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mercoledì 22 novembre 2017

Viaggio tra i profughi Rohingya, fuggiti dal Myanmar. Intervista ad Alberto Quattrucci della Comunità di Sant'Egidio

Radio Vaticana
A Cox’s Bazar, la cittadina del Bangladesh al confine con il Myanmar che ospita i più grandi campi profughi improvvisati dei Rohingya, sta arrivando l’inverno. E i 500mila di Kutupalong, l’insediamento che si è riempito dopo l’esodo iniziato dal 26 agosto, cominciano a tremare di freddo. Ecco la testimonianza di Alberto Quattrucci della Comunità di Sant’Egidio, che all’inizio del mese ha visitato i campi per portare medicinali, macchinari sanitari e alimenti di prima necessità.

R. - “La situazione è di gente cui ancora manca cibo, mancano in questo momento anche i vestiti, perché comincia con le piogge a diventare tutto fango, la notte la temperatura si abbassa, mancano medicinali, ci sono infezioni, perché non c’è acqua. 250 mila, forse 300 mila bambini, sono famiglie numerosissime, molto piccoli, totalmente nudi, che muoiono perché bevono l’acqua del mare. Quindi è una situazione veramente drammatica dove molte Ong hanno cominciato a lavorare, ma manca assolutamente un coordinamento e c’è un grande bisogno ovviamente immediato e poi con un grande punto interrogativo sul futuro di questo popolo dei Rohingya di oltre un milione ormai di persone, considerando i primi arrivi, quelli del 1982, quando il Myanmar gli tolse la cittadinanza. Sono da allora apolidi, il più grande numero di apolidi nel mondo oggi, più di un milione di persone, tra quelli arrivati nell’’82, nel 1991 e gli oltre 600mila arrivati dal 25 agosto a oggi. E non è finita questa emorragia, perché ancora 250mila, forse 300mila sono nel Rakhine, la zona al confine, e probabilmente staranno arrivando”.

D. - Ma per il futuro quale può essere la soluzione per questa popolazione? Cercare di integrarsi in Bangladesh, oppure rientrare in Myanmar?

R. - “Quello che loro chiedono è avere la cittadinanza di nuovo, per poter tornare nel Rakhine, tornare nelle loro case e quindi tornare indietro, ma questo è molto improbabile, da quello che si vede e si sente, perché pare che quella zona in Myanmar sia in qualche modo già data ad altre destinazioni, dal punto di vista economico. La mia impressione , da questo primo viaggio, è che loro possono integrarsi molto bene in Bangladesh, non solo per un fatto di lingua, e anche per un fatto di fede e religione islamica, ma anche perché effettivamente è gente che lavora molto… si entra in questi campi e non si vede uno fermo, si costruiscono col bambù, con le plastiche che trovano continuamente ripari, cercano l’acqua anche se non c’è, dove la trovano, è una popolazione molto attiva, e tra l’altro in una situazione del Bangladesh, che è così povero, potrebbero costituire in qualche modo, grazie ai tanti aiuti internazionali, attirati dai riflettori oggi puntati sui Rohingya, che in realtà puntano anche sul Bangladesh, una possibilità di futuro comune. Io parlavo con il direttore sanitario del piccolo ospedale di Cox’s bazar, la cittadina intorno alla quale si sono creati questi campi profughi: è un ospedale che cade a pezzi, che necessita di tanti aiuti, di macchinari, di letti. Quell’ospedale potrebbe essere ricostruito, con gli aiuti internazionali, i costi non sono altri. E quindi potrebbe esserci sviluppo per il paese e insieme vita e futuro per i Rohingya. Questa è secondo me è una formula molto importante. Certo si tratta di una volontà politica, di una saggezza che in questo momento sarebbe estremamente necessaria”.

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