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martedì 31 marzo 2020

Coronavirus - “Pieni poteri a Orban”, allarme in Ungheria: sospensione elezioni, carcere per la "disinformazione", nessuna scadenza allo stato di emergenza. E' un golpe!

La Stampa
Il Parlamento approva le contestate misure anti-virus. Anche i nazionalisti di Jobbik: «È un colpo di Stato»

Stato di emergenza a tempo indeterminato, poteri straordinari a Viktor Orbán, sospensione immediata delle elezioni, carcere per chi fa disinformazione sull’epidemia o sul governo. Sono questi i punti salienti del pacchetto di misure anti-coronavirus approvato ieri dal parlamento ungherese (138 voti favorevoli, 53 contrari) che di fatto lascia carta bianca al premier magiaro ultranazionalista: da oggi Orbán potrà governare per decreto, da solo e senza contestazioni.


Respinta con perdite la mozione dell’opposizione che chiedeva di inserire nel testo di legge almeno un limite temporale di 90 giorni allo stato di emergenza. 

La paura è, ovviamente, che il governo non revochi le misure neppure quando la pandemia sarà sconfitta e che la sospensione della normale pratica costituzionale in Ungheria sarà sine die. D’altronde i timori paiono fondati, visto che uno stato d’emergenza legato alla crisi dei migranti, voluto da Orbán nel 2015, è tuttora in vigore.

Vent’anni al potere
La mossa del premier magiaro arriva come coronamento di una strategia cominciata nel 2010, all’indomani delle elezioni (stravinte) che gli hanno consegnato il Paese. Orbán ha gradualmente esteso il suo potere, incurante dei moniti di Unione europea, comunità internazionale e associazioni dei diritti umani, preoccupati della progressiva erosione dello stato di diritto. 

Le nuove disposizioni prevedono in particolare che il premier possa prolungare indefinitamente lo stato di emergenza in vigore dall'11 marzo scorso, a sua discrezione e senza chiedere il voto del parlamento: questo rende possibile la sospensione per decreto di alcune leggi e l'introduzione di misure straordinarie se queste garantiscono la salute, la sicurezza personale e materiale e l'economia. Inoltre chi diffonderà «notizie false» sul virus o sulle decisioni del governo rischia fino a 5 anni di prigione: negli ultimi giorni, sono stati i pochi giornali indipendenti rimasti ad essere accusati dal governo di diffondere informazioni fasulle che potrebbero provocare «disordini sociali» e «impedire la protezione della popolazione».

Mario Giro: "La gente inizia ad avere fame, serve un reddito di emergenza in tempi rapidi. Altrimenti si rischia l’ “assalto ai forni” magari manipolato da mafie e politici senza scrupoli"

Globalist

L'ex viceministro degli Esteri ed esponente di vertice di Democrazia Solidale: "Misure rapide altrimenti si rischia l'assalto ai forni magari manipolato da mafie e politici senza scrupoli.

Alla crisi sanitaria si è affiancata quella economica, sempre più grave. Secondo Mario Giro, ex viceministro degli Esteri ed esponente di vertice di Democrazia Solidale, le misure del governo a sostegno del reddito sono giuste ma rischiano di arrivare troppo tardi. C’è bisogno di mettere in campo mezzi straordinari per accelerare i tempi.

Perché?
Il reddito di emergenza - che noi di Demos sosteniamo decisamente, sia detto per inciso - ha bisogno di alcune procedure di verifica e controllo. La nostra amministrazione pubblica è, già in tempi ordinari, notoriamente un po’ lenta, figurarsi in un momento straordinario come quello attuale. Per questo Demos propone misure quasi automatiche e facili da realizzare in poche ore. Servono nei prossimi 15-20 giorni, ovvero nella forchetta temporale di massima sofferenza prima che sia pagata la cassa integrazione e le altre misure previste. Occorre dare un segnale forte alla gente e raggiungere la platea di chi non viene mai raggiunto: i lavoratori discontinui, i piccolissimi artigiani, baristi, barbieri, banchisti, quelli del sommerso e del lavoro nero. Anche loro devono mangiare. Altrimenti si rischia l’ “assalto ai forni” magari manipolato da mafie e politici senza scrupoli.


Come dare un aiuto immediato ai cittadini in grave difficoltà economica?
Proponiamo una ricarica straordinaria di 500 euro come accredito immediato sui conti di chi percepisce reddito di cittadinanza, assegni e pensioni sociali o di invalidità, Naspi, cassa integrazione e indennità di disoccupazione. Può essere un anticipo in alcuni casi, in altri, come le pensioni più basse, anche a fondo perduto.
Una misura una tantum per superare questo mese. Proponiamo anche un accordo con la grande distribuzione per fare la spesa a credito con autodichiarazione semplice e garanzia del rimborso statale. Invece di rendere i grandi magazzini l’obiettivo dei disperati che li assaltano, facciamone il luogo dove si allevia la sofferenza. 

Non possiamo militarizzare l’Italia: tendiamo la mano a chi ha fame. Se qualcuno ne approfitterà, pazienza. Ma va fatto entro 48 ore, subito. Infine proponiamo il buono acquisto per chi non ha un lavoro regolare e per i più poveri, da compilare online o mediante le associazioni. Una proposta per fare in modo che i 400 milioni messi ieri a disposizione dal governo aumentino e siano facilmente distribuiti.

Lei ha proposto di attivare il cosiddetto Helicopter Money. Cosa vuol dire?
In gergo economico, Helicopter Money sono i soldi che distribuisci a pioggia in un momento di crisi acuta. Chi oggi sostiene che non si vive di sussidi, non sa di cosa parla: la gente inizia ad avere fame. 

Se non si fa qualcosa di rapidissimo, la protesta non si ferma. Se agli occhi di qualcuno 10.000 morti e un lockdown totale di un mese non sono ragioni sufficienti per una forma di sussidio urgente, significa che vive tra le nuvole e non ha mai toccato la povertà umana. 

Inoltre ho proposto l’Helicopter Money anche per le imprese: tra Banca Europea degli Investimenti, Cassa Depositi e Prestiti e Sace, dobbiamo sbloccare almeno 500 miliardi per far ripartire produzione ed economia. Questi soldi possono venire dal mercato, usando le leve della Bei e quelle nazionali della Cdp e della Sace. Se anche la spunteremo sugli EuroBond, sarà già troppo tardi: anche qui bisogna fare in fretta, essere più veloci del riluttante Consiglio europeo.

lunedì 30 marzo 2020

Coronavirus - Africa - Per molti africani sarà impossibile isolarsi dagli altri. Gli slum, i campi profughi, il difficile accesso all'acqua, sistemi sanitari in difficoltà ...

Internazionale
La pandemia di Covid-19 ha già invaso ogni aspetto della nostra vita. Mentre gli ottimisti sperano che la malattia ci costringerà a riflettere sulle disuguaglianze e sugli ostacoli all’accesso alle cure mediche in tutto il mondo, i realisti sono convinti che l’effetto finale sarà quello di aggravare i divari esistenti.
In Africa la crisi non ha ancora raggiunto proporzioni epiche, ma s’intravedono alcune crepe. In Sudafrica, che ha da poco deciso la chiusura totale delle attività con l’obbligo di restare in casa, i lavoratori hanno cercato di evitare il più possibile il contagio anche quando dovevano viaggiare su mezzi pubblici affollati per andare a svolgere impieghi sottopagati, spesso appena sufficienti a garantirgli la sussistenza, mentre le persone più ricche svuotavano i negozi delle grandi catene per accaparrarsi da mangiare e tutta la carta igienica su cui riuscivano a mettere le mani.

In Sudafrica il governo ha proclamato “lo stato di disastro nazionale”tempestivamente, dopo appena sessanta casi confermati di nuovo coronavirus. Anche il Ruanda e il Kenya hanno adottato misure severe subito dopo i primi casi, tra cui restrizioni ai viaggi e divieti di assembramento in pubblico.

La scelta di bloccare le frontiere per frenare la pandemia fa senza dubbio discutere. Il Sudafrica, per esempio, ha dichiarato di voler costruire una recinzione lunga quaranta chilometri sul confine con lo Zimbabwe. La chiusura delle frontiere può contribuire al distanziamento sociale raccomandato dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), ma vale la pena riflettere su come questi provvedimenti possano essere messi in pratica in questi paesi.

Le malattie possono superare con facilità i confini, che sono delle linee immaginarie

Le frontiere nazionali furono tracciate arbitrariamente nell’epoca coloniale ed esistono solo a livello teorico per molte delle comunità che vivono a cavallo di questi confini. Le vediamo su Google maps, ma non impediscono agli scambi commerciali e ai legami familiari che preesistevano al colonialismo di sopravvivere ancora oggi. Si possono chiudere i valichi di frontiera ufficiali, ma non quelli irregolari, sparpagliati lungo centinaia di chilometri di territori, lungo il corso di fiumi e laghi.

Come abbiamo visto con l’epidemia di ebola in Africa occidentale, che è cominciata in Guinea, ma poi ha colpito anche Liberia e Sierra Leone, e con quella di colera scoppiata in Zimbabwe per poi diffondersi in Sudafrica, Botswana e Mozambico, le malattie possono facilmente superare quelle che sono essenzialmente delle linee immaginarie.

