Pagine

martedì 30 giugno 2015

Burundi: Unhcr, 6 mila rifugiati fuggiti in Tanzania negli ultimi 3 giorni

Agenzia Nova
Bujumbura - Più di 6 mila rifugiati burundesi sono fuggiti in Tanzania negli ultimi tre giorni, portando così ad oltre 66 mila il numero totale di persone fuggite nel paese dall’inizio di maggio. 

Lo rende noto oggi l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), secondo cui nella sola giornata di ieri sono stati registrati più di 3 mila rifugiati, di cui circa un migliaio al valico di frontiera di Manyovu. 

La prima ondata di rifugiati burundesi è arrivata a Kagunga, un piccolo villaggio di pescatori sul versante tanzaniano del lago Tanganica, all'inizio di maggio, e da allora l'afflusso di oltre 40 mila persone, in gran parte donne e bambini, ha causato una grave epidemia di colera. 

Calais, Londra fa muro contro i migranti e vuole costruire delle nuove barriere per 4 Km

Avvenire
La Gran Bretagna costruirà oltre tre chilometri di recinzione di massima sicurezza al porto del Tunnel sotto la manica di Calais, nel nord della Francia, per tentare di impedire l'ingresso illegale di migranti nel Regno Unito. Lo ha detto il ministro dell'Immigrazione britannico, James Brokenshire, al Telegraph.
Il piano annunciato dal ministro serve a proteggere il terminal dei mezzi pesanti a Coquelles, vicino Calais, con una recinzione alta quasi tre metri, la stessa che era stata utilizzata per le Olimpiadi di Londra del 2012 e l'anno scorso per il vertice Nato in Galles.

La scorsa settimana centinaia di migranti, approfittando di uno sciopero dei lavoratori dell'Eurotunnel in Francia, hanno tentato di forzare i controlli e sfondare le transenne a Calais e Coquelles per entrare nel Regno Unito nascondendosi sui tir e nei furgoni.

Detenuto muore nel carcere di Sollicciano, l'Osapp: "E' l'ottavo caso dall'inizio dell'anno"

La Repubblica
Il sindacato: "Nel penitenziario di Firenze percentuale di decessi in cella più alta in Italia". Ma per il Garante le morti sono cinque. L'uomo, 55 anni, italiano, seguiva un trattamento per tossicodipendenti
Un detenuto italiano di 55 anni, in trattamento per tossicodipendenti, è morto ieri nel carcere fiorentino di Sollicciano. "E' l'ottavo caso dall'inizio dell'anno nel penitenziario fiorentino", secondo il sindacato Osapp, che "ha la più alta percentuale di decessi in cella sul territorio nazionale e non solo". "Il detenuto - spiega il sindacato - aveva assunto da non molto tempo la prevista quantità di metadone e il malore che lo ha colto è assai probabile che sia stato provocato dalla contemporanea assunzione di altre sostanze come purtroppo già accaduto nello stesso carcere, in particolare nella limitrofa sezione femminile". Il Garante dei detenuti, però, conferma soltanto cinque decessi avvenuti da gennaio ad oggi.

Nonostante gli otto casi in sei mesi, spiega Leo Beneduci, segretario generale del sindacato, la vicenda "non sembrerebbe aver destato particolari preoccupazioni nei vertici locali, regionali e nazionali dell'amministrazione penitenziaria".

Mario Marazziti - Migrazioni, il contesto insaguinato nel quale si muovono 60 milioni di persone

La Repubblica
Il deputato primo firmatario della proposta di legge per una disciplina organica del diritto di asilo analizza lo scenario nel quale si generano i flussi migratori. I molteplici obiettivi della campagna d'estate del jihadismo


Caro direttore,
guerre diverse sono in corso. La campagna d'estate del jihadismo vuole raggiungere più obiettivi contemporaneamente. Con l'attacco alla moschea in Kuwait (dopo quella in Arabia Saudita) cerca di incrementare la guerra globale sunniti-sciiti, accusati di essere "politeisti" eretici. Tenta di acuire lo scontro globale tra Iran e paesi del Golfo. Prova anche a colpire gli Stati sunniti, che resistono al progetto jihadista, come la Tunisia, accusata di collaborazionismo con l'Occidente.

La posta in gioco è la supremazia sull'Islam. Vuole uccidere gli occidentali, attaccando il cuore anonimo della Francia, per creare paura e insicurezza globale. Ad abundantiam continuano le azioni in Somalia e in Nigeria tanto da non fare titolo di giornale. Il Califfato ha da tempo lanciato la guerra per la supremazia nel mondo islamico. L'attacco agli occidentali fa parte di questo. Il sogno del Califfo è che l'Europa cada nella trappola: Europa contro Islam, come ha ripetuto Andrea Orlando a Palermo.

Questo il quadro nel quale avvengono le migrazioni. Le migrazioni mondiali avvengono in questa cornice. 60 milioni di profughi nel mondo. Molte le cause, ma la catastrofe umanitaria che sconvolge Siria, Irak, Medio Oriente e Nord Africa, è direttamente connessa a tali trasformazioni epocali, al tentativo di cambiare confini, convivenze secolari, equilibri. Il terrorismo mondiale jihadista si sta facendo stato con il Califfato. Prima non aveva queste caratteristiche, fornita dalla frantumazione provocata da sequenze di errori e decisioni contraddittorie di Irak, Libia, Yemen e Siria. Un misto di indifferenza ed escalation militare hanno prodotto il Califfato che non esisteva solo tre anni fa.

I messaggi contraddittori dell'Occidente. Elemento unificante: guerre che hanno indebolito il fronte sunnita non jihadista e controversia sull'influenza sciita nell'area. Con l'Occidente che trasmette messaggi contradditori su alleanze e strategie, disattento al - vecchio - fenomeno dei "foreign fighters", giovani nati in casa e catturati dalla propaganda terrorista. Ma anche un Europa egoista e ripiegata, che lascia il Mediterraneo trasformarsi in un cimitero (25.023 morti accertati dal 1990 ma sono molti di più...) e fa crescere dentro di sé aggressivi populismi nostrani, sorta di apprendisti stregoni.

La proposta di legge. Ho presentato la proposta di legge per una disciplina organica del diritto di asilo. Contiene, all'art.25, la possibilità di avanzare la domanda di asilo prima di toccare il suolo europeo: un permesso di 15 giorni, dopo vaglio, rappresenterebbe la possibilità di viaggi legali e sicuri. E' la chiave per ridurre i morti nel Mediterraneo, al cui incremento l'Europa non può restare ferma, pena il fatto di diventare una cosa diversa. Diversa dal Trattato sul funzionamento dell'Unione, fondato sul Trattato di Lisbona che, all'art.67, parla dell'Europa come "spazio di libertà, sicurezza e giustizia nel rispetto dei diritti fondamentali" e, all'art. 78, dice che l'UE deve sviluppare "una politica comune in materia di asilo, di protezione sussidiaria e di protezione temporanea, volta ad offrire uno status appropriato a qualsiasi cittadino di un Paese terzo che necessita di protezione internazionale e a garantire il rispetto del principio di non respingimento".

Un sogno? Una necessità. Ma occorre interrompere una narrazione che confonde. Alzare la vigilanza è sacrosanto. Ma presidiare i confini nel Nord Africa è parola vuota, come quelle di chi dice: 'rimandiamoli a casa loro'. I rimpatri della UE sono cosa diversa dai respingimenti. E' ancora timido l'accordo per i 40.000 da ricollocare anche se è un piccolo successo italiano, impossibile solo pochi mesi fa. Non è ancora la soluzione, se la si paragona al milione e mezzo di profughi in Libano, un abitante su tre. Conviene all'Europa accogliere con intelligenza e in maniera adeguata. O si rischia di lasciare quel mondo alla sofferenza e poi a Daesh.

Il "regalo" da non fare al Califfato. Il Califfato vuole che dichiariamo anche noi guerra contro i migranti e l'Islam. Sarebbe fargli un regalo. L'Europa deve fare presto, facendo le cose giuste sulla questione migrazioni. Non sono una emergenza ma un dato strutturale. L'Italia può indicare la strada, anche a leggi vigenti, trovando alleati come la Germania, la Svezia, molto più vicine di quanto si dice, come si è visto l'altra notte di negoziato.

