’intenzione di intraprendere azioni finalizzate a rovesciare il governo castrista.

Nella lista compaiono inoltre quattro oppositori condannati per “altri crimini contro lo Stato”, tre dei quali vecchi ufficiali dell’intelligence straniera del governo, tra cui Miguel Álvarez, che al momento dell’incarcerazione, secondo quanto messo in evidenza dalla CCDHRN, era il braccio destro di Ricardo Alarcón, allora presidente del Parlamento Nazionale.

La lista diffusa da Elizardo Sánchez include anche gli 11 vecchi detenuti politici scarcerati con un permesso speciale, una norma giuridica che mantiene in vigore fino a 25 anni le loro condanne, inflitte nella Primavera Nera del 2003

Secondo la CCDHRN, almeno 26 prigionieri politici cubani hanno attualmente diritto ad avere la “libertà condizionale”, come stabilisce il vigente codice penale.

Il resoconto dichiara che è “molto difficile” elaborare una lista “esauriente” dei prigionieri politici dell’isola, in cui secondo i calcoli di questa commissione, la popolazione carceraria totale oscilla tra i 60.000 e i 70.000 detenuti.

Viene anche criticato il fatto che il governo cubano rifiuti la cooperazione della Croce Rossa Internazionale, di altre ONG di difesa dei Diritti Umani e di organismi e specialisti delle Nazioni Unite per sottoporre a ispezione e migliorare le condizioni del proprio sistema carcerario, composto da circa 200 prigioni, di cui una sessantina di alta sicurezza, campi di lavoro e centri di ricovero.

“Il governo insiste a dire che a Cuba non ci sono state né esistono detenzioni per motivi o condizionamenti politici, bensì detenuti controrivoluzionari e per normali crimini comuni: ora e allora, tale affermazione è semplicemente dubbia”, assicura la CCDHRN.

Il portavoce del gruppo ricorda che la questione sull’esistenza dei prigionieri politici a Cuba è emersa lo scorso marzo in occasione della visita del presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, quando, durante la conferenza stampa tenuta insieme a Raúl Castro, un giornalista straniero ha sottoposto l’argomento all’attenzione del governatore cubano.

Raúl Castro aveva negato l’esistenza di questo tipo di prigionieri nel paese caraibico sfidando il giornalista a presentargli una lista di detenuti politici.

Il Governo cubano considera i dissidenti “mercenari” e “controrivoluzionari”.

Arabia Saudita - Condannato a morte salvato dal perdono della famiglia della vittima

Blog Diritti Umani - Human Rights
Quando la vita di un condannato rimane nelle mani della famiglia della vittima

Riyadh - Dopo vari mesi di discussioni in seno alla sua famiglia, Ibrahim ha deciso di perdonare l'assassino di suo fratello, che era stato condannato da un tribunale in Arabia Saudita a morire decapitato con la spada.

"L'ho fatto per piacere a Dio, perdonare senza chiedere denaro in cambio" ha detto Ibrahim.

Questo avviene in Arabia Saudita, dove sono stati eseguite 153 persone nel 2015.
Ma la pena di morte, può essere sconfitta solo dal perdono della famiglia della vittima o
il pagamento di ingenti somme per salvarsi la vita.

La madre di Ibrahim ha passato mesi cercando di convincere il figlio dicendogli  che chi perdona il colpevole fa un segno di misericordia.

"La brutalità del crimine ha alimentato il mio desiderio di vendetta, così mi sono rifiutato di accettare la richiesta di mia madre, così come le mediazioni di alcune persone che hanno perdonato l'assassino ", dice Ibrahim.

Tuttavia, spiega che l'insistenza e le richieste dei parenti del condannato lo hanno fatto optare per il perdono.
"Sono andato davanti al giudice a rinunciare al diritto di sangue", dice Ibrahim, riferendosi alla prerogativa che gli offre la Sharia

La legge islamica prescrive che i parenti della vittima posso perdonare l'assassino attraverso una somma di denaro che si chiama "Deya". Ibrahim non ha chiesto del denaro e ha concesso il perdono ma ha ottenuto dal Giudice di allontanante il condannato dalla città affinchè nessun suo famigliare lo possa incontrare per strada.

Tuttavia, il caso di Ibrahim è eccezionale, quasi tutte le famiglie concedono il perdono solo dietro pagamento di un alta somma di denaro che può superare qualche milione di dollari. Somma al di sopra delle capacità economiche di quasi tutte le famiglie saudite.

Ezio Savasta

Fonte: EFE

Egitto: arresti di numerosi difensori dei diritti umani, tra cui il consulente dei Regeni

Radio Vaticana
Implacabile giro di vite in Egitto, dove le autorità hanno ordinato l’arresto di diversi attivisti per la difesa dei diritti umani, tra loro anche il consulente della famiglia di Giulio Regeni, il giovane ricercatore ucciso in Egitto.
Ahmed Abdallah
Ahmed Abdallah è stato prelevato e arrestato nella notte tra il 24 e il 25 aprile mentre si trovava nella sua abitazione. A mettergli le manette: gli agenti delle Forze speciali, con l’accusa di istigazione alla violenza per rovesciare il governo, adesione a un gruppo “terroristico” e promozione del “terrorismo”, imputazioni per le quali rischia la pena di morte. 

Abdallah è in realtà il presidente del consiglio di amministrazione della Commissione egiziana per i diritti e le libertà, organizzazione non governativa che normalmente documenta le sparizioni forzate nel Paese e che in questo momento è consulente dei legali della famiglia Regeni. 

A dare notizia dell’ondata di repressione è stata Amnesty International che ha denunciato l’arresto, il 25 aprile, in varie città egiziane di circa 240 persone, tra cui attivisti e giornalisti locali. 