Il mito dell’autoisolamento
Conoscendo la realtà sul campo, è curioso che l’Oms e i ministri della salute di alcuni paesi africani raccomandino alle persone di isolarsi volontariamente nelle case se ritengono di essere state esposte al nuovo coronavirus. In Ruanda, per esempio, un uomo arrivato dagli Stati Uniti potrebbe aver infettato la moglie e il fratello, tre dei primi sette casi censiti nel paese. Questo esempio porta a chiedersi: come dovrebbero isolarsi le persone che vivono nella stessa casa?

Gli slum e gli insediamenti informali sono parte integrante di molte città africane. Sono sovraffollati e carenti di servizi anche quando non è in corso un’emergenza sanitaria globale. Ad Alexandra, a Johannesburg, più di 700mila persone vivono in meno di cinque chilometri quadrati; a Mbare, nella capitale zimbabweana di Harare, abitano 800mila persone; Kibera, il più grande slum di Nairobi, ne ospita almeno 250mila e Makoko, a Lagos, conta più di 300mila persone che vivono in palafitte sulla laguna.

Le grandi città sono un problema anche per chi si sposta per andare al lavoro. Chiunque sia rimasto bloccato nel traffico a bordo di un matatu a Nairobi o in un taxi collettivo a Johannesburg con almeno altre dodici persone a bordo sa bene che l’idea del distanziamento sociale tra i pendolari è un mito.

Questi mezzi di trasporto sovraffollati richiedono anche spostamenti e lunghe attese in fila durante le quali un numero ancora maggiore di persone potrebbe essere esposto al contagio

Per chi svolge un lavoro d’ufficio può essere pratico “lavorare da casa”, ma se l’unica fonte di sostentamento della propria famiglia è vendere pomodori o vestiti di seconda mano in un mercato informale di una grande città, come si può pensare di farlo “online”? A quel punto la scelta è tra restare a casa e non potersi permettere di dar da mangiare ai figli, o avventurarsi in città e cercare di cavarsela in qualche modo.

L’Oms raccomanda quindi l’isolamento a chi teme di essere stato esposto al virus. La raccomandazione è non condividere il bagno, il soggiorno o la camera da letto con altre persone. Ma come si fa quando si vive in una casa dove la camera da letto è anche la cucina e il soggiorno, da condividere con una famiglia (a volte allargata)? Queste raccomandazioni sono ancora più assurde se l’unica fonte d’acqua è un rubinetto comune o un pozzo, o se bisogna condividere il gabinetto con una decina di altre famiglie. Questa purtroppo è la realtà di molte persone che vivono ai margini della società.

A volte anche nei quartieri ricchi di molte città africane l’accesso all’acqua è difficile. Da una decina d’anni i rubinetti di Harare sono quasi a secco, eppure raccomandiamo alle persone di lavarsi spesso le mani. La minaccia del nuovo coronavirus ha riportato in primo piano l’importanza dell’accesso all’acqua. Anche se danno certi consigli, i governi e l’Oms conoscono bene le condizioni e le difficoltà che queste comunità hanno sempre dovuto affrontare.

Sistemi sanitari in difficoltà
Si è parlato molto dei sistemi sanitari di molti paesi africani e delle difficoltà che potrebbero incontrare a gestire un virus che si diffonde tanto rapidamente. Ci sono casi di paesi come il Sud Sudan e la Somalia, i cui sistemi sanitari sono praticamente crollati dopo anni di conflitti.

In alcuni paesi nell’area del Sahel – Niger, Burkina Faso e Mali – i conflitti in corso costringono le persone a lasciare le loro case e a vivere in condizioni squallide nei campi profughi. E anche nei paesi dove non si combatte, come l’Uganda e lo Zimbabwe, i programmi di aggiustamento strutturale del Fondo monetario internazionale (Fmi) e della Banca mondiale hanno portato a una continua diminuzione degli stanziamenti pubblici a favore della sanità. La dichiarazione di Abuja del 2001, in base alla quale ogni paese avrebbe dovuto dedicare almeno il 15 per cento del suo bilancio nazionale alla sanità, sta ancora prendendo polvere negli uffici delle autorità sanitarie. Nessuno dei firmatari della dichiarazione ha raggiunto gli obiettivi.

Karsten Noko, Al Jazeera, Qatar

domenica 29 marzo 2020

Uno ebreo, l'altro musulmano: i due paramedici pregano insieme in Israele contro il coronavirus

La Repubblica
"Questa è una malattia che non fa distinzione di religione o di altro genere. Le differenze le metti da parte. Lavoriamo insieme, viviamo insieme"
Uno in piedi con gli occhi a Gerusalemme, l'altro in ginocchio con il volto in direzione della Mecca. Due mondi da contrapposti da decenni riuniti in uno scatto che sta facendo il giro del mondo. Protagonisti dell'immagine sono Avraham Mintz e Zoher Abu Jama, due paramedici del Magen David Adom, il servizio di soccorso sanitario israeliano, immortalati a pregare insieme durante un momento di tranquillità. Per loro nulla di nuovo, per molti un simbolo di speranza che arriva in uno dei momenti più bui della storia umana.
"Cerchiamo di pregare insieme, anziché prenderci dei momenti separati. Abbiamo molte emergenze da affrontare in questo momento", ha spiegato Mintz in un'intervista al New York Times.

Con oltre 3600 casi confermati e una dozzina di morti, l'emergenza da coronavirus inizia a farsi sentire anche in Israele. Con le richieste d'aiuto arrivate anche 100mila al giorno nelle giornate di punta: dieci volte il volume normale. 

 "Il mondo intero sta combattendo contro il coronavirus", ha aggiunto Abu Jama. "Questa è una malattia che non fa distinzione di religione o di altro genere. Le differenze le metti da parte. Lavoriamo insieme, viviamo insieme. Questa è la nostra vita"

La foto, scattata nella città meridionale di Be'er Sheva (o Beersheva) da un loro collega, è stata pubblicata su Facebook e Instagram dallo "Scudo Rosso di David" accompagnata da un messaggio: "Una bellissima foto che mostra come gli israeliani si uniscono in un periodo di crisi". E poi ancora: "Siamo felici che questa potente immagine abbia ispirato le persone in tutto il mondo in questo momento difficile".

Valentina Ruggiu

sabato 28 marzo 2020

Coronavirus - Bergamo - Il gesto del fruttivendolo Sameh: “Dieci anni fa mi avete accolto, ora vi regalo i miei prodotti”

La Repubblica
Nel Bergamasco l'emigrato egiziano espone fuori dal suo negozio ceste di frutta e verdura che chiunque può prendere gratis.

Bergamo - Le ceste di frutta e verdura sono lì sul tavolo, ananas, mele, arance, pomodori, zucchine, melanzane: sono macchie di colore e di speranza, e il messaggio positivo di Sameh diventa una vitamina che fa bene all'anima. 

Nella valle di lacrime bergamasca c'è una bella storia. L'ha scritta, con il suo gesto nobile, Sameh Ayad, 34 anni, fruttivendolo egiziano di Canonica d'Adda. Da qualche giorno Sameh ha deciso di regalare i prodotti del suo negozio a chiunque abbia bisogno: ha messo un tavolo fuori dalla bottega con sopra ceste di frutta e verdura. Chi vuole passa e prende. 

All'esterno del negozio ha appeso un cartello: 
"Dieci anni fa mi avete accolto, ora voglio dirvi grazie. Andrà tutto bene! Se avete bisogno prendete gratis la frutta e la verdura che trovate su questo tavolo". 
Una bella risposta agli haters sovranisti che in questi giorni, dopo avere detto per anni che gli immigrati ci portano malattie, adesso infestano la rete e i social augurandosi che ci siano più contagi tra gli immigrati. Sameh, bergamasco adottivo, rimette le cose al loro posto: con la sua iniziativa dimostra che la migliore arma contro il coronavirus è la solidarietà, aiutarsi gli uni con gli altri, tendere la mano.

"Mi sento in debito con Bergamo - racconta a BergamoNews - per come sono stato accolto nel 2010. Ero senza lavoro e in cerca di fortuna, questa terra è stata generosa con me e io voglio esserlo coi bergamaschi in questo momento di grande sofferenza. Spero, nel mio piccolo, di poter aiutare le persone a stare un po' meglio"

Dice Sameh che in questi giorni tante persone stanno usufruendo del suo servizio: frutta e verdura gratis, lì, a portata di mano, senza intasare pericolosamente i supermercati. "In poche ore tutti i prodotti finiscono, andrò avanti a metterli a disposizione della gente fino a quando questa emergenza sarà finita". 

