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lunedì 19 giugno 2017

Medio Oriente. La schiavitù invisibile delle migranti. Abusi, tratta e passaporti confiscati

Il Manifesto
Fuori dall'ombra. 64 ore settimanali è in media l’orario delle lavoratrici domestiche nel Golfo e nel Levante. Le migranti guadagnano tra il 20-30% in meno del salario minimo locale

Il dato potrebbe stupire: il Medio Oriente è la regione al mondo con la più alta percentuale di lavoratrici domestiche. Quasi tutte migranti. Tra Golfo e Levante l’Organizzazione Mondiale del Lavoro ne conta 1,6 milioni, quasi il doppio (2,5 milioni) secondo l’International Trade Union Confederation.

NUMERI ELEVATISSIMI, contestualizzati dal sito di monitoraggio Migrant Rights: il 90% dei cittadini del Kuwait ha alle proprie dipendenze una lavoratrice domestica straniera; il 36,6% della forza lavoro femminile in Bahrain è impiegata in case private; il 99,6% degli immigrati economici in Arabia Saudita è un lavoratore domestico. L’altro lato della medaglia è l’assenza totale di diritti: lavorano in media 64 ore a settimana e guadagnano tra il 20% e il 30% in meno del salario minimo nazionale (147 dollari al mese in Kuwait, 100 in Arabia Saudita).
E sono vittime di una forma di schiavitù moderna, invisibile. A monte sta il sistema della kafala, o dello sponsor: l’ingresso di lavoratori stranieri nei paesi del Golfo e in Libano, la residenza e la successiva uscita sono permessi sulla base della sponsorizzazione da parte di un cittadino o di un’impresa privata. Che nella pratica diventano «proprietari» di un essere umano.

PASSAPORTI CONFISCATI, impossibilità di cercarsi un lavoro più dignitoso o meglio remunerato, condizioni di lavoro disumane, violenze fisiche e verbali, suicidi sono le dirette conseguenze per buona parte delle lavoratrici domestiche straniere, tutte provenienti da Sud est asiatico e Africa sub-sahariana.
Un quadro reso peggiore dalla mancanza di una regolamentazione statale del lavoro domestico, escluso dalle leggi sul lavoro apparentemente per non violare privacy e «sacralità» della casa privata.

Le lavoratrici domestiche finiscono così in un limbo di invisibilità, divise tra loro e incapaci di accedere ai propri consolati, costrette alla schiavitù pena l’arresto e l’espulsione. Dietro, un vero e proprio traffico di esseri umani, con agenzie specializzate che traggono profitto dalla «vendita» di donne migranti entrate illegalmente.

Le prime forme di organizzazione sindacale iniziano però ad emergere: se nelle petromonarchie del Golfo sindacati e scioperi sono fuorilegge, in Libano sono radicati. Nel 2015 è così nato il primo sindacato di lavoratori domestici, sotto l’ombrello della più ampia Federazione delle unioni dei lavoratori. Da allora ha firmato accordi con i sindacati nei paesi di origine e lanciato campagne per vedersi riconosciuto come soggetto legittimo da Beirut, sostenuto da cento ong locali.

LE DIFFICOLTÀ non mancano, figlie della scarsa capacità di raggiungere la singola lavoratrice, per ragioni di lingua, isolamento, bassi stipendi che limitano il movimento, timore della deportazione e ora una nuova guerra tra poveri, scatenata dall’arrivo di centinaia di migliaia di rifugiati siriani disposti a lavorare per salari ancora più infimi. Ad organizzarsi, però, è anche la stessa società civile libanese e i movimenti anti-razzisti che hanno fatto delle condizioni delle lavoratrici domestiche (250mila stimate nel Paese dei Cedri) una bandiera.

Se già dal 2011 è stato aperto nella capitale il Migrants Community Center, il primo maggio 2017 le strade di Beirut sono state attraversate dalla parata dei lavoratori migranti, sotto lo slogan «La kafala uccide». Solo pochi mesi prima, nel novembre 2016, il Libano deportava Sujana Rana e Roja Limbu, lavoratrici domestiche leader del sindacato nato due anni fa e tuttora illegale agli occhi di Beirut.

È INVECE OBLIO TOTALE nel Golfo, dove la narrativa su cui si fondano le petromonarchie sunnite – un misto di wahhabismo, interpretazione medievale dell’Islam e soffocamento delle istanze di ogni gruppo «minoritario» inteso come minaccia alla tenuta del regime (dalle donne agli immigrati, dalla comunità sciita alle opposizioni politiche) – crea intorno alle migranti una gabbia che prima che fisica è mentale.

LO SFRUTTAMENTO delle lavoratrici tra le mura domestiche è un fenomeno radicato e diffuso, affatto trattato dai media e marginalizzato dalle autorità che non puniscono mai i responsabili di reati nei rarissimi casi denunciati dalle vittime.

Così si spiegano le drammatiche statistiche dell’intelligence libanese riportate dall’agenzia dell’Onu Irin: in Libano ogni settimana due lavoratrici domestiche muoiono per cause non naturali. Per i pestaggi, per suicidio o per essersi lanciate dal balcone nel tentativo di fuggire.


di Chiara Cruciati

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