Una data importante per il Paese, il 25 aprile, che ricorda i 34 anni dal ritiro di Israele dalla penisola del Sinai, ma legata anche alla manifestazione organizzata contro la svendita all’Arabia Saudita di due isole del Mar Rosso. Di qui gli arresti. 

E mentre una commissione parlamentare egiziana sta pianificando una visita a Roma per difendere l’immagine dell’Egitto, a parlare di ‘vergogna’ è il Times di Londra che in un editoriale sul caso Regeni chiede piena trasparenza, per “allontanare il sospetto che ci sia stata una copertura da parte dello Stato”. e sempre Londra ribadisce di essere inorridita dall’omicidio Regeni, in un documento il Foreign Office condanna l’assassinio e chiede alle autorità egiziane di collaborare con gli inquirenti italiani.

martedì 26 aprile 2016

Burundi, un anno di violenze - Rischio di un nuovo conflitto etnico?

Il Caffè Geopolitico
Un nuovo conflitto etnico? – L’opposizione al Presidente è formata prevalentemente da tutsi e sono proprio le aree maggiormente popolate da questa etnia a essersi sollevate (anche in modo violento) contro la rielezione, risultando le più colpite dalla repressione.

Davanti al pericolo di una rivolta armata, esponenti del Governo, formato dalla maggioranza hutu, hanno rilasciato dichiarazioni sconcertanti, che hanno riportato alla mente lo spettro del genocidio ruandese del 1994. Alain Guillaume Bunyoni, ministro della Pubblica Sicurezza, si è spinto a rammentare ai tutsi di essere l’etnia minoritaria e che se le forze governative dovessero fallire nel placare la rivolta, ci sarebbero 9 milioni di hutu che non aspettano altro che un segnale da parte dell’esecutivo.

A perpetrare le violenze è proprio un braccio armato, composto per lo più da giovani militanti, chiamato Imbonerakure (“coloro che vedono lontano”, nella locale lingua kirundi), affiliato al partito di maggioranza CNDD-FDD (Consiglio Nazionale per la Difesa della Democrazia-Forze per la Difesa della Democrazia).
I critici del Governo sostengono che questo gruppo sia formato da miliziani che non si sono mai scrollati di dosso la mentalità della guerra civile e che ora vorrebbero trasformare i disordini in un conflitto etnico.

I rifugiati – Gli efferati scontri hanno spaventato gran parte della popolazione, che non vuole rivivere gli orrori degli anni passati. Per questo motivo ormai circa 250mila burundesi hanno lasciato le proprie case cercando rifugio nei Paesi vicini: Tanzania, Ruanda, Uganda e Repubblica democratica del Congo.
Un inviato delle Nazioni Unite ha reso noto che i campi di accoglienza sono affollatissimi: il principale, il Nyarugusu Camp in Tanzania, ospita 160mila persone (il terzo accampamento per rifugiati più grande al mondo), ma mancano cibo e beni primari, con donne e bambini vittime quotidiane di assalti sessuali.
La maggior parte dei rifugiati che sono riusciti ad abbandonare il Paese ha viaggiato di notte, attraverso la boscaglia, al fine di evitare le milizie leali al Presidente, le quali sono state protagoniste di numerosi assalti nei confronti dei fuggitivi.

La comunità internazionale – Allarmati dalla situazione in cui versa il piccolo Stato africano, molti organismi internazionali si sono mossi per scongiurare un inasprirsi del conflitto.
Diplomatici delle Nazioni Unite hanno visitato due volte il Paese, in dicembre 2015 e gennaio 2016. Alla seconda visita ha partecipato anche il segretario generale Ban Ki-Moon, che ha descritto l’escalation di violenza come agghiacciante.

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Matteo Nardacci

Stati Uniti: i carcerati del Texas in sciopero contro il lavoro forzato nuova schiavitù

theintercept.com
I detenuti di tutto il paese hanno indetto una serie di scioperi contro il lavoro forzato, chiedendo riforme del sistema della libertà condizionale e delle politiche carcerarie, con condizioni di vita più umane, un uso ridotto dell'isolamento e una migliore assistenza sanitaria. Oggi i detenuti di cinque carceri del Texas si sono impegnati a rifiutare di lasciare le loro celle. Gli organizzatori dello sciopero sono rimasti anonimi, ma sono circolati volantini che elencano una serie di lamentele e richieste, e una lettera dettagliata che spiega le ragioni dello sciopero.



Le richieste vanno ad esempio da un credito di "buona condotta" per la riduzione della pena, alla fine del contributo medico di $ 100, a un drastico ridimensionamento della popolazione carceraria dello stato.
"I prigionieri di Texas sono gli schiavi di oggi e la schiavitù colpisce la nostra società economicamente, moralmente e politicamente," si legge nella lettera di cinque pagine che annuncia lo sciopero. "A partire dal 4 aprile 2016, tutti i detenuti in tutto il Texas si asterranno dal lavoro al fine di ottenere attenzione da parte dei politici e della comunità del Texas."

Il 13 ° emendamento della Costituzione degli Stati Uniti vieta la "servitù involontaria" in aggiunta alla schiavitù ", se non come una punizione per il crimine a cui il colpevole deve essere stato debitamente condannato", stabilendo così la base giuridica per quello che oggi - secondo il Prison Policy Initiative, un istituto di ricerca senza scopo di lucro - è un fatturato di 2 miliardi di dollari all'anno per l'industria.

La maggior parte dei prigionieri abili, presso le strutture federali, sono obbligati a lavorare, e almeno 37 Stati permettono alle imprese private di far lavorare i prigionieri, anche se tali contratti rappresentano solo una piccola percentuale di lavoro carcerario. Judith Greene, un'analista di politica penale, ha detto a Intercept: "Ironia della sorte, questi sono gli unici programmi di lavoro delle carceri dove i prigionieri prendono più di pochi centesimi all'ora".