Prima pizzaiolo, poi commesso in un negozio di frutta a verdura a Fara Gera D'Adda, poi l'apertura dell'attività in proprio. Adesso che gli abitanti di Canonica lo ringraziano e plaudono alla sua idea, Sameh dice che il suo prossimo sogno è quello di portare in Italia moglie e figlie. "Abbiamo avviato le pratiche. Spero che questa guerra contro il virus finisca presto e che possano raggiungermi qui".

venerdì 27 marzo 2020

Covid-19 - Rispondendo all'appello di Guterres (ONU), proclamato il cessate il fuoco nei Paesi in guerra per paura della pandemia. Dallo Yemen alla Siria e dal Camerun alle Filippine

La Repubblica
Dallo Yemen alla Siria e dal Camerun alle Filippine, ribelli e eserciti governativi rispondono all'appello per una tregua lanciato dal Segretario generale dell'Onu, Antonio Guterres. E' uno dei pochi effetti positivi del virus.
Dopo tanti lutti e tanto dolore, un effetto virtuoso il coronavirus l’avrà pur prodotto: la proclamazione di cessate il fuoco in diversi Paesi funestati da sanguinari conflitti, dalle Filippine al Camerun e dallo Yemen alla Siria. 

Lunedì scorso, il Segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, aveva lanciato un appello affinché le parti in lotta facessero tacere i loro cannoni e i loro kalashnikov. La sua invocazione, dicono alcuni funzionari del Palazzo di Vetro, era soprattutto destinata a proteggere i civili delle zone di guerra, i più vulnerali di fronte alla furia del Covid-19. Ma nessuno sperava che le sue parole venissero ascoltate sul campo dai vari belligeranti.

Invece, in un Paese in guerra dopo l’altro, le diverse fazioni ribelli e gli eserciti governativi contro cui combattono sono giunti a un accordo di pace temporanea per difendersi da un’altra aggressione, più subdola e potenzialmente altrettanto mortifera, quella della pandemia virale. 

Ora, secondo una fonte diplomatica che preferisce restare anonima, si sarebbe anche parlato del progetto di una risoluzione tra i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza sull’impatto del coronavirus sulle situazioni di guerra. "Alcuni Paesi dell’Onu hanno pensato a una dichiarazione congiunta per sostenere l’appello di Guterres", ha detto la fonte.

All’origine di quest’operazione ci sarebbe la Francia. Non è un caso se nella notte il presidente Emmanuel Macron ha pubblicato su Twitter la notizia di una “nuova, importante iniziativa” per contrastare la pandemia, concepita durante una sua telefonata con il suo omologo Donald Trump. Tuttavia, tra la Russia che si dice reticente a che il Consiglio di Sicurezza si occupi di sanità e gli Stati Uniti che insistono per imputare la colpa della pandemia alla Cina, l’approvazione di una tale risoluzione appare quantomeno problematica.

Intanto, però, nei teatri di guerra si è subito colta l’opportunità di una tregua. Martin Griffiths, l’inviato dell’Onu nello Yemen, Paese devastato da cinque anni di guerra, ha annunciato le “risposte positive” per un cessate il fuoco e per una pausa umanitaria giunte sia dai ribelli houthi sia dal governo yemenita per meglio lottare contro il coronavirus. 

Lo stesso è accaduto in Camerun, dove i ribelli anglofoni delle Forze di difese camerunensi del Sud (Socadef) hanno proclamato un cessate il fuoco temporaneo. Tre giorni fa, un messaggio analogo è giunto dal Partito comunista delle Filippine, insieme al governo del Paese. E ieri anche le Forze democratiche siriane (Sdf) hanno sostenuto l’idea di una tregua e si sono dette disponibili «a fermare ogni azione militare» nel nord-est del Paese, mentre il Segreterio generale Guterres ha invitato gli altri protagonisti del conflitto siriano a fare lo stesso. Nella speranza che questi cessate il fuoco "servano da esempio nel mondo intero" per far tacere le armi di fronte alla minaccia del Covid-19.

Pietro Del Re

Coronavirus - Usa - Più di 10 Stati definiscono criteri agghiaccianti per scegliere chi salvare: «niente respiratori per i disabili valutando abilità fisiche, intellettive e valore per la società».

Avvenire
Dall’Alabama allo Utah, i criteri dati dalle amministrazioni ai medici escludono i più vulnerabili.

In Tennessee le persone affette da atrofia muscolare spinale verranno «escluse» dalla terapia intensiva. In Minnesota saranno la cirrosi epatica, le malattie polmonari e gli scompensi cardiaci a togliere ai pazienti affetti da Covid-19 il diritto a un respiratore. Il Michigan darà la precedenza ai lavoratori dei servizi essenziali. 

E nello Stato di Washington, il primo a essere colpito dal coronavirus, così come in quelli di New York, Alabama, Tennessee, Utah, Minnesota, Colorado e Oregon, i medici sono chiamati a valutare il livello di abilità fisica e intellettiva generale prima di intervenire, o meno, per salvare una vita.
Mentre sugli Stati Uniti si sta abbattendo la prima ondata di casi di coronavirus e gli ospedali si preparano a essere invasi da pazienti con difficoltà respiratorie, i vari Stati cercano di fornire ai medici dei criteri guida per prendere le decisioni più difficili: scegliere chi attaccare a un respiratore e chi no. 

Nei piani preparati o rivisti in questi giorni dagli esperti locali emergono approcci diversi. Ma anche una preoccupante tendenza. Fra i circa 36 Stati che hanno reso noti i loro criteri, una decina elenca anche considerazioni di tipo intellettivo, e altri parlano di condizioni precise che possono portare alla discriminazione nei confronti dei disabili. 

L’Alabama è il caso più eclatante. Nel suo documento intitolato Scarce Resource Management sostiene che i «disabili psichici sono candidati improbabili per il supporto alla respirazione».

Ma anche frasi contenute nelle linee guida di Washington, come «capacità cognitiva», o di Maryland e Pennsylvania, come «disturbo neurologico grave», hanno suscitato l’allarme delle associazioni di difesa dei disabili.

Già tre gruppi (Disability Rights Washington, Self-Advocates in Leadership, The Arc of the United States) hanno fatto causa allo Stato di Washington per impedire l’entrata in vigore dei criteri per l’accesso alle cure salvavita per il Covid-19.

E una mezza dozzina di altre organizzazioni si sono appellate al governo federale affinché imponga alle Amministrazioni locali e agli ospedali il principio che i disabili hanno diritto allo stesso trattamento degli altri. A far paura è che i criteri di accesso alle cure siano costruiti sull’idea in base alla quale alcune vite valgono meno di altre. «Le persone affette da disabilità sono terrorizzate che se le risorse si fanno scarse, verranno inviati in fondo alla fila – sostiene Ari Ne’eman, docente al Lurie Institute for Disability Policy dell’Università Brandeis –. E hanno ragione, perché molti Stati lo affermano in modo abbastanza esplicito nei loro criteri».

Al di là dei singoli documenti, negli Stati Uniti che cercano di prepararsi all’insufficienza di letti di terapia intensiva, si è già affermato un altro principio inquietante per i più vulnerabili. Si tratta della “regola d’oro” presente in quasi tutti i documenti di gestione delle risorse: si chiede a un paziente se, in caso di scarsità di strumenti salvavita, vuole avervi accesso o lasciare il posto a chi potrebbe avere più probabilità di sopravvivenza. O «maggiore valore per la società». Una regola che «impone una pressione inaudita », conclude Ne’eman.


Elena Molinari, New York

martedì 24 marzo 2020

Coronavirus, rinuncia al respiratore per darlo a un paziente più giovane: muore il prete don Giuseppe Berardelli

TGCom24Don Giuseppe Berardelli, 72enne di Casnigo (Bergamo), ha scelto di sacrificarsi per unʼaltra persona, che neppure conosceva
E' morto dopo essere risultato positivo al coronavirus, ma anche perché ha scelto di sacrificarsi per un'altra persona. 

Don Giuseppe Berardelli, sacerdote 72enne di Casnigo (Bergamo), ha rinunciato al respiratore di cui aveva bisogno e che la sua comunità parrocchiale aveva acquistato proprio per lui. E l'ha fatto affinché quel respiratore potesse andare a qualcun altro. Qualcuno di più giovane, ma malato come lui. Qualcuno che neppure conosceva.

"Don Giuseppe è morto da prete. E mi commuove profondamente il fatto che lui, arciprete di Casnigo, vi abbia rinunciato di sua volontà per destinarlo a qualcuno più giovane di lui", ha raccontato un operatore sanitario della casa di riposo San Giuseppe al periodico "Araberara".

Don Giuseppe Berardelli è morto all'ospedale di Lovere. Sono almeno 30 i preti morti in Italia a causa della pandemia di Covid-19, tra questi almeno 16 sono della diocesi di Bergamo.

domenica 22 marzo 2020

Coronavirus - USA - Pena di morte - 2 esecuzioni sospese in Texas in questo mese, secondo il DPIC , la pandemia ne interromperà diverse altre e potrebbe favorire l'abolizione della pena capitale negli Stati Uniti.

Blog Diritti Umani - Human Rights
Robert Dunham, direttore del Death Penalty Information Center, osservatorio sulla pena capitale, con sede a Washington DC, prevede che varie esecuzioni saranno sospese.

La Court of Criminal Appeals ha approvato per John Hummel lunedì e Tracy Beatty giovedì lo stop di esecuzioni fissate rispettivamente il 18 marzo e il 25 marzo, sospese per 60 gironi.

