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sabato 29 giugno 2019

L'analisi della giurista Francesca De Vittor: "Carola è nel giusto rispettando l'obbligo del diritto internazionale, ad essere illegittimo è il decreto sicurezza"

Cattolica News
Il parere giuridico della professoressa Francesca De Vittor sulla vicenda della nave della Ong che non ha rispettato il divieto di fare rotta su Lampedusa. «La comandante non ha fatto altro che rispettare un obbligo imposto dal diritto internazionale»


La comandante della nave Sea Watch 3, Carola Rackete, ha deciso di non rispettare il divieto di ingresso nel mare territoriale italiano e portare finalmente i migranti soccorsi il 12 giugno scorso verso un porto sicuro per lo sbarco. 

Nonostante la si accusi ora di aver violato le leggi dello Stato italiano, e in particolare il divieto di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina previsto dall’art. 12 del d.lgs. 186/1998 e il divieto di ingresso imposto dal Ministro dell’Interno sul fondamento del DL 53/2019, c.d. sicurezza-bis, la comandante Rackete, fin dall’inizio dei soccorsi, non ha fatto altro che rispettare un obbligo imposto dal diritto internazionale e dalle leggi sia italiane sia del suo stato di bandiera. 
Ciò che in tutta questa vicenda appare invece manifestamente illegittimo, sia dal punto di vista del diritto costituzionale italiano sia del diritto internazionale è proprio il c.d. decreto sicurezza bis.
L’obbligo di soccorso in mare è previsto sia dal diritto internazionale consuetudinario (che nel nostro ordinamento ha valore di diritto costituzionale in base al rinvio operato dall’art. 10 Cost.), sia dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (CNUDM) e dalla Convenzione di Amburgo sulla ricerca e il soccorso in mare (SAR) (entrambe ratificate dall’Italia e che nel nostro ordinamento hanno valore di legge, anzi superiore alla legge per l’art. 117 Cost.). Per previsione espressa di quest’ultima Convenzione il soccorso si conclude solo con lo sbarco delle persone in un porto sicuro, che è un porto in cui la loro vita non è più in pericolo e i diritti umani fondamentali sono loro garantiti.

L’unico porto di sbarco che era stato indicato alla Sea Watch 3 è il porto di Tripoli, dove nessuno sbarco di migranti è lecito perché in ragione delle gravissime violazioni dei diritti umani fondamentali che i migranti subiscono in Libia, nonché del conflitto in corso, la Libia non può essere in alcun modo considerata un porto sicuro (si veda da ultimo la Raccomandazione agli stati della Commissaria ai diritti umani del Consiglio d’Europa). 

Come deciso dal GIP di Trapani in una recente sentenza l’essere riportati in Libia avrebbe costituito un’offesa ingiusta alla quale i migranti stessi avrebbero potuto opporsi anche con la forza in legittima difesa (art. 52 c.p.).

Una volta chiarito che verso Tripoli la Sea Watch non avrebbe in alcun caso potuto dirigersi, la comandante si è lecitamente diretta verso il porto sicuro più vicino, e quindi Lampedusa. Tutti gli stati membri della Convenzione SAR hanno l’obbligo di cooperare affinché il comandante della nave che ha prestato soccorso sia liberato dalla propria responsabilità (ovvero possa far sbarcare le persone soccorse) nel minor tempo possibile e con la minor deviazione dalla propria rotta.

L’aver individuato Lampedusa come luogo di sbarco costituisce quindi non solo un comportamento legittimo, ma anche il più ovvio da parte della Comandante che aveva una legittima aspettativa di vedersi assegnare lì un luogo di sbarco. Starà alla magistratura valutare eventuali responsabilità penali a carico della comandante e dell’equipaggio della nave, ma è presumibile che anche qualora eventuali comportamenti illeciti siano constatati venga comunque riconosciuta la scriminante dello stato di necessità (art. 54 c.p.) o dell’aver commesso il fatto in adempimento di un dovere (art. 51 c.p.). Va in ogni caso ricordato che in nessuno dei casi in cui sono state aperte indagini a carico di Ong per i soccorsi in mare si è mai giunti a una condanna: quando i giudici si sono pronunciati hanno sempre considerato legittimo il comportamento di chi aveva prestato il soccorso in mare.

Se di responsabilità si vuole parlare, sarebbe meglio parlare di quelle dell’Italia. Va infatti considerato che la nave, probabilmente già da prima, ma sicuramente da quando è entrata nelle acque territoriali italiane, si trova sotto la giurisdizione dell’Italia per l’applicazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, pertanto il prolungarsi del trattenimento a bordo della nave dei migranti, già estremamente provati, integra da parte dello Stato italiano una violazione dell’art. 3 e dell’art. 5 della Convenzione (su questa conclusione non incide il rifiuto della Corte di imporre all’Italia misure cautelari ed urgenti, tale pronuncia, infatti, non è sul merito della vicenda ma appunto solo sulla misura cautelare).

In un periodo in cui le più fondamentali norme dell’ordinamento internazionale e costituzionale sono sempre più spesso violate da politiche di ostacolo alle operazioni di soccorso in mare, studiosi e operatori del diritto sono chiamati a confrontarsi nel tentativo di fare chiarezza sul contenuto del diritto nazionale e internazionale applicabile e sulle conseguenze della sua violazione. È questo lo scopo della tavola rotonda su “La politica dei porti-chiusi. Questioni di legittimità e responsabilità nazionale ed internazionale” organizzata in Università Cattolica lunedì 15 luglio dalle 16.30 alle 18.30.

di Francesca De Vittor: docente di Diritto internazionale e Diritti dell’uomo alla facoltà di Giurisprudenza

Spagna - La Guardia costiera, fa il suo lavoro e salva 130 migranti nel Mare di Alboran

AGI
La Guardia costiera spagnola ha soccorso 130 migranti, tra loro 15 donne e un bambino, che si trovavano a bordo di due imbarcazioni localizzate nel Mare di Alboran. 

La prima richiesta di soccorso è arrivata alle 14 per una barca partita da Bouyafar, in Marocco. Poco dopo, il centro di coordinamento dei soccorsi ha ricevuto una seconda informazione sulla partenza di un'altra barca, questa volta dalla baia di Al Hoceima.
Le due imbarcazioni sono state localizzate dall'aereo "Jason 45" dell'Aeronautica militare. Verso le 18.30 la motovedetta "Salvamar Spica" ha raggiunto la prima barca e ha soccorso i suoi 77 occupanti e poco dopo e' intervenuta la motovedetta "Salvamar Hamal" per la seconda operazione di recupero.

Sea Watch, De Falco ex comandante della Guardia Costiera e attualmente senatore: «Carola Rackete dovrà essere liberata, non era tenuta a fermarsi»

Il Messaggero

Sea Watch, De Falco: «Carola Rackete dovrà essere liberata, non era tenuta a fermarsi»
Sull'arresto della comandante della Sea Watch interviene Gregorio De Falco, ex comandante della Guardia Costiera e attualmente senatore del Gruppo Misto.





 

«L'arresto di Carola Rackete è stato fatto per non essersi fermata all'alt impartito da una nave da guerra ma la nave da guerra è altra cosa, è una nave militare che mostra i segni della nave militare e che è comandata da un ufficiale di Marina, cosa che non è il personale della Guardia di Finanza. Non ci sono gli estremi. La Sea Watch è un'ambulanza, non è tenuta a fermarsi, è un natante con a bordo un'emergenza. La nave militare avrebbe dovuto anzi scortarla a terra».

«Sea Watch non avrebbe potuto andare in altri porti, il più vicino è Lampedusa e non aveva alcun titolo a chiedere ad altri, sebbene lo abbia fatto. Ha atteso tutto quello che poteva attendere - continua De Falco - finché non sono arrivati allo stremo; a quel punto il comandante ha detto basta ed è entrata per senso di responsabilità. È perverso un ordinamento che metta un uomo, o una donna in questo caso, di fronte a un dramma di questo tipo. Quella nave aveva un'emergenza e aspettava da troppo».

Disobbedienza civile di Carola Rackete. Il suo arresto la può far stare in compagnia di Thoreau, Rosa Parks, Eden Gundz e altri che hanno violato la legge per restare umani

Blog Diritti Umani - Human Rights
Ci sono stati e ci sono tutt’ora momenti, nella vita di un popolo, in cui la “disobbedienza civile” è necessaria. La disobbedienza, a volte, serve per affermare principi morali universali, per rimanere umani, per fronteggiare ingiustizie.


