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giovedì 30 aprile 2015

Nigeria- Dopo la liberazione di 300 donne liberati altri 160 ostaggi di Boko Haram

MISNA
Un nuovo gruppo di ostaggi della setta Boko Haram – circa 160 persone – è stato liberato. Lo afferma l’esercito nigeriano, che sta attualmente conducendo un’offensiva contro le basi dei fondamentalisti nella foresta di Sambisa, nel nordest. La notizia segue quella della liberazione di circa 300 tra donne e ragazze, avvenuta nella stessa area negli scorsi giorni.

Dell’ultimo gruppo di ostaggi, ha affermato Sani Usman, portavoce delle truppe di terra, fanno parte “circa 60 donne di tutte le età e 100 bambini”. Uno degli ostaggi, tuttavia, ha perso la vita nell’operazione così come un soldato. Dodici, invece i feriti, otto tra i civili e quattro nei ranghi dell’esercito.

Meno precise le informazioni per quanto riguarda i miliziani fondamentalisti: secondo le informazioni riportate dalla stampa nigeriana, le forze armate stavano attaccando nove campi tenuti dalla setta e – oltre ad essersi impadroniti di importanti quantità di materiali bellici (compresi equipaggiamenti antiaerei) – avrebbero ucciso, sostiene Usman, “diversi comandanti di Boko Haram”, di cui non è stata specificata l’identità né l’effettivo ruolo nel gruppo.

[DM]

Centrafrica, cristiani riparano una moschea distrutta. Una luce nel mezzo di una tragedia dimenticata

Tempi
Hanno estirpato le erbacce, raccolto le macerie, eretto una palizzata per riparare i muri danneggiati. Una quindicina di cristiani del Centrafrica, aiutati da alcuni musulmani, hanno proposto e portato a termine il restauro di una delle moschee devastate nella capitale Bangui durante le violenze che hanno sconvolto uno dei paesi più poveri del mondo.

CRISI POLITICA. La Repubblica centrafricana è piombata nella guerra civile il 24 marzo 2013 quando i ribelli islamici Seleka, sotto la guida di Djotodia, hanno deposto con un colpo di Stato il presidente Bozizé. Dopo circa otto mesi di torture e violenze terribili perpetrate da parte dei Seleka contro i cristiani, che rappresentano il 90 per cento della popolazione, le milizie animiste anti-balaka hanno reagito contro i Seleka e cominciato a perseguitare tutti i musulmani del paese con altrettante violenza e crudeltà.

L’INTERVENTO INTERNAZIONALE. Nonostante le missioni internazionali di Onu, Ue, Ua e Francia abbiano fermato i massacri indiscriminati, placando in parte gli anti-balaka e trasferendo i musulmani dalle zone più pericolose a quelle più sicure del paese, la violenza stenta a fermarsi. Nella capitale Bangui, ad esempio, i pochi musulmani rimasti vivono solo nel quartiere “Km 5″, dal quale non osano uscire per paura di essere uccisi.

MOSCHEA RESTAURATA. È in questo clima che un gruppo di cristiani ha voluto dare il proprio contributo «alla costruzione della pace», restaurando una moschea nel quartiere “Km 5″ distrutta nel giugno 2014. «Così come noi possiamo andare a Messa la domenica, vogliamo che i nostri fratelli musulmani abbiano i loro luoghi di culto dove possano pregare», spiega Lazare N’Djader, presidente del gruppo cristiano “Collettivo 236″. «Questa iniziativa è di matrice assolutamente volontaria. Abbiamo voluto contribuire al clima di riconciliazione e di coesione sociale e siamo fieri di vedere quanta gente ha partecipato». Quindici persone possono sembrare poche per parlare di «successo dell’iniziativa», ma bisogna considerare che nella terribile spirale di violenza che ha investito il Centrafrica, molti dei musulmani perseguitati erano stati fino a pochi mesi prima i persecutori dei cristiani.

«PAURA ESTIRPATA». Issani Maga, membro del comitato di gestione della moschea, ha ringraziato i giovani: «Questo gesto estirpa dai nostri cuori la paura». Non è la prima che i cristiani si muovono per promuovere la riconciliazione nazionale: a Bangui, l’arcivescovo Dieudonné Nzapalainga ha visitato in carcere due leader anti-balaka arrestati e ha spinto i cristiani della capitale a visitare e aiutare materialmente i ribelli Seleka rinchiusi nel campo Beal in stato di estrema miseria. Gesti simili di speranza sono stati promossi anche nella città di Bozoum.

TRAGEDIA DIMENTICATA. Il paese ha estremo bisogno di riconciliazione. Nel paese di circa 5 milioni di abitanti, mezzo milione è in fuga, 436 mila sono ancora sfollati e ben 2,7 milioni di persone necessitano aiuti umanitari. L’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) ha lanciato ieri un allarme, chiedendo l’invio di nuovi aiuti per evitare che il Centrafrica diventi la più grande emergenza umanitaria dimenticata del nostro tempo.

ELEZIONI E DIALOGO. Nei prossimi mesi sono in programma due appuntamenti cruciali per il processo di pace. A maggio ci sarà il Forum di Bangui sulla riconciliazione nazionale, che riunirà tutti i partiti politici per affrontare la crisi. Ad agosto invece gli abitanti saranno chiamati a votare per eleggere il governo che sostituirà quello provvisorio attuale, guidato da Catherine Samba-Panza. Non è chiaro però se gli sfollati e i rifugiati potranno partecipare a entrambi gli eventi.


Leone Grotti

Immigrati: Strasburgo, ampliare mandato Triton e quote rifugiati

AGI
Bruxelles - Il Parlamento europeo ha approvato a maggioranza una risoluzione sull'emergenza immigrazione, al termine di un dibattito sui risultati del Consiglio europeo straordinario della scorsa settimana.
Secondo l'assemblea di Strasburgo, in questi giorni riunita in sessione plenaria, "l'Unione europea dovrebbe fare tutto il possibile per evitare ulteriori perdite di vite umane in mare, ad esempio ampliando il mandato dell'operazione Triton per includere anche le operazioni di ricerca e soccorso".

Inoltre, si chiede alla Commissione "di fissare una quota vincolante per la ripartizione dei richiedenti asilo fra tutti i paesi" e un aumento dei finanziamenti per i programmi di reinsediamento. La risoluzione, non vincolante, e' stata approvata da 449 eurodeputati, mentre i voti contrari sono stati 130 e gli astenuti 93. Fra gli altri punti della risoluzione, c'e' la messa a punto di un'operazione umanitaria europea che, come Mare Nostrum fino a novembre scorso, "sia operativa in alto mare e alla quale contribuiscano tutti gli Stati sia con risorse finanziarie che con attrezzature e mezzi"; il Parlamento auspica anche il cofinanziamento Ue.

mercoledì 29 aprile 2015

Nuova giornata di proteste in Burundi - La cronologia della crisi. Acnur: pericolo violenze in vista elezioni

Internazionale
Dopo l’annuncio della candidatura del presidente Pierre Nkurunziza per un terzo mandato alle elezioni di giugno, si sono scatenate le proteste dell’opposizione e della società civile

La cronologia della crisi in Burundi

Sono riprese per il terzo giorno di seguito le proteste in Burundi contro la candidatura per un terzo mandato del presidente Pierre Nkurunziza. Nelle strade della capitale Bujumbura sono stati schierati esercito e polizia, mentre i manifestanti hanno costruito barricate. Si tratta dei disordini maggiori dalla fine della guerra civile nel 2006. Secondo la Croce rossa sono morte almeno sei persone.