Invece, la maggior parte dei prigionieri lavorano per le carceri stesse, prendendoo ben al di sotto del salario minimo in alcuni stati, e non più di 17 centesimi all'ora in strutture gestite da privati. In Texas e pochi altri stati, soprattutto nel Sud, i prigionieri non vengono pagati affatto, ha detto Erica Gammill, direttore del carcere di Justice League, un'organizzazione che lavora con i detenuti in 109 carceri del Texas. "Vengono pagati nulla, zero. E 'essenzialmente lavoro forzato ", ha detto a Intercept. "Non vogliono pagare i lavoratori del carcere, dicendo che il denaro serve per vitto, alloggio e per compensare il costo della loro detenzione."

In Texas, i prigionieri hanno tradizionalmente lavorato in aziende agricole, nell'allevamento di maiali e nella raccolta del cotone, in particolare nel Texas orientale, dove molte carceri occupano ex piantagioni.

"Se hai visto immagini di prigionieri che lavorano nei campi in Texas, è proprio come sembra", ha detto Greene. "E 'una piantagione. I prigionieri sono tutti vestiti di bianco, controllati dalle guardie a cavallo con i fucili". Nelle strutture visitate dalla Greene, i prigionieri lavorano tutto il giorno sotto il sole solo per tornare nelle celle e senza aria condizionata. "Le condizioni sono atroci, ed è giunto il momento che l'amministrazione penitenziaria del Texas ne prenda atto". Nel 1963, nel tentativo di ridurre il costo delle prigioni, il Texas ha cominciato a impiegare i detenuti per produrre una vasta gamma di prodotti, compresi materassi, scarpe, saponi, detergenti e prodotti tessili, nonché i mobili usati in molti uffici di edifici dello Stato. La Greene ha detto che, a causa delle leggi sul lavoro, che limitano la vendita di beni realizzati dai prigionieri, tali prodotti sono generalmente venduti a enti statali e agenzie governative locali.

Anche se costituiscono quasi la metà della popolazione carceraria nazionale - circa 870.000 persone a partire dal 2014 - i lavoratori del carcere non sono conteggiati nelle statistiche ufficiali del lavoro; non ottengono alcun contributo per la disabilità in caso di infortunio, nessuna prestazione di sicurezza sociale, né straordinari.

"Continuano ad applicare un alto tasso di condanne a tutti i costi", si legge nella lettera dei priginieri in sciopero, "tutto per il benessere del multimilionario Prison Industrial Complex". Quello del Texas non è un caso isolato. I prigionieri di Alabama e Mississippi, e del più lontano Oregon, sono stati informati dello sciopero del Texas attraverso una rete sotterranea di comunicazione tra le carceri. "Nel lungo termine, probabilmente vedremo più interruzioni del lavoro", ha detto Gammill. "Si pensa che in prigione sia difficile diffondere notizie, ma in realtà si diffondono a macchia d'olio". Il 1° aprile, un gruppo di prigionieri di Ohio, Alabama, Virginia, e Mississippi ha organizzato uno "sciopero di prigionieri coordinato a livello nazionale contro la schiavitù in carcere" che si terrà il 9 settembre, nel 45 ° anniversario della rivolta nella prigione Attica. "Chiediamo non solo la fine della schiavitù in carcere, smetteremo di essere schiavi noi stessi". "Non possono mandare avanti queste strutture senza di noi."

Proteste carcerarie e scioperi hanno visto una rinascita negli ultimi anni dopo un rallentamento derivante dal maggiore uso dell'isolamento per isolare i detenuti politicamente attivi. Nel 2010, migliaia di detenuti provenienti da almeno sei carceri della Georgia, organizzati attraverso una rete di telefoni cellulari di contrabbando, si sono rifiutati di lasciare le loro celle per andare a lavorare, chiedendo migliori condizioni di vita e un compenso per il loro lavoro. Tale azione è stata seguita da proteste carcerarie in Illinois, Virginia, North Carolina, e Washington. 

Nel 2013, i prigionieri della California si sono coordinati in uno sciopero della fame per protestare contro l'uso dell'isolamento. Il primo giorno di quella protesta, 30.000 prigionieri in tutto lo stato hanno rifiutato il pasto.
L'anno scorso in Texas, quasi 3.000 detenuti, che chiedevano migliori condizioni di vita hanno parzialmente distrutto un centro di detenzione per immigrati. Nel mese di marzo, sono scoppiate proteste a Holman Correctional Facility, un carcere di massima sicurezza in Alabama, dove ci sono stati due tumulti in quattro giorni. Almeno 100 prigionieri hanno preso il controllo di una parte della prigione e accoltellato una guardia e il guardiano. Quelle proteste erano pianificate, ma i prigionieri stanno organizzando azioni coordinate che, dicono, andranno avanti come previsto. "Dobbiamo lottare contro l'economia del sistema di giustizia penale, perché se non lo facciamo, non possiamo costringerli a ridimensionarsi" ha detto un attivista. "È appiccando incendi e cose del genere che si ottiene l'attenzione dei media. "Ma io voglio di organizzare qualcosa che non sia violento. Se ci rifiutiamo di lavorare gratis, costringeremo l'istituzione a prendere delle decisioni". "La schiavitù è sempre stata un istituto giuridico", ha aggiunto. "E non è mai finita. Esiste ancora oggi attraverso il sistema di giustizia penale. 

domenica 24 aprile 2016

Austria: il «Nein» del vescovo alle barriere anti-migranti

La Stampa
Dopo il Brennero forte l’azione della Chiesa anche al confine con l’Ungheria. Il vescovo Zsifkovics: «Ho sempre ricordato che la Sacra Famiglia è stata una famiglia di rifugiati e chi pensa altrimenti non rappresenta il Vangelo»

Si fa sempre più aspra l’opposizione dei cattolici austriaci contro le decisioni del governo, in piena campagna elettorale, per limitare l’ingresso di migranti e rifugiati. 