Carola Rackete, che ha attuato questa disobbedienza si potrebbe collocare nella lunga schiera di chi l'ha messa in atto. La storia ha dato ragione a questi testimoni di giustizia e umanità evidenziando la disumanità e l'ingiustizia degli Stati che li hanno repressi.

Henry David Thoreau condanna apertamente le scelte del governo statunitense, in particolare la permissione della schiavitù e la guerra espansionistica contro il Messico; per questi motivi egli si rifiutò di pagare le tasse, tentando di boicottare la politica del governo e di non contribuire al rafforzamento dello schiavismo nel Sud, ma presto venne incarcerato (solo per una notte, poiché probabilmente una sua zia pagò per lui la tassa in questione).

Il 1 dicembre 1955, Rosa Parks, una signora afroamericana, stava tornando a casa in autobus e andò a sedersi nel settore di mezzo. Poco dopo salirono sull'autobus alcuni passeggeri bianchi. Il conducente le ordinò di alzarsi, cedere il posto ai bianchi e andare nella parte riservata ai neri. Rosa si rifiutò. Il conducente fermò così l'automezzo e chiamò la polizia per risolvere la questione: Rosa Parks fu arrestata e incarcerata per condotta impropria e per aver violato le norme cittadine.

Un altro storico episodio ha visto per protagonista il “Rivoltoso Solitario”. Il Rivoltoso Solitario è il soprannome dato all’anonimo ragazzino cinese che, durante la protesta di piazza Tienanmen del 5 giugno 1989, a Pechino, si mise davanti a dei carri armati per fermarli.

Erdem Gunduz, un giovane coreografo di Istanbul, si è fermato in una piazza Taksim presidiata della polizia. Dalle ore 20 è rimasto in piedi, in silenzio per sei ore a fissare il ritratto di Mustafa Kemal Ataturk, rappresentato su uno stendardo appeso in mezzo alla piazza. Poco a poco, molte persone si sono avvicinate e hanno seguito il suo esempio.
The Standing Man, Erdem Gunduz, è rimasto in piedi, immobile e in silenzio dalle 20.00 di lunedì alle 2.00 di martedì, ora in cui la polizia lo ha arrestato

ES

venerdì 28 giugno 2019

Bartolo: "Torno alla mia Lampedusa, la priorità è mettere in salvo i migranti della Sea Watch"

Globalist
Il medico dell'isola neoeletto eurodeputato: "seguirò più da vicino la vicenda, ho scritto al commissario europeo per chiedergli di sollecitare il governo italiano".

Pietro Bartolo, il medico di Lampedusa neoeletto al Parlamento europeo, ha annunciato che sta tornando verso la sua isola per "seguire la vicenda della SeaWatch con più attenzione"

"Ma non potevo lasciare Bruxelles senza dare seguito al mandato che gli elettori mi hanno consegnato: cercare di costruire percorsi che portino a risposte concrete sul tema della gestione dei flussi migratori" ga scritto su Facebook Bartolo.

"Ringrazio l'intera delegazione del Partito Democratico per avere deciso di sottoscrivere la mia lettera al commissario Avramopoulos - aggiunge -, in cui chiediamo di sollecitare il governo italiano a facilitare lo sbarco immediato delle persone a bordo della Sea Watch 3 e richiedere ai paesi Ue la disponibilità alla ricollocazione e distribuzione dei richiedenti asilo.

Intanto la nostra priorità resta soltanto una: mettere in salvo prima possibile le persone che stanno trascorrendo il loro 15esimo giorno a bordo della Sea Watch. È il momento dei fatti, le polemiche le lasciamo a chi non ha argomenti e sa solo insultare".

Eritrea, per vendicarsi delle critiche dei Vescovi al governo, il regime chiude 21 ospedali della Chiesa e porta via a forza i malati e li abbandona.

Tempi
Decine di migliaia di malati rischiano di morire in Eritrea, dopo che il regime ha chiuso 21 stabilimenti sanitari della Chiesa cattolica. Come riportato da tempi.it, due settimane fa il regime ha requisito tre ospedali, due centri sanitari e 16 cliniche. Secondo nuove informazioni pervenute a Aide à l’Église en détresse, l’esercito ha fatto irruzione nelle cliniche trascinando fuori a forza i malati e abbandonandoli nelle strade.


Fonti della Chiesa cattolica hanno dichiarato che se il governo non riaprirà rapidamente le cliniche, migliaia di persone potrebbero morire. La Chiesa, che ogni anno cura 170 mila malati, ha inviato una lettera al governo per protestare, ricordando che «privarci di queste istituzioni mina la nostra stessa esistenza ed espone i nostri dipendenti, religiosi e laici, alla persecuzione».

«Il governo lasci in pace la chiesa»
Alcuni direttori d’ospedale si sono rifiutati di consegnare le chiavi ai soldati, che «hanno fatto irruzione con la forza e l’effrazione». Un contatto eritreo aggiunge:
«Il nostro messaggio al governo è chiaro: lasciateci in pace. È dovere della Chiesa prendersi cura dei malati, dei poveri e dei moribondi. Nessuno, tantomeno il governo, può dire alla Chiesa di non fare il suo lavoro. I nostri istituti rispettano alla lettera le direttive del ministero della Salute e i supervisori ci apprezzano anche molto. Noi non siamo concorrenti dello Stato, completiamo solo il loro lavoro».


Lo Stato ha requisito le cliniche alla Chiesa per vendicarsi delle critiche rivolte dai vescovi al governo del dittatore Isaias Afewerki, che continua a rimandare le riforme democratiche promesse, nonostante il conflitto militare con l’Etiopia sia ormai concluso. Il regime vorrebbe essere il solo fornitore di cure mediche, ma la gente preferisce affidarsi alla Chiesa, che ha strutture migliori e professionisti più dedicati.

La speranza dei vescovi cattolici è che il regime faccia marcia indietro, ma altri stabilimenti requisiti dal governo due anni fa sono stati chiusi in modo definitivo. Anche per questo i prelati hanno rivolto un appello al governo britannico e alla comunità internazionale perché metta pressione ad Afewerki affinché faccia marcia indietro.

Leone Grotti

giovedì 27 giugno 2019

Scandalo in USA. 300 bambini-migranti, detenuti in stato pietoso. Separati dai genitori e ammassati nelle celle! Sporchi, abbandonati, malati.

Avvenire
Un gruppo di legali è entrato nel centro di El Paso: è scoppiata la bufera che ha travolto le autorità.


Foto di repertorio
Gli oltre 300 piccoli, da tempo reclusi dopo la separazione dai genitori, sono stati trasferiti dal Texas. Si dimette il capo delle frontiere. Sporchi, abbandonati, malati. Così un gruppo di avvocati ha trovato oltre 300 baby-migranti detenuti nel centro di Clint, vicino alla texana El Paso, dopo essere stati separati dalle loro famiglie.
L'effetto del loro racconto, raccolto dai media, è stato dirompente. L'indignazione dell'opinione pubblica ha "costretto" le autorità a prendere misure immediate. I piccoli sono stati trasferiti e, perfino, la Casa Bianca, attraverso il vicepresidente, Mike Pence, ha condannato l'accaduto. Il problema, però, resta. 

La politica di "tolleranza zero" inaugurata da Donald Trump, con la decisione di recludere minori e famiglie in attesa dell'esame della richiesta d'asilo, ha mandato in tilt il sistema. I luoghi di detenzione sono al collasso.

Lo dimostra il fatto che un gruppo di cento bambini portati via da Clint sono poi ritornati al punto di partenza, ieri, senza alcuna spiegazione. La vicenda è cominciata lunedì quando un gruppo di legali ha ottenuto l'autorizzazione di visitare il centro. 
Gli avvocati si sono trovati di fronte una situazione sconfortante: i bimbi erano chiusi "celle orrende", sovraffollate, e "gravemente trascurati", tanto che gli adolescenti si prendevano cura dei più giovani.
Evidenti le pessime condizioni igienico- sanitarie: non solo mancavano docce, sapone, dentifricio e spazzolini, ma pure cibo e coperte. I piccoli erano sporchi, con indosso gli stessi indumenti con cui avevano oltrepassato il confine, infestati di pidocchi e malati per aver dormito per settimane per terra su pavimenti di cemento.

