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venerdì 23 dicembre 2016

Filippine - Carceri affollate di tossicodipendenti che fuggono dagli squadroni della morte di Duterte

Corriere della Sera
Per evitare le esecuzioni sommarie nelle strade scatenate dal presidente Duterte (seimila vittime da maggio), molti tossicodipendenti si consegnano alla polizia: si sentono più al sicuro in cella o nei centri di disintossicazione. 

Carcere di Pisay City - 900 detenuti in un carcere che ne può accogliere 100.
Tutti tossicodipendenti in fuga dagli squadroni della morte

«Ridatemi la pena di morte e organizzerò esecuzioni ogni giorno, cinque o sei. Così vincerò la guerra contro il crimine». Questa sulla quota giornaliera di sentenze capitali è l’ultima esternazione di Rodrigo Duterte, presidente delle Filippine, avvocato, ex sindaco pistolero di Davao. A maggio ha vinto le elezioni giurando di ripulire le strade del Paese e di estirpare il traffico di droga, schiacciando spacciatori e tossicodipendenti. Sta mantenendo la parola con feroce determinazione. Da quando è entrato in carica, il 30 giugno, sono stati contati seimila morti: duemila abbattuti dalla polizia, quattromila eliminati da vigilantes e mercenari organizzati per accelerare il «lavoro sporco».

Il ritorno del patibolo: «5-6 al giorno»
La pena capitale a Manila fu abolita nel 1987, venne reintrodotta nel 1993 e di nuovo abolita nel 2006. Duterte, noto come «il castigatore», si è impegnato nel riproporla come arma totale della sua campagna di purificazione nazionale, per reati che vanno dall’omicidio allo stupro, dal possesso di droga al furto d’auto. La legge è già alla Camera e avanza nonostante le critiche della Chiesa cattolica, che nelle Filippine ha un vasto seguito. Il presidente sostiene che il capestro non abbia funzionato come deterrente in passato perché «pochi detenuti venivano giustiziati». Ecco spiegata la trovata della quota «cinque o sei davanti al boia ogni giorno».

«Niente plotone d’esecuzione: costa troppo»
Duterte ha anche detto di volere l’impiccagione come sistema. «Il capestro è come spegnere la luce, togli la spina e finisce tutto. Il plotone d’esecuzione è più costoso, perché si usano pallottole ed è più crudele e anche la sedia elettrica fa spendere soldi in energia. Qui si tratta di uccidere i cattivi e non è il caso di spendere troppi soldi».

Uccisioni extragiudiziarie e celle piene
In attesa del boia di Stato, il piano antidroga di Duterte si avvale di uccisioni extragiudiziarie e le carceri filippine si sono riempite — come testimoniano le immagini che vi proponiamo in questa pagina, frutto del lavoro sul campo del fotoreporter Alberto Maretti, specializzato in reportage (pubblicati anche dal network Al Jazeera) su questioni sociali e umanitarie —. Nelle celle i detenuti per reati di droga dormono ammucchiati in spazi che contengono il doppio, il triplo della popolazione carceraria per la quale erano stati concepiti. Sono piene anche le piccole celle di sicurezza annesse alle stazioni di polizia, dove alcuni arrestati aspettano per mesi di comparire davanti a un giudice. E non ci sono più posti nei centri di disintossicazione. Decine di migliaia di tossicodipendenti, terrorizzati dalle squadre della morte scatenate da Duterte, si sono consegnati alle autorità per farsi curare e il risultato è che i circa 40 centri di riabilitazione del Paese sono stati presi d’assalto: solo nel Bicutan di Manila arrivano fino a 30 pazienti al giorno, il doppio della sua capacità di accoglienza.

Soldi dal governo ai centri di disintossicazione
Qualche giorno fa il presidente ha annunciato un «regalo» ai ricoverati: un finanziamento straordinario ai centri di disintossicazione. «Spero che un miliardo di pesos (20 milioni di euro circa, ndr) farà grandi cose per il vostro trattamento a Natale», ha detto Duterte. Ma subito il giustiziere ha aggiunto: «Però, se siete impazziti per la droga e non c’è più possibilità di recuperarvi, vi manderò una bella corda così vi potrete impiccare con le vostre mani».