La storia postcoloniale del Burundi, un piccolo paese dei Grandi Laghi, è segnata da una lunga guerra civile e da violenze tra diverse etnie. Ecco una cronologia della storia e dei conflitti degli ultimi decenni nel paese.
  • Nei primi anni dopo l’indipendenza, ottenuta nel 1962, il potere è in mano all’etnia dei tutsi, che rappresentano il 14 per cento della popolazione. Gli hutu sono l’85 per cento della popolazione (10,5 milioni di abitanti nel 2013). 
  • Nel 1973 una sommossa degli hutu contro i tutsi innesca una rappresaglia che provoca 200mila morti. 
  • Nel 1976 un colpo di stato porta al potere Jean-Baptiste Bagaza, che nel 1987 viene rovesciato da Pierre Buyoya. Sono entrambi tutsi. 
  • L’assassinio del primo presidente hutu, Melchior Ndadaye, nell’ottobre del 1993, in un tentativo di colpo di stato fomentato da militari tutsi, è seguito da nuovi massacri. Scoppia la guerra civile tra l’esercito, guidato dall’etnia tutsi, e i ribelli hutu. 
  • Il successore di Ndadaye, Cyprien Ntaryamira, viene ucciso nell’aprile del 1994
  • Nel luglio del 1996 un colpo di stato riporta al potere Pierre Buyoya, che avvia i negoziati con l’opposizione e l’esercito. Nel 2000 viene firmato un accordo di pace ad Arusha, in Tanzania, ma i due principali movimenti ribelli si rifiutano di firmare. 
  • Il paese si dota di una costituzione che stabilisce delle quote tra le etnie all’interno delle istituzioni politiche, amministrative e militari. Il 19 agosto 2005 l’ex capo ribelle hutu, Pierre Nkurunziza, viene eletto presidente dal parlamento. È l’unico candidato in questo primo scrutinio dal 1993. Il suo partito, il Consiglio nazionale per la difesa della democrazia-Forze per la difesa della democrazia (Cndd-Fdd), era il principale gruppo ribelle e aveva deposto le armi alla fine del 2003. 
  • Nel 2006, il governo e le Forze nazionali di liberazione (Fnl) firmano un cessate il fuoco. La guerra civile, durata dal 1993 al 2006, ha fatto circa 300mila morti, in gran parte civili. 
  • Le tensioni tra l’esercito e le Fnl continuano e tra aprile e maggio del 2008 gli scontri provocano almeno cento vittime. A maggio le due parti firmano un nuovo cessate il fuoco. 
  • Il 28 giugno 2010 Nkurunziza viene rieletto in un voto boicottato dall’opposizione, che denuncia frodi. Il voto è seguito da tensioni e violenze. Il governo è accusato di reprimere la libertà d’informazione e politica. 
  • Nel 2014 la crisi politica si acuisce. Il 5 febbraio tutti i ministri del principale partito tutsi lasciano il governo, dominato dal Cndd-Fdd, in conflitto con il presidente Nkurunziza, accusato di reprimere il dissenso. A marzo diversi sostenitori dell’opposizione sono condannati all’ergastolo per avere partecipato a una manifestazione illegale. 
  • Il 15 aprile 2015 l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani avverte del pericolo di “violenze e intimidazioni” in vista delle elezioni comunali, legislative e presidenziali previste per maggio e giugno. 
  • A metà aprile cominciano le manifestazioni dell’opposizione e della società civile contro la probabile candidatura del presidente Pierre Nkurunziza per un terzo mandato. L’articolo 96 della costituzione prevede che il capo di stato sia eletto a suffragio universale diretto “per un mandato di cinque anni rinnovabile una volta”. 
  • Il 25 aprile il Cndd-Fdd designa Nkurunziza come candidato alle elezioni del 26 giugno. L’opposizione e la società civile convocano manifestazioni pacifiche, nonostante il divieto del governo. I manifestanti si scontrano con la polizia e con l’ala giovanile del Cndd-Fdd, chiamata Imbonerakure, definita “milizia” dalle Nazioni Unite. Le proteste continuano i due giorni successivi. La principale radio indipendente del paese, Radio publique africaine (Rpa), viene chiusa e Pierre-Claver Mbonimpa, attivista per i diritti umani e figura di spicco della società civile, viene arrestato e poi scarcerato.

Intervista al Prof. Andrea Riccardi: Islam, migranti e integrazione

Europinione
Europinione, in collaborazione con Cultura Democratica, è lieta di intervistare il Prof. Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, Presidente della Società Dante Alighieri e già Ministro per l’integrazione e la cooperazione internazionale del Governo Monti

Andrea Riccardi
L’attuale scenario geopolitico internazionale non può più prescindere dalla minaccia terroristica di ispirazione islamica fondamentalista. I recenti avvenimenti, da Parigi alla Siria, dalla Nigeria all’Iraq, ci spingono a chiederci come possa un credo religioso indurre dei gruppi terroristici a sviluppare strategie volte al massacro di innocenti in nome del proprio Dio. Di base, o almeno in via superficiale, la distorsione di un pensiero religioso può dare una spiegazione. Tuttavia, non crede che questo aspetto possa essere inteso come fattore aggregante di un movimento teso a respingere la presenza culturale, economica e politica dell’Occidente in Africa e Medio Oriente?

In primo luogo direi che il terrorismo di cui stiamo parlando non è l’Islam, anche se si propone di esercitare un’egemonia sui musulmani rifacendosi all’antica immagine del Califfato. E’ soprattutto un movimento di potere con ambizioni territoriali, in Siria, Iraq e Libia, con minacce che si allargano verso l’Europa. La radice del terrorismo non è la religione, ma l’uso ideologico che se ne fa. Trova terreno fertile a volte in Europa tra gli immigrati di seconda generazione, come è accaduto ad esempio a Parigi, in cui giovani musulmani delle banlieue, cittadini francesi, hanno scelto il fanatismo. Le periferie delle megalopoli europee, ma anche italiane, sono diventate un detonatore di violenza, una mina che va disinnescata andando alle origini del disagio sociale.
A seguito degli attentati di Parigi, si è avuta una forte reazione da parte dei rappresentanti della comunità islamica, soprattutto di condanna nei confronti di Al-Qaeda e dello Stato Islamico. Secondo Lei, su quali basi è possibile avviare un solido dialogo tra le religioni monoteiste?

Nel cuore di ogni fede c’è la consapevolezza che il nome di Dio è pace. Al centro delle tradizioni religiose c’è il valore dell’uomo, la fraternità, il rispetto del creato. La reazione di qualificati esponenti delle comunità islamiche di fronte alle atrocità dell’Is, cui lei accenna, conferma che non siamo di fronte ad uno scontro fra Occidente e Islam, ma a una interpretazione fanatica e falsa dell’Islam che tenta di imporsi con la forza. Non va dimenticato che il terrorismo colpisce in egual misura, se non superiore, popolazione musulmana innocente.

La storia ci insegna che, già al tempo delle conquiste dei Califfi dopo la morte di Maometto, i conquistatori arabi instauravano rapporti di tolleranza verso i cristiani sottomessi, ai quali era permessa la libertà di culto dietro il pagamento di un tributo alle autorità. In effetti, anche il Corano ricalca in gran parte gli insegnamenti del Vangelo, in particolare la condanna dell’omicidio. Come è possibile che, dopo quasi mille anni, il rapporto di tolleranza e convivenza sia arrivato ad uno scontro frontale anche sul piano dogmatico?

Certamente nei secoli i cristiani hanno vissuto nei paesi a maggioranza musulmana. Il Corano, infatti, chiede rispetto per le “religioni del Libro”, ebraismo e cristianesimo. Certamente periodi di tolleranza si sono alternati a conflitti, in alcuni frangenti sfociati in guerra aperta. Oggi assistiamo ad un fenomeno nuovo e allarmante: il progetto di uno Stato totalitario musulmano, che rifiuta le minoranze e predica, anche con azioni violente, la cancellazione di ogni traccia di cristianesimo, così come distrugge monumenti di un passato ricco di cultura, patrimonio dell’umanità. In questo difficile momento le religioni hanno un ruolo, che può essere importante.

La Santa Sede ha sempre cercato il dialogo con i rappresentanti dell’Islam e dell’Ebraismo. Se in passato, soprattutto nel XX secolo, il confronto era volto ad ostacolare l’ideologia comunista, ritiene che questa sfida sia la nuova frontiera delle relazioni internazionali del Vaticano?

La Chiesa di papa Francesco non presidia frontiere, non eleva argini, ma costruisce ponti che mettano in comunicazione uomini e donne, comunità, culture. All’interno del suo progetto Papa Francesco dà un luogo importante al dialogo, anche con le religioni dei figli di Abramo, soprattutto per promuovere la pace.

Ponendo lo sguardo sul contesto politico italiano in materia, come bisogna considerare i partiti che strumentalizzano le vicende internazionali per scatenare un sentimento di avversione, se non di xenofobia, verso gli immigrati che arrivano in Italia attraverso il drammatico viaggio nel Canale di Sicilia? Ritiene che il nostro Paese sia dotato di un forte sentimento di accoglienza verso chi scappa dalla guerra e dalla fame, o c’è il rischio che sia predominante un sentimento di rifiuto?

Strumentalizzare a fini elettorali il tema dell’immigrazione è a mio parere un grave pericolo per il nostro Paese. Prima di tutto è un segno di quella “globalizzazione dell’indifferenza” denunciata da papa Francesco, che non tiene conto dei drammi umani che i profughi portano con sé e soprattutto chiude gli occhi sulle centinaia di vite perse nel Mediterraneo. Penso anche che soffiare sul fuoco dell’intolleranza e della paura verso lo “straniero” possa essere all’origine di una corrente xenofoba che percorre in qualche modo l’intera Europa con espressioni di violenza che contraddicono in profondità la cultura del nostro continente. Inoltre si tratterebbe di una politica miope, che riduce ad una emergenza quello che invece è un fenomeno globale, complesso, che va culturalmente compreso e politicamente governato. In molti casi non si è voluto capire che una politica di integrazione coraggiosa e lungimirante fa parte dell’interesse nazionale.

La Sua esperienza come Ministro per l’integrazione e la cooperazione nel Governo Monti aveva posto le basi per una nuova politica sociale nei confronti degli immigrati e delle fasce maggiormente disagiate della popolazione. Ritiene che la strada sia stata percorsa in avanti o c’è ancora troppa disattenzione, per non dire superficialità, su questa materia da parte delle Istituzioni?