In un primo tempo, i funzionari del dipartimento dell'immigrazione Usa hanno cercato di difendersi sostenendo che nulla di quanto riportato rappresentava una violazione delle regole. Hanno, però, dovuto ammettere che i centri in questione sono attrezzati per ospitare i migranti per un massimo di tre giorni, mentre ora la reclusione si prolunga. Le giustificazioni non hanno, però, convinto i cittadini e nemmeno le istituzioni. La stessa portavoce dell'ufficio del reinsediamento dei rifugiati - che è parte del ministero della Sanità - ha detto di essere di fronte a "una crisi umanitaria" che "peggiora di giorno in giorno".

Alla fine, il commissario temporaneo per la sicurezza delle frontiere, John Sanders, ha presentato le dimissioni. Nelle stesse ore, i legislatori dibattevano una misura di emergenza per far fronte all'esaurimento dei fondi per la gestione dei centri di detenzione prevista per la fine del mese. Il finanziamento di 4,5 miliardi di dollari - tra cui 2,9 miliardi di dollari per l'assistenza à rifugiati e ai migranti - deve essere autorizzato dalla Camera e dal Senato prima della scadenza del 4 di luglio. Il presidente Trump potrebbe, però, imporre il veto a meno di non ottenere dall'opposizione qualche concessione nella lotta all'immigrazione irregolare.
Loretta Bricchi Lee

Migranti, 10 tunisini sbarcano a Lampedusa mentre la Sea-Watch resta fuori dal porto. Altri 40 in arrivo su due barchini.

La Repubblica
Mentre la Sea Watch è ancora ferma davanti alla costa di Lampedusa, sono approdati direttamente in porto altri dieci migranti, presumibilmente tunisini, con un barchino. 


A bordo della piccola barca anche una donna e un minorenne. I dieci sono arrivati al molo della madonnina, sotto gli uffici della capitaneria di porto. "Per lo sbarco dei dieci tunisini il porto non era chiuso? Non c'erano le telecamere?" ha commentato il sindaco di Lampedusa 


Salvatore Martello.

Altri 40 in arrivo
Ci sono altri due barchini con una quarantina di migranti a bordo che nelle prossime ore potrebbero entrare in acque italiane ma questa volta Matteo Salvini ha dato ordine alle motovedette italiane di fermarli.
"E' una questione di principio", ha detto il ministro dell'Interno a Porta a Porta dando notizia di queste due piccole imbarcazioni che sono state segnalate in zona Sar maltese. "Malta certamente come è solita fare non le fermerà e le lascerà passare in direzione Italia ma questa volta ho dato disposizione di fermarli".

Per fare poi cosa Salvini non lo ha spiegato. Per le motovedette italiane l'intervento di polizia giudiziaria in acque internazionali non è consentito come non è consentito dalla legislazione internazionale il respingimento dei migranti. 

Fino ad ora i cosiddetti sbarchi autonomi, cioè delle imbarcazioni che riescono a raggiungere le acque italiane, si sono susseguiti quotidianamente e le motovedette italiane sono intervenute soltanto per portare a terra i migranti. Sono arrivati così poco meno della metà dei 2500 immigrati sbarcati nel 2019 in Italia

Alessandra Ziniti

26 giugno - Giornata Internazionale Contro la Tortura - Sono decine di migliaia nel mondo ogni anno le vittime di tortura

Vatican News
Il 26 giugno Giornata internazionale a sostegno delle vittime di tortura, una pratica aberrante, ancora largamente diffusa nel mondo. Intervista con Riccardo Noury, portavoce in Italia di Amnesty International.

I lager in Libia
La tortura è un crimine sancito dal diritto internazionale, non è mai consentita né giustificata, nemmeno in casi di emergenza, instabilità politica, minaccia di conflitto armato e perfino stato di guerra. Lo ricorda l’Onu, in vista della Giornata internazionale a sostegno delle vittime di tortura, che ricorre il 26 giugno, istituita nel 1997 per rimarcare quanto stabilito già 70 anni fa nella Dichiarazione Universale dei diritti umani, proclamata nel dicembre del 1948: “nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura, a trattamenti o a punizioni crudeli, inumani o degradanti”.


Una grande sfida non ancora vinta dalle Nazioni Unite
Eliminare la pratica della tortura è stata tra le prime e maggiori sfide affrontate dalle Nazioni Unite, fino all’approvazione nel 1984 della Convenzione contro la tortura, i trattamenti e le punizioni crudeli, inumani e degradanti, entrata in vigore nel 1987 ed oggi ratificata da 163 Paesi, gran parte dei quali si rende però colpevole di trasgressioni, come denunciato da diverse organizzazioni umanitarie.
Oltre 50 mila le vittime registrate ogni anno
La lotta a questa pratica aberrante e vigliacca, che mira ad annientare la personalità della vittima e a negare la dignità della persona, deve continuare e rafforzarsi così come il sostegno a quanti, centinaia di migliaia di donne, uomini, giovani, sono stati in passato e sono ancora oggi torturati. Il Fondo dell’Onu per le vittime della tortura - sorto nel 1981 e finanziato con contributi volontari degli Stati - assiste ogni anno oltre 50 mila persone. Sono vittime di torture fisiche e psichiche, ed è difficile stabilire se i danni permanenti alla persona siano più gravi, in un caso o nell’altro.
La tortura persiste anche negli Stati sviluppati
Allo scopo di prevenire la tortura le Nazioni Unite hanno attivato un sistema di visite regolari nei Paesi da parte di organismi internazionali e nazionali indipendenti, ma l’alto numero di vittime sopravvissute, molte delle quali non riconosciute e non sostenute, è la prova della drammatica persistenza di questa pratica in tutto il mondo, sovente tollerata anche nei Paesi democratici nel contesto della lotta al terrorismo. Altissima resta l’impunità, tanto che in molti Stati le prove d’accusa ottenute con la tortura sono ammesse nei tribunali, nonostante studi in materia ed opinioni di criminologi abbiamo dimostrato l’incertezza e l’infondatezza di questo ‘strumento’ coercitivo d’indagine: sotto tortura la vittima sovente fa il primo nome che ricorda, incolpa chiunque perfino se legato da vincoli affettivi, confessa reati non commessi.
Maggiore consapevolezza dell’opinione pubblica
La strada per eliminare la tortura nel mondo è ancora lunga e richiede nuovi interventi e maggiore consapevolezza nella pubblica opinione della gravità del fenomeno, come spiega 
Riccardo Noury, portavoce in Italia di Amnesty international.

R. – Purtroppo non siamo a un punto incoraggiante perché buona parte dei Paesi che hanno firmato e ratificato la Convenzione dell’Onu contro la tortura, negli anni successivi alla sua adozione, si sono resi responsabili di torture saltuarie o sistematiche, non dando la minima idea di voler rispettare il dettato di quel trattato. La tortura in altre parole è universalmente vietata e quasi universalmente praticata. Ogni anno Amnesty international ha riscontrato casi di maltrattamenti e torture in un centinaio di Paesi. Certamente il continente in cui la tortura è maggiormente impiegata resta l’Asia, l’Oriente considerato come vicino e lontano, quindi dal Medio Oriente in poi è pratica sistematica, quasi politica di governo di molti Paesi. Però non c’è un continente nel quale la tortura sia stata definitivamente messa al bando. Può esserlo nelle forme più rudimentali delle torture fisiche. Però oggi in molti Stati, soprattutto quelli più sviluppati, ci sono forme di tortura che non prevedono il contatto tra il torturatore e il torturato. Penso all’isolamento sistematico o a tutta una serie di tecniche di deprivazione sensoriale che sono state praticate a Guantanamo da parte degli Stati Uniti, così come in altri Paesi, come la Cina, nei confronti di prigionieri politici.

La tortura è anche un business.
R. – E’ un grande business. Questo chiama in causa i Paesi più ricchi, quelli che dovrebbero essere all’avanguardia dal punto di vista dello sviluppo di una civiltà giuridica in favore del rispetto dei diritti umani. Questi Stati, invece, usano l’avanzamento tecnologico per produrre marchingegni infernali dalle sedie di contenimento fino ai manganelli elettrici, dalle cinture elettriche ai manganelli acuminati e altre diavolerie che oggi sono da tortura moderna, quella che lascia poche tracce visibili sui corpi delle persone ma segni indelebili nella psiche. Se penso all’orrore di alcuni strumenti, come le sedie o le cinture elettriche - usate in molti Stati negli Usa o nel Sudafrica - che scaricano alta tensione sui reni del prigioniero che ha queste cinture costantemente intorno alla vita… Ci sono pochi altri strumenti dell’orrore come quelli.