Intercettare i flussi prima che arrivino in Libia. Si può intensificare le operazioni di search and rescue e creare viaggi legali e sicuri. A partire dai luoghi di transito, intercettando i flussi prima della Libia, in Niger o Sudan con la possibilità di raccogliere in loco le domande di asilo. Desk umanitari, come quello in via di attivazione in Marocco per iniziativa della Comunità di Sant'Egidio e delle Chiese evangeliche, con relocation europea (o anche extra-europea) mediante sponsorship private, individuali, familiari, di Chiese e associazioni, con permessi umanitari che non intaccano le restrizioni di Dublino. In aggiunta i visti umanitari come previsto dall'art. 25 del regolamento europeo. Ogni Paese può concederli autonomamente. Una eccezione per i profughi siriani può essere esemplare.

E rivedere il trattato di Dublino. Poi ridiscutere la Convenzione di Dublino, che funzionava quando i richiedenti asilo arrivavano al 90 per cento in maniera legale, mentre oggi la proporzione è ribaltata. Infine una grande politica di cooperazione allo sviluppo per creare minime condizioni di vivibilità in Africa. All'escalation del terrore la risposta dell'arroccamento è miope: una nuova politica è più che necessaria. E' urgente.

Mario Marazziti primo firmatario della proposta di legge organica

lunedì 29 giugno 2015

Israele libera palestinese Khader Adnan dopo 56 giorni sciopero fame

Agi
Israele ha deciso di liberare il detenuto palestinese Khader Adnan, che per protesta era da 56 giorni in sciopero della fame. Lo comunicano il suo difensore e l'associazione Palestinian Prisoners Club. Adnan, 37 anni, era in carcere in regime di detenzione amministrativa, che consente la reclusione senza specifiche accuse per un periodo di sei mesi, rinnovabile indefinitamente. 

Khader Adnan
Era stato arrestato un anno, poco dopo il rapimento e l'uccisione di tre giovani israeliani. Già nel 2012, in occasione di un precedente arresto, Adnan aveva digiugnato per 66 giorni prima di ottenere la scarcerazione.

La sua vicenda era seguita con molta apprensione nei territori palestinesi, nel timore che potesse morire in qualsiasi momento a causa del digiuno. L'uomo ha deciso di interrompere la sua protesta la scorsa notte, dopo che le autorità israeliane hanno fissato il ruo rilascio per il prossimo 12 luglio, ha affermato il suo legale, Jawad Boulos. Adnan è stato trasferito in un ospedale israeliano per riprendere l'alimentazione sotto controllo medico.

Riccardi: "L'Europa deve sostenere Tunisi se crolla sarà una tragedia immane"

La Stampa
L'ex ministro Riccardi: è un Paese fragile, senza di noi non ce la farà


«L`Europa sbaglia a isolare Mosca: serve anche la Russia per stabilizzare il Mediterraneo». Lo storico Andrea Riccardi, ex ministro per la Cooperazione internazionale e l`Integrazione, ha fondato nel 1968 la Comunità di Sant`Egidio, «Onu cattolica» in prima linea su decine di fronti caldi e negoziati di pace. Geopolitica unita al dialogo tra le religioni.
Secondo la rivista Time, con il venerdì dì sangue l`Isis cambia tattica: attacchi punitivi all`esterno invece di concentrarsi solo sull`espansione territoriale. Condivide questo grido d`allarme?
«No. La situazione è grave però non vanno confusi eventi tra loro diversi. In comune ci sono una diffusa aggressività, l`appello jihadista ai lupi solitari e il franchising del terrore modello-Al Qaeda. Non esiste un inesorabile fronte che si riversa contro l`Occidente. In Kuwait, come nello Yemen, il conflitto è tra sunniti e sciiti mentre l`attentato in Francia è segno di una grave emergenza: la mancata integrazione delle banlieue. La Tunisia è sotto attacco: deve diventare paese prioritario per l`Occidente. Serve concretamente tutto il sostegno possibile altrimenti il governo tunisino sarà presto in ginocchio. Tragedia immane»

Perché la Tunisia è un`urgenza?
«Si trova accanto a un paese fallito come la Libia. Le stragi nei musei e sulle spiagge sono un messaggio inequivocabile, come quando il Pkk curdo all`inizio di ogni stagione turistica disseminava di attentati le località balneari turche. La differenza è che la Turchia era un paese forte, la Tunisia è fragilissima. L`Italia e l`Ue devono impedire che la democrazia tunisina crolli. O saranno guai»

I diplomatici Usa collegano il rischio del «lupo solitario» alle complicità sunnite. È d`accordo?
«Il mondo sunnita ha un`enorme responsabilità. Una parte di esso sta reagendo e l`università di Al Azhar ha condannato il califfato, ma ambienti sunniti mantengono complicità più politiche che religiose. L`Italia e l`Ue devono mettere in campo politiche mirate perché le nostre città sono incubatrici di violenza, cellule spontanee e foreign fighters. Nel Mediterraneo servono strategie specifiche e invece rivolgiamo la nostra ostilità contro la Russia. È un errore micidiale perché Mosca è parte fondamentale nella soluzione del problema del Mediterraneo nel caos. Ora si invocano le crociate ma nessuno vuole fare davvero la guerra».

Il Giubileo richiamerà 30 milioni di fedeli: sale il rischio-attentati?
«Il pericolo c`è. Sia per i pellegrini sia per i residenti. Andranno prese le misure opportune ma la prima forma di sicurezza è la tenuta del sistema sociale. Serve il massimo di collaborazione tra le intelligente e le polizie europee. Gli argini decisivi alla minaccia terroristica sono la capacità di integrare e un tessuto sociale che faccia muro contro le infiltrazioni. Invece l`Europa si è chiusa in se stessa: le serve più coraggio in politica estera. Gli estremisti vogliono costruire barrìere dì paura, odio e diffidenza, minare la pace, la sicurezza e la convivenza per arrivare alla guerra di civiltà. E assurdo considerare potenziali terroristi i rifugiati in fuga da guerre e persecuzioni in Africa e Medio Oriente. Abbiamo una sfida complessa».

Nigeria: Kano Sharia Court sentences 9 to death for 'blasphemy' - La Corte della Sharia di Kano condanna a morte 9 persone per blasfemia

Premium Times Nigeria
[di seguito traduzione in italiano]
An Upper Sharia Court, Rijiyar Lemo, in Kano, has sentenced 9 persons: Abdul-Inyas, Hajiya Mairo and 7 others to death for blasphemy against the Prophet of Islam.



The trial was done in secret, and details of its proceedings are yet to be made public.

Even the name of the judge who conducted the trial is being kept secret.

The court initially said 2 people were convicted but a court official, who simply gave his name as Nasir (he declined to provide his full name) later said 9 people were sentenced.

He declined to provide the names of the 7 others.

The offence, committed in early June, triggered protest in Kano.

The demonstration was however promptly quelled by law enforcement agents. The court where the trial began was burnt down prompting the authorities to assign the case to another court.

A statement by the State Sharia Court of Appeal, signed by a man named Nasiru, said the 9 persons were found guilty under section 110 and section 382b of the Sharia Penal Court law year 2000.

"They are hereby sentenced to death," the statement read.

The statement acknowledged that some Muslim faithful in Kano threatened violence if the accused were set free.

The court however freed Alkasim Abubakar, Yahya Abubakar, Isa Abubakar, and Abdullahi Abubakar, who were arrested alongside the nine convicted persons.

They were found not guilty by the court.

Already, news of the judgment has sparked jubilation by a section of Kano residents.


_____________________


Nigeria: la Corte della Sharia di Kano condanna a morte 9 persone per blasfemia

La Corte Superiore della Sharia a Kano, ha condannato 9 persone: Abdul-Inyas, Hajiya Mairo e altri 7 a morte per blasfemia contro il Profeta dell'Islam.

Lo sentenza è stata fatta in segreto, e dettagli di suoi lavori devono ancora essere rese pubbliche.

Anche il nome del giudice che ha condotto il processo è stato tenuto segreto.

La corte ha detto che inizialmente 2 persone sono state condannate, ma in seguito ha detto 9 persone sono state condannate e ha rifiutato di fornire i nomi degli altri 7.

Il reato, commesso ai primi di giugno, ha scatenato la protesta a Kano.

La dimostrazione è stata però prontamente sedata da parte di agenti delle forze dell'ordine. Il tribunale dove è iniziato il processo fu bruciato spingendo le autorità di assegnare il caso ad un altro giudice.

Una dichiarazione da parte dello Stato della sharia Corte d'appello, firmato da un uomo di nome Nasiru, ha detto che 9 persone sono state giudicate colpevoli ai sensi della sezione 110 e la sezione 382b dell'anno sharia Penale della Corte del 2000.

"Loro sono quindi condannati a morte", si legge nella dichiarazione.
La dichiarazione ha riconosciuto che alcuni fedeli musulmani a Kano minacciato violenze se l'imputato fossero stati liberati.