Credo che, rispetto al fenomeno migratorio nel nostro Paese e in Europa, c’è stata in questi anni una colpevole sottovalutazione. La strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013 aveva provocato un sussulto delle coscienze europee e, in Italia, aveva dato luogo all’operazione “Mare nostrum” che ha contribuito a salvare molte vite umane. La sua sostituzione con l’operazione “Triton” non si è rivelata una scelta adeguata alla gravità della situazione. Rafforzare, inoltre, la cooperazione economica con gli Stati africani per creare condizioni di sviluppo in loco potrebbe contrastare quest’esodo di giovani, spesso formati professionalmente, che rappresentano una vera emorragia che impedisce la crescita dell’Africa.

La Comunità di Sant’Egidio opera da decenni sia nell’accoglienza e la cura degli “ultimi”, nelle periferie e nei quartieri difficili, sia sul piano internazionale in un processo di pacificazione delle zone maggiormente a rischio e troppo spesso oscurate dai riflettori dei media e dall’opinione pubblica internazionale. È possibile lavorare o operare in un contesto dove la differenza religiosa è motivo di scontro? Oppure si può confidare in un sentimento di pace che travalichi il culto dei singoli popoli?

Non è possibile riassumere in poche battute l’attività a favore della pace di Sant’Egidio. Si tratta di una particolare forma di “diplomazia informale”, che opera in diverse aree di crisi in cui quella ufficiale è in difficoltà: dal Mozambico al Guatemala, dalle Filippine, al Malawi, al Centrafrica. Potrei dire che l’umanesimo pacificatore di Sant’Egidio si riassume nella frase “la pace è sempre possibile”. Partendo dal principio che il dialogo è la via maestra, anche le religioni possono dare un contributo determinante alla soluzione dei conflitti.
di Luca Tritto

Negli USA cala il consenso per la pena di morte. Solo 20 % vuole esecuzione Tsarnaev

Internazionale
Secondo un sondaggio del Boston Globe, anche se la maggioranza degli abitanti del Massachusetts è favorevole alla pena di morte, solo il 20 per cento è favorevole alla condanna capitale per Dzhokhar Tsarnaev, il giovane condannato per l’attentato alla maratona di Boston.

Molti intervistati spiegano che “Tsarnaev non merita una morte rapida: dovrebbe passare il resto dei suoi giorni in una cella senza finestre”, ma un’inchiesta del Pew Research Center rivela che nel paese il consenso verso la pena di morte è in calo: è al livello più basso degli ultimi quarant’anni.
Percentuale delle persone favorevoli o contrarie alla pena capitale per chi ha commesso un omicidio.
Fonte: Pew Research center

Ungheria, Orban: "Rimettere la pena di morte all'ordine del giorno"

La Repubblica
Il premier sfida ancora l'Unione europea inseguendo l'ultradestra sui temi della sicurezza e dell'ordine: "L'attuale legislazione non è abbastanza dissuasiva"


Berlino - "La questione della pena di morte deve essere rimessa all'ordine del giorno". Sembra incredibile, eppure a parlare così è il capo del governo di un paese membro dell'Unione europea, dove la pena capitale è assolutamente vietata da ogni trattato in ciascuno dei ventotto paesi membri della Ue. E non si fatica a indovinare di chi stiamo parlando: è il primo ministro nazionalpopulista ungherese, Viktor Orbàn.

Bisogna lanciare un dibattito sul tema, ha aggiunto Orbàn citato da Agence France Presse, Bloomberg e dalle altre grandi agenzie di stampa libere internazionali. Secondo il premier magiaro, l'attuale legislazione penale ungherese "non è abbastanza dissuasiva". Affermazione durissima, tenuto conto che secondo la Ue è una delle legislazioni più repressive nel Vecchio continente, con la pena del carcere a vita non riducibile.

Orbàn ha parlato indirettamente a favore della pena capitale reagendo al dibattito e all'emozione suscitati dall'assassinio di un povero negoziante, ucciso da criminali durante una rapina nella città di Kaposvàr. Ma il fatto politicamente più rilevante, oltre alla chiara, ennesima sfida dell'autocrate di Budapest a norme, trattati e valori costitutivi dell'Europa, è che con questa sua presa di posizione egli si avvicina alle idee del partito di ultradestra Jobbik, all'opposizione ma ormai seconda forza politica nazionale, partito chiaramente antidemocratico, razzista, antisemita, nostalgico.

Da quando andò al potere vincendo le elezioni nell'aprile 2010 contro un corrotto e inefficiente governo di sinistra, Orbàn ha sempre promesso di fare tutto per arginare Jobbik e sottrargli consensi. Ma da allora ad oggi, il partito ultrà è cresciuto fin quasi al 22 per cento dei voti. E sempre più spesso allora il premier e la Fidesz, il suo partito in crisi di consensi, cercano di cavalcare a modo loro slogan e proposte di linea dura 'legge e ordine' mutuandole dalle idee di Jobbik. Orbàn ha anche chiesto una linea più dura contro l'immigrazione.

Nei suoi cinque anni al potere, il premier euroscettico e nazionalpopulista ha severamente limitato la libertà di stampa, ha di fatto abolito l'indipendenza di banca centrale, magistratura, corte costituzionale, ha ridotto al minimo i poteri del Parlamento. E sul piano internazionale ha stretto ottimi rapporti con la Russia. Di Putin e di Erdogan, egli ha affermato pubblicamente più volte, gli piace l'idea e lo stile di direzione politica del paese, diverso dalla "democrazia liberale che non funziona". In Ungheria la pena di morte era in vigore sotto la dittatura comunista, fu poi abrogata dopo il 1989 con l'instaurazione della democrazia. Una sua reintroduzione farebbe rischiare al paese la cacciata dall'Unione europea, da cui Budapest riceve ingenti aiuti come fondi di coesione.

Pakistan: Amnesty International; da reintroduzione pena di morte uccisi 100 detenuti

La Presse
Le autorità del Pakistan hanno raggiunto un "traguardo vergognoso" portando a termine la centesima condanna a morte dopo l'annullamento della moratoria della pena capitale, deciso lo scorso dicembre in seguito all'attacco a una scuola di Peshawar. 

È la denuncia di Amnesty International, contenuta in un comunicato pubblicato sul proprio sito web. "Raggiungere un traguardo così vergognoso in soli quattro mesi dimostra che le autorità pakistane non hanno alcun rispetto per la vita umana", ha detto David Griffiths, vice direttore di Amnesty per l'area dell'Asia-Pacifico. "Inoltre, in molti casi, le sentenze dei giudici pakistani non soddisfano i requisiti minimi stabiliti dal diritto internazionale", ha aggiunto.

La centesima condanna a morte eseguita è stata quella di Munit Hussein, a cui era stata inflitta la pena capitale per avere ucciso suo nipote e sua nipote. Il Pakistan aveva introdotto la moratoria nel 2008, ma ha disposto il suo annullamento parziale dopo l'attacco talebano a una scuola di Peshawar, in cui morirono 148 persone, 132 delle quali bambini. In seguito la moratoria è stata annullata completamente, il che ha permesso al governo di eseguire la condanna a morte nei confronti di qualunque tipo di detenuto. "I crimini gravi come l'omicidio o il terrorismo sono totalmente riprovevoli, ma uccidere in nome della giustizia non ha alcun effetto dissuasivo", ha detto ancora Griffiths, sottolineando: "Chi commette questi crimini deve essere giudicato in processi equi, senza che si ricorra alla pena di morte".

martedì 28 aprile 2015

Indonesia, fucilati otto stranieri e un indonesiano: condannati a morte per droga

TGCom24
Le persone giustiziate sono l'indonesiano, Zainal Abidin, gli australiani Andrew Chan e Myuran Sukumaran, il brasiliano Rodrigo Gularte, i nigeriani Sylvester Obiekwe Nwolise, Raheem Agbaje Salami e Okwudili Oyatanze, e il ghanese Martin Anderson.


Per ora salve una filippina e un francese - La nona persona condannata a morte, la filippina Mary Jane Fiesta Veloso, è stata graziata perché scagionata da una donna che si è consegnata alla polizia confessando di averla assoldata come "corriere" e di essere quindi lei colpevole di traffico di droga. Mentre il francese Serge Atlaoui, per il quale si è mobilitato il presidente Francois Hollande, è in attesa del verdetto della Corte Suprema sul ricorso presentato.

I nove detenuti avevano ricevuto lo scorso weekend la notifica delle 72 ore dalla fucilazione. L'indicazione dell'orario preciso per l'appuntamento col plotone di esecuzione di 12 componenti è stata data delle autorità solo all'ultimo per evitare proteste al porto di fronte all'isola-penitenziario di Nusakambangan.

Dato anche il peso diplomatico della vicina Australia, che con l'Indonesia intrattiene abitualmente relazioni amichevoli e cooperative, i casi che hanno fatto più rumore sono quelli di Andrew Chan e Myuran Sukumaran, i due leader della gang dei "nove di Bali" arrestati da giovanissimi nel 2005 all'aeroporto della meta turistica (meta classica dei giovani australiani) con otto chili di eroina. In patria, per salvarli si erano mobilitate anche delle celebrità, rinnovando gli appelli al governo di Canberra per una missione in extremis; la ministra degli Esteri Julie Bishop aveva anche minacciato conseguenze diplomatiche in caso di mancata grazia, iniziando dal ritiro dell'ambasciatore.