La tortura è ancora largamente praticata però se ne parla poco.
R. – E’ vero, è quasi un tabù ma è quasi come non esistesse più. Oppure c’è la consapevolezza che esiste ma è qualcosa che allontaniamo da noi perché incompatibile con il livello di civiltà e sviluppo che abbiamo raggiunto e devo dire anche perché sempre di più la tortura ha obiettivi mirati, serve contro le minoranze, contro i dissidenti, contro i cittadini stranieri, contro gli appartenenti a fedi religiose minoritarie, contro le donne, contro le persone Lgbt. Persone che nella maggioranza dei casi non suscitano grande attenzione o solidarietà. E’ come se venisse riservata in qualche modo agli ‘altri’ e dunque c’è un parte della società che non se ne interessa.

Quest’anno qual è l’impegno di Amnesty su questo importante fronte dei diritti umani?
R. – C’è un’importante scadenza. In questi giorni nell’Assemblea generale delle Nazioni Unite si discute una risoluzione per stringere e rafforzare i controlli sull’esportazione di strumenti di tortura. Nel mondo non c’è ancora un consenso sul fatto che queste ‘diavolerie’ non debbano essere prodotte o commercializzate; perfino l’Unione europea ha regolamenti molto blandi con un sacco di scappatoie. Allora, questa risoluzione dovrebbe rafforzare tutti i controlli impedendo che si facciano soldi letteralmente sulla pelle delle persone e quindi l’intento di questi giorni è di arrivare all’adozione di questa risoluzione all’Onu.


Roberta Gisotti

mercoledì 26 giugno 2019

Il paradosso di Lampedusa, 300 migranti arrivati in un mese con gli scafisti, accolti e assistiti. Se arrivano con le ONG sono sequestrati sulle navi.

La Repubblica
Usano piccoli barchini e il trucco della «nave madre», tutti vengono avviati alle strutture di accoglienza.
A Lampedusa, nell’ultimo mese, sono successe molte cose. Certo, la Sea Watch che oggi ha deciso di forzare il blocco per tentare di far sbarcare i suoi 43 migranti esausti, è la più drammatica. 


Ma nel silenzio, un giorno dopo l’altro, circa 300 migranti hanno toccato le coste dell’isola arrivando con i barconi e sono stati avviati alle strutture di pronto intervento. Gli ultimi 8, secondo quanto fa sapere il sindaco Totò martello, sono approdati stanotte. 

Il paradosso è evidente: chi arriva grazie agli scafisti trova accoglienza, chi viene soccorso dalle ong viene ostacolato con ogni mezzo ed è costretto a trascorrere settimane in balìa del mare. Ma non solo a Lampedusa il confine italiano si sta rivelando molto permeabile: continuano gli sbarchi anche lungo la rotta ionica che ha il suo terminale in Calabria.

[...]

Frontiere non chiuse
Ma nelle settimane precedenti, sempre a piccoli gruppi, altre 200 persone circa sono riuscite ad arrivare a Lampedusa: senza l’ausilio di navi Ong i barchini sono arrivati in prossimità della costa e qui la Guardia di Finanza o la Guardia Costiera hanno soccorso gli occupanti delle imbarcazioni. Nessuno di loro è stato rimandato indietro, tutti hanno trovato accoglienza. 

Così come sono rimaste in Italia le altre persone (anche in questo caso almeno un centinaio) giunte nella zona di crotone e Isola Capo Rizzuto a bordo di barche a vela: sono tutte partite dalla Turchia grazie a skipper russi o ucraini (spesso arrestati) e usano l’espediente della navigazione a vela proprio per sfuggire ai controlli.di Claudio Del Frate

Migranti - Il Mediterraneo è un cimitero. Cadavere trovato in una rete da pesca al largo di Agrigento

TGCom24
Il cadavere di un uomo è stato recuperato in mare, a circa 25 miglia dalla costa di Sciacca (Agrigento), da un motopeschereccio che ha poi avvisato la guardia costiera.
 

Il corpo è stato trovato aggrovigliato in una rete da pesca e portato sulla banchina Marinai d'Italia di Sciacca. Secondo il comandante dell'Ufficio circondariale marittimo potrebbe trattarsi di un migrante annegato nel tentativo di raggiungere il nostro Paese.

Confine USA-Messico - La foto shock mostra le raccapriccianti conseguenze del confine chiuso da un muro

La Repubblica
Lo scatto al confine tra Messico e Stati Uniti. Erano salvadoregni. Trovati morti altre 4 persone, una donna, due bambini e un neonato. La Camera stanzia 4,5 miliardi di aiuti per risolvere la crisi al confine.



Washington - Come la foto del piccolo Aylan. Lo scatto shock di un padre e la sua bimba di due anni morti annegati nel Rio Grande mentre cercavano di attraversare il confine tra Messico e Stati Uniti evitando il muro indigna l'America. Ed è destinata a diventare il simbolo della tragedia dei migranti dal Centro America così come l'immagine del corpicino di Aylan riverso su una spiaggia turca è divenuta il triste simbolo dell'immigrazione verso l'Europa.

Oramai sulla terribile immagine scattata sul fiume che separa il Messico dal Texas si sa quasi tutto. L'uomo era un cittadino salvadoregno, Oscar Alberto Martinez, la sua figlioletta Angie Valeria. I due corpi sono a faccia in giù, immersi nell'acqua di un canneto sporca di fango, trasportati a riva dalla corrente sulla sponda sud del fiume. 

Si vede la bimba ancora con le scarpette, legata al padre da quella che sembra essere una maglietta con il quale l'uomo forse cercava di tenere la piccola stretta a sè nel disperato tentativo di proteggerla. Il braccio della bimba è ancora attorno al collo del padre. Non ci sono parole, i commentatori in tv a stento trattengono l'emozione e in qualche caso le lacrime.

La disgrazia sarebbe avvenuta domenica e i due corpi sono stati ritrovati lunedì. Saranno rimpatriati nei prossimi giorni. Il ministro degli affari esteri di El Salvador ha intanto invitato le famiglie che tentano di migrare negli Usa di ripensarci: "Non rischiate". Mentre gli agenti federali che vigilano sulle frontiere della zona hanno trovato quattro morti nei pressi del Rio Grande: si tratta di una giovane donna, di due bambini e di un neonato. Le autorità affermano che le vittime sono probabilmente decedute per disidratazione ed esposizione all'eccessivo caldo.

Le principali emittenti Usa e i media sul web ripropongono in continuazione quelle immagini che sono come un pugno nello stomaco. Ma dalle autorità americane silenzio. L'unico fragore che si può sentire è quello delle polemiche politiche, con la Camera a maggioranza democratica che stanzia 4,5 miliardi da destinare alla crisi del confine sud e la Casa Bianca già pronta al veto. Mentre il massimo responsabile dell'agenzia federale che gestisce i campi al confine del Messico dove vengono trattenuti i bambini separati dalle famiglie illegali è costretto a dichiarare le dimissioni, dopo che un gruppo di legali ha testimoniato le condizioni terribili in cui i minori sono costretti a vivere: senza cibo adeguato, con scarsa assistenza medica, i neonati che vengono accuditi da altri minori. Una situazione che ha destato la preoccupazione anche del presidente Donald Trump. Tanto più che nell'ultimo anno sono ben sei i bambini che hanno perso la vita.

martedì 25 giugno 2019

USA - Per il governo i bambini migranti possono fare a meno del sapone e dormire per terra

agi.it
Neanche dormire per terra in celle sovraffollate violerebbe "standard igienico-sanitari" accettabili. Lo rivela Newsweek facendo scattare l'indignazione per la tesi sostenuta dall'amministrazione Trump. Per il governo Usa i bambini migranti detenuti al confine tra Stati Uniti e Messico non hanno bisogno di prodotti fondamentali per l'igiene, come per esempio sapone e spazzolini da denti. E anche dormire "a basse temperature su pavimenti di cemento in celle affollate" non contraddice l'esigenza di mantenerli in condizioni "sicure" e secondo standard sanitario-igienici accettabili.


