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lunedì 26 maggio 2014

Sudan, minacce all'avvocato di Meriam che sta per partorire in catene

HuffingtonPost 
Meriam Yahia Ibrahim Ishag è in catene. Il tempo della gravidanza è quasi al termine, le caviglie sono gonfie, le gambe pesanti. Difficilmente riesce ad alzarsi dalla branda dove insieme a Martin, il figlio di 22 mesi in prigione con lei a Khartoum dal 17 febbraio, passa gran parte delle sue giornate.
Eppure sulla vicenda di questa 27enne cristiana sta calando un pericoloso silenzio.

Il suo avvocato, Mohamed Abudlnabi, sfidando le minacce ricevute da chi voleva impedirglielo, ha presentato l'appello contro la condanna a morte per apostasia e a 100 frustate per adulterio emessa nei confronti della donna.

Meriam, pur essendo regolarmente sposata, è considerata un'adultera in quanto il matrimonio con Daniel Wani, sud sudanese cristiano con cittadinanza americana, non è riconosciuto dalle leggi islamiche.

La sentenza era attesa nonostante i numerosi appelli di diplomatici al governo sudanese affinché garantisse il rispetto della libertà di religione.

Il giudice che l'ha emessa, Abbas Mohammed Al-Khalifa, leggendo il dispositivo a fine dibattimento ha affermato che erano stati concessi tre giorni all'imputata per abiurare, ma avendo deciso di non riconvertirsi all'islam meritava l'impiccagione.

La giovane, nata da padre mussulmano, è stata però cresciuta nella fede cristiano-ortodossa dalla madre etiope dopo l'abbandono del genitore. Ms per la Sharia anche la religione viene tramandata, di diritto, dalla linea paterna.

La condanna non è definitiva: Meriam avrà un nuovo processo, sarà la Corte suprema del Sudan ad affrontare il suo caso. Lo ha confermato anche l'ambasciatrice in Italia, Amira Daoud Gornass, la cui posizione può essere considerata rilevante essendo anche moglie del ministro degli Esteri sudanese.

Intanto Meriam sta male. E anche il bambino è sofferente. Ha avuto febbre per giorni.
Il rischio che sorga qualche complicazione è sempre più alto. Non ha dubbi al riguardo il fratello del marito, Gabriel Wani, che ha raccontato di come la cognata abbia avuto un travaglio difficile per il primo figlio. Le condizioni in cui versa in carcere fanno temere per la sua sopravvivenza.


Dal primo giugno ogni giorno potrebbe essere utile per il parto. I suoi legali e il marito hanno chiesto che venga trasferita, sotto sorveglianza, in un ospedale o in una clinica privata. Una sorta di 'arresti domiciliari'. Ma sembra che non ci siano molte speranze che la richiesta sia accolta. A meno che non sia necessario un cesareo. La situazione è drammatica.

E' per questo che alcune organizzazioni per i diritti umani hanno ritenuto opportuno scrivere al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

La lettera, promossa da Italians for Darfur e sottoscritta anche dai missionari salesiani di El Obeid, dall'ex inviato Onu in Sudan, Mukesh Kapila, dall'associazione Articolo 21 e dai rifugiati sudanesi in Italia, è diretta a riportare alta l'attenzione sulla vicenda che ha suscitato grande indignazione in tutto il mondo che si è subito mobilitato.

In prima fila il nostro Paese, con l'appello che ha raccolto finora 25mila firme che vanno ad integrare le 600 mila richieste di libertà per Meriam già arrivate a Khartoum da ogni latitudine del pianeta.
Anche se il giudizio finale spetterà a un organo politico più che giuridico islamico, che dovrebbe pertanto escludere la pena di morte, abbassare la guardia ora sarebbe un errore.

Per questo è fondamentale continuare a fare pressioni sulle autorità del Sudan, magari con un intervento diretto del presidente Napolitano: la richiesta al suo omologo sudanese, Omar Hassan al-Bashir, di compiere un atto di clemenza in favore di una donna, una moglie, una madre che ha la sola 'colpa' di essere cristiana.

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