Il brasiliano Rodrigo Gularte (42 anni) aveva problemi mentali. Chan (31) si era sposato con la fidanzata indonesiana, e anche Sukumaran (34) era descritto come un uomo cambiato; aveva detto inoltre di voler affrontare il plotone senza essere bendato. Mentre i due australiani avevano ancora in scaletta un'ennesima udienza di appello il 12 maggio, che però non ha avuto il potere di fermare la procedura. La prospettiva di un peggioramento delle relazioni diplomatiche non ha ammorbidito Widodo, eletto la scorsa estate paradossalmente con la fama di "buono" venuto dal basso in un'Indonesia dalle tradizioni autoritarie, che ha giustificato la sua linea dura parlando della droga come "emergenza nazionale", citando statistiche considerate dubbie dagli esperti e intensificando presto la frequenza delle esecuzioni, riprese dal 2013 dopo una moratoria di quattro anni ma in passato ben più rare. A gennaio Widodo non ha fermato l'esecuzione di sei trafficanti, di cui cinque stranieri, complicando le relazioni in particolare con Olanda e Brasile. Ma stavolta, rischia rotture ben peggiori. E nel braccio della morte rimangono altri 64 detenuti (in gran parte stranieri) per traffico di droga, per cui il presidente ha già escluso la grazia.

Yemen, scontri a Aden e bombe su Sana’a, migliaia di sfollati in fuga

MISNA
Proseguono a Aden nel sud dello Yemen i combattimenti tra ribelli houthi e militari dell’esercito rimasti fedeli al presidente Abd al Rabbo Mansur Hadi. Lo riferiscono fonti concordanti secondo cui negli scontri sarebbero morte almeno 20 persone tra cui dei civili.
Sulla capitale Sana’a intanto, nelle mani dei ribelli dallo scorso settembre, continuano i bombardamenti della coalizione internazionale a guida saudita che nelle ultime ore avrebbero colpito una base militare utilizzata talvolta dalla guardia repubblicana dell’ex presidente Ali Abdallah Saleh.

Aerei da combattimento avrebbero bombardato inoltre postazioni dei ribelli nelle provincie di Mareb, Hodeida e Taez, dove sono segnalati anche scontri a fuoco.

Il portavoce delle forze armate ribelli, Sharaf Luqman ha accusato l’Arabia Saudita di “crimini di guerra” e di aver inaugurato “una nuova fase dell’offensiva invece di fermarla”, come annunciato da Riad la scorsa settimana.

Intanto, sul piano umanitario, la crisi si aggrava e secondo gli ultimi dati Onu sono già più di 150.000 i civili sfollati a causa delle violenze nel paese. “È così difficile muoversi con 6 bambini, continuiamo a spostarci da una casa famiglia all’altra, il nostro appartamento è stato completamente distrutto” racconta uno sfollato di Sana’a al quotidiano Yemen Times: “Immaginate la vostra casa l’unico posto in cui ci si sente al sicuro distrutta. Ogni cosa, che si è lavorato duramente per comprare, tutto andato”.

[AdL]

South Africa: Foreigners Targeted in Massive Police Raid

Al Jazeera
South African police have arrested 50 ‘undocumented foreigners’ in a massive stop and search operation in two areas in Johannesburg on Monday, authorities have told Al Jazeera.
“About 50 people were arrested for being without valid documents in the country,” Gauteng police Spokesperson Lieutenant Colonel Lungelo Dlamini said.

The South African Police Services were joined by members of the South African Defence Force (SANDF), and immigration officials during the raids in Mayfair and Hillbrow.

“It was a stop and search operation…It was a normal, crime prevention operation,” Dlamini said. Earlier in the morning, local media reported the presence of up to 100 officials, including police officers in the vicinity.

Rising anti-immigrant sentiment

The fate of the arrested immigrants now depends on whether they can prove themselves to have been in the country legally.

“Immigration officers are processing those who are arrested, and will ascertain who exactly is illegal, or not and from there, they will be taken to the Lindela repatriation centre, in order to be deported,” Dlamini said.

Monday’s raids come one week after President Jacob Zuma deployed members of the South African National Defence Force to quell violence in areas of the country that have suffered from experienced anti-immigrant turmoil.

At least eight foreigners are said to have been killed in the last four weeks, as violence spread from the seaside city of Durban to Johannesburg.

The SANDF refused to be drawn into commenting about the operation.

“The police determines which areas need to be dealt with. As you know, we are just a support system for the police,” Siphiwe Dlamini, SANDF spokesperson was quoted to have said in local media.

The raids on Monday came after rumours that foreigners in the city have been arming themselves in preparation for any further violence.

However police spokesperson Dlamini said no illegal weapons were found during the raids in Hillbrow and Mayfair.

Immigrants in Mayfair reacted with panic and confusion at the sight of police and army shoring off streets in the suburb to conduct its stop and search operation.

Unsettled

One foreign national, Ahmed Fifa,who took refuge in Mayfair after being displaced from the Ramaphosa informal settlement east of Johannesburg 10 days ago, said the arrival of the police and army had left the community feeling unsettled.

“People became afraid because they have problems from the police before,” he said.

Researchers too said they were concerned by the inclusion of the army on such raids.

“Soldiers on the streets suggests that government is using very heavy force,” Gareth Newham, the Head of the Governance, Crime and Justice Division at the Institute of Security Studies (ISS) in Pretoria said.

“This is not a sight you want to see in a democracy.”

In Mayfair, however, some foreign nationals said the presence of the army had actually deterred the police from the type of abuses usually associated with operations in these areas.

“The way they dealt with this operation was different,” said Abdullah Hasan Ahmed, a 37-year-old resident of Mayfair.

He says that police who usually raid foreigners in Mayfair demand to see documentation from foreigners without understanding the type of documents refugees hold in South Africa.

“There are a lot of people here who don’t have identification documents because they have not been given these documents despite living here for years, they are not helped and then police come asking for documents and they don’t even know what documents to look for.”

Completely legal

The legality of Monday’s raids have been questioned by some commentators but experts say the police acted within the remit of the law. ISS researcher Newham said it was not unusual for South African security forces to be targeting foreign nationals.

“Studies have shown that at least one third of police time is spent targeting foreign nationals, to find whether they are here legally or not,” Newham said.

“This security operation has shown that the objective is not to build relations with other African nationals but rather it was meant to show South Africans that the force of the state, including the military, to identify undocumented nationals.”

Some immigrants, however, welcomed the raid to disprove stereotypes of criminality among foreign nationals living in South Africa.

Abdirizak Ali Osman, the National Secretary of the Somali Community Board of South Africa, said the raid was an opportunity to prove foreigners do abide by South African law.

“We feel the police must come and search each and everyone because there is a lot of misconceptions about crime and drugs in this area, so the police and the army must come here and see how the people are living here, and how they are abiding by the law,” he said.

Police say the stop and search operations will continue in the rest of the city in the coming days.

“These operations are continuing and you will see them in other areas,” Dlamini said.

by Azad Essa and Khadija Patel

Rifugiati quanto fa male la retorica della paura - I veri numeri

La Voce
Gli sbarchi dei richiedenti asilo non erano un effetto di Mare Nostrum. Infatti continuano con l’operazione Triton. È diminuito, invece, il rispetto dei diritti umani. Intanto, riparte la campagna della paura. Mentre i numeri confermano che l’Italia accoglie molti meno rifugiati di altri paesi.

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NUMERI CONTRO LA RETORICA

Campo profughi di Zaatari
Avanza ora una nuova campagna della paura. Come in occasioni precedenti, quando alti esponenti governativi avevano parlato di “tsunami umano”, di esodo biblico, di rapporti dei servizi segreti che annunciavano centinaia di migliaia di profughi pronti a partire, si riparla di porti libici gremiti di nuovi partenti: 500mila, secondo le voci passate alla stampa. Ora in più c’è l’Isis, che caricherebbe a forza i profughi sulle barche per scagliarli contro l’Italia. Come se non ce ne fossero a sufficienza, a seguito dei tanti focolai di guerra tra Africa e Medio Oriente.
Questa macchina allarmistica indirizza gli strali soprattutto contro i trasportatori, i cosiddetti trafficanti di morte: non potendo respingere o affondare le barche, dovendo accogliere chi chiede asilo, si condannano coloro che a pagamento, bene o male, li conducono verso la salvezza. Si dice di voler contrastare il traffico di esseri umani, ma in realtà si vogliono scongiurare gli arrivi dei rifugiati.
Vediamo ora qualche dato, prima di sentirci vittime di un’invasione. Prima di tutto, i flussi migratori complessivi verso l’Italia sono diminuiti, per effetto della crisi economica, e non aumentati, come scritto in più occasioni anche da autorevoli quotidiani: gli ingressi erano più di 400mila all’anno fino al 2009, nel 2013 sono scesi a poco più di 250mila. In ogni caso, i nuovi ingressi regolari (perlopiù dall’Est Europa) sono più degli sbarcati: 178mila nel 2014. E tra coloro che sono arrivati illegalmente via mare, meno di 70mila hanno presentato richiesta di asilo in Italia. Gli altri non sono fantasmi che circolano nell’ombra: hanno oltrepassato le frontiere senza farsi registrare, con la benigna tolleranza delle autorità italiane, per chiedere asilo altrove.