Almeno un altro detenuto nel braccio della morte - Oscar Smith nel Tennessee - ha richiesto una sospensione e attende una risposta dalla Corte suprema dello stato. La data prevista per essere messo a morte è il 4 giugno.
Gli avvocati di Smith hanno affermato che gli sforzi per impedire il contagio del virus hanno reso difficile per loro lavorare sul caso dei loro clienti.
"Sarebbe irresponsabile e contro l'interesse del pubblico condurre le indagini necessarie durante questa pandemia", si legge nella proposta di sospensione. "Il team di Mr. Smith non può svolgere il lavoro necessario per adempiere ai propri obblighi nei suoi confronti senza mettere a rischio se stesso e gli altri".

Dunham ha detto che c'è un grande volume di lavoro legale da svolgere quando a un detenuto nel braccio della morte viene fissata la data dell'esecuzione. In alcuni casi, i testimoni non si fanno avanti per fornire prove o testimonianze finché non c'è una data.
Ciò significa che c'è l'indagine nelle settimane e nei mesi precedenti un'esecuzione ha uno sviluppo importante che coinvolge più tribunali. Molti stati hanno strutture carcerarie chiuse, impedendo agli avvocati di interagire con i propri clienti.

La Corte suprema del Texas e la Corte dei ricorsi penali del Texas, ad esempio, hanno chiuso alcuni edifici e udienze e processi limitati.
Non è chiaro quante esecuzioni pianificate potrebbero essere sospese a causa dell'epidemia di COVID-19.

Le esecuzioni di Hummel e Beatty sono sospese fino a metà maggio, durante questo periodo sono programmate altre cinque esecuzioni.

Di questi, quattro sono in Texas - Fabian Hernandez il 23 aprile, Billy Wardlow il 29 aprile, Edward Busby il 6 maggio e Randall Mays il 13 maggio. Uno è in programma nel Missouri - Walter Barton il 19 maggio.

Il presidente Donald Trump ha affermato che la vita del paese potrebbero non tornare alla normalità negli Stati Uniti fino a luglio o agosto.
Ciò potrebbe influire su altre otto esecuzioni programmate in Texas e Ohio.

Le esecuzioni di Hummel e Beatty probabilmente non avranno luogo per diversi mesi, ha affermato Kristin Houlé, direttore esecutivo della Coalizione del Texas per abolire la pena di morte. Ha detto che dopo il periodo di 60 giorni, spetterà ai pubblici ministeri la richiesta di nuove date di esecuzione.
Houlè si aspetta che altri detenuti nel braccio della morte in Texas possano richiedere la sospensione  dell'esecuzione.

La pandemia sicuramente rallenterà il ricorso alla pena di morte e inoltre attualmente a differenza che in passato,  gli americani dai sondaggi preferiscono la vita. Il 60% degli intervistati si dicono favorevoli alla reclusione piuttosto che all'eliminazione dei condannati.

Negli Stati Uniti 21 stati hanno già abolito la pena capitale, l'ultima abolizione del Colorado lo scorso mese.
Il COVID-19 ha provocato la sospensione delle esecuzioni negli USA e potrebbe favorire una accelerazione per l'abolizione della pena capitale in tutto il paese.

ES

Fonte: UPI - COVID-19 could disrupt U.S. executions for months

sabato 21 marzo 2020

Coronavirus. Paura tra i profughi siriani: "Qui non abbiamo neanche l'acqua e il sapone per lavarci le mani"

La Repubblica
Nelle regione di Idlib, pesantemente bombardata da dicembre, sono del tutto assenti le strutture sanitarie per arginare la pandemia. Il regime di Damasco nega possibili contagi nel Paese. Ma fino a ieri sono rimasti aperti tutti i collegamenti con l'Iran, grande focolaio di infezioni.

Quando nel campo di Atmeh, al confine turco-siriano, sono arrivati gli operatori umanitari con le tute blu e le mascherine sul volto, i profughi hanno subito pensato che il Covid-19 li aveva ormai raggiunti. 

E molti di loro sono stati presi dal panico, come racconta Ibrahim Fahal, padre di sette figli fuggito dalla guerra che ancora insanguina il suo Paese: "In molti se l'aspettavano, ma adesso sono ancora più terrorizzati di prima, perché qui non abbiamo neanche l'acqua e il sapone per lavarci le mani". 

E teme il peggio anche lo staff che gestisce il campo, consapevole che sono totalmente assenti le strutture per arginare la pandemia. Nei campi nella regione di Idlib, ancora controllato dalle forze della rivolta contro il regime di Damasco, sono arrivati dallo scorso dicembre circa 900 mila persone, in fuga dall'offensiva delle truppe lealiste spalleggiate dall'aviazione di Mosca. I bombardamenti hanno colpito con stupefacente precisione molte strutture sanitarie della regione, ospedali, cliniche, annientando quindi una possibile risposta al coronavirus.

“Centinaia di migliaia di persone vivono in tende sovraffollate”, spiegano i Caschi bianchi, il corpo civile di intervento e soccorso che opera nelle zone non sotto il controllo di Damasco. I Caschi bianchi hanno lavorato con altre organizzazioni per preparare 60 posti letto nell’eventualità di una crisi sanitaria, e sono state fatte alcune operazioni di sterilizzazione di spazi comuni nella provincia di Aleppo, ma le strutture mediche dell’area sono al collasso, meno della metà degli ospedali è ancora attiva. “Più di 3,5 milioni di civili sono intrappolati nel nord ovest della Siria con ospedali bombardati e servizi sanitari molto limitati. Una epidemia di coronavirus è solo questione di tempo e il numero di persone che potrebbero essere colpite potrebbe essere devastante”, scrive Laila Kiki direttore di Syria Campaign. Ad oggi verificare l’esistenza di casi di Coronavirus è ancora impossibile a Idlib perché non ci sono i test. L’Organizzazione mondiale della Sanità ha fatto sapere di esser pronta a cominciare a sottoporre la popolazione ai tamponi.

Secondo Adam Coutts, specialista di salute pubblica dell'Università di Cambridge, i profughi sono tra le persone più vulnerabili al virus. "L'Oms ha chiesto a tutti i Paesi di prepararsi per contenere la diffusione del Covid-19, ma molto poco è stato fatto per aiutare in questo senso le popolazioni che vivono nei campi profughi in Medio Oriente e in Europa". La stessa denuncia è giunta da parte del personale dell'Organizzazione per le migrazioni, dell'Alto commissariato Onu e per i rifugiati e di altre ong. "Neanche al campo di Moria, sull'isola di Lesbo, che ospita 20 mila persone quand'era stato pensato per sole 3 mila, c'è abbastanza acqua per lavarsi le mani né c'è la possibilità di mantenere una distanza di sicurezza tra le persone", dice Hilde Voochten, coordinatrice sanitaria di Medici senza frontiere.

Inanto il regime siriano ha smentito che ci siano casi accertati di coronavirus nelle zone sotto il suo controllo, dopo le indiscrezioni dei giorni scorsi che parlavano di decine di contagiati a Daraa, Latakia e in altre zone del Paese. Ma fino a ieri i collegamenti aerei tra Damasco e l’Iran, che è uno dei focolai di infezioni più virulenti nel mondo, sono rimasti attivi, ed è continuato il passaggio di uomini e mezzi tra i due paesi, sia per i pellegrinaggi religiosi che per le operazioni militari. Teheran è un alleato prezioso del regime nella guerra che dura ormai da 10 anni, nelle zone controllate da Damasco operano diverse milizie che fanno capo all'Iran e alle forze Quds, l’unità dei Pasdaran che si occupa delle operazioni all’estero e che fino al 3 gennaio era diretta dal generale Qassem Soleimani.

Gabirella Colarusso e Pietro Del Re

venerdì 20 marzo 2020

Coronavirus - Le Ong costrette a fermare le missioni di salvataggio in mare. Migranti senza più soccorsi. Continualo le partenze dalla Libia

La Repubblica
Mediterranea: "La pandemia ci impone di congelare l'attività operativa. Scelta obbligata anche se le partenze sono ricominciate". Bloccate in porto anche Ocean Viking, Sea Watch e Open Arms. Le partenze dei migranti dalle coste africane sono riprese ma il Mediterraneo è destinato a rimanere senza soccorsi per chissà quanto tempo. Il coronavirus ferma anche le navi umanitarie e, una dietro l'altra, le Ong comunicano a malincuore la sospensione delle missioni.
"Una comunicazione inevitabile e difficile - dice Mediterranea, che pure nelle scorse settimane si era vista finalmente restituire le due navi, Mare Jonio e Alex, sequestrate per mesi dal decreto sicurezza - Eravamo pronti a ripartire con la tenacia e la determinazione di sempre: pronte le navi, pronti gli equipaggi. Ma lo svilupparsi della pandemia e le sacrosante misure adottate per tentare il contenimento del contagio e per tentare di salvare le persone più fragili ed esposte, ci impone oggi di congelare l'attività operativa in mare. Gli effetti di questa scelta obbligata ci fanno soffrire perché in mare c'è chi rischia la morte ogni giorno". Mediterranea confida nella disponibilità, per i soccorsi in mare delle navi civili che continuano ad operare. "Daremo loro ogni supporto possibile".
Restano al momento in porto anche le navi della Sea Watch e di Sos Mediterranée e Medici senza frontiere che hanno finito il periodo di quarantena dopo gli ultimi due sbarchi di migranti a Pozzallo e a Messina. E ferma è anche da una ventina di giorni per riparazione, la spagnola Open Arms. "Stiamo cercando di capire in che modo poter tornare in mare in sicurezza per tutti. Purtroppo in mare c'è bisogno di noi nonostante il coronavirus", dice la portavoce Veronica Alfonsi.