La Corte ha tuttavia liberato Alkasim Abubakar, Yahya Abubakar, Isa Abubakar e Abdullahi Abubakar, che sono stati arrestati insieme alle nove persone condannate e sono stati trovati non colpevoli dal tribunale.

La notizia della sentenza ha scatenato giubilo di una parte dei residenti Kano.

Migranti, 2900 tratti in salvo nel Mediterraneo: 21 operazioni di soccorso

La Repubblica
Gli interventi coordinati dalla Guardia Costiera: impegnate diverse navi militari e motovedette
Sono circa 2900 i migranti salvati, al momento, in 21 operazioni di soccorso coordinate dalla Centrale Operativa della Guardia Costiera a Roma del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. 

Sono intervenuti mezzi del dispositivo Triton: CP906 Nave Corsi e 2 motovedette classe 300 della Guardia Costiera, e una nave militare spagnola. Impegnate nei soccorsi anche Nave Euro della Marina Militare Italiana, un'unita' della Guardia di Finanza, un'unita' militare inglese e una irlandese, e la Nave Phoenix del MOAS.

domenica 28 giugno 2015

Condannato a morte per apostasia in Mauritania, cittadino onorario di Napoli

La Repubblica
Mohamed Ould M'Kheitir è accusato di "apostasia dell'Islam": avrebbe, in un articolo pubblicato su alcuni siti Internet, "parlato con leggerezza del Profeta"

Mohamed Ould M'Kheitir
l 3 luglio il sindaco Luigi de Magistris conferirà la cittadinanza onoraria di Napoli a Mohamed Ould M'Kheitir, condannato a morte in Mauritania per blasfemia. A nome del condannato, recluso nel suo Paese, saranno la sorella Aisha M'Khetir e Aminattou Ely, militante mauritana per i diritti dell'uomo, colpita da una fatwa per avere preso posizione a favore del condannato. 

Le due donne saranno ascoltate il primo luglio dalla Commissione diritti umani del Senato, presieduta da Luigi Manconi e il 2 luglio incontreranno la comunità giudiziaria napoletana su iniziativa dell'Ossin, l'Osservatorio internazionale per il rispetto dei diritti umani presieduto da Nicola Quatrano.

Mohamed Ould M'Kheitir è stato condannato a morte per apostasia da un tribunale di Nouadhibou, nel Nordest del paese. Il giovane, in un articolo pubblicato su alcuni siti Internet, aveva criticato decisioni prese da Maometto e i suoi compagni. Per l'accusa l'imputato "aveva parlato con leggerezza del Profeta" e meritava la pena di morte, prevista dal codice penale mauritano in caso di apostasia dell'islam.

Mohamed si era difeso affermando di non aver voluto offendere Maometto, ma "difendere uno strato della popolazione maltrattato, i fabbri", dal quale proveniva. "Se dal mio testo si è potuto comprendere quello di cui sono accusato - aveva detto - io lo nego completamente e me ne pento apertamente". 

Nel suo articolo Ould Mohamed aveva accusato la società mauritana di perpetuare un "ordine sociale iniquo ereditato" dai tempi del Profeta. Durante il processo, il primo di questo genere in Mauritania, si erano tenute manifestazioni nel paese che chiedevano la pena di morte per il giovane. Un famoso avvocato locale che lo difendeva aveva rinunciato all'incarico per le minacce subite.

Mauritania - Il popolo "sahrawi" senza patria del sahara occidentale

Il Post Internazionale
La mattina del 6 novembre 2014, Mohammed Abdallahi si trovava con la sua famiglia a Rabat, la capitale del Marocco, per protestare contro l'annessione, avvenuta nel 1976, del nord del Sahara occidentale da parte dello stato marocchino. Il popolo sahrawi, a cui appartiene Abdallahi, non riconosce quest'annessione e attende ancora un referendum che gli offra la possibilità di scegliere se essere un cittadino marocchino o meno. Durante la protesta, Abdallahi è stato arrestato dalle forze dell'ordine del Marocco.

Trentanove anni prima, il 6 novembre del 1975, circa 350mila civili marocchini provenienti da tutte le regioni del Paese, allora guidato dal re Hassan II, marciarono verso il Sahara occidentale per liberarlo dall'occupazione spagnola (1884-1975). La manifestazione è nota con il nome di Marcia Verde. Gli accordi di Madrid, firmati il 14 novembre di quello stesso anno, sancirono la ritirata degli spagnoli dal Sahara occidentale e la restituzione del territorio al Marocco e alla Mauritania.
L'annessione fu contestata dal Fronte Polisario, costituito il 10 maggio 1973 da un gruppo di sahrawi - abitanti del Sahara occidentale - con l'intento di costituire uno stato indipendente. Il 27 febbraio del 1976 il Fronte Polisario proclamò formalmente la Repubblica Araba Sahrawi democratica, oggi riconosciuta da 76 stati della comunità internazionale.
Il 6 settembre del 1991, dopo anni di guerriglia tra sahrawi e marocchini, fu firmato un cessate il fuoco monitorato dalla missione delle Nazioni Unite per l'organizzazione di un referendum nel Sahara Occidentale (Minurso). Ancora oggi la questione del Sahara Occidentale rimane formalmente irrisolta e il popolo sahrawi vive in esilio in una striscia di terra racchiusa tra il Marocco, la Mauritania e l'Algeria.

Quando Abdallahi fu arrestato, il 6 novembre del 2014, il re del Marocco Mohammed VI tenne un discorso in occasione dell'anniversario della Marcia Verde, in cui ribadì la volontà di creare un regno in cui la diversità non rappresentasse un fattore di divisione e in cui tutti i popoli del Marocco potessero vivere in maniera solidale. Abdallahi fu rilasciato dopo tre giorni. Poiché temeva per la sicurezza della sua famiglia, decise di rigettare la nazionalità marocchina, di lasciare il Paese in maniera definitiva e di ercare asilo politico altrove.

La sua odissea iniziò il 19 novembre del 2014, quando con la moglie Najat e i quattro figli - Oumayma, Errabab, Mohammed Fadel e Farah - salì su un autobus diretto a Dakhla, nel Sahara Occidentale, per poi raggiungere la frontiera di Guerguarat, al confine con la Mauritania. Dopo aver ottenuto il timbro di uscita, quando finalmente si preparava a oltrepassare il confine, fu fermato dalla gendarmeria che gli ritirò il passaporto e gli impedì di continuare. Per venti giorni restò accampato con la sua famiglia davanti al grande cancello che separa il Marocco dalla Mauritania.

Protestò ogni giorno, con il sostegno della moglie e dei figli, fino a quando il 5 gennaio fu nuovamente arrestato. Dopo tre giorni, senza tante spiegazioni, Abdallahi venne rilasciato e il Marocco gli accordò il permesso di lasciare il Paese. Insieme ai suoi quattro figli e la moglie, i sei furono fermati nuovamente alla frontiera mauritana, dove restarono accampati altri due giorni, e l'11 gennaio finalmente raggiunsero Nouakchott, la capitale della Mauritania. Il 20 gennaio Mohammed e la sua famiglia furono riconosciuti come rifugiati e ricevettero una casa e una minima assistenza finanziaria, con la promessa di essere reinsediati in un Paese terzo entro tre mesi.

Il primo giugno Mohammed, la moglie e i quattro figli erano ancora a Nouakchott. La figlia maggiore, ormai undicenne, ha perso un anno di scuola; la figlia più piccola ha cominciato a mettere i denti e l'asma dell'altra figlia si aggrava sempre di più. Mohammed, stanco dell'attesa, ha deciso di ricominciare la sua protesta. Si è accampato davanti alla sede dell'agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) con una tenda e due tappeti per chiedere di essere trasferito in un altro Paese che possa permettere ai figli di studiare e curare la loro asma.

Il reinsediamento in un Paese terzo, definito come trasferimento (generalmente mediato dall'Unhcr) di un rifugiato dallo stato di primo asilo a un Paese terzo che abbia accettato di accoglierlo come rifugiato, è una delle tre soluzioni durature individuate per i rifugiati, assieme all'integrazione nella società di accoglienza e al rimpatrio volontario. Generalmente, questa opzione viene adottata quando le altre due risultano impraticabili per motivi oggettivi o per motivi legati alle caratteristiche individuali dei singoli.