I paesi dell’Europa centro-settentrionale, per non dire della Turchia, accolgono molti più rifugiati di noi: nel 2013, al netto delle nuove domande, 232mila in Francia, 190mila in Germania, 126mila nel Regno Unito, 114mila in Svezia, contro 78mila dell’Italia. 

Se poi allarghiamo lo sguardo, scopriamo che la Turchia, che accoglieva 600mila rifugiati nel 2013, ora ne dichiara oltre un milione; il Libano pure, e ne ha più di 200 ogni mille abitanti (noi poco più di 1, la Svezia 9, Malta 23). Complessivamente, l’86 per cento degli oltre 50 milioni di rifugiati del mondo sono accolti nel cosiddetto Terzo mondo. L’Unione Europea nel suo insieme ne riceve meno del 10 per cento, e ha diminuito la sua quota negli anni. Le retoriche dell’invasione, della guerra ai trafficanti, della lotta ai falsi rifugiati, hanno ottenuto molti più risultati di quanto si pensi, limitando l’adempimento degli obblighi umanitari.

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Maurizio Ambrosini

lunedì 27 aprile 2015

Mille luci contro la pena di morte: mobilitazione promossa da Sant'Egidio in Indonesia per dire no alle esecuzioni

Comunità di Sant'Egidio
Mentre sembrano esauriti i canali di pressione internazionale, la Comunità, insieme ad altre associazioni indonesiane, ha promosso in diverse città iniziative pubbliche perchè siano evitate le esecuzioni previste dal governo
Hanno passato la notte davanti al palazzo del presidente, nel cuore di Jakarta, accendendo mille candele, proprio davanti alla sua porta. E' una delle iniziative che in questi giorni la Comunità di Sant'Egidio, insieme ad altre associazioni indonesiane, ha messo in campo, nell'estremo tentativo di distogliere il governo dall'esecuzione di 10 persone, accusate di traffico di droga. Nelle stesse ore, manifestazioni e veglie si sono tenute in diverse città dell'arcipelago, da Maumere a Yogyakarta, a Medan, davanti a monumenti nazionali, nelle chiese e nelle università.

L'intransigenza mostrata dal governo, anche davanti alle forti pressioni internazionali, non sembra offrire molti spiragli e purtroppo i condannati hanno ricevuto la notifica che le esecuzioni avverranno entro poche ore. Proprio per questo, ancora di più si è moltiplicata l'azione per invitare ad un ripensamento, e dare voce a quella parte dell'opinione pubblica indonesiana che non condivide, anzi rifiuta questa posizione incomprensibilmente dura.

Molti dei condannati sono in prigione da oltre dieci anni. Si tratta spesso di persone povere (come nel caso della filippina Mary Jane) "usate" come corrieri. Due di loro hanno avviato un programma di riabilitazione per altre vittime della droga nella prigione in cui erano detenuti, e lo stesso personale delle prigioni ha parlato in loro favore, consapevoli di umanità che costituiscono un valore.

In una affollata conferenza stampa, tenuta sabato scorso a Jakarta da Sant'Egidio, insieme a Kontras e alle altre associazioni coinvolte, che sono significativamente non confessionali - ovvero raccolgono cristiani e musulmani - è stato rivolto un ultimo appello al presidente Jokowi. (Testo dell'appello in bahasa indonesia)

La mobilitazione continua in questi giorni in tutto il paese: il 28 aprile di fronte al palazzo presidenziale a Jakarta si terrà una veglia di preghiera, con la partecipazione della Conferenza Episcopale Indonesiana KWI.

Veglie di preghiera si svolgeranno anche a Medan, il 27 aprile presso il Convento di Emmaus e il 28 con gli studenti all'università Unimed. Il 28 aprile si terrà una veglia anche a Jogyakarta nella parrocchia di Babarsari. Lo stesso giorno una manifestazione a Kupang vedrà in piazza i cittadini, laici e religiosi, per chiedere a gran voce di fermare le esecuzioni.


Eritrea: in 2.000 scappano ogni mese, l'ex colonia italiana diventata la prigione d'Africa

Corriere della Sera
"Dolce vita": è il marchio di certe camicie che si vendono in Eritrea. A produrle è una ditta italiana. Dà lavoro a oltre 500 persone. Fabbrica ad Asmara, capitale della nostra ex colonia da cui scappano duemila persone al mese, secondo le stime dell'Alto commissariato Onu per i Rifugiati. Una settantina al giorno. Non c'è luogo al mondo che non sia in guerra e che registri un esodo così massiccio e continuato.

Sei milioni di abitanti. Il 20 per cento è già partito. Ma non sempre è arrivato. In 350 sono morti solo nell'ultimo naufragio. Descriverla come una prigione a cielo aperto, la Nord Corea africana del dittatore un tempo marxista Isaias Afewerki, è un luogo comune. Così comune che diventa normale dimenticarselo. Roma è la capitale che, tra mille difficoltà, vanta i migliori rapporti diplomatici con la linda Asmara dove i palazzi ricordano Latina e nei bar ti versano ancora il Punt e Mes in versione africana.

Ragioni storiche, culturali. Il popolo eritreo è meraviglioso. Ma in Eritrea la dolce vita è soltanto il marchio di una camicia. Per questo Almas, 29 anni, è scappata con la figlia. Ha lasciato la sua terra coi genitori quando era piccola. È cresciuta in Sudan, alla periferia di Khartum, ha sposato un connazionale. Quando lui è morto, non sapeva come sfamare la bimba. Girava voce che in Libia si trovasse lavoro. Non sapeva che c'era il caos? "No, non lo sapevo - dice al Corriere. Non avevo scelta".

Il 15 novembre scorso, tratta con dei passeur e parte. "Quando ho superato il confine ho capito che c'era la guerra". I trafficanti la portano ad Agedabia, in Cirenaica. Ma poi le dicono le strada è chiusa, impraticabile: deve andare a Tripoli. Lì trova lavoro come badante: "Ma non si poteva vivere, bombe e spari ovunque, faceva paura". Gli 800 dinari guadagnati li usa, allora, per pagarsi un passaggio in mare, assieme alla figlia. Almas dice che "i veri trafficanti non si vedono", le persone con le quali ha trattato erano "aiutanti", parlavano il tigrigno, forse erano pure eritrei. In mare, racconta, è stata fortunata, un giorno e mezzo di navigazione soltanto, a bordo di un gommone stipato di 200 africani, fino all'Italia, pochi giorni fa. Cosa volete che sia, restare pigiati su un barcone, per chi magari ha sofferto la tortura dell'otto.

Altro nome italiano, come dolce vita. Nella posizione dell'otto, il torturato in Eritrea viene messo a faccia in giù sotto il sole cocente, mani e piedi legati dietro la schiena. Lo racconta al Corriere Mike Smith, al telefono da Sidney. Veterano della diplomazia australiana, ha guidato la commissione d'inchiesta Onu sull'Eritrea istituita dal Human Rights Council: 400 fuggiaschi (gli ultimi scappati dall'Eritrea a febbraio), 140 testimonianze scritte, rapporto finale presentato a Ginevra due mesi fa. La storia che gli è rimasta più impressa è quella di un giovane di 32 anni, che chiameremo Issa, incontrato in un campo profughi in Africa.

"Un giorno i militari sono andati a prenderlo nel suo villaggio". Quel giorno è entrato nel meccanismo infernale del "servizio militare" permanente. Una specialità eritrea per tutti i ragazzi e le ragazze dai 16 anni in su. La generazione dei warsai, cresciuti nell'Eritrea indipendente. Ma non libera. Entri nei campi militari e ne esci vecchio. Prima l'addestramento, poi lavori forzati secondo i voleri degli ufficiali. Agricoltura, infrastrutture Issa ha fatto il bracciante, 7 giorni su 7. Per 10 anni. La sua gioventù, la sua dolce vita.

Una volta ogni quattro anni gli permettevano di tornare a casa. Guadagnava 500 nafka, meno di 10 euro. Finché riceve la lettera della sorella: "Hanno arrestato tuo fratello, torna". Lui va al villaggio, cerca di capire dov'è il ragazzo, perché l'hanno preso. Gli ordinano di tornare al suo posto, se non vuole farsi arrestare. Al campo viene punito. Cinque giorni la tortura dell'otto, un paio di volte al dì gli slegano un braccio per un sorso e un boccone.

Un giorno che è di turno alla frontiera, prova a scappare. Gli va bene. Non gli sparano come succede ad altri. Entra nella schiera infinita dei Segre-dob, "coloro che attraversano il confine". "Quell'uomo è il simbolo dell'Eritrea - dice Smith. Alla fine mi ha chiesto cosa avremmo fatto per lui, ho risposto che potevamo almeno far conoscere la sua storia. "Per me sarebbe già molto", ha sorriso prima di scomparire nella polvere del campo".