Una lotta che ormai dura da settimane e che vede fianco a fianco vescovi e laici uniti per affermare il rispetto dei diritti umani e il valore irrinunciabile dell’accoglienza contro quella che il cardinal Schönborn ha definito la «fortezza Europa». 

A cominciare dal passo del Brennero che vede coinvolti, e contrari, sia i residenti del Tirolo (Austria) che del Sudtirolo (Italia) e dove il governo austriaco sembrerebbe aver l’intenzione di ripristinare un confine di fatto caduto da diciotto anni.  

Forte nei giorni scorsi la reazione di mons. Jakob Bürgler, amministratore apostolico di Innsbruck (dove si attende la nomina del vescovo a seguito della designazione di mons. Scheuer a Linz): «La reintroduzione del confine in una regione cosmopolita (leggi Euregio, Tirolo-Sudtirolo-Trentino) e nell’era della globalizzazione rappresenta un passo che annulla molti successi». 

«La mia prima preoccupazione non risiede nel fatto che l’economia e il turismo potrebbero avere risvolti negativi, ma va soprattutto a quelle donne, a quegli uomini e a quei bambini in fuga che hanno bisogno del nostro aiuto» ha scritto in una lettera il vescovo di Bolzano-Bressanone, Ivo Muser. «Il loro grido di aiuto – la loro fuga non è nient’altro che questo! – richiede la nostra attenzione, il nostro cuore generoso. A che cosa serve celebrare l’”Anno della misericordia”, se poi siamo duri di cuore nei confronti del prossimo?!». 

E un altro segnale forte viene in queste ore dalla diocesi di Eisenstadt, nel Burgenland, la regione più orientale al confine con Ungheria e Slovenia, zona chiave per le rotte d’ingresso. Non è un caso che il protagonista sia proprio mons. Ägidius Johann Zsifkovics, nella sua triplice veste di pastore della diocesi e di presidente della Commissione episcopale austriaca per i migranti e l’integrazione e dell’omonima dei vescovi accreditati presso la UE (artefice dell’incontro di febbraio dei vescovi Comece ad Heiligenkreuz insieme ai patriarchi d’Oriente, terre di provenienza dei migranti, e autore del documento dei vescovi europei). 

Il vescovo Zsifkovics ha pronunciato un chiaro e deciso «Nein» nei confronti della costruzione di recinzioni e barriere sul suolo diocesano e il vescovo non ha timore di rappresaglie di sorta, magari da parte di alcuni cattolici xenofobi. 

Intervistato da diverse testate ribadisce la sua decisione: «Con ogni fibra del mio corpo affermo che è impossibile per me accettare che nel 21° secolo si possano costruire dei recinti, destinate a diventare un feticcio». Ricorda di essere nato (nel 1963 a Güssing) e cresciuto all’epoca della cortina di ferro e di aver sperimentato «tutte le umiliazioni di una zona di confine» sempre con il desiderio di un’altra vita. «Ho sempre ricordato che la Sacra Famiglia è stata una famiglia di rifugiati e chi pensa altrimenti non rappresenta il Vangelo» ripete con convinzione. 

Anche il portavoce diocesano Dominik Orieschnig osserva che la costruzione della barriera di confine sarebbe una «chiara rottura con il messaggio della Chiesa» oltre che «del tutto contraria allo spirito del Vangelo». 

La decisione della diocesi di Eisenstadt ha già raccolto numerose attestazioni di simpatia e solidarietà, ma anche alcune critiche. Un cittadino ha ringraziato «in nome dell’umanità», mentre altri, che si dichiarano cattolici, ma simpatizzanti di organizzazioni xenofobe, hanno espresso arrabbiati tutta la loro contrarietà. 

Ancora una volta, emerge, dunque, come la crisi dei rifugiati rappresenti quasi «una cartina al tornasole del cristianesimo», ha detto il portavoce diocesano che tiene a precisare come l’autentica carità cristiana si riveli in questi momenti di crisi quando le situazioni difficili dovrebbero veder unite le forze in un vincolo di solidarietà fattiva. Come Bürgler a Innsbruck, anche al confine orientale, punto di riferimento sono i gesti di papa Francesco nell’incontro di Lesbo con il Patriarca ecumenico Bartolomeo I e l’arcivescovo ortodosso di Atene Hieronymus II la settimana scorsa. 

Ciò non significa affatto che la diocesi non abbia comprensione dei timori e delle preoccupazioni della gente, tutt’altro, e le proposte dei vescovi europei alle sedi di Bruxelles stanno a dimostrarlo. Tuttavia tengono a precisare da Eisenstadt, «non sarebbe una testimonianza cristiana rispondere a queste paure con recinzioni e muri».  

La risposta cristiana è un’altra, dicono da settimane in Austria, anche perché quando lo sconosciuto diventa un volto concreto, la realtà dei fatti ha dimostrato che i timori svaniscono. 

E, per intanto, i 9 km di recinzione lungo il confine con l’Ungheria nei pressi di Moschendorf (previsti anche container, servizi igienici e quant’altro) non si faranno. 

Egitto: 100 arresti in tre giorni e un attivista torturato in fin di vita

Il Manifesto

Khaled Abdel Rahman trovato lungo una strada deserta con segni di tortura dopo l'arresto della polizia, come Giulio. Oltre 5mila case perquisite solo al Cairo in previsione della manifestazione di domani. Rinviata la sentenza del quarto processo a Morsi. Al-Sisi è furioso: il boomerang delle isole Tanar e Sanafir è tornato indietro con potenza doppia. Manca poco alla manifestazione di domani e un'ondata di arresti ha investito il paese, sintomo della debolezza di un regime disfunzionale. La notte di venerdì è stata la replica delle retate compiute dalla polizia durante la giornata.