Tuttavia, sono ancora pochi gli stati che fanno parte dei programmi di reinsediamento. Di conseguenza, nonostante la mediazione e il supporto offerto dall’Unhcr, non sono molti i rifugiati che hanno occasione di beneficiarne. Mohammed dovrà forse attendere ancora molto perché la sua richiesta venga accolta, ma ha deciso di non arrendersi e ogni mattina mi dice buongiorno quando, avviandomi a piedi verso il lavoro, passo davanti alla sua tenda.

Ucraina, Unhcr: oltre 900 mila i rifugiati in Europa - Fra i paesi più interessati, Russia, Bielorussia, Germania, Polonia, Italia, Svezia e Francia

Il Velino
Dall’inizio dell’operazione militare nel mese di aprile 2014, oltre 900 mila ucraini hanno abbandonato il proprio paese a causa del conflitto. Lo afferma in un rapporto diffuso venerdì l’ufficio dell’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr). Secondo fonti governative citate dal rapporto, il numero complessivo delle persone in cerca di asilo o di altre forme di soggiorno regolare nei paesi vicini si attesta attualmente a 900.300. 

La maggioranza di queste persone si dirige verso la Federazione Russa (746.500) e la Bielorussia (81.200). Oltre a Russia e Bielorussia, fra i paesi interessati dal fenomeno ci sono – secondo il rapporto Unhcr - la Germania, la Polonia, l’Italia, la Svezia, la Francia e diverse altre nazioni europee. Ancora secondo il rapporto, 4.603 richieste di protezione internazionale sono state presentate in Germania, 3.600 in Polonia, 2.956 in Italia, 1.962 in Svezia, 1.763 in Francia, 200 in Moldavia, 60 in Romania, 60 in Ungheria e 20 in Slovacchia. Inoltre, 1,35 milioni di cittadini ucraini sono stati registrati come sfollati interni.

Gli amici di Sant'Egidio ricordano Silvia Bonucci ad un mese dalla sua scomparsa

E' passato un mese dal 28 maggio quando ci ha lasciato Silvia Bonucci, nei giorni passati in molti l'hanno ricordata come amica dai tanti interessi e dai molteplici impegni: scrittrice, traduttrice, collaboratrice di più di un regista (soprattutto di Nanni Moretti), animatrice dei Girotondi, amante della sua Maremma, innamorata di Trastevere dove aveva una casa che adorava; serenamente fiera della sua radice familiare ebraica. In molti l’abbiamo salutata il 2 giugno nella piccola chiesa di Sant’Antonio Abate del piccolo centro di Riotorto, vicino a Piombino. In una strada dei dintorni un grave incidente che ce l’ha portata via, mentre stava andando al mare con la mamma e con la sua inseparabile cagnolina Rughetta.
Silvia era una donna complessa, curiosa, sensibile. Era sempre attenta a coltivare le amicizie con la stessa cura con cui nell’infanzia aveva visto i contadini di Riotorto coltivare la terra. Con precisione, fedeltà, amore, senso del giusto.

Tra le amicizie coltivate ci sono anche quelle con alcuni poveri di Trastevere che aveva incontrato alla fine degli anni Novanta cominciando ad aiutare una volta a settimana nella mensa per le persone in difficoltà che la Comunità di Sant’Egidio ha aperto nel quartiere romano. A meno che non fosse fuori per lavoro o nella sua Maremma, per più di 15 anni Silvia ha speso i sui sabato pomeriggio a servire pasti a chi fa i conti con la povertà. Le piaceva che in quel luogo chi vive per strada trovasse un luogo dove sedersi ed essere servito. E lei serviva volentieri. Ne faceva occasione per conoscere chi è in difficoltà, per interrogarsi con i suoi amici di Sant’Egidio sulle cause di tanto impoverimento e su come render meno pesante la vita di chi soffre. Settimanalmente, lei, da laica, intrecciava la sua vita e il suo impegno con dei credenti, perché fianco a fianco si lavorasse per un po’ di giustizia subito. Dare da mangiare a chi ha fame, da bere a chi ha sete, vestire chi ha freddo.

Anche l’amata Rughetta, la cagnetta che aveva adottato, e che è morta con lei, era frutto dell’incontro con questo mondo di povertà: l’aveva “ereditata” da un ragazzo che viveva per strada.
Ad Auschwitz-Birkenau
Aveva messo in più di una occasione il suo mestiere di traduttrice a servizio dei progetti di Sant’Egidio. Lo aveva fatto sempre gratuitamente, soprattutto in occasione di alcuni grandi incontri di leader religiosi mondiali per la pace, nel solco del grande incontro di Assisi del 1986. Con i suoi amici di Sant’Egidio era stata a Cracovia nel settembre del 2009, per ricordare lo scoppio della seconda guerra mondiale, e in quell’occasione visitò per la prima volta - forse l’unica - il campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, in lacrime. L’anno seguente, nell’ottobre, volle tornare a tradurre per un nuovo incontro di leader religiosi a Barcellona e portò con sé anche la mamma. Generalmente passava il Natale a Parigi, con la madre e la famiglia del fratello Nicola. Ma un Natale – mi pare fosse quello del 2011 - rimase a Roma e volle venire a servire ai tavoli del pranzo che il 25 la Comunità di Sant’Egidio allestisce per i bisognosi nella Basilica di Santa Maria in Trastevere. Fu una giornata intensa e bella, di cui fu felice.

Chi conosceva Silvia ha l’impressione di avere un piccolo o grande conto in sospeso: una cena fissata, un film da andare a vedere, un viaggio da fare, un libro da leggere e commentare, una chiacchierata da continuare, magari solo un caffè da prendere assieme, o il mondo da raddrizzare. Chissà se Silvia amerebbe che non ci privassimo della speranza di credere che avremo l’occasione di farlo ancora quando - come recita un salmo citato ne Il pranzo di Babette - «Amore e verità s'incontreranno, giustizia e pace si baceranno».

Gli amici della Comunità di Sant'Egidio

sabato 27 giugno 2015

Eritrea: il terribile rapporto della Commissione Onu per i diritti umani

greenreport.it
Il 26 giugno, a Ginevra, in Svizzera 
la Commissione di inchiesta dell’ONU presenta ufficialmente le sue conclusioni sui diritti negati in Eritrea all’United Nations Human  ights (Unhr), un rapporto terribile del quale greenreport.it ha già scritto e che svela il perché l’Eritrea si stia svuotando dei suoi giovani che bussano inascoltati alle porte dell’Europa e dell’Italia che pure ha colonizzato quel Paese per poi lasciarlo nelle mani dell’Etiopia e di una guerra di liberazione che invece ha partorito una delle dittature più odiose e crudeli del pianeta


Secondo le 484 pagine del “Report of the commission of inquiry on human rights in Eritrea” della Commissione d’inchiesta Onu sui diritti umani in Eritrea, che raccoglie testimonianze su esecuzioni extragiudiziarie, schiavitù sessuale e lavoro forzato, il governo di Asmara avrebbe commesso «crimini contro l’umanità nei confronti della sua popolazione» e «Gli eritrei non sono governati dalla legge, ma dalla paura».

Il Coordinamento Eritrea Democratica ricorda che «il governo di Asmara è responsabile di clamorose e diffuse violazioni dei diritti umani, che hanno creato un clima di paura in cui il dissenso è represso, un’ampia porzione della popolazione è soggetta a reclusioni e lavoro forzato e lo stato controlla le persone con un ampio apparato che è penetrato in tutti i livelli della società» e il rapporto Unhr conferma che «Le informazioni raccolte attraverso un sistema di controllo pervasivo sono usate in modo assolutamente arbitrario per tenere la popolazione in uno stato di ansia perenne».

Oggi a Ginevra giungeranno da varie parti del mondo migliaia di eritrei per sostenere le conclusioni della Commissione con una manifestazione pacifica e il Coordinamento Eritrea Democratica sottolinea che «Nella diaspora esiste un’altra Eritrea che combatte civilmente e pacificamente contro il regime dittatoriale per realizzare la transizione del proprio Paese verso la democrazia e la dignità. Questa Eritrea, fatta di giovani e di persone che cercano nella democrazia il rispetto delle proprie vite, esprimerà eticamente e dignitosamente il suo appoggio al lavoro svolto dalla commissione Onu. Sta all’Italia e all’Europa decidere quale via imboccare. Gli accordi al buio con Asmara (Processo di Khatoum, aiuto per lo sviluppo su fondo europeo) non possono portare all’affermazione della democrazia in Eritrea, hanno piuttosto il sapore del sostegno al “dittatore amico” per garantire equilibri geopolitici o interessi economici».