Cosa volete che sia, per i Segre-dob come Issa, sopportare i trafficanti di uomini fino alle coste libiche. Lui con "gli schiavisti" è cresciuto a casa sua. Non ha soldi per proseguire l'odissea. Un posto su un barcone forse sarebbe già un miraggio. Un miraggio anche per le 400 persone prigioniere a Misurata, in Libia, da mesi. Soprattutto eritrei. Lo denuncia don Mussie Zerai, riferimento in Europa di tutti i Segre-dob. In 60 viaggiavano verso Tripoli, avevano già pagato 1.600 dollari a testa per arrivare al porto. Scortati dai trafficanti sono stati fermati da un'altra banda, c'è stata una sparatoria (tre eritrei morti).

Gli assalitori si sono accaparrati la "merce umana", portandola in una "prigione" di Misurata. Lì c'è una donna libica che convoca i migranti uno alla volta: se vogliono essere liberati devono pagare altri 2.000 dollari, devono chiamare familiari o amici ai quali vengono date indicazioni su dove spedire il "riscatto". Cinquanta donne sono state portate via e non si sa che fine abbiano fatto. Eccola, la dolce vita degli eritrei prima di incontrare il Mediterraneo. Mario Giro, sottosegretario agli Esteri, dice che il governo italiano fa della questione dei diritti umani una questione centrale nel dialogo con Afwerki. Il regime ha annunciato che ridurrà il servizio nazionale a 18 mesi. La gente non si fida, dice Smith. Asmara dovrebbe fare un gesto concreto, forte, come per esempio cominciare a liberare una parte dei 10 mila prigionieri politici.

di Alessandra Coppola e Michele Farina

Indonesia: Giakarta, esecuzione 9 stranieri entro 72 ore. Saranno fucilati

ANSA
Bangkok - Ignorando la pressione della comunita' internazionale, l'esecuzione di nove stranieri - tra cui un francese e due australiani - condannati per spaccio di droga in Indonesia avverra' entro i prossimi tre giorni. Lo hanno annunciato le autorita' di Giakarta, consegnando ai prigionieri la notifica "delle 72 ore" dalla fucilazione. Delle procedure d'appello presentate rimane in piedi solo quella del francese Serge Atlaoui sulla quale domani si pronuncera'la Corte Suprema.
La Francia che ha minacciato conseguenze diplomatiche.

I detenuti - tre nigeriani, due australiani, una donna filippina, un brasiliano, un francese, un ghanese e un indonesiano - sono stati condannati negli ultimi dieci anni per traffico di stupefacenti in Indonesia, dove per tale reato e' prevista la pena di morte. Il caso ha complicato le relazioni diplomatiche in particolare con Parigi, Canberra e Manila, dopo che in gennaio la fucilazione di altri cinque detenuti stranieri aveva provocato reazioni diplomatiche da parte dell'Olanda e del Brasile.

La linea dura sul traffico di droga e' stata decisa dal nuovo presidente indonesiano Joko Widodo, dopo che per anni l'Indonesia non aveva portato a termine nessuna esecuzione.

Widodo ha definito la questione della droga "un'emergenza nazionale", citando statistiche secondo cui ogni giorno nel Paese 40 indonesiani muoiono per le conseguenze del consumo di stupefacenti.

Gli ucraini preferiscono il carcere piuttosto che andare in guerra nel Donbass

Sputnik News
Le autorità di Kiev non riescono a spiegare alla popolazione per quale motivo c'è una guerra nel Donbass. I cittadini che sono stati richiamati nell'esercito temono per la propria vita e sono alla ricerca di modi per disertare o eludere la mobilitazione, scrive il “Washington Post.
Gli ucraini preferiscono la detenzione in carcere per eludere il servizio militare piuttosto che prendere parte ai combattimenti nell'est dell'Ucraina, scrive il "Washington Post".
"Mi farò 3 anni di carcere, dove mi daranno da mangiare e sarò sicuro di non arruolarmi. Questo governo è al potere da 1 anno, ma abbiamo ancora bisogno di lavorare 2 giorni per comprare una pagnotta di pane. Io non voglio combattere per questo governo,"
— il "Washington Post" riporta le parole del 26enne metalmeccanico Andrej di Slavyansk, che è stato richiamato a marzo.
"Abbiamo combattuto per l'indipendenza e per il diritto di vivere e lavorare nella propria regione. Quando è arrivato l'esercito, ci ha bombardato per 2 mesi di fila: adesso devo andare a combattere per loro? Non ci penso nemmeno,"
— conclude Andrej.

Anche quegli ucraini che hanno preso parte alle proteste di Maidan alla fine del 2013 e all'inizio del 2014 non vogliono arruolarsi nell'esercito perché temono per la propria vita.
"Ho da tempo deciso che non risponderò alla chiamata. Non sono assolutamente interessato a prendere parte a questo conflitto. Non voglio riempire la lista delle vittime,"
— il "Washington Post" cita le parole del 25enne Igor, attivista di una ONG a Kiev.
"Non capiamo perchè stiamo combattendo, il governo non dice alla gente lo scopo di questa guerra",
— vengono citate le parole di Alexey Arestovich, il quale rileva che anche dopo oltre 1 anno ancora oggi le autorità si rifiutano di definire ufficialmente il conflitto nel Donbass con la parola "guerra".

Pakistan - Uccisa attivista dei diritti umani Sabeen Mahmoud

Internazionale
A Karachi, in Pakistan, è stata uccisa l’attivista per i diritti umani Sabeen Mahmoud.


Due uomini armati a bordo di una moto hanno assassinato con cinque colpi d’arma da fuoco Mahmud, mentre stava uscendo da un bar a bordo della sua auto. La madre della donna, che l’accompagnava, è rimasta ferita. L’attivista aveva appena tenuto un seminario sulla situazione degli attivisti nella provincia del Belucistan, dove l’esercito pachistano combatte contro un gruppo di ribelli separatisti. Mahmud aveva denunciato la scomparsa e la probabile uccisione di alcuni attivisti politici.

Sabeen Mahmud, 30 anni, dal 2007 dirigeva l’associazione The second floor, impegnata nella tutela dei diritti umani. Aveva lanciato nel suo paese la prima maratona hacker per sviluppatori di software, grafici e programmatori.

    domenica 26 aprile 2015

    Intervista Ban Ki-moon: «In Libia sbagliato colpire i barconi: aiutiamo i profughi»

    Il Secolo XIX
    Roma - «Non esiste una soluzione militare alla tragedia umana che sta avvenendo nel Mediterraneo». È il primo messaggio che il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, manda all’Italia e all’Europa, che pensano di bombardare i barconi in partenza dalla Libia. Il secondo, in questa intervista alla vigilia della visita a Roma, che lo porterà domani dal premier Renzi e martedì da papa Francesco, è diretto invece ai Paesi che frenano sull’accoglienza: «Sono cruciali canali legali e regolari di immigrazione».


    Al Consiglio europeo di giovedì sono state varate alcune misure per affrontare la crisi dei migranti, e l’Italia vorrebbe distruggere i barconi prima della partenza. L’Onu è pronta a dare l’autorizzazione legale per simili azioni?
    «Sono a conoscenza di queste notizie, ma tale dibattito sottolinea come il Mediterraneo stia diventando rapidamente una mare di miseria per migliaia di migranti, e l’urgenza di affrontare la loro situazione disperata. Il focus principale delle Nazioni Unite è la sicurezza e la protezione dei diritti umani dei migranti e di coloro che chiedono asilo. È cruciale che la concentrazione di tutti sia su salvare le vite, inclusa l’area libica delle operazioni di ricerca e soccorso, che è quella da cui vengono la maggioranza delle richieste di aiuto. La sfida non riguarda solo il miglioramento dei soccorsi e dell’accesso alla protezione, ma anche assicurare il diritto all’asilo del crescente numero di persone che in tutto il mondo scappano dalla guerra e cercano rifugio. I loro viaggi sono carichi di rischi, inclusa la discriminazione, la violenza e lo sfruttamento, e hanno bisogno della nostra protezione nella loro ora di maggior necessità.
    Non c’è una soluzione militare alla tragedia umana che sta avvenendo nel Mediterraneo. È cruciale un approccio complessivo che guardi alla radice delle cause, alla sicurezza e ai diritti umani dei migranti e dei rifugiati, così come avere canali legali e regolari di immigrazione. Le Nazioni Unite sono pronte a collaborare con i nostri partner europei a questo fine. Ho preso nota delle recenti discussioni su tali temi avvenute nell’Unione Europea. L’intero sistema dell’Onu è pronto a fornire assistenza
    ».

    Azerbaijan: Rasul Jafaroz, uno degli ultimi paladini dei diritti umani nel paese nella “black list” del World Press Freedom Index

    Articolo 21
    L’Azerbaijan occupa il 162° posto su 180 disponibili del World Press Freedom Index. La lista, aggiornata ogni anno da Reporters Sans Frontieres, si basa su una serie di parametri necessari a classificare il “grado di libertà” di ciascun paese. Le ultime 20 posizioni sono riservate agli stati della cosiddetta “black list”, la sezione finale caratterizzata perlopiù da regimi totalitari. Nella descrizione dedicata all’Azerbaijan, gli autori di RSF fanno riferimento a un governo “intento a mettere a tacere le ultime voci indipendenti […] riservando lo stesso trattamento a giornalisti, bloggers e attivisti per i diritti umani”.