Le partenze dall'Africa comunque non si fermano. Il centralino Alarm phone negli ultimi giorni ha segnalato diverse imbarcazioni in difficoltà in zona Sar libica e maltese. E preoccupano gli sbarchi autonomi sull'isola di Lampedusa dove nell'ultima settimana sono arrivate 150 persone. Il sindaco Salvatore Martello ne ha disposto subito la messa in quarantena nell'hot spot ma ha chiesto al ministro dell'Interno Lamorgese un protocollo per il loro immediato trasferimento sulla terraferma per la mancanza delle necessarie misure a salvaguardia della popolazione.

Anche in Africa ormai sono centinaia i casi di coronavirus registrati nei Paesi di origine dei migranti e anche la Libia ha dichiarato lo stato di emergenza per l'epidemia. Al momento le Ong che hanno volontari impiegati nei servizi di assistenza medica e paramedica nelle aree più colpite dal territorio sono Medici senza frontiere, la cui presidente Claudia Lodesani da giorni sta lavorando a Codogno. Ma anche la piattaforma di terra di Mediterranea ha messo a disposizione le sue forze.

Alessandra Ziniti

giovedì 19 marzo 2020

Coronavirus - Nelle carceri il sovraffollamento aumenta il contagio, a rischio detenuti, agenti e personale. Associazioni mobilitate. Applicare con urgenza il "Cura Italia" e non basta

Rassegna Sindacale
Dopo le rivolte, associazioni e sindacati chiedono al governo misure straordinarie per evitare la diffusione del contagio dietro le sbarre: “Il sovraffollamento aumenta il contagio”.



Dai partiti di destra si urla contro il governo che vorrebbe svuotare le carceri. Il governo Conte, dicono per esempio dalle fila della Lega, “obbedisce ai delinquenti”. Dalle associazioni del volontariato cattolico e laico, ma anche da ambienti di sinistra e del sindacato (la Cgil ha aderito a un appello), si chiedono invece misure straordinarie e immediate per evitare i due rischi principali del momento: la diffusione del virus anche negli istituti di pena e la rivolta continua dei detenuti che ormai per le nuove norme varate dal governo non possono più avere contatti con l’esterno. Il governo cerca di correre ai ripari e nel decreto Cura Italia ha introdotto alcuni provvedimenti che dovrebbero allentare la pressione.

Quelli che possono andare agli arresti domiciliari
Da una parte si stanziano nuove risorse per il personale penitenziario e in particolare per le ore di straordinario e per la ristrutturazione degli istituti danneggiati dalle rivolte. Dall’altra si fa riferimento a una legge già in vigore dal 2010, la numero 199, che prevede la possibilità di eseguire le pene detentive di durata non superiore a 18 mesi, anche se parte residua di pena maggiore, in luoghi esterni al carcere, come l'abitazione o altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza”. Dal decreto del governo sono però esclusi i reati particolarmente gravi, come ad esempio quelli richiamati dall'articolo 4 bis dell'ordinamento penitenziario, i maltrattamenti in famiglia o lo stalking. L’obiettivo dovrebbe essere prima di tutto la tutela della salute del personale della polizia penitenziaria, dei detenuti e di tutti gli operatori.

Le proposte in un appello firmato anche dalla Cgil
Ma per molti le misure messe in campo finora sono insufficienti perché non rispondono a una crisi molto profonda e soprattutto datata. Il primo problema, ha spiegato in un editoriale sul manifesto Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, è il sovraffollamento. “In questo momento nelle carceri italiane vi sono circa quattordicimila persone in più rispetto alla capienza regolamentare effettiva. Il sovraffollamento nella vita quotidiana significa condividere dodici metri quadri in quattro persone, dormire praticamente con la faccia spalmata sulla soffitta della cella, essere visitato dal medico raramente, non avere lo spazio per leggere tranquillamente seduti su uno sgabello, non avere privacy neanche quando si va in bagno. Da qualche settimana, oltre a tutto questo, il sovraffollamento significa anche avere il timore del contagio. “Per questo – dice Gonnella – nei giorni scorsi, insieme a Cgil, Anpi, Arci, Gruppo Abele, e con l’adesione della Conferenza nazionale volontariato Giustizia e di Ristretti, abbiamo richiesto l’adozione di misure dirette a decongestionare le carceri, a partire da chi versa in condizioni di salute peggiori o di chi sta scontando gli ultimi scampoli di pena. Misure che avevamo proposto anche a tutela della salute dello stesso staff carcerario”.

Tra le proposte più urgenti: la fornitura immediata e straordinaria di dpi a tutto il personale penitenziario; l’immediata e progressiva sanificazione di tutti gli ambienti carcerari, a cominciare dagli spazi comuni di socialità, da quelli adibiti a caserme e uffici del personale, dalle officine di lavorazioni e dai magazzini. Il varo di un Piano straordinario e immediato di assunzioni di personale penitenziario. È necessario poi riportare la salute in carcere al centro delle politiche sanitarie, nazionali e territoriali, attraverso il reclutamento straordinario di medici, infermieri e operatori socio-sanitari da destinare all'assistenza sanitaria in carcere. L'assunzione di specifici piani di salute e prevenzione per ogni singolo istituto penitenziario. Vanno ripresi e rafforzati il percorso, i princìpi e le finalità contenute nella legge vigente: deve essere garantita qualità e uniformità degli interventi e delle prestazioni sanitarie nei confronti dei detenuti, degli internati e dei minorenni sottoposti a provvedimenti restrittivi.

Cgil e Funzione pubblica lo avevano detto
Ancora prima del varo del decreto “Cura Italia”, Cgil e Funzione pubblica Cgil erano intervenute per chiedere un alleggerimento della pressione e interventi seri. Le prime misure adottate per fronteggiare l'emergenza Coronavirus nelle carceri, si legge in un comunicato del 10 marzo, “sono sicuramente un passo in avanti”, ma “sarebbe sbagliato non ragionare di ulteriori interventi che possano deflettere la pressione nelle carceri”. Cgil e Funzione pubblica Cgil avevano sollecitato in particolare proprio l'estensione del ricorso ai domiciliari, l'assolvimento anticipato della pena fino a un massimo di un anno per alcuni reati minori e il potenziamento urgente e straordinario della Polizia penitenziaria.

Il punto di vista dei cappellani di Rebibbia
Analisi simile sul rischio della diffusione del contagio (anche se fino al 16 marzo non ci erano registrati casi conclamati negli istituti di pena) è quella di don Marco Fibbi, coordinatore dei cappellani del carcere romano di Rebibbia. Secondo don Fibbi, è evidente che si tratta di mettere in campo misure straordinarie visto il grado di affollamento della maggior parte degli istituti. È praticamente impossibile rispettare le regole varate dal governo perché la distanza di sicurezza nelle celle dove vivono in media sei persone non esiste. Peggiorano poi le condizioni di tutti i detenuti, soprattutto di quelli più poveri, che spesso, ricorda il cappellano di Rebibbia, sono stranieri. “In moltissimi casi – dice don Picchi – non hanno neppure i soldi per telefonare a qualche parente. Ora l’amministrazione penitenziaria ha introdotto l’uso di Skype e questo sicuramente è un passo avanti. Ma si sa che i problemi rimangono perché in carcere niente è gratis. Perfino la carta igienica si paga”.

La campagna dei Radicali
I Radicali, da anni in prima linea nelle battaglie sulle carceri e la detenzione, rilanciano il loro appello ricordando i passaggi precedenti: “Nel luglio 2011 il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano affermò che ‘La questione del sovraffollamento nelle carceri è un tema di prepotente urgenza sul piano costituzionale e civile’. Due anni dopo, nell'ottobre 2013, il presidente Napolitano inviò un messaggio alle Camere sulla situazione carceraria, nel quale indicò le misure urgenti da adottare, tra le quali amnistia e indulto. Le rivolte di questi giorni sono la conseguenza dell'indifferenza e dell'ignavia con le quali il Parlamento accolse quell'unico messaggio che il presidente Napolitano ha inviato al Parlamento durante il suo mandato. Per non dire dell'illusione creata dalla mancata applicazione della riforma dell'ordinamento penitenziario votata dal Parlamento e sacrificata dal governo sull'altare elettorale. Oggi non c'è più tempo, è indispensabile agire subito! Forti anche del convergente appello dei cappellani penitenziari, ci appelliamo al governo perché adotti con la massima urgenza un primo provvedimento che riporti l'affollamento penitenziario nei limiti previsti dalla legge, violazione già sanzionata in passato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, e oggi nuovamente e palesemente violata”.