Gli eritrei esuli nel nostro Paese chiedono che «L’Italia stia al fianco degli Eritrei Democratici nella lotta di Liberazione contro la dittatura e la violazione dei diritti umani, in Eritrea come in ogni altra parte del mondo. Il Coordinamento Eritrea Democratica, che riunisce diversi gruppi della diaspora in Italia, si pone come alternativa alla dittatura di Isaias Afewerki, per la costruzione di un’Eritrea libera, democratica, rispettosa dei diritti di tutti, aperta al mondo. Siamo un interlocutore valido, un soggetto politico a tutti gli effetti, per le scelte e i progetti che riguardano l’Eritrea».

Se si vuole fermare la fuga dall’Eritrea, le morti nel Mediterraneo che hanno il loro simbolo nella strage di Eritrei di Lampedusa, è su questi democratici che l’Occidente deve puntare, abbandonando al loro destino le dittature “amiche” e restituendo dignità, libertà e speranza a chi fugge per trovarle in un altro Paese.

I rimpatri forzati di migranti sono costosi, inutili e disumani

Internazionale
Il presidente del consiglio Matteo Renzi si è messo a rincorrere Matteo Salvini sull’immigrazione. Il 24 giugno, parlando davanti al senato in vista del Consiglio europeo del 25 e 26 giugno, il presidente del consiglio ha detto: “Lo dico guardando alla sinistra di quest’aula. Noi non possiamo più avere paura del concetto di rimpatrio”.
“Dobbiamo essere chiari: nel momento in cui si arriva in Italia senza titolo, le procedure di rimpatrio devono essere velocizzate. Non si fanno accordi di cooperazione con chi non accetta il rimpatrio”.

Con queste affermazioni Renzi manda due messaggi: uno al fronte politico interno e uno ai partner europei. Il premier risponde a Matteo Salvini e ai suoi sostenitori, e allo stesso tempo manda un segnale ai ministri dell’interno di Francia e Germania, che accusano l’Italia di non applicare il regolamento di Dublino, di non identificare i migranti arrivati sulle nostre coste e di non rimpatriare quelli irregolari, cioè quelli senza documenti e a cui non viene riconosciuto lo status di rifugiato.

“Chi ha diritto di restare in Italia deve restare in Italia, chi ha diritto di avere asilo verrà accolto, ma la sinistra non può avere paura del rispetto delle regole, un concetto a cui ci dobbiamo tenacemente aggrappare di fronte a un’ondata che mette a rischio la stessa idea dell’Europa”, ha detto Renzi.

Renzi parla agli interlocutori politici nazionali. E dice: io appartengo alla sinistra che rispetta le regole. E in questo modo accusa una parte della sinistra di non rispettare le regole. Parla alla sinistra come se fosse un partito d’opposizione, e in questo modo usa i migranti come un capro espiatorio, come uno spauracchio per spaventare i cittadini che temono “l’invasione”, “l’esodo” di migliaia di persone. Renzi rassicura la classe media, il ceto medio impoverito. Cari cittadini, vi difenderemo dai clandestini, vi difenderemo da chi non ha titoli per restare in Europa: i migranti economici irregolari.

Così il presidente del consiglio introduce una distinzione ontologica tra il migrante economico e il richiedente asilo. E grazie a questa distinzione il premier si permette un atteggiamento cerchiobottista e retorico: mostrare i muscoli verso i migranti irregolari e allo stesso tempo mostrarsi accogliente verso richiedenti asilo e rifugiati. Come a dire: chi scappa dalle guerre lo accogliamo, chi scappa da povertà e miseria lo rimandiamo indietro. Peccato che il rimpatrio di tutti gli irregolari, oltre che disumano, è impossibile, costoso e inutile.

Sul concetto di rimpatrio forzato e della sua inutilità
Le affermazioni di Matteo Renzi davanti al senato sono perfettamente in linea con le posizioni del governo francese, che dopo la sconfitta alle amministrative del 2014 si è messo a rincorrere il Front national, mostrando il pugno duro contro l’immigrazione. Anche il premier britannico David Cameron ha vinto le elezioni di maggio con una campagna elettorale molto aggressiva contro l’immigrazione illegale. Per rispondere al successo dei partiti nazionalisti e xenofobi in tutti i paesi europei, come il movimento Pegida in Germania, la Lega nord in Italia e il Partito del popolo danese in Danimarca, i governi europei hanno scelto una retorica che criminalizza l’immigrazione irregolare. Questa politica però ha dei costi molto alti.

Negli ultimi quindici anni, i paesi europei hanno speso circa 11,3 miliardi di euro per espellere i migranti irregolari e 1,6 miliardi per rafforzare i controlli alle frontiere. L’hanno calcolato i giornalisti dei Migrants files, un collettivo internazionale di venti cronisti, statistici ed esperti. I giornalisti dei Migrants files hanno anche avvertito che questi dati sono sottostimati. I diversi paesi europei non hanno una normativa comune per i rimpatri e non c’è trasparenza sui costi sostenuti dagli stati per questo tipo di sistema.

Per calcolare quanto costano effettivamente i rimpatri forzati, non bisogna contare solo le spese sostenute per organizzare i voli di espulsione forzata. Vanno aggiunte le somme usate per costruire e gestire i Centri di identificazione e di espulsione (Cie), dove vengono reclusi i migranti fino al momento del rimpatrio.

Annalisa Camilli

Comunità di Sant'Egidio - Vertice di Bruxelles sui migranti condizionato da egoismi e paure ingiustificate. Si rispettino i trattati europei

Comunità di Sant'Egidio
L'Europa è nata su ideali di difesa dei diritti e di accoglienza, sanciti da diversi trattati internazionali. Sant'Egidio chiede che si punti sull'integrazione

Roma - Il vertice europeo della notte scorsa ha rivelato il volto di un’Europa condizionata da egoismi e paure ingiustificate. Il risultato è un compromesso al ribasso per la redistribuzione di un numero limitatissimo di richiedenti asilo: 40 mila persone, tra le migliaia già arrivate sulle coste italiane e greche - e appena 20 mila da far partire dai campi rifugiati di Paesi come il Libano che ne ospita un milione e mezzo (su 4 milioni e mezzo di abitanti) o la Giordania che ne ha 800 mila (su 7 milioni) – rappresentano una cifra estremamente ridotta per l’Unione, anche perché sono da dividere tra 28 nazioni. 

L’Europa è nata su ideali ben diversi, che parlano di difesa dei diritti e di accoglienza. Non si possono rimettere in discussione questi princìpi sanciti da tutti i trattati che sono alla base dell’Unione. Basta ricordare che il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, sulla base del Trattato di Lisbona, parla, all’articolo 67, dell’Europa come “spazio di libertà, sicurezza e giustizia nel rispetto dei diritti fondamentali” e prevede, all’articolo 78, che l’Unione Europea debba sviluppare “una politica comune in materia di asilo, di protezione sussidiaria e di protezione temporanea, volta ad offrire uno status appropriato a qualsiasi cittadino di un Paese terzo che necessita di protezione internazionale e a garantire il rispetto del principio di non respingimento”.

Sono trattati da rispettare. Invece altri testi, come gli accordi di Dublino, che obbligano il migrante a chiedere asilo solo nei Paesi di arrivo, possono e devono essere modificati.

Di fronte ad un compromesso che, in sostanza, si basa sulla volontarietà e lascia gli Stati liberi di stabilire le loro quote di accoglienza, la Comunità di Sant’Egidio lancia un appello a tutti i Paesi dell’Unione: puntare sull’integrazione è molto più redditizio che alimentare paure per motivi di politica interna e di pura propaganda.
L’Italia, che anche per motivi demografici ha bisogno di essere aiutata dall’immigrazione, continui a salvare vite umane e trasformi l’“emergenza” in opportunità offrendo un modello per lo sviluppo. 

Ricordiamo a tutti che i profughi in arrivo sulle nostre coste fuggono in larga parte dalle guerre in corso. Vanno prima di tutto salvati perché è un loro diritto, sancito dai trattati internazionali. Ma si può anche gestire il fenomeno senza creare allarme sociale. Lo testimonia anche la generosa gara di solidarietà registrata a Roma, Milano e in altre città, dove un numero crescente di italiani sta offrendo spontaneamente il suo aiuto ai profughi transitanti nei centri di accoglienza.