Se non altro, come rivela il settimanale Newsweek, è quanto l'amministrazione Trump ha sostenuto questa settimana davanti ad un tribunale del nono distretto a San Francisco: davanti ai giudici federali il governo di Washington ha affermato di non aver violato la legge secondo il precedente stabilito da una class action del 1985, che decretò delle linee guida per quello che concerne le condizioni che devono essere garantite ai minori detenuti in strutture federali destinati ai migranti.

È da quel caso - Jenny Lisette Flores versus Edwin Meese - che furono formulate le regole sulla tempistica del riaffidamento dei minori ai loro parenti e sull'esigenza di mantenere i minori in strutture "sicure e igieniche". Alcuni giorni fa l'argomento su cui si è basata la difesa del Dipartimento di Giustizia era che quelle regole non implicano automaticamente che i piccoli debbano usare "spazzolini da denti" o "asciugamani" perché si possa parlare di condizioni sicure e coerenti dal punto di vista sanitario e igienico.

Lo stesso vale per quanto riguarda il dormire per terra. "Voi seriamente state sostenendo che essere messi in grado di dormire non è una questione di un trattamento sicuro e igienico", ha chiesto la giudice Marsha Berzon ai funzionari del dipartimento. Anche altri membri della corte hanno espresso il loro sdegno, rileva il settimanale americano: "Trovo inconcepibile che il governo sostenga che stare tutta la notte al freddo dormendo su un pavimento di cemento, con le luci sempre accese e solo una carta stagnola come lenzuolo, sia sicuro e igienico", ha aggiunto il giudice William Fletcher.

Almeno sette bambini migranti, ricorda ancora Newsweek, sono morti mentre erano detenuti dalle autorità statunitensi sin dalla fine del 2018, da quando cioè è stata avviata la pratica di separarli dalle rispettive famiglie. A detta di John Sanders, commissario responsabile delle autorità di frontiera, la sua agenzia avrebbe bisogno di altri 4,6 milioni di dollari per prevenire ulteriori morti. Il numero esatto di bambini deceduti mentre erano in mano alle strutture del governo federale non è certo, afferma Newsweek, "a causa di una legge che non obbliga le diverse agenzie responsabile di far registrarne i casi".

Circa 15.500 bambini e giovani migranti sono stati registrati dalle autorità messicane per la migrazione nei primi quattro mesi dell'anno, 130 al giorno. Sono queste le cifre riportate dall'Unicef che cita le ultime stime dell'Istituto Nazionale per le Migrazioni. Si tratta di un aumento di oltre il 50% rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso. La maggior parte dei minori provengono da Honduras, Guatemala ed El Salvador, Paesi dove il tasso di omicidi adolescenziali è tra i più alti al mondo. 

Il Messico è stato per decenni un Paese di origine, di transito e di destinazione per le famiglie in fuga dalla povertà, dalla violenza delle bande, dall'estorsione e dalle minacce di morte. Da tempo anche i migranti che sono stati rimpatriati dagli Stati Uniti e questi ritorni continueranno.

lunedì 24 giugno 2019

La diocesi di Torino pronta ad accogliere i 43 migranti della Sea Watch - Nosiglia: "Se il Governo è d'accordo ce li andiamo a prendere sulla nave"

Globalist
“La diocesi di Torino è disponibile ad accogliere le 43 persone che sono a bordo della Sea Watch al largo di Lampedusa, senza oneri per lo Stato, perché al più presto si possa risolvere una situazione grave e ingiusta” ha detto l’arcivescovo di Torino, Cesare Nosiglia, al termine della messa per San Giovanni, patrono di Torino.

“Come vescovo e come cristiano sento tanta sofferenza”, ha aggiunto invocando l’aiuto di San Giovanni “che ha sempre difeso i poveri”. “Noi ci siamo. Torino ha un numero abbastanza elevato di famiglie disposte ad accoglierli, è una particolarità specifica della nostra città” prosegue Nosiglia, “non ci sono solo realtà istituzionali o del terzo settore ma anche famiglie che hanno dato la loro disponibilità. Siamo pronti. Se il Governo e il ministro sono d’accordo li andiamo a prendere e li portiamo su, ma credo sia una disponibilità che potrebbe essere accolta per trovare uno sbocco a questa situazione”.


Cecenia. Scarcerato Oyub Titiev, attivista per i diritti umani. Era stato arrestato con false accuse di possesso di droga.

La Stampa
È stato scarcerato l'attivista Oyub Titiev, capo della sede cecena della Ong Memorial, condannato lo scorso marzo a quattro anni di detenzione, con l'accusa di possesso di droga, in un processo che secondo i suoi difensori è stato orchestrato appositamente per ostacolare il lavoro della Ong in Cecenia.

Oyub Titiev
Lo scorso 10 giugno, il tribunale della città di Shali gli aveva concesso la libertà vigilata. Nel gennaio 2018, Titiev, 61 anni, era stato fermato in circostanze strane dalla polizia che, secondo la difesa, ha gettato nella sua automobile un sacchetto con 200 grammi di marijuana per poi aprire un procedimento penale nei suoi confronti.

Molte le figure di spicco nel panorama internazionale scese in campo per la scarcerazione dell'attivista. Human Rights Watch ne aveva chiesto l'immediata liberazione, denunciando un processo "basato su prove false e e motivato politicamente". 

Il leader ceceno, Ramzan Kadyrov ha alla fine accolto con favore la decisione di concedere la libertà vigilata a Titiev.

USA - Mississippi. Corte Suprema annulla condanna a morte di Curtis Flowers: "Esclusero giudici neri"

Il Giornale
Secondo il detenuto, nei processi a suo carico, il procuratore si sarebbe opposto alle nomine di giudici di colore. Condannato a morte per 4 omicidi, ma ora la sua sentenza è stata annullata. 

Curtis Flowers
Il motivo? Dalla giuria erano stati esclusi membri di colore. Negli Stati Uniti, la Corte Suprema ha deciso, con 7 pareri favorevoli su 9, di annullare la condanna a morte del detenuto afroamericano, sulla base di accuse di discriminazione razziale. 

Era stato il detenuto nel braccio della morte del Mississippi a fare ricorso contro la sentenza, che aveva deciso per la sua morte, affermando che il procuratore del caso si era opposto alla nomina di giurati neri, per tutti i sei processi svoltisi a carico del carcerato.

La decisione della Corte, che annulla la precedente condanna, si appella a sentenze precedenti che hanno registrato un atteggiamento discriminatorio da parte del procuratore che decide le nomine dei giurati nel processo. 

Il giudizio non riguarda le prove a carico del condannato, che infatti non è stato valutato innocente, ma solamente le procedure seguite durante i processi, che non sono risultate accettabili. Il detenuto è accusato di aver ucciso 4 persone in un negozio di mobili di Winona nel 1996. 

Per quei crimini è stato giudicato 6 volte: due processi (gli unici in cui erano presenti giurati neri) si sono chiusi con un nulla di fatto, mentre altri tre, conclusisi con la condanna, erano stati annullati precedentemente dalla Corte Suprema, perché il comportamento del procuratore era risultato non appropriato. Il sesto processo, invece, era stato considerato valido, come la condanna a morte. Ma in quel caso, il procuratore si era imposto contro la nomina dei giudici di colore. Così la Corte Suprema ha ribaltato anche l'ultima sentenza rimasta valida.

Francesca Bernasconi

Guerre dimenticate - La strage silenziosa della fame in Yemen, in 3 anni morti 85 mila bimbi sotto i 5 anni

La Stampa
Quasi 85mila bambini sono morti di fame o malattia in Yemen dall’inizio del conflitto tuttora in corso nel paese arabo. 

Lo riferisce un rapporto pubblicato oggi dall’ong Save The Children, basato sui dati forniti dalle Nazioni Unite per stimare i tassi di mortalità in casi di grave malnutrizione e malattia tra i bambini al di sotto dei cinque anni di età. 

Sulla base di una «stima prudente», Save The Children denuncia la morte di 84.701 bambini per fame o malattie tra l’aprile 2015 e l’ottobre 2018. Il Fondo per l’Infanzia delle Nazioni Unite (Unicef) ha fatto sapere che dal 2015 oltre 2.400 bambini hanno perso la vita e oltre 3.600 sono rimasti feriti a causa degli scontri avvenuti in Yemen. 