Il punto di vista dei magistrati di sorveglianza
Un altro appello al governo è quello del Coordinamento nazionale dei magistrati di sorveglianza, secondo i quali “di fronte alla drammatica pandemia del Coronavirus e ai rischi incombenti di una sua diffusione nel sistema penitenziario, già provato dal cronico sovraffollamento e dalle restrizioni imposte dall’emergenza sanitaria e flagellato dalle gravissime sommosse che hanno devastato molti istituti penitenziari italiani”, è necessario prendere misure urgenti e non rimandabili. I magistrati si dicono infatti molto preoccupati per “l’estrema precarietà delle condizioni di operatività dei tribunali e degli uffici di sorveglianza, già ordinariamente con piante organiche ridotte, ormai allo stremo delle forze, con gravissime difficoltà di garantire perfino gli affari urgenti e con fenomeni crescenti di burnout del personale addetto a tali uffici”.

Cattolici in campo
Anche le organizzazioni cattoliche sono in campo. Dalle associazioni dei volontari impegnati nelle carceri italiane crescono infatti richieste pressanti per alleggerire la tensione ed evitare la diffusione del virus. Alla vigilia del varo del secondo decreto sull’emergenza Covid-19, nella giornata di lunedì (16 marzo) le associazioni del mondo cattolico hanno chiesto al governo provvedimenti speciali per evitare il contagio in carcere. Occorre fare uscire le persone fragili e chi ha un fine pena breve, ampliando la detenzione domiciliare speciale per liberare spazi all'interno degli istituti. Lo hanno scritto alla vigilia del varo del decreto governativo varie associazioni: Associazione volontari in carcere, Caritas diocesana di Roma, I cappellani degli istituti penitenziari di Roma, Ispettore generale dei Cappellani penitenziari, Seac, Comunità di Sant’Egidio, Sesta Città rifugio, VoReCo e i Gruppi di volontariato Vincenziano.

E a Venezia le detenute raccolgono soldi per l'ospedale
Una “protesta solidale” in risposta alle violente rivolte scoppiate all'interno delle carceri italiane al seguito del diffondersi del Coronavirus. È questa l'iniziativa delle detenute della Casa di reclusione femminile della Giudecca - Venezia. Pur essendo solidale con gli altri detenuti e chiedendo comunque di poter vedere i propri cari, la stragrande maggioranza delle donne del carcere (71 su 85) si è dissociata dalle violenze, si è unita e ha dato vita a una raccolta fondi per mostrare vicinanza alle persone che stanno combattendo il Coronavirus. Le donne hanno così raccolto 110 euro in un giorno da donare al reparto di terapia Intensiva dell’Ospedale dell’Angelo di Mestre. “Si tratta di una cifra simbolica, è vero, ma per alcuni anche un euro può significare tanto. E queste ragazze hanno dato tutto ciò che avevano. Quell'euro era tutto ciò che avevano”, ha detto a Tgcom24 sorella Franca, membro delle Suore di Maria Bambina, che lavora nel carcere.


Paolo Andruccioli

martedì 17 marzo 2020

USA - Texas - Il coronavirus blocca la pena di morte - L'esecuzione di John William Hummel rimandata di 60 giorni a causa dell'epidemia

Blog Diritti Umani - Human Rights
Lo scoppio dell'epidemia coronavirus ha indotto lunedì il principale tribunale d'appello del Texas a rimanere per 60 giorni l'esecuzione programmata di un uomo condannato a morte.

Il Texas Court of Criminal Appeals ha respinto tutti i motivi dell'appello di John William Hummel ma ha detto che avrebbe posticipato l'esecuzione prevista di mercoledì "alla luce dell'attuale crisi sanitaria e delle enormi risorse necessarie per affrontare l'esecuzione".

Il mondo dopo la pandemia COVID-19 dovrà essere diverso. Con il costo di un solo F35 si sarebbero potuti comprare 6.000 ventilatori polmonari

Blog Diritti Umani - Human Rights
Il mondo ha ripreso la corsa agli armamenti  con una spesa di 1.800 miliardi all'anno ma non ha investito in modo adeguato, e in alcuni casi ha smantellando il Sistema Sanitario abbassando la difesa da altri nemici veramente pericolosi. 
Con una Sanità indebolita i paesi si trovano in difficoltà davanti ad un nemico globale come il COVID-19 che sta mietendo migliaia di vite e mettendo in ginocchio l'economia mondiale.
Con il costo di un solo F35 (100 milioni di Euro) si sarebbero potuti acquistare 6.000 ventilatori polmonari.
Il mondo dopo questa epidemia non sarà più lo stesso e dovrà imparare la lezione per difendere veramente la sua popolazione.

domenica 15 marzo 2020

Coronavirus, Borrelli - Protezione Civile: "Fornire assistenza a senzatetto" "Chiesto a Regioni e Comuni di trovare strutture"

Blog Diritti Umani - Human Rights

"Ho chiesto espressamente alla Regione Lazio e ai Comuni di fornire una adeguata assistenza a chi è senza tetto quindi questo è un appello che voglio rivolgere a tutte le Amministrazioni"
Angelo Borrelli

SOS dei migranti - donne, bambini, uomini - alla deriva nel Mediterraneo. L'emergenza coronavirus non può rendere inascoltati o tardivi i soccorsi

Blog Diritti Umani - Human Rights
L'emergenza coronavirus non può rendere inascoltati o tardivi i soccorsi agli SOS dei migranti - donne, bambini, uomini  - alla deriva nel Mediterraneo. 



Gli appelli di "Allarm Phone":
14 Marzo - 4:57 PM
Un'altra barca in urgente pericolo ha contattato #AlarmPhone dalla zona SAR di #Malta. A bordo ci sono 49 persone in fuga dalla #Libia. Stanno andando alla deriva e chiedono soccorso immediato, ma
@Armed_Forces_MT non risponde al telefono e alla richiesta di aiuto!

14 mar 2020 - 8:44 PM ·
Dove sono? L’ultima volta che abbiamo parlato con le 49 persone in pericolo, alle 17.45, vedevano una nave dirigersi verso di loro ma non sappiamo se sono stati soccorsi, respinti in #Libia, o se sono ancora in pericolo in mare.
@Armed_Forces_MT rifiuta di dare informazioni.

15 mar 2020 - 12:45 AM ·
Le  @Armed_Forces_MT ci hanno detto di aver cercato la barca con 49 persone in pericolo ma di non averla trovata. Abbiamo perso contatto ore fa. Dove sono? Cosa è successo?


Coronavirus - Emergenza poveri e senza casa - Si riducono le possibilità di mangiare e andare al bagno. Poche elemosine. Sosteniamo il lavoro dei volontari.

HuffPost -  Il Blog - Mario Giro
Troppo ritardo nelle nostre città a occuparsi dei poveri e dei senza-casa in questa crisi da coronavirus.


Se chiudono ristoranti, bar etc., per chi vive sulla strada viene a mancare del tutto la possibilità di mangiare o di andare in bagno. Questa è la triste realtà. Restano aperte alcune mense ma non basta: bisogna andare a cercare i poveri laddove sono per aiutarli. Normalmente gravitano attorno agli ospedali ma ora non possono più. Centri e dormitori sono o chiusi oppure non li fanno uscire: in ogni caso spesso non danno da mangiare.

Ne sta nascendo un’altra emergenza nell’emergenza che rischia di fare aumentare le vittime di questa situazione.
Associazioni e volontari si danno da fare per non “chiudere” i servizi ma in questi tempi è cessato quasi ovunque - o fortemente diminuito - quel flusso di aiuti alimentari che solitamente permette a molte persone di sopravvivere. Dove trovare i pacchi alimentari? Dove andare a chiedere i resti del mercato o delle mense?

Dobbiamo renderci conto che per forza di cose quasi cessata ogni tipo di elemosina: un rivolo continuo che aiuta a restare in vita, indispensabile per tanti che solo così si procurano cibo e medicine.

Pensiamo ai “barboni” certo, ma anche a chi vive in macchina, a chi ha perso l’alloggio e ai tanti senzatetto per le innumerevoli ragioni che lacerano il tessuto umano e le famiglie. C’è anche il caso delle persone un po’ borderline, quegli individui singolari che popolano borghi e città, talvolta malati psichici lievi, altre volte soltanto uomini o donne soli o bizzarri. In questo clima di surreale paura da virus, possono perdere del tutto ogni orientamento…
Ci sono famiglie che vivono solo di aiuto e che ora non sanno dove andare a prenderlo. Ci sono i divorziati o separati a basso reddito. Ci sono giovani tossicodipendenti… Quando l’isolamento è al massimo, per tutti costoro la vita è più difficile. Sono coloro che soffrono di più. Infine un altro problema diverso ma simile: non dimentichiamoci dei terremotati.

Sindaci e prefetti dovrebbero tenere bene a mente queste emergenze nell’emergenza e facilitare il lavoro dei volontari, con tutte le precauzioni necessarie.