Brutalità e liste nere: si spara a vista
L’operazione antidroga è condotta con brutalità, ogni notte si contano una dozzina di uccisioni: la polizia batte le zone frequentate da spacciatori e tossicodipendenti con elenchi forniti da informatori, bussa alle porte dei sospetti con l’ordine ufficiale di convincerli ad arrendersi. Poi si verifica «un incidente», gli agenti sparano e il pusher o il cliente restano sul terreno. In realtà spesso non c’è stato nessun incidente, nessun tentativo di fuga o di resistenza da parte dei ricercati: semplicemente gli agenti o i mercenari erano venuti per uccidere.

Francis, 6 anni, ucciso insieme al padre
Questo è il racconto fatto alla Cnn da Elizabeth Navarro, che ha visto il marito e il figlio di sei anni morire sotto i suoi occhi: «Era notte, abbiamo sentito bussare alla porta, mio marito ha chiesto “Chi è?”, poi ci sono stati due colpi di pistola. Quando ho acceso la luce mio marito Domingo e mio figlio Francis erano per terra, pieni di sangue». Il piccolo Francis aveva l’argento vivo addosso, era il primo a svegliarsi al mattino e per questo la mamma lo faceva dormire accanto alla porta dell’unica stanza che era la casa dei Navarro, così poteva uscire in strada a giocare al mattino lasciando i genitori in pace, a smaltire gli effetti della dose di droga. Quella notte Francis si è trovato sulla linea di fuoco dei due colpi diretti al padre. Chi ha ucciso Domingo e Francis? Agenti di polizia o vigilantes? O mercenari? Ci sono testimonianze sull’impiego di killer da parte delle forze dell’ordine, che non hanno tempo per saldare i conti con tutti i ricercati.

Anche donne negli squadroni della morte
Negli squadroni della morte ci sono anche donne. Come Maria (niente cognome) che ha raccontato alla Bbc di essere stata arruolata in un gruppo di fuoco addetto all’eliminazione degli spacciatori: per una donna è più facile avvicinarsi a un ricercato senza destare sospetti. Maria riceve 20 mila pesos a contratto, 430 euro per una vita da terminare con un colpo alla testa. Maria sostiene di aver ucciso cinque volte.

Le mani sporche di sangue del presidente
Ha ucciso anche Duterte, quando era sindaco della città di Davao. Lo ha rivendicato con orgoglio lui stesso qualche giorno fa. «Ho ammazzato tre ricercati... non so quanti dei colpi che ho sparato siano finiti nei loro corpi, ma li ho fatti fuori. È successo perché volevo mostrare ai ragazzi di pattuglia come si fa e che se lo facevo io lo potevano fare anche loro».

La 44 Magnum dell’ispettore Callaghan
Questi sistemi hanno conquistato al presidente filippino il soprannome di «Duterte Dirty», che ricorda l’Ispettore Callaghan dei film interpretati da Clint Eastwood, sempre pronto a tirar fuori la sua 44 Magnum. E ancora oggi, dopo seimila morti nelle strade, il suo gradimento tra la popolazione è altissimo, come se fosse un divo del cinema: 89 per cento secondo l’ultimo sondaggio. Le uccisioni, le carceri strapiene, però hanno suscitato critiche e minacce di inchieste sui diritti umani violati da parte delle Nazioni Unite. E quando anche gli Stati Uniti hanno espresso qualche critica, è calato il gelo diplomatico con le Filippine. Duterte ha insultato Barack Obama, ha giurato di cancellare l’alleanza con gli americani ed è volato a Pechino tra le braccia del collega Xi Jinping. La strategia spregiudicata ha fruttato al giustiziere di Manila un posto tra i personaggi più potenti del mondo: Forbes lo ha inserito al 70° posto nella sua classifica.
Lo straordinario reportage del fotografo italiano Alberto Maretti

di Guido Santevecchi, corrispondente da Pechino

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