E si è conclusa con una scoperta drammatica: Khaled Abdel Rahman, attivista di Alessandria, è stato ritrovato lunga una strada deserta alla periferia del Cairo con il corpo segnato dalle torture. È ancora vivo, riporta la sorella Reem a Middle East Eye, ma è ricoverato in terapia intensiva. "Il suo corpo è pieno dei segni di pestaggi e torture, elettroshock sui genitali", ha scritto su Facebook aggiungendo che Khaled era stato arrestato il giorno prima dalla polizia durante una perquisizione nella loro abitazione. A trovarlo è stato un passante, un'immagine che ricorda alla perfezione il ritrovamento del cadavere di Giulio Regeni.

Da giovedì a sabato tante province egiziane sono state teatro di perquisizioni e arresti di massa, nei café, nelle case private, in strada. A Giza è stato portato via uno dei leader dei Socialisti Rivoluzionari, Haytham Mohamadeen: ieri la procura ha allungato di 15 giorni la sua detenzione perché "membro di organizzazione illegale", senza specificare però quale. È stato invece rilasciato il fumettista Makhlouf. A parlare sono i numeri del Ministero degli Interni: in una settimana sono state perquisite 5mila abitazioni solo nel centro del Cairo e esaminati migliaia di computer e telefoni. E gli arrestati, riporta Ahram Online, sono stati almeno cento solo nella sera di giovedì.

Il timore è che si tratti del preludio alla giornata di domani, 25 aprile, visti i precedenti. Il 15 aprile 4mila persone sono scese in piazza per la prima manifestazione anti-governativa dall'elezione a presidente di al-Sisi, estate 2014. Il bilancio finale, secondo l'Association for Freedom of Thought and Expression, è stato di 387 arrestati: 268 sono stati rilasciati, 98 sono a piede libero in attesa del processo e 21 sono ancora in prigione. E ora tra i target torna l'attivista Sanaa Seif (sorella dei più noti Alaa Abdel-Fattah e Mona Seif) che iei è stata convocata dalla procura del Cairo. L'accusa è incitamento alle proteste per aver denunciato l'arresto dell'attivista Yasser al-Qott, anche lui accusato di incitamento.
Scure anche sulla stampa: ieri il Ministero degli Interni ha denunciato il capo dell'ufficio della Reuters al Cairo, Michael Georgy per "pubblicazione di notizie false volte a disturbare la pace e a danneggiare la reputazione dell'Egitto". È questa la sola reazione istituzionale alle rivelazioni pubblicate dall'agenzia internazionale sulle prime ore dell'arresto di Giulio Regeni, eccezion fatta per l'immediata smentita giunta dalla Nsa, i servizi segreti interni accusati dalle fonti di aver detenuto Giulio.

di Chiara Cruciati

sabato 23 aprile 2016

Ucraina: nelle carceri oltre 1500 prigionieri politici e violazioni diritti umani

Contropiano.org
E a proposito dei prigionieri politici in Ucraina, l'agenzia Novorosinform scrive di oltre 1.500 di essi, sottoposti a torture, condizioni inumane e degradanti; parla di arresti indiscriminati e processi illegali in massa. Altri attivisti per i diritti umani parlano di cifre anche più elevate e di luoghi segreti di detenzione. Novorosinform, riporta anche alcune testimonianze sullo sciopero della fame dichiarato da alcuni prigionieri politici a Kiev e sulle pessime condizioni di salute di altri, con problemi alla spina dorsale, ai reni e al fegato, dovuti alle condizioni di detenzione, praticamente senza nessuna assistenza medica.

Sarebbero già cinque i prigionieri morti nelle carceri ucraine a causa dello sciopero della fame. D'altro canto, secondo Novorosinform (che, ovviamente, parla dal proprio punto di vista ultranazionalista e accusa DNR e LNR di tradimento, e rinfaccia a Mosca di non intervenire militarmente nel Donbass), le Repubbliche popolari avrebbero "unilateralmente" rimesso in libertà moltissimi prigionieri di guerra ucraini, così che ora Kiev non è disposta a scambiare i pochi militari ucraini ancora detenuti in Donbass, con le centinaia di carcerati "filorussi".
Il sito Ukraina.ru, per altri versi vicino alle posizioni di Novorosinform, scrive di alcune centinaia di detenuti politici in varie prigioni dell'Ucraina: a Kiev, Odessa, Nikolaev, Mariupol, Kharkov e in alcune città del Donbass controllate dall'Ucraina; tutti accusati di separatismo, tradimento, reclutamento di miliziani, aiuto a DNR e LNR. Secondo la responsabile per i diritti umani della DNR, Darja Morozova, in Ucraina il numero esatto di detenuti politici sarebbe di 1.354, o quantomeno, "questo è il numero delle certificazioni ufficiali ucraine; 459 persone risultano scomparse. Ma anche queste potrebbero essere detenute", ha detto.

Lilija Rodionova, della Commissione per i prigionieri di guerra della DNR, mentre sostiene che la maggior parte dei detenuti in Ucraina non sono prigionieri militari, bensì persone accusate di simpatizzare con le milizie, lamenta anche lo scarso interessamento della Croce Rossa, che si limita a registrarne il numero e non porta loro alcuna assistenza. Purtroppo, scrive Ukraina.ru, la maggior parte dei detenuti attende solo lo scambio coi prigionieri ucraini detenuti nel Donbass e, quando questo viene sabotato da Kiev, accusano la stessa Morozova di disinteressarsi della loro sorte. Secondo Rodionova, alla morgue di Dnepropetrovsk, ci sarebbero da 80 a 200 morti del Donbass, ma nemmeno con l'intervento dell'ONU i parenti hanno il permesso di riprendersi le salme.

