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martedì 2 dicembre 2014

Salute in carcere: le emergenze sono epatite B e C e disturbi psichiatrici

La Stampa
Allarme dagli specialisti di malattie infettive del Policlicnico Tor Vergata di Roma: “Ammalarsi in quei luoghi è più facile che altrove”
«L’emergenza sanitaria nelle carceri è rappresentata dalle epatiti B e C», suona l’allarme Massimo Andreoni, direttore dell’unità operativa di malattie infettive al Policlicnico Tor Vergata di Roma. «Due decessi su cinque in carcere avvengono per suicidio», segnala Emilio Sacchetti, ordinario di psichiatria all’Università di Brescia e presidente della Società Italiana di Psichiatria. Al netto dei numeri, le dichiarazioni fotografano la situazione sanitaria nelle carceri italiane. Ammalarsi, in questi luoghi, è più facile che all’esterno. Quasi un paradosso, se si pensa che nel corso della detenzione si potrebbero intercettare le malattie e curarle, impedendone la diffusione. Ma evidentemente ciò non accade. Così, una volta che il detenuto abbandona le strutture, il rischio che le patologie infettive si propaghino all’esterno è concreto. 

Se il problema del sovraffollamento è comunque meno conclamato rispetto a sei mesi fa (54252 sono oggi i detenuti in Italia) e il numero dei posti letto nelle carceri (49400) è in aumento, l’emergenza è tutt’altro che conclusa. Al primo posto, tra i disturbi più diffusi, ci sono quelli psichiatrici. «Molti li hanno già prima di finire in cella, dove non vengono curati - afferma Claudio Mencacci, direttore del dipartimento di salute mentale dell’ospedale Fatebenefratelli di Milano -. L’assistenza è scarsa e manca uno screening che valuti chi rischia di suicidarsi. Nelle carceri i detenuti trovano tutto ciò che serve per togliersi la vita o anche solo per provarci. Capita infatti che alcuni siano i cosiddetti “suicidi per sbaglio”: si compiono dei gesti per attirare l’attenzione e si finisce per perdere la vita». Disturbi dell’umore, di personalità e stati d’ansia sono le patologie più ricorrenti tra i detenuti. A oggi l’assistenza è garantita da alcuni psichiatri dei distretti di salute mentale che svolgono parte delle proprie ore di lavoro nelle strutture detentive. Nulla che basti, però, a favorire un percorso di inserimento nei servizi specializzati una volta terminato il periodo di pena.

Per questo l’idea di creare un osservatorio sulla salute nelle strutture penitenziarie mette d’accordo gli psichiatri - ancora in attesa di capire cosa accadrà a partire dall’1 aprile, quando saranno chiusi gli Opg - e gli infettivologi, alle prese con problemi di ben altra natura: come la diffusione dei virus dell’epatite B e C e dell’Hiv. 

I dati sono preoccupanti. Oltre la metà delle persone detenute risulta venuta a contatto con il virus dell’epatite B, anche se coloro che risultano portatori attivi di malattia si attestano intorno al 5-6% dei presenti. I test di screening cutanei sulla tubercolosi, che non rilevano la malattia attiva ma permettono d’identificare i portatori dell’infezione che, notoriamente, la manifestano quando si abbassano le difese immunitarie, risultano 15-20 volte superiori alla popolazione generale e, tra i detenuti stranieri, oltre la metà risultano positivi. Ciò si verifica anche in ragione di alcuni discutibili divieti posti dall’Italia: in primis quelli contro l’ingresso nelle carceri di preservativi e siringhe monouso, da utilizzare per i tatuaggi. Non sono da trascurare nemmeno i numeri relativi ad alcune malattie croniche, come ipertensione e diabete, conseguenza di stili di vita sedentari e di diete poco salutari.
FABIO DI TODARO

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