Rilanciamo le nostre proposte e le rivolgiamo all’Unione europea:
-       Sponsorship  – da aprire o riattivare – ad opera di associazioni, Chiese, privati, parenti per i richiedenti asilo: si chiama direttamente dai Paesi di partenza o di transito (si può cominciare con Siria, Iraq, Libano attraversati dalla guerra) evitando i rischiosissimi viaggi della speranza. Lo sponsorship garantirebbe accoglienza e assistenza per il rifugiato, per un periodo determinato.
-       Humanitarian desk: accoglienza da parte di alcuni Paesi europei (o da parte dell’Unione) dei richiedenti asilo già arrivati in alcuni Paesi, come Marocco o Libano. Si tratta di persone che sono già uscite dal loro Stato, hanno già fatto una parte del viaggio, ma eviterebbero comunque l’ultimo tragitto, quello in mare.
-       Modificare gli accordi di Dublino allargando le maglie che obbligano a chiedere asilo solo ai Paesi di arrivo. Occorre ricordare che molti casi potrebbero essere risolti con i ricongiungimenti familiari.
-       Visti per motivi umanitari per chi non è ancora entrato in Europa: è previsto dall’articolo 25 del regolamento europeo dei visti. Ogni Paese può concederli autonomamente.
-       Permessi per motivi umanitari, ai sensi dell’art. 20 della legge italiana sull’immigrazione, per coloro che  sono già in Italia. E’ una decisione che può prendere il presidente del Consiglio con un decreto. Dà la possibilità di lavorare. E’ successo già per alcune nazionalità, come per esempio gli albanesi che oggi sono largamente integrati in Italia (ma anche per ex jugoslavi, tunisini ecc.)


-              Incrementare i fondi per la cooperazione in modo da intervenire nei Paesi di origine dei flussi migratori

venerdì 26 giugno 2015

“Economici” o rifugiati? La distinzione è quasi impossibile, e a volte immorale

Redattore Sociale
La stretta sulle identificazioni è al centro del vertice Ue e Renzi incalza le regioni: “Chi non è rifugiato sarà rimpatriato”. Ma in Italia la maggior parte dei richiedenti ottiene la protezione umanitaria. Ecco perché la distinzione è quasi impossibile, e a volte immorale


Roma – Selezionare i migranti direttamente nei paesi di origine o di transito, distinguere in maniera netta tra rifugiati e migranti economici, tra chi ha diritto a venire in Europa e chi no. Il tema dell’immigrazione è al centro del Consiglio europeo che si apre oggi a Bruxelles, e tra le richieste che sono sul tavolo c’è quella di una stretta sempre più netta sull’identificazione di chi arriva in Europa, per concedere solo ad alcuni il diritto di restare. Lo stesso presidente del consiglio, Matteo Renzi, lo ha detto chiaramente questa mattina ai presidenti delle regioni: “I richiedenti asilo vengano accolti, i migranti economici siano rimpatriati”. Ma si può davvero operare una distinzione così netta tra queste due categorie? E quali scenari apre questa ulteriore “frontiera” immateriale alla possibilità di costruirsi una vita migliore?

LE 4 FORME DI PROTEZIONE
In Italia ci sono diverse forme di protezione internazionale:è richiedente asilo chi si trova al di fuori dei confini del proprio paese e presenta una domanda per l’ottenimento dello status di rifugiato politico. Il rifugiato è colui che è riconosciuto, in base ai requisiti stabiliti dalla convenzione di Ginevra del 1951,“nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato”.
C’è poi il beneficiario di protezione sussidiaria, cioè colui che, pur non rientrando nella definizione di rifugiato, necessita di una forma di protezione internazionale perché in caso di rimpatrio sarebbe in serio pericolo a causa di conflitti armati, violenza generalizzata o per situazioni di violazioni massicce dei diritti umani. Mentre il beneficiario di protezione umanitaria, è colui che, pur non rientrando nelle categorie sopra elencate di rifugiato e beneficiario di protezione sussidiaria, viene reputato come soggetto a rischio per gravi motivi di carattere umanitario.

I RIFUGIATI, UNA MINORANZA DEGLI ACCOLTI
Guardando ai dati relativi alle richieste d’asilo negli ultimi due anni è proprio questa ultima forma di protezione a prevalere. Come ha spiegato il ministro dell’Interno Angelino Alfano dall’inizio dell’anno sono 59 mila i migranti entrati via mare in Italia: nel 25 per cento dei casi si tratta di eritrei, seguono i nigeriani (10 per cento), i somali (9 per cento) e i siriani (7 per cento). Da gennaio, inoltre, 22mila sono state le domande di asilo presentate, ma lo status di rifugiato è stato concesso solo nel 6 per cento dei casi, laprotezione sussidiaria ha riguardato il 18 per cento dei richiedenti, mentre i permessi umanitari sono stati accordati al 25 per cento dei migranti arrivati.
Una situazione più o meno simile a quella dello scorso anno: dove a fronte di 170 mila arrivi sono state 64 mila le domande presentate: nel 10 per cento dei casi è stato riconosciuto lo status di rifugiato, nel 23 per cento la protezione sussidiaria e nel 28 per cento la protezione umanitaria. Tra i primi paesi dei richiedenti protezione internazionale spiccano le persone che arrivano dalla Nigeria (10.135, il 16 per cento), Mali (9.790, il 15 per cento), Gambia (8.575, il 13 per cento), Pakistan (7191, 11 per cento) e Senegal (4.700, 7 per cento). Dunque la maggior parte delle persone accolte sul territorio italiano non sono rifugiati in senso stretto: oltre a chi fugge dall’incubo di Boko Haram, riceve protezione anche chi può dimostrare che tornando nel proprio paese andrebbe incontro a un danno grave, pur non essendo un perseguitato politico.

LA DISTINZIONE DIFFICILE…
“Tra i modelli internazionali la nostra costituzione ha una delle visioni più ampie sul diritto d’asilo – spiega Roberto Zaccaria, costituzionalista e presidente del Cir - Secondo il nostro sistema, che è tra i più avanzati, ha diritto alla protezione chi non gode nel suo paese dei diritti fondamentali che noi assicuriamo nel nostro”. La distinzione netta tra chi ha diritto a restare e chi no, che si basa solo sugli sconvolgimenti politici in atto nel paese d’origine, è dunque molto difficile secondo la nostra legislazione.
Inoltre, questa selezione rigida degli aventi diritto apre anche ad alcuni importanti interrogativi di carattere politico, ma anche morale: chi, anziché fuggire da una guerra, fugge da una vita di stenti non ha diritto a una vita migliore? E, inoltre, in alcuni stati africani, non formalmente in guerra ma dominati da situazioni di instabilità, le persone possono dirsi davvero sicure? Questa stretta sulle domande di protezione potrebbe diventare l’ulteriore barriera immateriale, che si frappone tra i profughi e la speranza di una nuova vita.

…TRA PERSECUZIONE E MISERIA
A dire no a questa sorta di “gerarchizzazione della disperazione” sono in particolare le associazioni che da sempre lavorano al fianco dei migranti. Secondo Mario Marazziti deputato di Per l’Italia ed esponente della Comunità di Sant’Egidio, che in questi giorni ha depositato una proposta di legge per la regolamentazione dell’asilo in Italia, “Dobbiamo ripensare le categorie: in tema di protezione ci sono molte situazioni miste – sottolinea - per esempio dove c’è la desertificazione ci sono persone che fuggono. Anche se tecnicamente in quel momento non c’è una persecuzione religiosa o militare in atto, si fa fatica a dire che chi scappa da quelle zone non è un profugo. Ormai siamo di fronte a forti populismi che puntano sugli egoismi nazionali o solo sul fattore economico – aggiunge - ma non si può non pensare che alcuni paesi vivono una condizione di insicurezza legata alle politiche di vendita di armi, allo sfruttamento energetico dove c’è una responsabilità anche dei paesi europei. Il limite tra la persecuzione e la scarsa possibilità di vivere è molto labile – conclude - Amartya Sen ci ha dimostrato che le carestie e le dittature camminano di pari passo”.