La guerra ha provocato in tutto oltre 10mila vittime civili. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), a causa della guerra in corso l’80% dei minori residenti in Yemen ha bisogno di assistenza umanitaria, pari a oltre 11 milioni di bambini al di sotto dei cinque anni. 

L’Unicef sostiene che almeno 2,2 milioni di bambini soffrono di malnutrizione acuta in Yemen. Almeno 16,37 milioni di persone, su una popolazione di oltre 27 milioni, hanno bisogno di servizi sanitari di base, mentre la situazione è peggiorata dall’epidemia di colera in corso nel paese arabo, dove ogni 10 minuti muore un bambino per denutrizione.

domenica 23 giugno 2019

Libia. Medici Senza Frontiere: catastrofe sanitaria nei centri di Zintan e Gharyan. In 9 mesi 22 morti per malattie

La Repubblica
Il report di Medici Senza Frontiere. Altro che "Paese sicuro". Persone detenute e malate, colpevoli di essere migranti, abbandonate a se stesse, senza nessuna assistenza

Negli ultimi 9 mesi, almeno 22 persone sono morte per malattie, probabilmente tubercolosi, nei centri di detenzione di Zintan e Gharyan, che si trovano nel Gebel Nefusa, una regione montagnosa a sud di Tripoli.

La situazione sanitaria catastrofica, riscontrata dalle équipe mediche di Medici Senza Frontiere (MSF) in questi due centri, conferma questo bilancio allarmante. Per mesi, in alcuni casi addirittura per anni, centinaia di persone, bisognose di protezione internazionale e registrate come rifugiati o richiedenti asilo dall’UNHCR, sono state abbandonate in questi centri, praticamente senza assistenza. Dal settembre 2018 a oggi sono morte in media da due a tre persone ogni mese.

Centinaia di persone in capannoni sovraffollati. Quando MSF si è recata sul posto per la prima volta lo scorso maggio, circa 900 persone erano detenute a Zintan, di cui 700 in un capannone sovraffollato, con a malapena quattro servizi igienici funzionanti, accesso irregolare ad acqua non potabile e nessuna doccia. "È stata una catastrofe sanitaria” dichiara Julien Raickman, capomissione di MSF in Libia. 

Probabilmente da mesi era in corso un’epidemia di tubercolosi. La situazione era così critica che durante le nostre prime visite abbiamo dovuto provvedere a diversi trasferimenti di emergenza verso alcuni ospedali".

Carceri: tre morti in due giorni. Motivi di salute a Poggioreale, suicidi a Rosarno Bologna

L'Espresso
Tre morti in due giorni nelle carceri italiane. "Italian first". Sì, i tre morti erano tutti detenuti italiani. Uno di loro pare sia morto per motivi di salute nel carcere napoletano di Poggioreale. Gli altri due si sarebbero suicidati, rispettivamente, nelle prigioni di Rossano e Bologna. 

Notizie di proteste collettive, talvolta troppo enfaticamente definite rivolte, si sono susseguite nelle ultime settimane: da Napoli a Campobasso, da Spoleto a Rieti, da Viterbo ad Agrigento.

Che sta succedendo, dunque, nelle carceri italiane? Non si può certo individuare un'unica causa o un filo rosso che possano spiegare integralmente quanto sta avvenendo. Le spiegazioni non sono mai semplici o univoche. Il carcere è un luogo di sofferenza. Molto è determinato da quei dettagli di vita quotidiana che, sia nelle persone libere che in quelle recluse, rendono le persone più o meno sane e serene. La recente decisione di procedere allo spegnimento obbligatorio delle televisioni a mezzanotte per il riposo notturno o la, seppur, involontaria mancanza di acqua in alcune carceri nel pieno della calura estiva, hanno ingenerato conflitti.

La qualità della vita in prigione è altresì messa a rischio dalla riduzione dei tempi e degli spazi di socialità, prodotti da un ritorno a un'idea di carcerazione pre-moderna secondo la quale la chiusura in carcere coincide con la chiusura in cella per oltre venti ore. 

Se a ciò aggiungiamo una minore propensione dei giudici di sorveglianza a concedere misure alternative alla detenzione e, di conseguenza, un sovraffollamento crescente che ci riporta vicini a quei numeri assoluti che produssero la sentenza di condanna per trattamenti inumani e degradanti della Corte europea nel 2013, allora si comprende come gli istituti penitenziari rischino un drammatico ritorno a un passato fatto di chiusura, violenza, tensioni. Non ce ne è proprio bisogno.

Per evitare tutto questo ci vuole una nuova grande e coraggiosa stagione di innovazione nelle carceri, questa volta partendo dai modelli organizzativi e dal personale. È scontato dirlo, ma se non avremo un personale sia di Polizia che civile gratificato, sereno, motivato non sarà facile perseguire obiettivi di normalità penitenziaria. È necessario immettere energie nuove nel sistema penitenziario, ossia giovani e qualificati direttori, giovani e qualificati operatori sociali, giovani e qualificati poliziotti.

Ci vuole una rivoluzione antropocentrica che non può che partire da chi ha il dovere della custodia di esseri umani. È necessario trattare al meglio chi lavora nelle carceri nel solco della legalità penitenziaria e prospettare avanzamenti di carriera sulla base del loro attivarsi per il rispetto dell'articolo 27 della Costituzione (il quale affida agli operatori una missione chiara, ossia la gestione di una pena umana e tendente alla risocializzazione). È anche importante favorire processi di mobilità volontaria presso altre amministrazioni pubbliche per quegli operatori che hanno per molto tempo lavorato in carcere. In galera la vita è usurante per tutti.

Infine è necessario avere un'attenzione alla cultura del linguaggio che è anche cultura del rispetto. In alcuni siti penitenziari il detenuto è, in modo offensivo e volgare, definito "camoscio". Questo non è gergo, non è slang, questa è sotto-cultura che va repressa dalle istituzioni penitenziarie.

Patrizio Gonnella

sabato 22 giugno 2019

Svizzera - La terribile testimonianza di una coppia della Costa d'Avorio con la loro bambina, espulsa in Italia, picchiati, in manette e incappucciati

TGCom24
La terribile storia di una coppia della Costa dʼAvorio, rispedita in malo modo in Italia in quanto primo Paese soccorritore. "Volevano anche toglierci la bimba".
In manette, in catene, incappucciati.

Foto - La Repubblica
E' l'incubo vissuto da Joelson e Tatiana, due migranti espulsi dalla Svizzera e malamente rispediti in Italia. "Volevano anche toglierci la bambina", denunciano i due, originari della Costa d'Avorio e partiti dalla Libia nel giugno 2017, a Repubblica. Salvati da una nave umanitaria, approdati a Salerno e poi a Torino, hanno attraversato il confine in direzione Svizzera, prima di esserne allontanati.

Joelson e Tatiana, insieme alla loro bimba, sono "vittime" del regolamento del Trattato di Dublino, che impone ai migranti di tornare nel Paese che per primo li ha ospitati. Sempre a Repubblica, la coppia racconta della violenza con la quale le autorità svizzere li ha scacciati dal villaggio montano di Albinen.

"Avevamo già fatto le carte per il trasferimento ma non è servito a nulla - ricordano i due -. Ci hanno trattato come bestie, umiliati e picchiati". "Addirittura gli agenti di polizia svizzeri mi hanno messo le manette e perquisita corporalmente", racconta Tatiana, che inutilmente chiedeva di poter tenere con sé la bambina che aveva fame e piangeva. 

"Hanno detto: c'è un aereo pronto per voi e quindi ci hanno picchiato e incappucciato", afferma Joelson.
I due in aeroporto hanno subito anche il ricatto di non poter tenere con loro la bambina, tenuta in braccio da una poliziotta fino a un attimo prima della partenza.

Ora la famiglia è a Napoli, ospite di un centro di accoglienza, ma difficilmente dimenticheranno l'incubo della condizione di "dublinanti" e del terribile trattamento riservato loro dalla polizia elvetica.