L’iniziativa semplice che tutti noi possiamo prendere è fare la spesa anche per loro, noi che possiamo farla sia direttamente che facendocela portare a casa, e poi offrirla alle associazioni e ai volontari che continuano a operare. Verranno loro davanti al nostro pianerottolo a prendersela. Ce ne sono in ogni città d’Italia grande o piccola, e con tutte le prudenze del caso, si stanno impegnando per dare almeno da mangiare. Aiutiamoli.


venerdì 13 marzo 2020

Coronavirus, l’emergenza tra i senzatetto: sono oltre 50mila in Italia. Volontari moltiplicano l'impegno per sostenerli

Linkiesta
Centri di accoglienza chiusi, mense a mezzo servizio e mancanza dei dispositivi di protezione. L’allarme delle Onlus accende i riflettori su un ulteriore problema suscitato dal virus. Nasce così l’hashtag #vorreistareacasa, la campagna parallela a #iorestoacasa
Stare a casa il più possibile per aiutare a fronteggiare e contenere l’emergenza coronavirus non per tutti è possibile. Ci sono migliaia di persone, precisamente 50mila secondo l’ultimo report Istat, che una casa non ce l’hanno. A Milano il terzo censimento di racCONTAMI2018 registra 2.608 senzatetto, mentre a Roma le varie strutture d’accoglienza hanno una capacità di 3.000 posti a fronte delle 8.000 persone bisognose notificate dall’Istituto nazionale di statistica.

A queste se ne aggiungono altre 20mila che hanno richiesto aiuto per problemi abitativi, tra migranti e non; altre 12mila persone che vivono in stabili occupati, chi vive nei campi rom autorizzati, 4500/5000 persone, e circa 300 persone che sfuggono al sistema.

Le stime delle associazioni di categoria parlano inoltre di una realtà parallela, sopratutto per il territorio romano. Secondo Binario 95, cooperativa sociale molto attiva su Roma, le persone senza dimora nella Capitale sono in realtà 20mila. E anche per loro è nato in questi giorni l’hashtag #vorreistareacasa, una campagna parallela a #iorestoacasa per richiamare l’attenzione sulle difficoltà che i senzatetto e i servizi di accoglienza sono chiamati a fronteggiare durante l’epidemia.

I senzatetto a Napoli, per esempio, sono circa duemila: il Comune ha sanificato i dormitori pubblici e fornito mascherine al personale, ma non mancano le criticità: in molti rifiutano l’accoglienza, i centri sono spesso chiusi e hanno poco personale. La Caritas di Catania ha sospeso in toto le attività, mentre quella di Pescara ha deciso di chiudere il dormitorio con più capienza della città.

Link correlati: Comunità di Sant'Egidio "Coronavirus: Un appello a cittadini e istituzioni "Aiutiamo le persone più fragili!"

giovedì 12 marzo 2020

Emergenza carceri - Mons. Vincenzo Paglia: "La pena non deve uccidere la speranza, diamo un futuro ai detenuti" - "Gli invisibili diventano visibili in maniera evidente e drammatica"

Il Riformista
«Nel vostro lavoro è di grande aiuto tutto ciò che vi fa sentire coesi: anzitutto il sostegno delle vostre famiglie, che vi sono vicine nelle fatiche. E poi l’incoraggiamento reciproco, la condivisione tra colleghi, che permettono di affrontare insieme le difficoltà e aiutano a far fronte alle insufficienze. Tra queste penso, in particolare, al problema del sovraffollamento degli istituti penitenziari – è un problema grave -, che accresce in tutti un senso di debolezza se non di sfinimento. Quando le forze diminuiscono la sfiducia aumenta. È essenziale garantire condizioni di vita decorose, altrimenti le carceri diventano polveriere di rabbia, anziché luoghi di ricupero».
Così parlava Papa Francesco pochi mesi fa, il 14 settembre 2019 in Piazza San Pietro, nel discorso rivolto al personale dell’amministrazione penitenziaria e della giustizia minorile.
[...]
C’è un aspetto della «crisi da coronavirus» che proprio i disordini nelle carceri fanno comprendere con grande evidenza: siamo interconnessi; volenti o nolenti lo siamo. Tutti. La società è un organismo collegato e quanto accade da un lato si ripercuote su un altro.
[...]
La paura del contagio da coronavirus esiste nella società civile italiana al punto che tutto il paese è «zona rossa»; e le carceri? Le dimentichiamo? I detenuti stanno lì a ricordare la loro esistenza proprio nei momenti in cui non vorremmo vederli. Gli invisibili diventano visibili in maniera evidente e drammatica.
Si può davvero pensare di limitare o cancellare le visite dei parenti senza che una misura del genere provochi conseguenze? In una situazione di privazione della libertà, dove le relazioni umane sono l’unico legame con «di fuori», si possono cancellare con un tratto di penna in nome della sicurezza e della salute? Possibile che non si pensi alle conseguenze di un isolamento che diventa doppio: carcerati due volte, esclusi dalla società e dalle relazioni con le famiglie.
[...]
Si aggiunga poi la situazione di sovraffollamento cronica, la presenza di problemi sanitari molto forti (tossicodipendenze, disagi psichici), il numero di detenuti non italiani in crescita, e l’esplosione di una rivolta diventa un fatto prevedibile. Che fare?
[...]
Già: il reinserimento. Chi se ne preoccupa più? Eppure è il vero e reale cuore della problematica, collegato al dovere che ha lo Stato di prendersi carico dei detenuti stessi, persone con percorsi e vissuti certamente difficili.
[...]
Le carceri sono la cartina al tornasole della capacità di esercitare una vera giustizia, dove la velocità del giudizio e la certezza della pena si coniugano con misure sagacemente pensate per recuperare le persone e reinserirle nella società. Lo snodo essenziale è la relazione: tutti sono protagonisti, dagli operatori dell’amministrazione alle famiglie dei detenuti, agli stessi detenuti. Vale per tutti, e anche nella carceri: isolamento non deve voler dire solitudine.
[...]
Papa Francesco lo sa.Non a caso – come ha confermato ieri scrivendo a Il Mattino di Padova – le meditazioni della Via Crucis di questa Pasqua vengono dalla parrocchia della Casa di Reclusione il Due Palazzi di Padova. «Ho scelto il carcere, colto nella sua interezza, ha detto il Papa, per fare in modo che, anche stavolta, fossero gli ultimi a dettarci il passo».


Vincenzo Paglia

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Bonafede - Carceri: "Lo Stato non indietreggia davanti ad atti di violenza" ma ... Mattia Feltri fa notare che le condizioni di emergenza nelle carceri da molti anni esercitano anch'esse una violenza sui detenuti ...

Blog Diritti Umani - Human Rights

Bonafede:
"lo Stato non indietreggia neppure di un centimetro di fronte all'illegalità". [...] "di fronte agli episodi di violenza non si può parlare di protesta, ma si deve parlare semplicemente di atti criminali"
Il Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede



La risposta di Mattia Feltri su La Stampa

Signor ministro Bonafede, ieri mi sono stupito di condividere una sua riflessione, a proposito della rivolta nelle carceri, e sulla violenza che non porta a nulla di buono. E’ vero e lei del resto ne sta vedendo i risultati. 


Infatti destinare sei metri quadri per ogni detenuto è violenza. Lasciare che le prigioni si sovrappopolino riducendo quei sei metri quadri è violenza.

Trascurare che trentaquattro detenuti su cento sono in attesa di giudizio, dunque innocenti fino a prova contraria, quando la media europea è del ventidue, e in Gran Bretagna sono il dieci, è violenza. 


Ignorare che un detenuto su tre è tale per reati connessi alla droga, e i più sono ragazzi, e insistere imperterriti a incarcerarli, è violenza. 

Girarsi dall’altra parte quando si denuncia ripetutamente che tre persone al giorno, oltre mille all’anno, finiscono in carcere da innocenti (e si conteggiano solo gli innocenti che hanno ottenuto un risarcimento, degli altri non si sa) è violenza.

Continuare ad aumentare le pene e a codificare nuovi reati in esclusiva e ottusa risposta a pretese emergenze, che equivale all’impotenza dei genitori incapaci di altro che riempire di schiaffi i figli insubordinati, e col dettaglio che lo Stato non ci è né padre né madre, è violenza. 

Assistere alla crescita del numero dei detenuti, anno dopo anno, da anni, mentre i reati commessi diminuiscono da anni, anno dopo anno, è una violenza intollerabile. 

Ed è per di più la violenza pusillanime di chi si nasconde dietro la forza irresistibile della legge e dell’autorità. Tutta questa violenza non porterà niente di buono, neanche a voi.

mercoledì 11 marzo 2020

Tragico bilancio nelle carceri dopo i provvedimenti per il "coronavirus": rivolte in 27 carceri, 12 detenuti morti, 41 agenti feriti, 19 evasi ancora in fuga. Occorrono un'attenzione rinnovata e provvedimenti adeguati e inediti per l'emergenza carcere

Info Oggi
Il guardasigilli Bonafede riferirà oggi in Parlamento sulle rivolte in 27 carceri italiane, seguite alle misure adottatenell'ambito dell'emergenza coronavirus. Un primo bilancio registra 600 posti letto distrutti, danni alle strutture per almeno 35 milioni di euro, psicofarmaci sottratti per 150 mila euro, 12 detenuti morti per overdose, 41 agenti feriti e 19 evasi ancora in fuga.
Continuano le proteste nelle carceri e il numero delle vittime tra i detenuti è salito a 12. Tra gli evasi a Foggia, sono ancora in fuga 19 persone tra cui anche persone vicine alla mafia garganica e un condannato per omicidio. Il ministero della Giustizia fa sapere che si sono conclusi quasi dappertutto i disordini che ieri hanno interessato oltre 20 istituti penitenziari.