MIGRANTI DI SERIE A E DI SERIE B
Sulla stessa scia anche la Caritas. “A noi la distinzione tra rifugiato e migrante non interessa, interessano le persone – sottolinea il responsabile immigrazione Oliviero Forti -. L’urgenza di dare risposte concrete ai problemi collegati ai conflitti e alle persecuzioni, con interventi nel’immediato come i reinsediamenti, non deve mettere in ombra la condizione di chi fugge da condizioni di vita insostenibili come la fame, il degrado sociale e ambientale. Non si può fare una classifica di migranti di serie A e migranti di serie B. La migrazione nasce dalla volontà di cambiare la propria situazione in meglio – aggiunge -. Non a caso nel nostro paese siriani ed eritrei non chiedono asilo, ma si fermano solo le persone che arrivano dall’Africa subsahriana: per questi migranti la vita che trovano nel nostro paese è già infinite volte migliore di quella che vivono nel loro. Non possiamo chiudere gli occhi davanti alle condizioni di miseria che ci sono nel mondo e che nella maggior parte dei casi sono frutto della globalizzazione e dello sfruttamento attuato per anni dai paesi del Nord del mondo. Dobbiamo guardare agli individui non agli status”. (ec)

Egitto: Comitato protezione giornalisti; Paese ha il più alto numero di reporter in carcere

Nova
Il Comitato per la protezione dei giornalisti (Cpj) denuncia in un rapporto la situazione della libertà di stampa in Egitto, sottolineando che ad oggi il paese è quello con il più alto numero di operatori del settore rinchiusi nelle carceri. Secondo la relazione basata su un censimenti nei vari penitenziari egiziani, l'organizzazione internazionale con sede a New York ha certificato la presenza di almeno 18 giornalisti nelle carceri egiziane, sottolineando che il numero è il più alto registrato dal 1990. 

Il Cpj sottolinea che le continue minacce contro giornalisti, blogger e reporter hanno spinto i media a censurare le posizioni contrarie al governo in carica in particolare su temi sensibili. Secondo gli attivisti da un lato le autorità sostengono la libertà di stampa, mentre dall'altro il presidente Abdel Fatah al Sisi ha utilizzato il preteso della difesa della sicurezza nazionale per reprimere il dissenso sui media.

Dalla deposizione del presidente egiziano Mohamed Morsi nel luglio 2013 e dalle messa fuorilegge del movimento dei Fratelli Musulmani le autorità hanno arrestato diversi giornalisti e politici accusati di appartenere al gruppo islamista. Secondo il Cpj il rischio di arresti sta impedendo ai media di coprire in modo adeguato la situazione interna nel paese, lasciando intere aree, come il Nord Sinai, completamente scoperte, affidando la diffusione di informazioni e notizie ai soli rapporti militari. Il rapporto denuncia anche casi di abusi subiti dai giornalisti in carcere, pubblicando lettere in cui alcuni detenuti lamentano vessazioni e torture anche con l'utilizzo di scariche elettriche.

Oltre a giornalisti sarebbero invece almeno 100 gli attivisti incarcerati o vittime di sequestri lampo da parte delle forze della sicurezza. Nel paese ha suscitato diverse polemiche e critiche il caso dell'attivista Islam Atito, giovane studente universitario di 23 della Ein Shams University del Cairo sequestrato in strada mentre si recava ad una sessione di esami e ritrovato morto il 20 maggio 2015 con segni evidenti di torture sul corpo.

Giordania: Uday Rajab dissidente alawita torturato a morte nelle carceri del regime di Assad

Corriere della Sera
Un anziano oppositore del regime di Assad, appartenente alla comunità alawita di cui fanno parte i clan al potere nel Paese, è morto dopo essere stato torturato in carcere. Uday Rajab era rientrato in Siria dall'esilio dopo aver ricevuto promesse dal governo di non subire persecuzioni. La notizia è stata data all'agenzia Ansa da avvocati siriani a Damasco che da anni lavorano alla difesa dei diritti umani nel loro Paese.

Uday Rajab
Uday Rajab era finito in carcere negli anni '80 perché membro dell'allora partito d'azione comunista ma poi era riuscito a fuggire all'estero, Originario di Jabla, un'altra roccaforte lealista, l'uomo era tornato rientrato dall'Egitto dopo che il ministro siriano della riconciliazione nazionale, Ali Haidar, gli aveva personalmente assicurato che al suo rientro in patria non avrebbe subito persecuzioni da parte del sistema di controllo e repressione del regime.

Ma la realtà è stata, purtroppo, molto diversa. Il dissidente è morto nelle ultime ore nell'ospedale militare di Tartus, porto nella regione costiera feudo dei clan alleati alla famiglia presidenziale degli Assad. Secondo le fonti, Rajab era stato ricoverato in ospedale dopo le gravi ferite riportate durante le percosse e torture subite nella caserma dei servizi di sicurezza militari di Tartus, dove era stato condotto nelle settimane scorse.

Sono centinaia i casi di dissidenti e oppositori politici alawiti finiti nelle carceri, in esilio o addirittura morti a causa delle persecuzioni del regime degli Assad, al potere dal 1970. Molti di questi dissidenti avevano ingrossato negli anni 70 e 80 le file delle formazioni di ispirazione comunista e laicista che chiedevano riforme politiche. Con lo scoppio della rivolta nel 2011, alcuni dissidenti alawiti hanno partecipato alla creazione a Damasco di piattaforme della opposizione interna al Paese e "tollerata" dalle autorità fino a quando queste sigle non sono tornate a chiedere reali riforme politiche, una richiesta che il regime considera tradizionalmente una invalicabile linea rossa.

di Monica Ricci Sargentini

Papa Francesco contro la tortura: "E' peccato mortale. I cristiani si impegnino per la sua abolizione e a sostenere le vittime"

La Repubblica
Città Del Vaticano - "Torturare le persone è un peccato mortale, è un peccato molto grave". Reduce dal viaggio in Calabria - che passerà alla storia per la scomunica pronunciata nei confronti dei mafiosi - Francesco ha ricordato all'Angelus "la Giornata delle Nazioni Unite per le vittime della tortura che ricorre il 26 giugno. Ma il Papa non si limita alla denuncia e chiede alla Chiesa di darsi da fare, di non stare alla finestra. "Invito i cristiani - ha detto Francesco - ad impegnarsi per collaborare alla sua abolizione e sostenere le vittime e i loro familiari". Bergoglio dunque avverte che certe forme di male rischiano di allontanare per sempre da Dio. Lo stesso principio per cui, dalla piana di Sibari, aveva lanciato il suo anatema contro i mafiosi.

Il Papa ha poi invitato ad amare chi non ci ama. "Diventiamo capaci di amare anche chi non ci ama, è questo è davvero difficile. Di opporci al male con il bene, di perdonare, di condividere, di accogliere. Grazie a Gesù e al suo Spirito, anche la nostra vita diventa 'pane spezzato' per i nostri fratelli. E vivendo così scopriamo la vera gioia! La gioia di farsi dono, per ricambiare il grande dono che noi per primi abbiamo ricevuto, senza nostro merito".

Tortura, "Negli ultimi 5 anni ci sono stati casi in 141 Paesi e in Italia manca ancora una legge"

La Repubblica
Sostenitori e attivisti di Amnesty International in oltre 55 paesi si apprestano a svolgere eventi, iniziative pubbliche e raccolte di firme per celebrare il 26 giugno, Giornata internazionale per le vittime di tortura, e ricordare che sono migliaia ancora oggi le persone che subiscono la tortura in ogni parte del mondo


Roma - A 31 anni dall’ entrata in vigore della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, ratificata ormai da 157 paesi, i governi del mondo utilizzano ancora metodi rudimentali o sofisticati di tortura per estorcere informazioni, ottenere confessioni, mettere a tacere il dissenso o semplicemente come forma di punizione. Negli ultimi cinque anni, Amnesty International ha denunciato casi, isolati o regolari, di tortura o altri maltrattamenti in 141 paesi. Dal lancio della campagna Stop alla tortura”, il 13 maggio 2014, Amnesty International ha pubblicato rapporti su Filippine, Marocco, Messico, Nigeria e Uzbekistan, paesi in cui la tortura è praticata con allarmante frequenza in un clima di complessiva impunità.

La raccolta delle firme. Il 26 giugno, Amnesty International lancerà una raccolta di firme relative a due casi di tortura:

- Yecenia Armenta, madre di due figli, che ha trascorso quasi tre anni in carcere in Messico per aver “ confessato” di aver ucciso il marito dopo 15 ore di tortura, compresa la violenza sessuale e la minaccia di violentare i suoi figli;
- Muhammad Bekzhanov, giornalista dell’ Uzbekistan, in carcere dal 1999 dopo essere stato giudicato colpevole di aver preso parte ad alcuni attentati. La condanna si è basata su una “ confessione” estorta con la tortura, tra cui i pestaggi, il soffocamento e le scariche elettriche.

L'appello al Parlamento italiano. Sempre in occasione della Giornata internazionale per le vittime di tortura, Amnesty International Italia invita ancora una volta il Parlamento italiano a fare in modo che, a oltre un quarto di secolo dalla legge di ratifica della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, l’Italia introduca nel codice penale una normativa che preveda e punisca adeguatamente il reato di tortura. Il 23 giugno il ministro dell’ Interno Alfano, intervenendo al convegno “Sicurezza globale per lo sviluppo e la legalità”, nel rassicurare le forze di polizia che il reato di tortura non dovrebbe essere e non sarà usato per criminalizzare il loro operato complessivo, ha sottolineato l’ importanza dell’ introduzione della norma anti-tortura in Italia.