Ebola: dal Congo all’Uganda, il virus torna a far paura all’Africa

Osservatorio Diritti
Il virus Ebola torna a terrorizzare la regione dei Grandi Laghi, in Africa. E a 5 anni dalla peggior crisi di sempre si torna a combattere contro la sua trasmissione in Repubblica democratica del Congo e Uganda. Esiste un vaccino, ma di difficile utilizzazione in quelle zone.
Il virus Ebola un incubo che ritorna e sta colpendo con violenza il continente africano. Proprio com’era accaduto nel 2014, quando l’epidemia aveva afflitto l’Africa occidentale provocando la morte di oltre 11 mila persone, ora la malattia sta dilagando nella regione dei Grandi Laghi. 

E dopo essersi propagata e diffusa nel Nord Kivu e nell’Ituri, le regioni settentrionali della Repubblica democratica del Congo, adesso si sono registrati i primi contagi anche nel confinante Uganda.

Lunedì 11 giugno è arrivata la notizia da Kampala che un bambino di 5 anni, proveniente dal Congo e arrivato in Uganda insieme alla nonna e al fratello più piccolo, è risultato essere positivo ai test sull’Ebola. Poche ore dopo, le autorità ugandesi hanno informato che oltre a lui anche i parenti vicini sono stati ricoverati e messi in isolamento nella struttura sanitaria di Bwera perché ammalati. Giovedì poi la tragica notizia della morte del bambino, alla quale sono seguiti immediati comunicati da parte dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms).

L’Oms ha fatto sapere che ha inviato una squadra a Kasese, città dove si trovavano i tre cittadini congolesi, per monitorare e vaccinare le persone che sono state in contatto con loro. E sempre in un comunicato diffuso dal portavoce dell’Oms, Tarik Jašarević, è stato reso noto che 500 vaccini sono stati trasportati via terra dalla Repubblica democratica del Congo e altri 3.000 sarebbero già stati inviati da Ginevra.

Il governo ugandese ha inoltre chiesto la sospensione dei giorni di mercato e ha confidato che da otto mesi si sta preparando a un possibile focolaio nel territorio nazionale.

Oggi il timore è che a causa dei maggiori controlli sanitari alla frontiera congolese, la popolazione, per evitare lungaggini e controlli, incominci a fruire dei passaggi clandestinidisseminati nella porosa frontiera che mette in comunicazione i due stati dell’Africa equatoriale. 

Il governo di Kampala si dichiara pronto a fronteggiare dei nuovi casi e per l’Uganda si tratterebbe della sesta epidemia di Ebola dal momento che se ne registrano altre cinque e la più brutale fu quella che nel 2000, nella città di Gulu, uccise oltre 200 persone.

venerdì 21 giugno 2019

Nicaragua. Nelle carceri ancora 89 detenuti politici.

agensir.it
Mons. Mata (Estelí), "si intensificano persecuzioni contro chiese e fedeli". In Nicaragua il cartello delle opposizioni Alianza Cívica ha chiesto la liberazione di 89 detenuti politici che sono ancora agli arresti. 


Si tratta di persone comprese nella lista della Croce Rossa internazionale, ma che non sono riconosciuti come tali dal Governo., che ha invece liberato nei giorni scorsi oltre un centinaio di detenuti. Ma non è questo l'unico segnale che la repressione è ancora in atto nel Paese centroamericano.

"Negli ultimi giorni il Governo, attraverso la Polizia e altri gruppi affini, ha intensificato la persecuzione verso i nostri fedeli, filmandoli, fotografandoli, intimorendoli con aggressioni verbali e fisiche e con l'assedio alle chiese durante le celebrazioni liturgiche. Per questo denunciamo gravi violazioni alla libertà di culto, garantita dall'articolo 29 della Costituzione". 

Queste le parole del segretario generale della Conferenza episcopale nicaraguense, mons. Abelardo Mata Guevara, vescovo di Estelí, al termine dell'incontro dei vescovi che si è svolto lunedì scorso, dopo che nel weekend di erano registrati attacchi alle cattedrali di León e di Managua. Mons. Mata ha spiegato di parlare a titolo personale, poiché i vescovi non sono riusciti, per il poco tempo a disposizione e perché c'erano altri temi all'ordine del giorno, a elaborare un documento comune sulla situazione.

Il vescovo ha proseguito dicendo che la Chiesa "avrà sempre le porte aperte per tutti coloro che si sentano perseguitati ed esclusi", spiegando che è "proprio di ciascun uomo e donna che si sentano deboli e impotenti di fronte alle armi e al potere dei sistemi ingiusti cercare rifugio in luoghi di pace e tranquillità, nei luoghi dove abita Dio". Mons. Mata ha detto che i vescovi si sono impegnati a discutere più a fondo della situazione del Paese e della libertà religiosa nel loro prossimo incontro.

Venezuela - Unhcr: record di richiedenti asilo. Nel 2018 sono stati quasi 350mila. Più che siriani e afgani.

La Repubblica
"È il maggior esodo della storia recente in America Latina e una delle maggiori smobilitazioni del pianeta". Sono i dannati della Terra. Gli ultimi ma i più numerosi. Nel 2018 hanno battuto il record: spiccano in vetta alla classifica dei rifugiati nel mondo. 

Parliamo dei venezuelani che in base a Tendenze globali, ultimo rapporto che oggi pubblica Unhcr, l'agenzia dell'Onu per i rifugiati, hanno superato come numero la somma di quelli siriani e afgani. L'anno scorso 341.800 hanno chiesto asilo in diversi paesi del mondo, dando vita a quello che viene definito "il maggior esodo della storia recente in America Latina e una delle maggiori smobilitazioni del pianeta".

Il dossier offre una dettagliata panoramica su questo enorme popolo costretto alla fuga, a spogliarsi di ogni piccolo e grande avere, a sradicarsi dal suo paese e a vagare all'estero per tentare di ricostruirsi una vita. Nel 2018 sono state 70,8 milioni le persone che hanno dovuto abbandonare le proprie terre. È la cifra più alta registrata dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Ci sono 25,9 milioni di rifugiati, 3,5 richiedenti asilo e 41,3 milioni di sfollati all'interno del loro paese.

In America Latina sono i venezuelani quelli più colpiti dalla diaspora. Ogni giorno, secondo gli estensori del rapporto Ancur, fuggono in 5 mila. Se la tendenza non cambierà si stima che saranno 5 milioni quelli andati all'estero entro la fine di quest'anno. "Non esiste al mondo un gruppo tanto grande di persone che sia stato costretto a lascare il proprio paese senza la presenza di una guerra o di una catastrofe", commenta con il Pais William Spindler, portavoce di Ancur per l'America Latina.

La maggioranza si è trasferita in Colombia (1,1 milioni) e in Perù (428.200), senza considerare gli irregolari che restano dei fantasmi. La Colombia confina con il Venezuela e questo dimostra che la maggioranza dei rifugiati spera di tornare presto a casa, anche se le scelte dipendono spesso da fattori economici: molti non hanno nemmeno i soldi per pagarsi il biglietto di un bus e proseguire il viaggio.

I paesi ospitanti hanno sopportato il peso più forte di questo esodo. L'anno scorso hanno concesso oltre un milione di permessi di residenza o di permanenza legale, documenti che consentono ai rifugiati e migranti di accedere ai servizi di base, sanitari, scolastici e di assistenza. Il Perù ha tuttavia deciso di stringere le maglie dell'accoglienza: per entrare adesso occorrono un visto e un passaporto.

Una condizione quasi impossibile peri venezuelani. Il regime di Maduro non rilascia facilmente passaporti. Cerca di frenare la diaspora. Per non parlare delle ambasciate, travolte dalle richieste. "L'America Latina non era pronta a questo esodo massiccio", osserva Spindler. "Solo 21 mila venezuelani hanno ottenuto lo status di rifugiato nella regione e sui tre milioni che stavano all'estero nel 2018 solo in 460 mila hanno chiesto asilo". Per affrontare questa emergenza l'agenzia Onu può contare sul 28 per cento dei fondi necessari. Il resto è affidato a ong e volontari.
Daniele Mastrogiacomo

Georgia - Pena di morte - Messo a morte Marion Wilson Jr., è la vittima n°1.500 dal 1976, anno della reintroduzione della pena capitale negli USA

Blog Diritti Umani - Human Rights
Marion Wilson Jr., detenuto in Georgia è la millecinquecentesima persona messa a morte negli Stati Uniti dal 1976 anno della reintroduzione della pena di morte, come emerge dai dati del "Death Penalty Information Center".