    In questo clima di censura e repressione si colloca il lavoro di Rasul Jafarov, avvocato, nonché strenuo difensore delle libertà negate ai propri concittadini. Da anni Jafarov associa al proprio impegno come reporter d’inchiesta, il coordinamento e l’organizzazione di eventi finalizzati a promuovere quei valori soffocati dalle autorità nazionali. Come presidente del “Human Rights Club” (“HRC”, ONG nata nel 2010 la cui registrazione ufficiale è stata più volte rifiutata dal governo), Jafarov ha partecipato attivamente ad iniziative di grande successo quali la “Sing for Democracy” e la “Art for Democracy”, campagne lanciate al fine di salvaguardare la libertà d’espressione di musicisti ed artisti. In occasione dei Giochi Europei in programma a Baku tra il 12 e il 28 Giugno, gli attivisti di HRC avrebbero in programma “Sports for Human Rights”, un’occasione unica per fondere l’etica sportiva con l’affermazione dei diritti umani. Uso il condizionale perché Rasul Jafarov è stato condannato il 16 Aprile a 6 anni e mezzo di carcere. La corte di Baku per i “Crimini Gravi” lo ha infatti imputato di “illegal business”, “tax evasion” e “abuse of power”. Al pari di molti personaggi scomodi al regime, Jafarov dovrà rispondere di capi d’accusa di dubbia attribuzione.

    Thomas Hughes, direttore esecutivo dell’associazione Article19 ha espresso tutto il proprio straniamento nel descrivere la natura dei fatti: “Questa sentenza è una punizione ridicola per l’attività svolta da Jafarov nella difesa dei diritti umani. Il regime autoritario di Baku teme le attenzioni che Jafarov potrebbe attrare durante gli europei di Giugno e il Gran Premio di Formula 1 del 2016”. Article19 si è inoltre schierata con i rappresentanti di “Sport for Rights” non solo nel richiedere l’immediata liberazione di Jafarov, ma anche nella speranza di allontanare quegli esponenti del regime che praticano un’indistinta e sistematica censura.

    Il Press Freedom Index descrive un paese in netto declino: l’Azerbaijan ha perso 2 posizioni rispetto al 2014 e, data l’imminente organizzazione di eventi sportivi di livello internazionale, è lecito attendersi che il regime di İlham Əliyev si servirà di qualsiasi strumento (lecito e non) per mantenere l’ordine. Date queste premesse, sarebbe alquanto inaspettato attendersi una sentenza a lieto-fine nel processo Jakarov, ma, nella speranza di un colpo di scena, tanto vale mantenere il condizionale.

    António Guterres ACNUR: Aprire le porte ai rifugiati, con lo spirito del dopoguerra

    Corriere della Sera
    La tragedia in corso nel Mediterraneo sta mettendo alla prova i valori umanitari occidentali, come mai era accaduto nelle ultime due generazioni. Dall’inizio dell’anno, oltre 1.700 vite umane sono già state perse in mare. Solo questo mese, sono annegate il doppio delle persone che hanno perso la vita in mare nell’intero 2013. La scorsa settimana abbiamo assistito al più drammatico naufragio mai registrato dalla mia organizzazione nel Mediterraneo fino ad oggi.

    È tempo che noi europei abbandoniamo l’illusione di poterci isolare da questa crisi. La prima cosa che dobbiamo fare è riconoscere che si tratta di qualcosa di più di una questione migratoria: molte delle persone che salgono su queste barche sono rifugiati, in fuga da conflitti e persecuzioni. Ciò significa che abbiamo l’obbligo giuridico di proteggerli. Chiedere asilo non è solo un diritto umano universale, è anche un principio politico che ha guidato le nazioni per migliaia di anni ed è alla base stessa dei valori su cui l’Europa moderna è stata costruita.

    PROTEZIONE E GARANZIE
    Alcune persone sostengono che il fatto di lasciar entrare rifugiati e altri stranieri costituisce una minaccia per il nostro modello di vita, ma non è tenendo fuori le persone che gli europei proteggeranno la loro identità. Al contrario, è proprio attraverso il riconoscimento ai rifugiati di protezione e garanzie per il futuro, che noi preserviamo ciò che ci rende veramente come siamo. Per fare questo, dobbiamo prendere una nuova direzione. Le conclusioni del vertice di giovedì a Bruxelles hanno mostrato che l’Europa riconosce la necessità di un’azione collettiva per rispondere alla tragedia in corso ai suoi confini.

    L’Unione Europea deve riavviare immediatamente un’adeguata operazione di ricerca e soccorso, sulla linea di Mare Nostrum, per salvare le persone in pericolo in mare. Il rafforzamento delle operazioni navali congiunte Triton e Poseidon è il benvenuto, e grazie a queste operazioni molte altre vite saranno salvate. Tuttavia, sappiamo per esperienza che il solo controllo delle frontiere non è una risposta a una crisi che coinvolge i rifugiati. La verità è che non possiamo scoraggiare delle persone che sono in fuga per salvarsi la vita. Arriveranno. Possiamo però scegliere se gestire bene il loro arrivo, e con quanta umanità.

    ALLA RICERCA DI ALTERNATIVE LEGALI
    Le nazioni occidentali devono anche impegnarsi nella creazione di ulteriori alternative legali per permettere ai rifugiati di trovare protezione, tra cui un programma ampliato di reinsediamento, schemi di ammissione umanitaria, maggiori opportunità di ricongiungimento familiare, accordi di sponsorizzazione privata, e visti di studio e lavoro. Senza reali canali alternativi, che permettano alle persone di raggiungere la sicurezza, è improbabile che il tanto necessario incremento dell’impegno internazionale nella lotta a contrabbandieri e trafficanti sia efficace.

    Alcune delle più recenti proposte di condivisione delle responsabilità in Unione Europea, tra cui ulteriore supporto ai Paesi che ricevono il maggior numero di arrivi, il ricollocamento di emergenza dei rifugiati tra gli Stati membri, e un progetto pilota che preveda maggiori quote di reinsediamento, rappresentano un punto di partenza. Ma molto di più deve essere fatto. Dobbiamo dividere adeguatamente le responsabilità in Europa, perché un sistema in cui due Paesi — Germania e Svezia — accolgono la maggior parte dei rifugiati non è sostenibile. Non possiamo più far fronte ai nostri obblighi semplicemente finanziando programmi in altri Paesi. Le comunità che ospitano rifugiati in Medio Oriente e Africa sono già sopraffatte. In Libano, ad esempio, più di un quarto della popolazione è attualmente composta da rifugiati. È chiaro che la crisi nel Mediterraneo non finirà fino a quando non saranno affrontate le cause profonde che spingono le persone a fuggire. Ciò implica un impegno reale a risolvere i conflitti in corso in tutto il mondo e a prevenire l’insorgerne di nuovi.

    LA CRISI NON SI NASCONDE, SI GESTISCE
    È necessario inoltre ripensare il modo in cui progettiamo e forniamo assistenza allo sviluppo, e garantire la mobilità umana è parte integrante di questo paradigma. Piuttosto che limitarsi a scaricare il problema sui Paesi più poveri, come quelli di transito in Nord Africa, l’Europa deve aiutare i governi a proteggere più efficacemente i rifugiati e gli altri migranti. Se le nazioni occidentali continueranno a rispondere chiudendo le porte, continueremo a condurre migliaia di persone disperate nelle mani di reti criminali, rendendoci tutti meno sicuri.

    Dopo l’ultima crisi di così ampia portata, alla fine della Seconda guerra mondiale, i leader mondiali trovarono un accordo su un sistema di riferimento per la condivisione delle responsabilità di protezione di chi è costretto a fuggire dalle proprie case. La Convenzione sui Rifugiati del 1951 non ha visto la luce grazie a un idealismo romantico. Dopo anni di conflitto, e con l’instaurarsi di una nuova Guerra fredda, si trattava di un documento profondamente pragmatico. Ciò che avevano allora compreso i leader era che, anche nel peggiore dei casi, la sicurezza arriva non nascondendosi dalla crisi, ma gestendola.

    Solo la solidarietà e una risposta autenticamente collettiva possono fermare la sofferenza su scala globale. Dobbiamo prestare attenzione a quella lezione. Il momento di darsi da fare è arrivato per tutti noi, non solo per quelli che si trovano in prima linea. Dobbiamo trasformare i nostri valori in azioni concrete, poiché i valori a cui rinunciamo quando la situazione si fa più dura, non possono essere nemmeno chiamati valori. È per momenti come questi che abbiamo creato il sistema umanitario. Non dobbiamo abbandonarlo proprio nel momento in cui ce n’è più bisogno.

    di António Guterres, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati

    Libano, campi profughi al collasso con aumento dell'arrivo dei siriani. Sono 1,6 milioni i rifugiati.

    TG3
    Afflusso drammatico di rifugiati in fuga dalla guerra. Infrastrutture deboli e ormai sull'orlo della crisi

    I campi profughi in Libano per i rifugiati palestinesi hanno visto un afflusso drammatico di siriani negli ultimi mesi, ma le loro infrastrutture sono deboli e ormai sull'orlo del collasso. La Mezzaluna Rossa Palestinese continua a fornire ai nuovi profughi servizi sanitari, ma l'organizzazione ha un disperato bisogno di finanziamenti per svolgere il suo fondamentale lavoro umanitario.