Anche secondo Ruspravda.info, il numero di detenuti politici in Ucraina cresce di giorno in giorno. Rimangono in prigione - coloro che riuscirono a sfuggire al massacro - gli arrestati del 2 maggio 2014 mentre difendevano la Casa dei sindacati data alle fiamme dai nazisti. In generale, tra gli arrestati ci sono non solo simpatizzanti di DNR e LNR, anche se, poi, l'accusa viene formulata quasi sempre per "finanziamento del separatismo e istigazione all'odio tra le nazionalità"(!), come è il caso dell'ex vice capogruppo del Partito delle Regioni alla Rada, Aleksandr Efremov, o del giornalista Ruslan Kotsaba, accusato di tradimento della patria, per aver promosso a Ivano-Frank l'azione "Rifiuto la mobilitazione". Al blogger e ufficiale a riposo Sergej Pevrukhin è stata la mossa l'accusa, ripetuta sempre più spesso, di "partecipazione a organizzazioni terroristiche"; così i giornalisti Elena Blokh o Andrej Zakharcuk. Alla direzione dell'Istituto "Repubblica", scrive Ruspravda.ru, sostengono che non ci sarebbe un numero ufficiale di detenuti politici, anche perché le accuse vengono mischiate con pretesti quali "porto d'armi abusivo" o "rissa"; ma comunque si parla di diverse centinaia di rinchiusi, soprattutto nelle regioni di Kharkov, Odessa, Dnepropetrovsk e Ivano-Frank.
L'attivista per i diritti umani di Kharkov, Dmitrij Gubin, parla di oltre 600 detenuti politici nella sola Kharkov. Sempre più, si fa ricorso agli articoli del codice penale 109 (cambiamento violento dell'ordine statale), 110 (attentato all'integrità territoriale), 111 (tradimento), 161 (istigazione all'odio nazionale), 436 (propaganda della guerra!!!) e altri, che comportano pene da 5 a 15 anni. Al di là degli arresti, ai giornalisti che diffondono "propaganda antiucraina" vengono generosamente somministrate bastonature in strada o inflitte condanne amministrative. Anton Gerašcenko, consigliere del Ministro degli interni, ha detto in TV che i partecipanti ai meeting - ma non ai raduni delle bande neonaziste - verranno fermati e si prenderanno loro le impronte e ha apertamente parlato della necessità di ricorrere alla tortura. Alla Rada, è stato depositato un disegno di legge per la confisca dei cellulari ai soldati inviati nel Donbass, per impedirgli di fornire informazioni dal fronte in contraddizione con le notizie diffuse dal Ministero dell'informazione. Inutile poi parlare degli agguati portati dalle bande neonaziste contro chiunque sia sospettato di simpatie "anti-ucraine" o "rifiuto della mobilitazione".



venerdì 22 aprile 2016

Gherardo Colombo: perché scambiamo la giustizia per vendetta

Linkiesta
Dal caso Doina Matei in poi. L'ex magistrato di Mani Pulite: «Il male? Esiste, ma se lo fronteggiamo col male lo raddoppiamo». Il giustizialismo ha la stessa matrice dell'antipolitica
di Simonetta Sciandivasci
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«Il male si ferma non restituendolo». Gherardo Colombo ha fatto il magistrato per trentatré anni (Mani Pulite, P2, delitto Ambrosoli), fino a quando, nel 2007, con una lettera al Consiglio Superiore della Magistratura, non ha rassegnato le sue dimissioni. Per questo è stato definito "il magistrato pentito": d'effetto, ma forse improprio. «A un certo punto ho sentito che era necessario fare altro, risalire fino all'ingorgo principale», ci racconta. Molto prima che nel giustizialismo, nei processi dati in pasto al sensazionalismo mediatico, nell'inefficienza della macchina giudiziaria e di quella penitenziaria, la giustizia s’incaglia, secondo Colombo, nel rapporto tra i cittadini e le regole, innestato sul principio (erroneo) per cui la regola impone, anziché permettere (a questo ha dedicato diversi libri, tra cui Sulle regole e Il perdono responsabile).

E fintanto che la regola imporrà attraverso l'intimidazione, la paura della punizione in cui incorre chi la infrange, sarà sempre inadeguata a «stimolare il rispetto della dignità propria e altrui». Ora che la tolleranza zero e l'inasprimento delle pene vengono invocati a gran voce nel dibattito pubblico sulla criminalità, la libertà vigilata genera indignazione (caso Doina Matei) e ci si arrischia addirittura a chiedere la pena di morte (lo hanno fatto i familiari di Luca Varani ucciso durante un chemsex), l’impegno di Colombo sembra quasi donchisciottesco. Eppure, questa settimana, alla sentenza a favore di Breivik, il terrorista norvegese (uccise 77 persone il 22 luglio 2011 sull'isola di Utøya) che ha accusato lo Stato di detenzione inumana e degradante, il familiare di una delle vittime ha reagito dichiarando: «Questa è la prova che il nostro sistema giudiziario funziona e fa rispettare i diritti umani».

Non siamo più capaci di distinguere tra giustizia e vendetta, in Italia?
Semplicemente, si pensa che siano la stessa cosa.

Perché?
Tradizionalmente, la giustizia è sempre stata considerata una vendetta istituzionale, il mezzo attraverso cui la vendetta privata è passata nelle mani dello Stato che ha così acquisito il monopolio della violenza e l'ha esercitata sottraendola ai singoli e svolgendo una funzione terza nel conflitto tra le parti, costituendosi, così, giudice.