Una legge che rassicurerebbe anche la polizia. “Apprezziamo il fatto che il ministro dell’Interno riconosca la necessità della legge sul reato di tortura - si legge in un documento di Amnesty che ricorda come - l’introduzione del reato di tortura, sanzionando comportamenti criminali individuali, sarebbe nell’interesse delle forze di polizia e potrebbe contribuire a rafforzare il clima di fiducia tra la popolazione e le stesse forze di polizia”, ha detto Antonio Marchesi, presidente di Amnesty International Italia. “Dopo aver giustamente rassicurato le forze di polizia, il ministro Alfano dovrebbe anche rassicurare la Corte europea dei diritti umani, il Comitato contro la tortura delle Nazioni Unite, il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite e la comunità internazionale nel suo complesso che c’è la volontà effettiva del governo italiano a onorare l’impegno preso ormai 26 anni fa, con la ratifica della Convenzione contro la tortura. Dopo quattro Legislature, non può trascorrerne ancora un’ altra senza il reato di tortura”, ha concluso Marchesi.

giovedì 25 giugno 2015

Japon : Tsukasa Kanda, un condamné à mort exécuté

AFP
Un Japonais condamné à mort pour un meurtre commis en 2007 a été exécuté jeudi matin au Japon, a annoncé la ministre de la Justice.
Tsukasa Kanda
Tsukasa Kanda, 44 ans, a été pendu pour avoir tué une femme de 31 ans à Nagoya, au centre du Japon, avec deux complices recrutés sur internet. La victime, choisie au hasard, a été enlevée, ligotée, étouffée et tuée à coups de marteau, avant d'être dévalisée.

"Ce fut un cas extrêmement brutal", a justifié la ministre de la Justice, Yoko Kamikawa, lors d'une conférence de presse. "Après une série d'examens minutieux, j'ai ordonné l'exécution," a-t-elle ajouté.
La pendaison de M. Kanda porte à 12 le nombre total de condamnés à la peine capitale exécutés depuis le retour au pouvoir fin 2012 du Premier ministre de droite Shinzo Abe.

C'est cependant la première exécution depuis l'entrée au gouvernement de Mme Kamikawa en octobre dernier. La précédente remonte au mois d'août 2014. M. Kanda n'avait pas fait appel du verdict de condamnation à mort prononcé par le tribunal de première instance.

Les deux autres personnes impliquées dans ce meurtre purgent des peines d'emprisonnement à vie. Il reste encore plus de 100 condamnés dans les couloirs de la mort de l'Archipel. Le Japon et les Etats-Unis sont les seules démocraties industrialisées à appliquer la peine capitale, une pratique en permanence dénoncée par les associations internationales de défense des droits de l'Homme.

Le rythme des exécutions au Japon est très variable en fonction de l'opinion du ministre de la Justice en poste, car la signature de ce dernier est requise avant de passer à l'acte. C'est ainsi que, malgré un large soutien de la population à la peine capitale, le pays n'avait exécuté personne en 2011, une première pour une année pleine en près de 20 ans, du fait du refus des ministres de la Justice de centre gauche qui s'étaient succédés cette année-là. Mais en mars 2012, les exécutions avaient repris avec la pendaison de trois meurtriers récidivistes.

Yemen: oltre 5.000 rifugiati abbandonati al confine dalle autorità saudite

Agenzia Nova
Sana’a - Centinaia di civili hanno perso la vita negli attacchi aerei. Secondo le Nazioni Unite sono necessari 1,6 miliardi di dollari di aiuti umanitari per aiutare a prevenire la “catastrofe incombente” in Yemen. 

“Oltre 21 milioni di persone, ovvero l'80 per cento della popolazione, necessita di una qualche forma di aiuto umanitario", ha detto questa settimana Jens Laerke, portavoce dell'Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari. Venerdì scorso sono falliti i colloqui di pace mediati dall'Onu a Ginevra tra le delegazioni del governo yemenita e dei ribelli sciiti Houthi.

USA: detenuto disabile muore perché dimenticato in cella senza cibo né acqua

giornalettismo.com
Keaton Farris aveva 25 anni e soffriva di un disturbo bipolare, dopo 20 giorni detenzione è morto perché dimenticato in cella senza cibo né acqua.
Keaton Farris
Keaton Farris è stato arrestato il 20 marzo a Coupeville, nello stato di Washington, con l'accusa di aver provato a incassare un assegno da 355 dollari che non era intestato a lui. Non aveva precedenti, ma soffriva di disturbi mentali che gli erano stati diagnosticati due anni fa, ma era migliorato molto con l'assunzione dei farmaci.

Ieri lo sceriffo della contea di Island ha pubblicato un rapporto nel quale si scusa con la famiglia, perché Farris è morto in prigione l'8 aprile, e dice l'autopsia che è morto di fame e di sete. Lo sceriffo lamenta una fallimento delle procedure, ma il fallimento altro non è che l'aver abbandonato per giorni in cella, senza cibo né acqua, un detenuto che per le sue condizioni doveva invece essere controllato ogni ora.

Quella di Farris è stata una vera e propria Odissea nel sistema carcerario locale, cominciata nella prigione di Lynnwood, dove i responsabili gli hanno rifiutato l'accesso ai farmaci nonostante si fosse dichiarato malato e nonostante i parenti avessero avvertito che aveva bisogno dei farmaci. 

Farris è stato poi colpito almeno una volta con il taser, legato e ammanettato e infine trasferito in altre prigioni, dove non è andata meglio. Alla Snohomish County Jail le guardie hanno annotato che appariva gravemente malato e che mostrava sintomi di psicosi, poi è stato trasferito alla prigione della contea di Snohomish dov'è stato legato a una sedia di contenzione in attesa della visita di uno specialista, che non è mai arrivata. È stato invece trasferito alla prigione di Coupeville, dove ha allagato la cella chiudendo lo scarico del WC con il cuscino, e così gli hanno chiuso l'acqua in cella. Poi se lo sono dimenticato, anche se le carte della prigione dicono che lo hanno controllato ogni ora come avrebbero dovuto. Dopo due giorni trascorsi così, Farris è morto l'8 aprile.

Salvini: "No al reato di tortura, polizia deve fare il suo lavoro" - Vergognosa dichiarazione!

La Repubblica
Il leader della Lega davanti a Palazzo Chigi: "Se qualcuno si fa male, affari suoi". Agenti in piazza a Roma, Milano e Palermo contro il ddl sull'introduzione del reato. Le Associazioni: "Sap fuori da Comunità Internazionale". Il Pd: "Legge serve per colpire gli abusi"
G8 Genova irruzione
della polizia alla Diaz
Roma - Il leader della Lega, Matteo Salvini, si schiera contro il reato di tortura, al centro di un aspro dibattito dopo la sentenza della Corte di Strasburgo sul G8 di Genova e casi come quello di Stefano Cucchi. 

In una manifestazione davanti a Palazzo Chigi insieme al Sap, dichiara: "La Corte europea dei diritti umani potrebbe occuparsi di altro. Per qualcuno che ha sbagliato non devono pagare tutti. Carabinieri e polizia devono poter fare il loro lavoro. Se devo prendere per il collo un delinquente, lo prendo. Se cade e si sbuccia un ginocchio, sono cazzi suoi". "Idiozie come questa legge - ha aggiunto - espongono le forze dell'ordine al ricatto dei delinquenti". Secondo Salvini, inoltre, "l'attuale capo della polizia, Pansa, non è il migliore capo della polizia".

[...]

Domani ricorre però la giornata internazionale contro la tortura: in Italia, ad oltre 26 anni dalla ratifica della convenzione delle Nazioni Unite, il Codice penale ancora non prevede questo reato. "La posizione del Sap è fuori dalla Comunità Internazionale - dichiarano in una nota Patrizio Gonnella (Antigone), Massimo Corti (Acat) e Franco Corleone (coordinatore dei garanti dei detenuti) - la polizia deve essere un corpo che protegge i diritti umani e non deve aver paura del reato di tortura".

"Affermare che il reato di tortura sarebbe un regalo agli estremisti e ai violenti è inaccettabile - si legge ancora nel comunicato - praticamente tutti i paesi a democrazia avanzata dell'Europa hanno il reato nel loro codice. Anche il Vaticano grazie a Papa Francesco ha codificato il crimine di tortura così come chiesto dall'Onu di Ban Ki-Moon".