Marion Wilson Jr.
La sua esecuzione è avvenuta il 20 giugno 9:52 pm in Georgia dopo che la Corte Suprema degli Stati Uniti ha negato la sospensione dell'esecuzione.

Wilson è stato condannato a morte per un omicidio commesso nel 1997.

Il Consiglio di Stato di Pardons e Paroles si è riunito per prendere in considerazione la clemenza per Wilson mercoledì, ma alla fine ha negato la sua richiesta.

Prima della sua esecuzione, Wilson ha richiesto una pizza media e sottile e carne con salsa piccante, torta di mele e succo d'uva.

Ci sono 48 detenuti nel braccio della morte della Georgia.


ES

Fonte: CNN

giovedì 20 giugno 2019

Parroco Lampedusa: "Dormiremo sul sagrato finché migranti non scenderanno da Sea Watch e invita a replicare l'iniziativa.

Adnkronos
"La notte è passata e siamo all’ottavo giorno di stallo: la Sea Watch 3 è ancora bloccata in acque internazionali, con a bordo salvati e salvatori. Continueremo a dormire sul sagrato della Chiesa finché non sarà consentito loro di scendere a terra in un porto sicuro". 


E' l'annuncio del parroco di Lampedusa don Carmelo La Magra che la notte scorsa ha dormito, con un gruppo di attivisti di Forum Solidale Lampedusa e alcuni turisti, sul sagrato della chiesa San Gerlando. 

"Il nostro è un semplice gesto di solidarietà nei confronti di persone che stanno soffrendo inutilmente - dice il parroco - Mettiamo simbolicamente in gioco i nostri corpi nel tentativo di dare visibilità e voce agli ultimi della terra, nostri fratelli e sorelle, nostri simili".
"Chiediamo a quanti condividono il nostro messaggio di organizzare iniziative analoghe - dice don La Magra-Rivolgiamo ai passeggeri e all’equipaggio della Sea Watch un abbraccio e un messaggio: siamo con voi!". E annuncia: "A Lampedusa ci ritroviamo questa sera a partire dalle 22 e speriamo di vedervi numerosi anche in altri luoghi".

20 Giugno - Giornata Mondiale del Rifugiato - UNHCR: Il numero di persone in fuga nel mondo supera i 70 milioni: l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati chiede maggiore solidarietà

UNHCR
Nel 2018, Il numero di persone in fuga da guerre, persecuzioni e conflitti ha superato i 70 milioni. Si tratta del livello più alto registrato dall’UNHCR, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, in quasi 70 anni di attività.


GLOBAL TRENDS 2018 – 8 FATTI SUI RIFUGIATI CHE E’ NECESSARIO CONOSCERE
MINORI. Nel 2018, un rifugiato su due era minore, molti (111.000) soli e senza famiglia.
PRIMA INFANZIA. L’Uganda ha registrato 2.800 bambini rifugiati di età pari o inferiore a cinque anni, soli o separati dalla propria famiglia.
FENOMENO URBANO. È più probabile che un rifugiato viva in paese o in città (61%) che in aree rurali o in un campo rifugiati.
RICCHI E POVERI. I Paesi ad alto reddito accolgono mediamente 2,7 rifugiati ogni 1.000 abitanti; i Paesi a reddito medio e medio-basso ne accolgono in media 5,8; i Paesi più poveri accolgono un terzo di tutti i rifugiati su scala mondiale.
DOVE SI TROVANO. Circa l’80% dei rifugiati vive in Paesi confinanti con i Paesi di origine.
DURATA. Quasi 4 rifugiati su 5 hanno vissuto da rifugiati almeno per cinque anni. Un rifugiato su 5 è rimasto in tale condizione per almeno 20 anni.
NUOVI RICHIEDENTI ASILO. Nel 2018 il numero più elevato di nuove domande d’asilo è stato presentato da venezuelani (341.800).
PROBABILITÀ. Nel 2018, 1 persona ogni 108 era rifugiata, richiedente asilo o sfollata. 10 anni prima la proporzione era di 1 su 160.
I dati raccolti nel rapporto annuale dell’UNHCR Global Trends, pubblicato oggi, mostrano come attualmente siano quasi 70,8 milioni le persone in fuga. Per coglierne la portata, tale cifra corrisponde al doppio di quella di 20 anni fa, con 2,3 milioni di persone in più rispetto a un anno fa, e a una popolazione di dimensione compresa fra quelle di Thailandia e Turchia.

La cifra di 70,8 milioni è stimata per difetto, considerato che la crisi in Venezuela in particolare è attualmente riflessa da questo dato solo parzialmente. In tutto, circa 4 milioni di venezuelani, secondo i dati dei paesi che li hanno accolti, hanno lasciato il Paese, rendendo la crisi in atto uno degli esodi forzati recenti di più vasta portata a livello mondiale. Sebbene la maggior parte delle persone in fuga necessiti di protezione internazionale, ad oggi solo circa mezzo milione di queste ha presentato formalmente domanda di asilo.

“Quanto osserviamo in questi dati costituisce l’ulteriore conferma di come vi sia una tendenza nel lungo periodo all’aumento del numero di persone che fuggono in cerca di sicurezza da guerre, conflitti e persecuzioni. Se da un lato il linguaggio utilizzato per parlare di rifugiati e migranti tende spesso a dividere, dall’altro, allo stesso tempo, stiamo assistendo a manifestazioni di generosità e solidarietà, specialmente da parte di quelle stesse comunità che accolgono un numero elevato di rifugiati. Stiamo inoltre assistendo a un coinvolgimento senza precedenti di nuovi attori, fra cui quelli impegnati per lo sviluppo, le aziende private e i singoli individui, che non soltanto riflette ma mette anche in pratica lo spirito del Global Compact sui Rifugiati”, ha dichiarato Filippo Grandi, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati. “Dobbiamo ripartire da questi esempi positivi ed esprimere solidarietà ancora maggiore nei confronti delle diverse migliaia di persone innocenti costrette ogni giorno ad abbandonare le proprie case”.

La cifra di 70,8 milioni registrata dal rapporto Global Trends è composta da tre gruppi principali. Il primo è quello dei rifugiati, ovvero persone costrette a fuggire dal proprio Paese a causa di conflitti, guerre o persecuzioni. Nel 2018 il numero di rifugiati ha raggiunto 25,9 milioni su scala mondiale, 500.000 in più del 2017. Inclusi in tale dato sono i 5,5 milioni di rifugiati palestinesi che ricadono sotto il mandato dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente (United Nations Relief and Works Agency/UNRWA).

Il secondo gruppo è composto dai richiedenti asilo, persone che si trovano al di fuori del proprio Paese di origine e che ricevono protezione internazionale, in attesa dell’esito della domanda di asilo. Alla fine del 2018 il numero di richiedenti asilo nel mondo era di 3,5 milioni.

Infine, il gruppo più numeroso, con 41,3 milioni di persone, è quello che include gli sfollati in aree interne al proprio Paese di origine, una categoria alla quale normalmente si fa riferimento con la dicitura sfollati interni (Internally Displaced People/IDP).

La crescita complessiva del numero di persone costrette alla fuga è continuata a una rapidità maggiore di quella con cui si trovano soluzioni in loro favore. La soluzione migliore per qualunque rifugiato è rappresentata dalla possibilità di fare ritorno nel proprio Paese volontariamente, in condizioni sicure e dignitose. Altre soluzioni prevedono l’integrazione nella comunità di accoglienza o il reinsediamento in un Paese terzo. Tuttavia, nel 2018 solo 92.400 rifugiati sono stati reinsediati, meno del 7 per cento di quanti sono in attesa. Circa 593.800 rifugiati hanno potuto fare ritorno nel proprio Paese, mentre 62.600 hanno acquisito una nuova cittadinanza per naturalizzazione.

“Ad ogni crisi di rifugiati, ovunque essa si manifesti e indipendentemente da quanto tempo si stia protraendo, si deve accompagnare la necessità permanente di trovare soluzioni e di rimuovere gli ostacoli che impediscono alle persone di fare ritorno a casa”, ha dichiarato l’Alto Commissario Filippo Grandi. “Si tratta di un lavoro complesso che vede l’impegno costante dell’UNHCR, ma che richiede che anche tutti i Paesi collaborino per un obiettivo comune. Rappresenta una delle grandi sfide dei nostri tempi”.