C’è stato un vizio di forma nell'elaborazione culturale del concetto di giustizia?
Guardiamo la storia. Il Codice di Hammurabi introdusse una limitazione alla vendetta: prima, chi subiva un torto poteva vendicarsi senza limiti. Con la legge del taglione, se uno ti cavava un occhio non potevi sterminargli la famiglia, ma solo riservargli il medesimo trattamento. Sebbene alternative siano state espresse a più riprese nel tempo (soprattutto nei secoli più recenti), la cultura si è fermata lì e non è stata capace di aprire lo sguardo verso un'idea diversa di giustizia, che è, peraltro, quella adottata dalla nostra Costituzione.

Dopo le inchieste su Mani Pulite, P2 e il delitto Ambrosoli, Colombo nel 2007 rassegna le dimissioni: «A un certo punto ho sentito che era necessario fare altro, risalire fino all'ingorgo principale». Molto prima che nel giustizialismo, la giustizia s’incaglia nel rapporto tra i cittadini e le regole

Si riferisce alla rieducazione?
Non solo. La rieducazione deve accompagnarsi al divieto di trattamenti contrari al senso di umanità: la pena non può includere violenze fisiche, psichiche o morali nei confronti di persone la cui libertà sia limitata. Questo è già sancito dall'articolo 27 e 13 della nostra Costituzione ed ha una prospettiva la cui radice sta nel riconoscimento della dignità della persona in quanto tale (articolo 3). Ma se la Costituzione non è conosciuta, discussa e approfondita, si continua a ragionare con le regole del taglione, con conseguenze che si riverberano non solo sulla pena, ma pure sulla discriminazione (di genere, religiosa, etnica), legittimandola. Fino all'arrivo della Costituzione - e di fatto anche dopo - la discriminazione è stata un valore.

Per Simone Weil la pena che risarcisce un danno risponde a «un bisogno dell'animo umano». C’è poco di culturale
Il risarcimento non si attua restituendo il male al male. In molti Paesi è applicata, in alternativa alla giustizia retributiva, quella riparativa, che è il suo opposto. La radice del pensiero per cui il male si ferma restituendolo è quella che giustifica, in ultima istanza, la pena di morte.

Sul fronte della lotta al terrorismo è emerso il problema della radicalizzazione nelle carceri. Londra propone di tenere lontani dalla detenzione i soggetti più a rischio.
Pensi al terrorismo degli Anni di Piombo: a mio parere non lo abbiamo sconfitto mettendo i terroristi in prigione, bensì perché si è giunti a una forte coesione sociale nel giudicarli negativamente. Alcune parole e alcuni atteggiamenti delle vittime hanno segnato l'intimità dei terroristi.

«Il risarcimento non si attua restituendo il male al male. La radice del pensiero per cui il male si ferma restituendolo è quella che giustifica, in ultima istanza, la pena di morte»

In alternativa alla pena detentiva cosa c'è per chi rappresenti un pericolo per la collettività
Chi è pericoloso deve stare necessariamente da un'altra parte, ma in un posto civile, dove siano rispettati i suoi diritti (allo spazio vitale, all'affettività, alla salute, all'igiene) che non confliggano con la sicurezza dei cittadini. Sono convinto che peggio tratti una persona, più alimenti il suo rancore nei confronti del consesso sociale.

Lei è dubbioso rispetto all'istituto carcerario?
Penso che sia dannoso. Spesso è una vera e propria scuola di delinquenza: non dipende solo dal trattamento degradante cui al suo interno sono sottoposti spesso i detenuti, ma pure dalla vicinanza degli stessi: è lì che germina la radicalizzazione.

Che ruolo hanno le vittime?
Qualche anno fa, durante un litigio tra due ragazzi, uno di loro rimase ucciso. La madre di quest'ultimo dedicò parole di enorme tenerezza all'assassino. Disse che pensava a quel ragazzo che non aveva voluto uccidere e che avrebbe dovuto portare un peso enorme per tutta la vita. Un amico, invece, dichiarò che quello stesso ragazzo meritava di marcire in carcere per sempre. Il cambiamento di paradigma passa anche attraverso una comprensione e una pietà così profonde.

La legalità coincide con la giustizia?
Dipende da come sono fatte le leggi. Durante il fascismo, era legale attenersi alle leggi razziali: legalità e giustizia non corrispondevano. Oggi, se gli italiani rispettassero la Costituzione, quel binomio sarebbe compiuto. Lo stesso legislatore promulga a volte leggi che non sono in sintonia con la Costituzione.

Il politico segue il pensiero comune dei suoi elettori: lei lo ha dichiarato qualche anno fa.
Certo: se il politico si contrappone al pensiero di chi l’ha eletto, perde voti.

Esiste il male dentro di noi?
Sì. E se lo fronteggiamo con il male, non possiamo che raddoppiarlo.
«Spesso è una vera e propria scuola di delinquenza: non dipende solo dal trattamento degradante cui al suo interno sono sottoposti spesso i detenuti, ma pure dalla vicinanza degli stessi: è lì che germina la radicalizzazione»

Il giudice che ha revocato la libertà vigilata a Doina Matei ha ceduto al sentimentalismo?
Non so quali siano state le motivazioni della revoca, ma se questa non fosse conforme a legge, il giudice non avrebbe agito per sentimentalismo, ma abbandonando la sua imparzialità e indipendenza.

I giudici stanno diventando emotivi?
Se i cittadini chiedono l'inasprimento delle pene, comportarsi di conseguenza non è un atto emotivo, ma profondamente razionale, che però non fa i veri interessi della cittadinanza.