    La Federazione Internazionale della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa (FICR) ha attivato un appello di emergenza per sostenere i rifugiati nei paesi confinanti con la Siria per un totale di 27,4 milioni di franchi svizzeri per sostenere i profughi siriani in Libano, Giordania e Iraq fino alla fine del 2013.

    Il campo profughi palestinese di Shatila è uno di quei campi che richiede un sostegno finanziario urgente, poiché la situazione è ormai critica. Shatila si trova alla periferia di Beirut e, secondo il dottor Adel al-Ahmad dalla Mezzaluna Rossa Palestinese, al campo erano sistemati circa 10.000 profughi palestinesi. Con i nuovi arrivati dalla Siria, il numero dei residenti del campo è salito a un valore stimato di 16.000 persone. Altri campi sono stati testimoni di un simile aumento.

    Romano Busdraghi, 82 anni apre la sua casa a 7 profughi: "Ospito i migranti come fecero i miei genitori"

    Il Tirreno
    Venturina: Romano Busdraghi spiega la scelta di aderire al progetto della cooperativa Odissea di Lucca, che gli versa 350 euro di affitto al mese. "Tutta la storia della mia famiglia è segnata dall'emigrazione"
    Quando ha sentito l'appello del presidente Enrico Rossi per l'accoglienza dei profughi dall'Africa, a Romano Busdraghi è risuonato in testa il fragore delle bombe di quando era bambino, durante la seconda guerra mondiale. Si è ricordato di quando, nel podere di famiglia vicino al ponte di Cornia che fu minato dai tedeschi, sua madre e suo padre ospitarono cinque famiglie sfollate da Piombino. Gli è tornata in mente quella bambina con cui divideva il pane: «Ormai sarà vecchietta anche lei».

    Questi ricordi lo hanno aiutato: pochi giorni fa, infatti, ha fatto la scelta importante di ospitare nella sua casa di via Puccini, a Venturina, 7 ragazzi africani sbarcati a Reggio Calabria su un barcone insieme a tanti altri. Hanno tra i 17 e i 21 anni e vengono dall'Eritrea e dalla Somalia. «Per me e mia moglie sono diventati come degli amici: abbiamo regalato loro dieci quaderni, le matite e i libri per imparare l'italiano». Romano Busdraghi ha 82 anni, compiuti da poco, è un signore arzillo che con la moglie Luana possiede un'edicola a Venturina, «la bottega» la chiama lui. «Passano a salutare e a ringraziarci, noi cerchiamo di fare quello che possiamo. Ogni tanto gli diamo anche un po' di schiacciata a metà mattina».

    Parla della sua decisione come se non avesse avuto scelta: «Tutta la storia della mia famiglia è stata segnata dall'emigrazione – racconta - i miei bisnonni arrivarono sulla costa da Firenze con cinque figli e morirono giovani per colpa della malaria; i miei nonni hanno vissuto nell'indigenza per anni. I miei genitori, che erano contadini, trovarono spazio nel casolare dove vivevamo per ospitare gli sfollati da Piombino che veniva bombardata. Io non potevo fare altro che raccogliere l'appello della cooperativa Odissea di Lucca e aiutare questi poveretti che sono scappati dalla fame e dal conflitto».

    Davanti alla casa che ospita i migranti, Romano ricorda i sacrifici fatti per tirarla su: «Incominciammo a costruirla io e mio cognato nel 62 e ci abbiamo vissuto per decenni». Fuori, nel piccolo giardino, ci sono qualche sedia di plastica bianca, il bucato ad asciugare e un paio di scarpe da ginnastica proprio davanti alla porta. «Non possiamo entrare perché ora è casa loro e a me non va di essere invadente». Busdraghi, infatti, l'ha affittata alla cooperativa Odissea per un anno, la quale l'ha affidata ai migranti; riceverà, come canone d'affitto, 350 euro netti al mese.

    Ci raggiunge Giulia Veracini, la psicologa della cooperativa, incaricata di seguire il percorso dei richiedenti asilo: «Sono dei ragazzi davvero in gamba e il loro inserimento, per il momento, è un successo; i vicini li hanno accolti molto bene e loro hanno voglia di farsi accettare: il pomeriggio vanno ai campetti e giocano con i ragazzi del posto. Vogliono solo lasciarsi alle spalle l'orrore della guerra. Stiamo risolvendo tutta la parte burocratica per l'accettazione – dice la psicologa - poi partiremo con un percorso di aiuto e di integrazione sia linguistico che lavorativo». Uno dei ragazzi si avvicina, ha voglia di chiacchierare: «Ça va?” (tutto ok?, ndr); «Ça va. C'è un bel tempo - dice - Dopo andremo a giocare a pallone. Ora però devo andare a comprarmi delle ciabatte nuove, queste le ho pagate 3 euro ma si sono già rotte. Au revoir».

    di Cesare Bonifazi Martinozzi

    Angela Merkel all’attacco: “I grandi paesi dell’UE accolgano più immigrati. Modificare regole Dublino".

    Articolo Tre
    La cancelliera tedesca Angela Merkel ha lanciato un vero e proprio guanto di sfida al primo ministro inglese David Cameron, ma non solo; secondo la stessa Merkel tutti i paesi dell'Unione Europea, specialmente quelli più grandi, devono essere pronti ad accogliere molte più richieste di asilo, da parte di immigrati, rispetto a quello che si è fatto e si sta facendo adesso, soprattutto in base alla loro popolazione e forza economica. 


    L'appello giunge mentre l'Europa intera è alle prese con la crisi dei rifugiati, in crescita nel Mediterraneo, dove centinaia di persone sono morte negli ultimi giorni cercando di arrivare in Italia, dal Nord Africa

    La bordata però arriva dopo che, durante un vertice UE, David Cameron ha ribadito che l'Inghilterra non ha più intenzione di accogliere immigranti, in virtù del fatto che la nazione della Union Jack sta già facendo la sua parte con ingenti aiuti. Ma la cancelliera non è affatto d'accordo, anzi si aspetta che un paese così forte, anche economicamente, faccia molto di più, dichiarando le regole, per quanto riguarda l'immigrazione, di Dublino ormai da rottamare perchè non più funzionali.

    “Le regole di Dublino devono essere modificate” ha detto la Merkel ai colleghi leader dell'UE. “Cinque Stati membri rappresentano i tre quarti di tutti i richiedenti asilo nel quadro del sistema attuale” Secondo quanto dice il regolamento i rifugiati devono chiedere asilo nel primo paese dell'UE in cui entrano, e non possono effettuare una scelta tra gli Stati membri, ma la Germania ha a lungo accusato i paesi meridionali dell'UE di ignorare queste regole, anzi li ha accusati di incoraggiare i richiedenti asilo a proseguire verso altri paesi, tra cui la stessa Germania, che da sempre attira gli immigrati per il suo potere economico. 

    Inoltre la stessa Germania sembra essere fortemente preoccupata dal fatto che le autorità italiane non stiano facendo il massimo per la registrazione di tutti coloro che sono arrivati e che richiedono asilo e di conseguenza che il nostro paese non faccia rispettare le regole sopra citate. Comunque più volte però David Cameron ha ribadito le sue affermazioni; il braccio di ferro continua.

    Russia: amnistia per i 70 anni della vittoria sul nazismo, più di 400.000 i beneficiari

    Il Velino
    Ne beneficeranno circa 400 mila persone. Di queste 60mila, grazie al provvedimento, usciranno dal carcere in anticipo. Approvata oggi all'unanimità dalla Camera alta del parlamento russo la risoluzione che concede l'amnistia, proposta presentata in precedenza dal presidente Vladimir Putin. 

    L'amnistia riguarderà tutti coloro che sono sospettati, accusati e giudicati colpevoli di crimini di lieve e media entità, la cui pena non supera i cinque anni di reclusione. Nella categoria di quelli che potranno beneficiare dell'amnistia sono presenti anche gli invalidi, i soldati in missione ed i genitori di figli minori.

    Secondo le prime stime, a beneficiare dell'amnistia saranno circa 350 mila persone, ed altre 60mila, per effetto del provvedimento, usciranno dagli istituti di pena in anticipo. Stando alle dichiarazioni degli esperti, dopo l'amnistia la Russia dovrebbe occupare il trentesimo posto al mondo per numero di detenuti, rispetto all'ottavo che occupava in precedenza. Attualmente sono circa 600mila le persone detenute nelle carceri russe.

    sabato 25 aprile 2015

    De Blasio, sindaco di New York, no alla pena di morte. La pena più severa sia carcere a vita

    ANSA
    Boia è soluzione sbagliata, pena più severa sia carcere a vita
    New York - Il sindaco di New York, Bill de Blasio, torna a schierarsi 'senza se e senza ma' contro la pena di morte.
    E lo fa dicendo 'no' al boia per Dzhokhar Tsarnaev, l'attentatore della maratona di Boston.
    Per de Blasio in qualsiasi condanna il carcere a vita deve essere la forma più' severa di pena.