In alcuni invece, continua la nota, la situazione non è ancora definita. Il ministero riferisce ancora che “è previsto l’arrivo di 100mila mascherine per i penitenziari italiani”. Alcuni disordini sono scoppiati nel primo pomeriggio anche all’interno del carcere di Santa Maria Maggiore a Venezia. I detenuti hanno iniziato a battere sulle inferriate e poi sono viste delle fiamme: la situazione poi è tornata alla normalità. In serata segnalati disordini anche al carcere del Coroneo di Trieste. I detenuti affacciati alle finestre hanno cominciato a battere sulle sbarre padelle e altri oggetti metallici e urlare a più riprese “Libertà Libertà“.

Intanto sono in corso indagini per capire da chi sia arrivato “l’ordine” di far scattare le rivolte all’interno delle carceri negli ultimi giorni. Lo spiega l’Ansa citando fonti giudiziarie: gli inquirenti puntano anche a verificare un’eventuale “regia occulta” dietro l’organizzazione delle proteste fomentate tra i detenuti negli istituti penitenziari. In particolare, oltre alla procure di Milano, anche Trani avrebbe avviato un’inchiesta per far luce sugli episodi nei carceri delle rispettive città. Le indagini, a 360 gradi, al momento non escludono legami con “organizzazioni” esterne al carcere.

Pronto ‘sfollamento’ di San Vittore a Milano – I motivi delle rivolte, in tutti gli istituti, sono gli stessi: molti chiedono l’amnistia, lamentando la paura del contagio del coronavirus. Altri hanno protestato perché le misure varate dal governo per combattere l’emergenza comprendono anche una serie di restrizioni ai colloqui con i parenti. 


Intanto la Procura di Milano ha aperto un’indagine al momento a carico di ignoti per devastazione, saccheggio e resistenza, in relazione alla rivolta dei detenuti di San Vittore. Che ha fatto riesplodere il problema del sovraffollamento. Per questo il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sta organizzando lo “sfollamento” di San Vittore, ossia il trasferimento di parte dei detenuti in altri istituti di pena. Lo ha detto la Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano Giovanna Di Rosa, spiegando che ci sono celle e reparti “non più agibili e la Nave (la sezione modello per chi ha problemi di droga, ndr) è distrutta“.

Le vittime – A Rieti tre detenuti sono morti dopo aver assunto farmaci rubati dall’infermeria durante la sommossa andata avanti per ore e sedata solo nella notte. Altri 7 sono stati trasportati in ospedale, di questi 3 sono attualmente ricoverati in terapia intensiva, mentre un altro detenuto, più grave, è stato trasferito in elicottero a Roma. Sono nove invece le vittime tra i detenuti del carcere di Modena, dopo la rivolta di lunedì. Cinque sono morti nello stesso penitenziario, gli altri sono tra i reclusi trasferiti ad Alessandria, Verona, Parma e Ascoli. Secondo le prime indagini, avevano assunto psicofarmaci rubati dal cassetto delle medicine dopo l’assalto all’infermeria del carcere. Sono invece 22 le persone medicate al termine delle tensioni nel carcere Bolognese della Dozza. Nessuno di questi è grave.

La rivolta a Siracusa – Dopo i disordini di domenica e lunedì in 22 penitenziari in tutt’Italia, da Modena a Palermo, nella notte nuove rivolte si sono verificate a Siracusa, nel carcere di Cavadonna, dove 70 detenuti hanno dato alle fiamme le lenzuola e hanno utilizzato le brande per sfondare alcuni cancelli. Distrutto l’impianto di videosorveglianza e danneggiata anche una delle due cucine, che è stata resa di fatto inagibile. La protesta dei detenuti ha creato danni importanti al blocco 50, quello di media sicurezza: la popolazione nel carcere è di circa 680 detenuti, un centinaio in più della capienza massima.

Le proteste da Aversa a Palermo – Ad Aversa, nel Casertano, durante il cambio di turno di mezzanotte, i detenuti hanno protestato rumorosamente sbattendo oggetti contro le inferriate e bruciando pezzi di carta nelle loro celle. Un gruppo di detenuti del carcere Pagliarelli di Palermo invece si è impossessato di un piano detentivo prendendo le chiavi della guardia penitenziaria. È in corso una mediazione con la direttrice Francesca Vazzana che assicura che la “situazione sta tornando alla normalità”. Altre proteste sono in corso anche a Campobasso e Matera, ma in questi casi, consistono nella battitura delle sbarre.

Foggia, ancora caccia a 19 detenuti evasi – A Foggia continuano le ricerche di 19 evasi, dopo che si sono costituiti nel pomeriggio ai carabinieri di San Giovanni Rotondo Andrea Quitadamo, Francesco Notarangelo ed un terzo detenuto Bartolomeo Pio Notarangelo, tutti ritenuti legati ad un clan del Gargano. Sono ancora ricercati i due principali evasi, Cristoforo Aghilar – accusato di aver ucciso la mamma della ex fidanzata ad ottobre dello scorso anno ad Orta Nova – e Francesco Scirpoli, anche quest’ultimo ritenuto vicino al clan Garganico. Sono ricercati anche Antonio Borromeo – 27 anni, condannato nel giugno 2019 per la guerra di mala avvenuta a Brindisi fra il 2017 e il 2018 – e Angelo Sinisi, 33 anni, condannato per rapina.

A Melfi liberati i nove ostaggi – Situazione rientrata alla normalità a Melfi (Potenza) dove, dopo circa dieci ore di proteste, sono stati liberati i nove ostaggi – quattro agenti della polizia penitenziaria e cinque operatori sanitari – e i detenuti sono rientrati nelle sezioni. Situazione sotto controllo anche ad Alessandria. La situazione ha provocato reazioni da parte della politica: l’opposizione hanno auspicato l’intervento dell’esercito, mentre i renziani hanno chiesto al ministro della giustizia Alfonso Bonafede di riferire il Parlamento. L’informativa del guardasigilli è stata fissata per mercoledì 11 marzo alle ore 17.

“Le mafie dietro le rivolte” – “I provvedimenti presi hanno proprio la funzione di garantire proprio la tutela della salute dei detenuti e tutti coloro che lavorano nella realtà penitenziaria, ma deve essere chiaro che ogni protesta attraverso la violenza è solo da condannare e non porterà ad alcun buon risultato”, ha detto il ministro della Giustizia. Domenico Pianese, segretario generale del sindacato di Polizia Coisp, ha sottolineato come le proteste siano cominciate contemporaneamente in tutto il Paese: “La contemporaneità delle rivolte all’interno delle carceri italiane lascia pensare che ciò a cui stiamo assistendo sia tutt’altro che un fenomeno spontaneo – ha detto Pianese – C’è il rischio che dietro le rivolte possa esserci la criminalità organizzata“.

Il riassunto delle rivolte in tutta Italia – Le proteste sono iniziate domenica, a Frosinone e a Modena. Detenuti in rivolta a Piacenza, Ferrara, Reggio Emilia e Bologna. Disordini a San Vittore a Milano e a Rebibbia a Roma, con le infermerie assaltate: fuori dal carcere romano si sono radunati i familiari dei detenuti, che per qualche ora hanno bloccato la via Tiburtina. Situazione tornata alla normalità a Regina Coeli, dopo i roghi appiccati per protesta.

A Pavia due poliziotti tratti in ostaggio poi sono stati liberati. Analoghe scene di protesta a Napoli e Salerno, a Torino e Alessandria. Le agitazioni e le rivolte delle scorse ore hanno richiesto l’intervento delle forze dell’ordine anche a Frosinone, Alessandria, Lecce, Bari e Vercelli. Caos anche a Prato. Danneggiato l’istituto penitenziario di Salerno, dove la rivolta è terminata in giornata, mentre ad Ariano Irpino e a Santa Maria Capua Vetere c’è stata una vera e propria rivolta.

A Foggia evasioni di massa – La situazione peggiore si è registrata a Foggia, con oltre 70 detenuti detenuti evasi. In un caso i fuggitivi hanno rapinato un meccanico di auto e attrezzi nella zona del Villaggio Artigiani, l’area nella quale si trova il carcere. Quattro detenuti evasi sono stati fermati sulla tangenziale di Bari: avevano appena rubato un’auto, intercettata grazie al numero di targa. Nel frattempo il penitenziario foggiano, secondo alcune fonti della polizia, era finito completamente in mano ai rivoltosi, che hanno rotto le finestre e divelto un cancello della block house, la zona che li separa dalla strada. All’ingresso della casa circondariale è stato appiccato un incendio.