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sabato 31 maggio 2014

Sudan - Meriam: rinviata di due anni l'esecuzione della condanna a morte per apostasia

Blasting News
Meriam partorisce in carcere la sua bimba: il tribunale rinvia di due anni l'esecuzione della condanna a morte.
Apostasia: un termine altisonante che deriva dalle parole greche "apo"(lontano) e "stasis" (restare) e indica l'abbandono volontario, il ripudio della propria religione, del proprio credo. Un termine che, a primo impatto, richiama alla mente altri tempi, altri luoghi, altre società e che contrasta con i moderni ideali di pluralismo culturale, di libertà religiosa, di diritti umani.

L'apostasia è, invece, ancora oggi, considerata dalla legge islamica tradizionale come un reato, punibile con la pena di morte. Per la Sharia, infatti, un non musulmano è libero di accettare o meno l'Islam e le sue leggi, ma un musulmano non può abbandonare la sua religione: il rifiuto del modello di vita islamico, dopo averlo accettato, è considerato un vero e proprio crimine, una rivolta che comporta una propaganda negativa nei confronti della religione islamica e una minaccia per l'ordine sociale e morale.

Meriam Yahia Ibrahim Ishag, ragazza sudanese di 27 anni, è stata arrestata nel mese di febbraio e condannata a morte per impiccagione qualche settimana fa: l'accusa è, appunto, quella di apostasia. Secondo il giudice che ha emesso la sentenza, la giovane, anche se regolarmente sposata con Daniel Wani, sudanese cristiano con cittadinanza americana, si sarebbe macchiata del reato contestato in quanto avrebbe rinnegato la religione del padre, musulmano. Meriam è stata condannata anche a cento frustate per adulterio: il matrimonio con un cristiano, infatti, non è ritenuto valido dalla Sharia.

Alla ragazza è stata concessa, per tre giorni, la possibilità di rientrare tra i fedeli islamici e, quindi, di evitare la pena capitale. Meriam ha rifiutato, confermando la sua posizione: "sono cristiana e mai ho commesso apostasia". In effetti, la giovane, abbandonata dal padre all'età di 6 anni, è stata cresciuta nelle fede cristiana (la madre è un'etiope ortodossa): nonostante ciò, poiché il padre è di religione musulmana, il diritto sudanese ritiene tale anche lei e considera nullo il suo matrimonio con un non musulmano.

Meriam è stata messa in carcere nonostante fosse in attesa di un bambino: in prigione con lei, già da febbraio, il piccolo Martin, figlio della coppia. Martedì 27 maggio è nata Maya: la notizia del parto è stata comunicata da Antonella Napoli, presidente di Italians for Darfur, l'ONG promotrice di un appello per la liberazione della giovane. Intanto, anche la neonata, dovrà rimanere in carcere con la mamma. Secondo le notizie pervenute, dopo aver partorito, in catene, nell'ala ospedaliera del carcere di Khartum in cui è reclusa, la donna è stata riportata nella sua cella. Daniel Wami è riuscito ad incontrare i suoi cari, ma la sua sofferenza per una situazione così tragica rimane assolutamente invariata.

Il tribunale ha preso la decisione di rinviare l'esecuzione della pena capitale per due anni, a far data dalla nascita della bimba. La vicenda della giovane ha dato luogo ad una vera e propria mobilitazione internazionale, che sui social networks ha avuto e continua ad avere una grande risonanza: si chiedono la liberazione di Meriam, il rispetto dei diritti umani e la garanzia della libertà di religione, sanciti dal Diritto Internazionale e dalla stessa Costituzione Sudanese. Gli avvocati di Meriam hanno presentato ricorso alla Corte d'Appello: se tale ricorso dovesse essere infruttuoso, si sta già pensando di portare il caso davanti alla Corte Suprema del Sudan. Intanto, sempre dal Sudan, arriva la notizia di un'altra donna in prigione da aprile per aver dichiarato di essere cristiana.

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