Siamo diventati incapaci di atti di misericordia? Ha qualcosa a che fare con la perdita della fede?
L'Inquisizione bruciava le persone vive e la comunità andava ad assistere. Il Vaticano ha abolito la pena di morte al suo interno in tempi relativamente recenti. A partire dal Concilio Vaticano II, la Chiesa ha mostrato la propria disponibilità ad attuare un ripensamento sulla giustizia retributiva e Papa Francesco testimonia e incarna questa disponibilità. Tuttavia, i promotori della pena di morte in America sono spesso ultracristiani. Più della misericordia, serve riconoscersi nell'altro.

Serve riconoscersi come individui limitati e fallibili?
Il farsi giustizia da sé ha alla sua base il mancato riconoscimento dell'altro come un nostro simile: ci illudiamo, così, che il male sia tutto fuori di noi, nelle persone che hanno sbagliato. Il carcere ci rassicura, ci convince della nostra innocenza.

Insomma ci assolve.
Esatto. I cattivi stanno dietro le sbarre: se noi siamo fuori, significa che siamo i buoni. E siamo buoni anche se proponiamo di fare le stesse cose che hanno fatto coloro che sono dietro le sbarre.

Secondo lei la società civile è responsabile di chi delinque?
Sono molte le persone che dicono «se fossi nato in un quartiere degradato, probabilmente sarei diventato un criminale».

Antipolitica e giustizialismo hanno la stessa matrice?
Penso solo che dovremmo ragionare sul fatto che i politici che ci rappresentano sono il nostro 
specchio.

giovedì 21 aprile 2016

Pena di morte - Altre 8 esecuzioni per impaccaggione in Iran

ncr iran
Ad Isfahan, tre prigionieri sono stati identificati come Mojtaba Kazemi, Hamid Shahsavand ed Hamid Mahdavi. Del quarto non si conosce il nome. Tutti sono stati impiccati domenica 17 Aprile. Martedì il regime dei mullah ha impiccato quattro prigionieri nel carcere di Orumieh (Urmia). Questi sono stati identificati come Alireza Sarebani, Ahmad Nami, Manouchehr Razani ed Abdolhamid Moradi. Erano tutti accusati di reati legati alla droga. Queste impiccagioni hanno fatto arrivare ad almeno 32 il numero delle persone giustiziate dall'inizio della scorsa settimana, mentre i rappresentanti europei si trovavano in visita a Tehran. Tre dei prigionieri giustiziati erano donne.

Secondo alcune notizie giunte dall'Iran, il regime dei mullah giovedì ha impiccato cinque uomini e due donne nel carcere di Birjand, Iran nord-orientale. Il regime fondamentalista iraniano sabato ha impiccato tre prigionieri in un carcere di Rasht, Iran settentrionale, mentre la responsabile della politica estera dell'Unione Europea Federica Mogherini si trovava a Tehran per creare importanti legami commerciali tra l'UE e il regime.

Il Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana (Cnri) mercoledì ha dichiarato in un comunicato che il trend in crescita delle esecuzioni "volto ad intensificare il clima di terrore per prevenire l'espandersi delle proteste nei vari strati della società, in particolare durante un periodo di visite di alti rappresentanti europei, dimostra che le pretese di moderazione non sono altro che un'illusione per questo regime medievale".

mercoledì 20 aprile 2016

Giappone - Com'è la vita di Iwao Hakamada (80 anni), innocente dopo 46 anni nel braccio della morte

Blog Diritti Umani - Human Rights
Cosa vorresti essere come se avessi speso l'ultimo mezzo secolo della tua vita isolato in una piccola stanza, senza sapere se avessi finito la tua giornata ancora vivo?


Iwao fa una passeggiata con sua sorella Hideko
Questa è la domanda Kim Sungwoong in un nuovo documentario sulla ex pugile professionista giapponese Iwao Hakamada, che è stato condannato a morte nel 1968 per un omicidio. E' stato nel braccio della morte per quasi 46 anni - un record mondiale - prima del suo rilascio nel 2014.

Nel 1966 è avvenuta una strage in una casa. Due mesi più tardi, Iwao confessa il delitto ed è stato arrestato. Ma quando il caso ha raggiunto la corte ha subito ritrattato la sua confessione, affermando che era stato costretto alla confessione dopo lunghi periodi di tortura.

Secondo i suoi avvocati, Iwao è stato interrogato per 264 ore, più di 23 giorni. Altre prove della colpevolezza di Iwao si erano mostrate traballanti.

Diversi appelli per un nuovo processo sono stati negati, ma una volta che Norimichi Kumamoto - uno dei giudici che originariamente avevano condannato Iwao - ha iniziato a sostenere la sua innocenza, la lotta per la revisione del suo processo ha preso slancio, e nel 2014 è stato finalmente concesso un nuovo processo. E' stata dimostrata la sua innocenza ed è stato rilasciato dalla prigione.

Ormai il danno alla vita di Iwao era già stato fatto. Soffriva di psicosi istituzionale già parecchi anni prima del suo rilascio. Questo è stato senza dubbio il risultato del metodo disumano del Giappone di trattenere i detenuti nel braccio della morte in isolamento, in celle minuscole, senza alcun preavviso della loro data di esecuzione.
Al suo rilascio, Iwao è stato preso sotto la cura di sua sorella, Hideko Hakamada, di 83 anni, che aveva sostenuto che il fratello era innocente fin dal suo arresto.

Colpisce l'attuale grave situazione di Iwao. Cammina di continuo in cerchio nel piccolo appartamento di Hideko apparentemente ignaro dell'esistenza di altre persone. Egli sembra aver perso il senso di chi è, dicendo di se di essere Dio, il capo di tutte le società, o un imperatore imbattuto.

La pena disumana subita ormai ha avuto conseguenze irreversibili e gravi sulla psiche di Iwao.

ES

Fonte:VICE